Edizione: 2011 Pagine: 242, con ill. Collana: Storia e Società ISBN carta: 9788842097686 ISBN digitale: 9788858113790 Argomenti: Storia della Chiesa, Storia moderna
Nell'inverno del 1564 alcuni congiurati tentarono di assassinare papa Pio IV: fallirono, furono processati, torturati e infine condannati a una morte atroce. Questa è la storia di quegli uomini, passati attraverso le tumultuose trasformazioni della crisi politico-religiosa cinquecentesca italiana, che infine si incontrarono a Roma: delle relazioni che vi allacciarono, dei luoghi che frequentarono, dell'immagine che sulla base di queste esperienze si formarono del 'sovrano pontefice', sino al punto di convincersi che Pio IV non era il 'vero papa'.
La loro può apparire un'impresa sgangherata, nulla più che il progetto di un gruppo di folli esaltati: anche le versioni ufficiali divulgate allora dalla corte romana accreditarono tale interpretazione. In realtà, la loro storia permette di illuminare scenari più ampi e inquietanti, e di collocare la congiura sullo sfondo che le è proprio: l'aspro conflitto che contrapponeva allora Pio IV al re di Spagna e all'Inquisizione romana, sia l'uno che l'altra determinati a fermare quel papa che con la sua politica conciliatrice verso gli eretici rischiava di provocare la rovina della Chiesa.
Edizione: 2011 Pagine: 242 Collana: Storia e Società ISBN: 9788842097686
L'autore
Elena Bonora
Elena Bonorainsegna Storia moderna all’Università di Parma. Ha studiato nelle università di Venezia e Torino e si occupa di storia politico-religiosa nella prima età moderna. Ha pubblicato, tra l’altro, Ricerche su Francesco Sansovino imprenditore librario e letterato (Venezia 1994), I conflitti della Controriforma. Santità e obbedienza nell’esperienza religiosa dei primi barnabiti (Firenze 1998) e Aspettando l'imperatore. Principi italiani tra il papa e Carlo V(Einaudi 2014). Per Laterza è autrice di Giudicare i vescovi. La definizione dei poteri nella Chiesa postridentina (2007) eRoma 1564. La congiura contro il papa (2011).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
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Questo libro nasce dall’esigenza di raccontare una storia, la storia di un gruppo
di uomini che alla fine del 1564 tentarono di assassinare il papa prima di essere
arrestati e sottoposti a processo. Il mio intento era quello di dare loro carne e
ossa, rendendone meno astratte le fisionomie: non solo le loro, ma anche quella della
città fisica – la Roma di metà Cinquecento – sullo sfondo della quale si muovevano
come attori, proferivano discorsi, si arrabattavano per vivere. Una storia di individui,
di luoghi e di cose, insomma, attraverso la quale volevo capire cosa significasse,
per questi uomini del Cinquecento, uccidere il papa.
Lungo questo percorso che si snoda tra diverse città italiane ma che ha il suo centro
a Roma, il microepisodio costituito dalla fallita congiura ha rivelato dietro di sé
elementi contestuali di grande rilievo riguardanti il pontificato di Pio IV. Concluso
nel 1563 il concilio di Trento, il papa milanese intendeva concedere la comunione
con il calice ai laici e il matrimonio dei preti. Nonostante la storiografia successiva
abbia prevalentemente voluto ignorare il fatto1, Pio IV perseguì con determinazione questa politica di moderazione allo scopo di
esaudire le richieste dell’imperatore e di andare incontro alle esigenze dei fedeli
nei territori dell’Impero. Questa posizione fu allora duramente contrastata dall’Inquisizione
romana e dal re di Spagna Filippo II, il quale aveva ogni interesse a impedire il
consolidarsi di un’intesa tra imperatore e papato che avrebbe sfidato la sua supremazia
in Italia.
La piccola storia della congiura contro Pio IV è dunque diventata il mezzo per illuminare
gli scenari più vasti che accompagnarono questo pontificato durato cinque anni, dal
1560 al 1565. Un pontificato senz’altro definibile come una parentesi entro il più
ampio processo nel corso del quale sulla penisola italiana si impose, oltre all’egemonia
politica spagnola, anche quell’ideologia intransigente sul piano religioso concordemente
propugnata – sia pure per motivi differenti – da Filippo II e dalla congregazione
cardinalizia del Sant’Ufficio.
La congiura contro Pio IV fu sventata il 13 dicembre 1564. Il manoscritto del processo
per lesa maestà apertosi all’indomani dell’arresto dei congiurati è custodito presso
l’Archivio di Stato di Roma2. I due grandi storici del papato Leopold von Ranke e Ludwig von Pastor hanno formulato
in passato due interpretazioni opposte dell’evento. Pastor indicò in modo perentorio
sia il carattere visionario e profetico del progetto, sia le sue matrici ereticali,
pubblicando alcuni passi del processo estrapolati tra quelli più idonei a suffragare
la propria tesi3. Così facendo, lo storico cattolico si raccordava a una linea interpretativa già
adottata dalla corte papale al tempo di questi fatti che si era prolungata sin dentro
al XVIII secolo con gli Annali d’Italia del Muratori. Una linea sostanzialmente volta a relegare la congiura contro il pontefice
nei territori remoti, seppure intimamente intrecciati tra loro, dell’eresia e della
follia4.
Entro questa prospettiva, la pagina di Pastor si coloriva di aspri toni critici contro
l’interpretazione avanzata qualche decennio prima da Ranke5. Basandosi principalmente su documenti diplomatici, lo storico protestante aveva
infatti ascritto il disegno di assassinare il papa elaborato dal piccolo gruppo di
congiurati a orientamenti rigidi e a fanatismi maturati non già sotto l’influenza
delle dottrine d’oltralpe, bensì entro il mondo cattolico; a «spiriti [che] si agitavano
nella vita movimentata del tempo», sintomo e riflesso dell’esistenza di conflitti
tra contrastanti tendenze interne alla Chiesa di Roma6.
Solo nell’ultima parte di questo libro trovano formulazione le risposte che è storicamente
possibile fornire alle cruciali domande: «A chi spettava la responsabilità finale
dell’attentato contro il papa? Chi ne erano i mandanti?». Anche al lettore non specialista,
assuefatto ai tanti enigmi insoluti della recente storia politica italiana, apparirà
chiaro quanto sia arduo il reperimento di verità che possano soddisfare pienamente
domande di questo genere. Spero che il carattere ipotetico e condizionato delle risposte
formulate non lo deluda, e che nel corso della lettura ad attrarlo sarà, oltre alla
prospettiva di sciogliere tali interrogativi, anche il dipanarsi di un percorso critico
basato sulle fonti alla ricerca di qualche verità.
Vorrei qui concludere con qualche osservazione di natura metodologica. La congiura
contro Pio IV può apparirci poco seria per la sua povertà di mezzi e per la sua preparazione
sgangherata. E tuttavia, molti anni fa un grande storico, a proposito di un’iniziativa
analoga progettata nel 1546 da un aristocratico lucchese, metteva in guardia dal liquidare
come astratte le congiure cinquecentesche valutandole anacronisticamente sulla base
di criteri applicabili solo alle esperienze «del secondo Settecento e dell’età della
Restaurazione [...], costruite con un senso organizzativo spesso minuzioso e capillare»7.
La congiura contro Pio IV può essere considerata come il tentativo velleitario di
un gruppo di folli esaltati: così la interpretarono, pur da punti di vista opposti,
Pastor e Ranke. In questa direzione ci orientano le versioni fornite inizialmente
dagli stessi imputati, interessati a rivestire di una patina mistica il loro piano
allo scopo di ottenere la clemenza dei giudici e di proteggere eventuali complici.
Verso un’interpretazione tutta spirituale del loro disegno spingono anche le versioni
ufficiali che, come si è detto, furono allora fornite dalla curia e da Pio IV in persona.
Ma gli studi su complotti e congiure in antico regime hanno messo in luce come sia
nell’interesse del potere minacciato mettere sotto silenzio i tentativi eversivi di
cui è stato vittima, per non mostrare la propria debolezza8. E ciò vale tanto più se questo potere è quello di un sovrano elettivo come il papa,
un potere fragile e di breve durata (la vita di quel papa), che deve fare i conti
– all’interno e all’esterno della Chiesa – con poteri dotati di ben altre continuità.
Ringraziamenti
Vorrei ringraziare anzitutto il personale delle biblioteche e degli archivi nei quali
ho lavorato, in particolare Michele Di Sivo dell’Archivio di Stato di Roma e Blanca
Tena Arregui dell’Archivo General de Simancas. Molti sono gli amici e colleghi cui
sono debitrice per le loro segnalazioni, i loro suggerimenti e per la generosità con
cui hanno messo a mia disposizione materiale in loro possesso o i loro scritti inediti:
vorrei qui ricordare Javier Añíbarro, Stefano Dall’Aglio, Marina D’Amelia, Irene Fosi,
Miguel Gotor, Vincenzo Lavenia, Adelisa Malena, Antonio Menniti Ippolito, Ottavia
Niccoli, Alessandro Pastore, Chiara Quaranta, Alain Tallon, Maria Antonietta Visceglia.
Questo libro deve moltissimo alla lettura critica e alle osservazioni di Antonella
Barzazi, Massimo Firpo e Gigliola Fragnito, ai quali va la mia più profonda riconoscenza,
anche perché il dialogo e la discussione con loro costituisce per me uno dei momenti
più belli e importanti di questo mestiere.
Le ricerche che stanno alla base del volume sono state effettuate grazie ai finanziamenti
del Miur nell’ambito di un programma di ricerca d’interesse nazionale coordinato da
Gigliola Fragnito. Ho avuto la possibilità di presentare e discutere alcuni dei temi
qui affrontati nel corso di seminari organizzati al Centro Roland Mousnier-Université
de Paris IV-Sorbonne; all’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento di Firenze,
e in occasione delle giornate di studio del progetto di ricerca Hétérodoxies croisées et controverses doctrinales entre France et Italie, XVIe-XVIIe
siècles cui partecipano l’École française de Rome, l’Université de Paris IV-Sorbonne e l’Università
degli Studi di Parma, coordinato da Jean-François Chauvard, Alain Tallon e Gigliola
Fragnito. Vorrei infine esprimere la mia gratitudine alla Bogliasco Foundation per
avermi dato la possibilità di scrivere una parte di questo volume durante un soggiorno
al Liguria Study Center for the Arts and Humanities di Bogliasco.
Ambito di Tiziano, Ritratto di Pio IV, Cantalupo in Sabina (Rieti), Collezione Camuccini.
Capitolo primo
Prospero Pittori era di Reggio Emilia ma da tre anni abitava a Roma in casa del conte
Taddeo Manfredi, a spese di quest’ultimo. Entrambi erano giovani, e a tutti e due
piaceva giocare al pallone. Quella sera del 6 novembre 1564, un lunedì, Manfredi si
accomiata dalla moglie nel palazzo vicino a piazza Colonna e insieme a Prospero si
avvia verso una costruzione di Borgo dove li aspettano alcuni amici. Lungo il percorso
dal centro di Roma al Vaticano, Prospero e un garzone del conte portano sulle spalle
alcuni fagotti contenenti indumenti eleganti1.
Contemporaneamente, da un’altra parte della città, anche Giovanni da Norcia si incammina
verso Borgo. Il Norcino è un tipo sveglio, rosso di capelli2; da un mese lavora come un mulo al servizio del conte Manfredi con il quale si è
messo in società per scavare tesori, un’attività che all’epoca impegna mezza Roma
mescolando proprietari di immobili, collezionisti, antiquari, artisti, insieme con
gente del popolo, calcarari, avventurieri, ciascuno alla ricerca di qualcosa sotto
la superficie della città: marmi per fare la calce, antiche statue, rovine di edifici,
tesori ammassati dagli imperatori affidati alla custodia di spiriti maligni. In Campo
de’ Fiori, Giovanni ha comprato un’anatra da un compaesano: l’ha cotta, e ora, con
l’anatra arrostita, si dirige anche lui di là del Tevere.
Non sappiamo quanto freddo facesse quella sera a Roma: le fonti non lo specificano,
quindi non ne parliamo, perché questo non è un romanzo. Nella notte, il Norcino percorre
il dedalo di vicoli e stradine che innervano l’area maggiormente popolata della città,
quella dove sorgono le piazze e i mercati più importanti come piazza Navona e Campo
de’ Fiori. Supera i Banchi, zona di passaggio dei pellegrini, di solito affollata
da cambiavalute, notai e scrivani, ma a quell’ora tarda ormai deserta. Oltrepassa
il Tevere percorrendo il ponte Sant’Angelo, l’unico praticabile a monte di ponte Sisto
per chi transitasse dal centro dopo che, sette anni prima, il fiume in piena si era
portato via il ponte di Santa Maria. Giunto sull’altra riva, segue la cinta muraria
del Castello rasentando il torrione di Antonio da Sangallo, svolta a sinistra, percorre
la stradina sinuosa che costeggia le mura e varca la porta di accesso in Borgo. Finalmente
all’interno delle mura fortificate della città del papa, il giovane si dirige in Borgo
Vecchio, dove entra nel cortile di un palazzo bugnato in cattive condizioni adiacente
alla chiesetta di S. Lorenzo in piscibus, proprio di fronte alla ripida scalinata di S. Michele, una delle cosiddette «scale
sante» di Roma, che i pellegrini percorrevano ginocchioni per devozione. Se avesse
potuto allungare lo sguardo poco più in là, in direzione del punto sull’orizzonte
in cui ore prima era tramontato il sole, il Norcino avrebbe scorto le impalcature
della basilica di S. Pietro, ancora senza cupola, ma con il nuovo tamburo di Michelangelo.
L’artista fiorentino era scomparso a Roma da qualche mese all’età di ottantanove anni
negli stessi giorni in cui a Pisa nasceva Galileo Galilei. La morte gli aveva risparmiato
di dover assistere all’aggiunta, sui corpi torti e nudi del Giudizio Universale, dei «braghettoni» che l’affezionato amico Daniele da Volterra andava ora eseguendo
sull’affresco per ordine del papa.
Se avesse abbassato lo sguardo sulla piazza, Giovanni da Norcia non avrebbe scorto
il colonnato del Bernini, costruito solo un secolo più tardi, ma una spianata senza
forma definita, ancora priva al centro del colossale obelisco di granito rosso proveniente
dal circo di Caligola e Nerone. Ruotando su se stesso verso sud, avrebbe intravisto
qualche scorcio dell’imponente complesso dell’ospedale di Santo Spirito in Sassia,
il più grande ricovero della cristianità, una città nella città con i suoi mille malati,
i putti senza famiglia, le fanciulle «pericolanti», cui si aggiungevano le squadre
di medici, chirurghi, speziali, nutrici, frati e sacerdoti dediti alla cura dei corpi
e delle anime. Continuando a girare di 180 gradi rispetto al punto iniziale, il giovane
avrebbe avuto di fronte, senza poterla davvero vedere a causa delle fitte costruzioni
di Borgo, la mole solenne e minacciosa di Castel Sant’Angelo, la fortezza del papa.
Pare che quella sera, oltre all’anatra, il Norcino sia stato mandato a comprare anche
delle candele e un’insalatina, ma questo solo più tardi. Al momento, scansati i mucchi
di terra nel cortile del palazzo affacciato su Borgo Vecchio di proprietà del cardinale
Cesi, superate le arcate e le logge semidistrutte dai lanzi durante il sacco del 1527,
Giovanni da Norcia entra in una stanza illuminata e vi trova il fuoco già acceso.
Mezz’ora dopo arrivano il conte Taddeo, il suo servitore e Prospero: quest’ultimo
non fa attenzione se la cena è apparecchiata; nota invece – forse proprio perché non
sa scrivere – che, chino sulla tavola, il conte Antonio Canossa è intento a redigere
certi foglietti o «polizze», mentre il cavaliere Gian Giacomo Pelliccione si piega
su di lui per vedere quello che scrive3.
Quella notte, dormirono tutti lì, nella casa di Borgo: i due giovani conti e Prospero
in un letto; il cavalier Pelliccione con Benedetto Accolti e suo nipote Pietro in
un altro; Giovanni da Norcia e il garzone del Manfredi su un pagliericcio al piano
di sopra. Nessuno mangiò l’anatra sino alla mattina seguente, quando fecero colazione
tutti insieme, dopo la messa mattutina a S. Pietro. Di questo, il Norcino è assolutamente
certo.
Esiste un’altra versione di quanto avvenne quella notte, leggermente differente. Il
conte Canossa ricorda il fuoco acceso e la tavola pronta per la cena. Quando il Norcino
entra nella stanza, né lui né il Pelliccione stanno scrivendo alcunché. Piuttosto,
in attesa dell’anatra, il conte aveva pensato al vino: due fiaschi aveva riempito,
mentre il cavaliere gli faceva lume.
Alcune settimane dopo, il 20 dicembre 1564, nel carcere di Tor di Nona, un uomo –
un ecclesiastico – ascolta attentamente questi racconti. Non è un funzionario qualsiasi,
ma un giudice temuto in tutta Roma. Alessandro Pallantieri è il governatore della
città, l’autorità suprema per i crimini compiuti nello Stato del papa, il capo del
tribunale che si occupa dei delitti di lesa maestà4. Perché a uno come il Pallantieri interessa tanto sapere come aveva passato la serata
quel gruppo di amici? Il fatto è che, la mattina seguente, gli uomini che avevano
dormito nella casa di Borgo Vecchio si recarono all’udienza papale in Segnatura per
assassinare Pio IV ed eventualmente il cardinal nepote Carlo Borromeo. Ma ciò non
spiega ancora come mai il Pallantieri fosse così curioso di sapere esattamente quando
era stata mangiata l’anatra del Norcino.
La mattina del 7 novembre 1564 si recano in sei all’udienza. Pare sia il conte Antonio
Canossa a guidarli; lo seguono Benedetto Accolti, il cavalier Pelliccione, il conte
Taddeo Manfredi, Pietro Accolti e Prospero Pittori. Sono ben vestiti e tutti armati
di spade, due di loro anche di pugnali. Benedetto tiene al petto uno stiletto affilatissimo
privo della fodera e avvolto in un panno di velluto nero; il cavaliere ha nascosto
il suo coltello nella gaglioffa delle calze. Salgono al secondo piano del palazzo
pontificio, nelle stanze di Raffaello gremite di cortigiani e di supplicanti in attesa
del papa. A fianco di Benedetto, nella sala di Costantino, il conte Canossa e il cavaliere
Pelliccione sono pronti a intervenire con le spade quando l’Accolti si avvicinerà
al pontefice, gli darà uno spintone e gli caccerà il pugnale nel fianco. Il conte
Manfredi è sulla porta, Prospero e Pietro sono rimasti di retroguardia nella sala
delle udienze: non possono vedere quello che succede nell’altra stanza, ma attendono
di sguainare le spade quando sentiranno i compagni gridare5.
In attesa del pontefice, il conte Canossa si avvicina al fuoco e, al di sopra delle
teste dei presenti, nella stanza stipata, contempla gli affreschi di Giulio Romano.
Tra questi spicca la Battaglia di ponte Milvio raffigurante lo scontro tra gli eserciti di Costantino e di Massenzio, una scena
affollata di figure contorte, di corpi di guerrieri caduti e di cavalli imbizzarriti.
Probabilmente lo colpisce la similarità delle due situazioni: sulla parete, la mischia
dei soldati; intorno a lui, il parapiglia dei curiali. Forse il conte Antonio, che
conosce il latino ed è uomo di discrete letture, ha modo di riflettere sull’analogia
tra l’evento rappresentato da Giulio Romano e l’altro evento storico, quello che è
in procinto di svolgersi in quella stanza. Prima della battaglia, l’imperatore Costantino
aveva ricevuto il segno che gli aveva confermato la giustezza della sua impresa, quel
segno divino che solo poteva legittimare guerre, ribellioni e omicidi. Anche loro,
i congiurati, attendono un segno: vogliono essere sicuri che a reggere il pugnale
di Benedetto sarà il braccio dell’Onnipotente. Che mettendo le mani nel sangue di
Pio IV compiranno la volontà di Cristo. Vogliono essere certi che quello non è il
vero papa. Fortunatamente per Pio IV, come riferì poi il Canossa ai giudici, quella
mattina non videro altro che pitture, e non arrivò nessun segno6.
Il 7 novembre 1564, un martedì di Segnatura, l’ignaro Pio IV era dunque stato a un
soffio dalla morte. Ma la cosa non finì lì e, nelle settimane successive, i congiurati
cercarono di procurarsi una seconda udienza con il pontefice. Uomini come il conte
Antonio Canossa e Benedetto Accolti non mancavano né di conoscenze né di plausibili
pretesti per poterlo fare. La loro posizione sociale e la dimestichezza con la corte
romana, dove entrambi erano persone note, rendevano fattibile il progetto di essere
ricevuti dal papa. Il Canossa, neppure trentenne, apparteneva a un’antichissima famiglia
dell’Italia centrale e vantava origini da quella Matilde che, cinque secoli prima,
aveva governato su mezza penisola trattando da suoi pari pontefici e imperatori. Benedetto,
che aveva superato la quarantina7, era figlio illegittimo del cardinale Pietro Accolti – elevato alla porpora sotto
Giulio II ed esponente di un’illustre e nobile casata originaria di Arezzo –, nonché
cugino del cardinale di Ravenna Benedetto Accolti, suo omonimo, scomparso da una quindicina
d’anni. Di questo cardinale, in curia, si ricordavano ancora la grande ricchezza e
gli aspri conflitti con papa Paolo III. Entrambi, il maturo Accolti e il giovane conte
Canossa, avevano in sospeso presso prelati e tribunali romani procedimenti giudiziari
riguardanti eredità, giurisdizioni, beni feudali e proventi d’appalti contesi; entrambi
erano pieni di debiti: nulla di strano che chiedessero di vedere il papa per presentargli
una supplica8.
Ma non era solo questo. A rendere accessibile ai congiurati la persona fisica del
sovrano pontefice era anche quel complesso sistema cortigiano al centro del quale
egli si trovava; un sistema che nella capitale del mondo cattolico si articolava in
una miriade di corti satelliti. Corti cardinalizie, corti di grandi aristocratici,
corti di ambasciatori delle potenze straniere; microcosmi comunicanti fra loro, articolati
gerarchicamente al proprio interno, insediati in palazzi nei quali i bargelli del
papa non potevano entrare, composti di familiari e di servitori che dai loro superiori
ricevevano favori, privilegi e denaro. Corti affollate di maestri di casa, cappellani,
stallieri, segretari, auditori, letterati, camerieri, guardarobieri, scalchi, trincianti,
scudieri, sollecitatori di cause, credenzieri, palafrenieri, spenditori, dispensieri:
tutte conoscenze utili al fine di procurarsi un buon pasto gratuito, ma, soprattutto,
uomini preziosi per far pervenire – dietro lauto compenso o promessa di futuri favori
– suppliche e richieste al cospetto dei potenti, su su sino alle orecchie del papa9.
E così, dopo il fallito tentativo in Segnatura, Benedetto e il conte Canossa cercano
di procurarsi un’udienza con il pontefice attraverso il milanese Giulio Cattaneo,
cameriere segreto e scalco del pontefice. Il giorno dell’appuntamento, armati di coltello
e spada, arrivano al palazzo apostolico decisi a colpire Pio IV nelle sue stanze private;
gli altri congiurati li aspettano dabbasso, sotto il portico. Il papa però ha deciso
all’ultimo momento di recarsi a Castel Sant’Angelo, e vani sono i loro tentativi di
essere ricevuti dopo pranzo10.
Qualche giorno più tardi, Giovanni da Norcia si offre di ottenere per Benedetto un’udienza
privata con il pontefice per mezzo del maestro di casa di Marcantonio Colonna, monsignor
Pietro Paolo Angelini di Cantalupo. Questi s’incontra con Benedetto e il Norcino,
e garantisce loro di occuparsi della cosa: giusto l’indomani deve recarsi anche lui
al palazzo apostolico per presentare una supplica al cardinal Borromeo. Nel corso
del processo, l’Angelini affermerà di ricordare Benedetto: un uomo piccolo «con certi
occhi grossi», che aveva urgenza di parlare con Pio IV a proposito di una cosa importante11. Ma il giorno successivo, quando l’Accolti e il Norcino tornano a palazzo Colonna,
ai Santissimi Apostoli, vengono informati che il maestro di casa è già uscito a cavallo,
incaricato di una commissione per il suo padrone. Si abboccano allora con un certo
Francesco cavallerizzo, che risiede anche lui in casa Colonna. Benedetto – che di
suo non ha neppure una lira – promette a Francesco addirittura un cavallo, se il gran
negozio che ha da fare con il pontefice andrà in porto, e questi presenta loro il
coppiere del papa, il mantovano Giulio Giannotti. La sera di mercoledì 13 dicembre,
a oltre un mese di distanza dal primo tentativo di assassinare il pontefice, l’Accolti
redige una supplica e la consegna sigillata al coppiere, il quale gli assicura che
lo introdurrà al cospetto di Sua Santità la mattina successiva.
Dopo una giornata di spostamenti e di incontri tra Roma e il Vaticano, Benedetto rientra
nel palazzo del conte Manfredi in rione Colonna solo a notte fatta, ma ancora in tempo
per cenare con gli altri. Decidono, la mattina successiva, di mangiare tutti lì prima
di recarsi dal papa, perché – come osserva uno di loro – al palazzo apostolico sono
abituati a svegliarsi tardi. Per la colazione dell’indomani, Prospero promette di
procurare un fiasco di vino buono. Quella notte dormono tutti nel palazzo del conte
Taddeo, tutti tranne uno12.
Non sappiamo esattamente quando né in che modo quella sera il cavalier Pelliccione
si sia allontanato dai suoi amici e complici. L’udienza con il pontefice è fissata
per la mattina successiva, e occorre fare presto. Fuori fa ormai buio quando si reca
dal cardinal datario che conosce personalmente, chiedendo di parlare con urgenza al
papa. Deve riferirgli una cosa della massima importanza prima dell’alba, ne va della
vita di Sua Santità. Davanti a un cavaliere armato che a tarda ora bussa al palazzo
apostolico accennando ad oscure minacce contro la persona del pontefice, gli appartamenti
papali vengono messi in sicurezza e tutte le porte chiuse. Solo a notte inoltrata
il Pelliccione è introdotto nella camera del papa dove denuncia i suoi cinque compagni
a Pio IV che lo ascolta stupefatto13.
Il bargello e i suoi fanti vengono immediatamente mandati ad arrestare i congiurati.
All’arrivo degli sbirri, qualche ora prima dell’alba, Benedetto sta dormendo in camera
sua: getta il pugnale e tutte le sue carte fuori dalla finestra e, senza neppure rivestirsi,
si nasconde in un baule. Quando il bargello, accortosi degli indumenti ancora sparsi
sul letto, alza il coperchio del forziere, Benedetto, che aveva seguito i movimenti
degli uomini del papa dal buco della serratura, se ne esce con baldanza protestando
indignato e vantando conoscenze altolocate. Il pugnale, minimizzerà qualche ora dopo
davanti ai giudici ancora alla ricerca dell’arma, era solo un vecchio coltellino che
portava sempre con sé per tagliare pane, frattaglie e fegatelli. Quella notte vengono
presi in sette e portati nel carcere di Tor di Nona: i due Accolti, il conte Taddeo
Manfredi e la contessa sua moglie, il Norcino, Prospero e il garzone del Manfredi.
Manca all’appello il conte Antonio Canossa: mentre i birri del papa facevano irruzione
nel palazzo, era riuscito a fuggire sul tetto in camicia, con una coperta attorno
ai fianchi. Sarà arrestato quattro giorni più tardi, nella casa di una prostituta
vicino a piazza del Popolo14.
Il processo inizia la mattina stessa, giovedì 14 dicembre 1564, davanti al Tribunale
del governatore. A condurre i primi interrogatori è il procuratore fiscale Giovambattista
Bizzoni. I giudici devono agire rapidamente. Il più autorevole tra i cospiratori –
il conte Canossa – è fuggito. Non si sa cosa si stia preparando là fuori; non si sa
quanto in alto né sin dove arrivino le maglie della congiura. Occorre proteggere Pio
IV dai pericoli esterni e da quelli interni. Da soldati e armati ma anche da coppieri,
scalchi, servitori, familiari, tutti uomini molto vicini al corpo del papa. «Sua Santità
– scrive un agente dei Farnese due giorni dopo – sta tutto sopra di sé et dubita di
ferro et di veneno»15.
Il fascicolo processuale che costituisce la fonte principale di questa storia è un
codice di 262 carte in cui il notaio del Tribunale del governatore ha verbalizzato
le deposizioni rese da imputati e testimoni durante gli interrogatori tenutisi dal
14 dicembre 1564 al 5 gennaio 1565, prima nel carcere di Tor di Nona, poi nella fortezza
papale di Castel Sant’Angelo, poi di nuovo in Tor di Nona16. Queste pagine dense intrattengono con la verità, la verità dei fatti, un rapporto
complesso. Talvolta ci dicono più di quanto avessero intenzione di registrare e conservare
i funzionari che le hanno redatte. Le sottoscrizioni, ad esempio: frasi come «Io Antonio
Canossa ho deposto como disopra» o «Io Thadeo Manfredo ut sopra», redatte con eleganti
grafie dai due conti alla fine dei loro interrogatori, rivelano la dimestichezza con
la scrittura e il buon livello culturale dei due aristocratici. Prospero, invece,
non firma la sua deposizione perché non sa scrivere. Talvolta, i caratteri tracciati
si fanno più incerti e tremanti a seguito delle torture che hanno slogato le braccia
ai prigionieri. Altre volte svelano, con le loro esagerate dimensioni, i difetti di
vista e le difficoltà di lettura dei loro estensori, come la strampalata e smisurata
grafia di don Nicola Della Guardia, un prete accusato nel corso del processo di scongiuri
al diavolo e di pratiche magiche17.
Ma soprattutto, di pagina in pagina, assistiamo alla produzione di tante verità diverse.
Versioni molteplici dei fatti fornite ai giudici dai differenti attori nel corso del
processo. Verità drammaticamente contrastanti tra loro che si scontrano platealmente
quando gli imputati vengono messi a confronto. Versioni mutevoli di quanto accaduto,
formulate in momenti distinti da ciascuno degli imputati, secondo strategie maturate
individualmente durante il rigoroso isolamento in cella. Verità prodotte durante la
tortura, quando a ogni strattone di corda la sofferenza fisica rischia di diventare
un generatore di discorsi il cui unico scopo è far cessare il dolore. Verità condizionate
dalla malafede o dalle scarse informazioni di quanti conoscevano solo in parte le
intenzioni dei congiurati. Verità collaterali, suggerite da attori minori macchiatisi
di delitti meno gravi di quello di aver congiurato contro la vita del papa, ma che
pure sono stati chiamati in causa nel corso del processo principale. Verità che si
intravedono attraverso le domande dei giudici, scenari che possiamo cogliere in controluce
dalle direzioni che prendono i loro sospetti, dal loro soffermarsi e ritornare su
certi particolari, dall’inesorabile incalzare degli interrogativi su determinate questioni.
L’anatra, ad esempio. Che quella sera – la «sera che fu cotta l’anatra»18 – fosse o meno là, arrostita e fumante, sulla tavola imbandita nella casa di Borgo
in attesa di esser mangiata, accompagnata dal vino spillato dal conte Antonio e dal
cavaliere, fa una differenza enorme. Perché se la tavola era apparecchiata, come sosteneva
il conte Canossa, allora lui e il cavaliere non avrebbero potuto scriverci sopra le
polizze, come invece ammisero gli altri imputati. Polizze che il conte Canossa teneva
nel guanto destinate, una volta assassinato il papa, alle guardie dei cavalleggeri,
degli svizzeri, degli archibugieri, nonché ai conservatori e ai caporioni della città.
Polizze che autorizzavano il popolo romano alla spoliazione e al saccheggio degli
appartamenti e delle argenterie del cardinal nepote Borromeo, del cardinale di San
Giorgio e di monsignor Gallese, gli uomini più vicini al pontefice. Polizze che dimostravano
l’esistenza di un’organizzazione razionale della congiura; la consapevolezza dei partecipanti
che, una volta colpito a morte il papa, occorreva salvarsi dalla «furia de’ lanzi»,
procurarsi la devozione degli alabardieri e degli altri corpi armati, «placare molta
gente»19.
Se, dunque, quelle polizze erano state scritte la sera prima dell’attentato, se davvero
l’anatra era stata mangiata solo il giorno dopo a colazione, allora forse i congiurati
non erano solamente dei folli che avevano aderito alle visioni e alle profezie di
quell’esaltato dell’Accolti; non solo dei pazzi che avevano confidato esclusivamente
nel braccio di Dio per portare a compimento il loro crimine. Allora, gli «aiuti» su
cui contavano potevano prendere le sembianze più terrene di uomini armati. E il segno celeste che attendevano, la forma meno eterea di un segnale. Allora, il progetto di ammazzare il papa poteva avere natura politica.
Questa l’importanza dell’anatra per i giudici. Per noi, invece, l’anatra rappresenta
l’esemplificazione di una questione più generale. Il fatto che essa fu cotta e poi
mangiata, è una delle poche certezze di questo processo (non siamo sicuri neppure
su quando fu mangiata). Si tratta evidentemente di una verità di poco rilievo, come di scarso
rilievo è che il Norcino fosse rosso di capelli. Fatti del tutto accidentali, che
non richiedono di essere spiegati né interpretati, che non servono per spiegare e
interpretare altri fatti. Se vogliamo andare al di là di essi per comprendere quello
che accadde, se vogliamo raggiungere anche la più piccola verità storica, occorre
addentrarsi nel gioco delle tante verità raccontate nel corso del processo. Delle
versioni che si intrecciano, si scontrano, si contraddicono. Lavorare sulla fonte
significa analizzarla criticamente, cominciando con il non credere a tutto quello
che dice, valutandone gli aspetti materiali e la storia che l’ha resa disponibile,
cercando conferme e prove all’interno e al di fuori di essa, incrociandola con altre
fonti e contestualizzando i fatti entro processi più vasti. Un esercizio intellettuale
simile a quello dei giudici, ma condotto secondo le regole e con il gusto di un altro
mestiere.
Capitolo secondo
Nel corso del primo interrogatorio, il 14 dicembre in Tor di Nona, il cavalier Gian
Giacomo Pelliccione, colui che aveva svelato al papa la congiura tradendo i suoi amici,
racconta quali fossero le motivazioni e gli scopi del progettato assassinio di Pio
IV. Il cavaliere è un personaggio misterioso: originario di Pavia, conosce il «figlio
bastardo del cardinale d’Ancona» – come lui stesso definisce Benedetto – ormai da
quattro anni1. Si trova a Roma da quando è stato bandito dalla Repubblica di Venezia per aver tentato
di fabbricare moneta contraffatta, un reato di lesa maestà punito duramente dai principi
dell’epoca. Naturalmente, il cavaliere era fuggito prima di essere catturato e il
bando era stato fulminato in contumacia. A Venezia aveva coniato zecchini falsi utilizzando
ducati ungheresi in combutta con alcuni «archimisti ladri»2; un’attività lucrosa, se non fosse che a un certo punto i truffatori avevano litigato
tra loro, e che il cavaliere, dopo aver scacciato i soci con la spada da casa sua,
aveva trattenuto per sé coni e matrici (ai giudici romani, peraltro, giurò sul vangelo
di san Giovanni di essersene subito disfatto gettandoli in canale). Arrestati dalla
Serenissima, gli ex soci si erano vendicati denunciandolo come loro complice alle
autorità veneziane.
A Roma, si spacciava per discendente dalla nobilissima famiglia dei Lusignano originari
dell’isola di Cipro. Nel corso del processo, il Pelliccione si rivela l’anello di
contatto con gli ambienti popolari di Trastevere, con i bottegai e gli artigiani di
ponte Sisto, con astrologi ed esorcisti dediti alle pratiche magiche. Doveva essere
un personaggio che rimaneva impresso, questo cavaliere dalla barba rossa che si aggirava
per i quartieri popolari della città armato di spada e vestito da capo a piedi di
velluto nero, che si diceva figlio del re di Cipro. Così lo ricorda, ad esempio, lo
spadaro Pietro Maroni, nella cui bottega accanto alla curia di Borgo il Pelliccione
aveva comprato il coltello con il quale Benedetto doveva colpire a morte il papa3. Il cavaliere possedeva i contatti attraverso i quali i congiurati si erano procurati
spade e pugnali; era stato lui ad arrotarli; era stato lui ad insegnare a Benedetto
come usare lo stiletto per uccidere il pontefice. Che fosse effettivamente un uomo
d’armi, lo suggeriscono anche altri elementi emersi nel corso del processo: il ricorso
alle medesime pratiche superstiziose solitamente usate dai soldati per proteggersi,
come quella di tenere addosso o nel fodero della spada un bigliettino con scritte
sopra formule magiche4, e soprattutto i suoi ragionamenti di guerra, di conquiste di stati, di reclutamento
di eserciti. Un giorno aveva vagheggiato con Taddeo Manfredi di levare milizie in
una valle romagnola – la Valle del Lamone – dove la famiglia del giovane conte poteva
fare assegnamento su uomini fedeli, dal momento che un tempo erano stati suoi sudditi,
e con questi soldati prendere il mare a Cesenatico, sbarcare a Venezia di notte, assaltare
l’arsenale e impadronirsi della piazza S. Marco. Un progetto dopo tutto non così campato
in aria, se esattamente un anno dopo la Serenissima sarà messa in subbuglio dalla
minaccia di un’impresa molto simile5.
In quel primo confronto con i giudici, il cavaliere fornisce un’interpretazione della
congiura che nella prima fase del processo sarà condivisa dai principali imputati
– Benedetto, il conte Manfredi, il conte Canossa –; un’interpretazione tutta mistica
e spirituale, secondo la quale il progetto poggiava sulle rivelazioni e le visioni
dell’Accolti. «Liberatione de Italia», «revolutione della Chiesa», deposizione o assassinio
di Pio IV «che non era il vero papa», ascesa di un «papa vero e santo», un papa «divino
e onto», erano gli obiettivi principali dei congiurati; si trattava di una «santa
cosa», una «cosa grandissima che era tanto grande che tutta Roma ne andrebbe sottosopra,
che se sentirebbe per tutta Italia e per tutto il mondo», «et sino in Constantinopoli»6. «Questo che io non chiamo trattato», lo definirà Benedetto, che preferiva piuttosto
parlare di «quella cosa solo spirituale che io facevo», di «quella cosa la quale io
tengo con l’aviso de Cristo»7.
Ancora più circostanziata rispetto a quella del cavaliere fu la prima deposizione
del conte Taddeo Manfredi, convinto da Benedetto che ci fosse un altro «papa in essere».
Ai giudici che domandavano chi fosse costui, il conte raccontò che l’Accolti l’aveva
descritto come «un vecchione con la barba grande che era de 90 anni e che [Benedetto]
credeva che venesse per mare con gente a cavallo et a piedi alle volte di Roma»8. Disse anche che già erano stati nominati gli inviati del vero papa.
Benedetto, il cavalier Pelliccione e il conte Canossa (e la cosa sarebbe stata confermata
dal Manfredi che era rimasto nel suo palazzo) raccontarono anche che, per affrontare
purificati la «santa cosa», erano andati alla chiesa di S. Onofrio per confessarsi
e per far celebrare tre messe allo Spirito Santo; si erano poi comunicati a S. Pietro
in Montorio9. Possiamo figurarci questo gruppetto eterogeneo uscire dalle mura di Borgo per la
porta di Santo Spirito, percorrere la via della Lungara, parallela al Tevere, lungo
un tratto suburbano disseminato di vigne e orti, costeggiare palazzo Salviati appena
restaurato su disegno di Nanni di Baccio Bigio, e arrampicarsi sul Gianicolo sino
al convento degli eremiti di S. Girolamo dove, trent’anni dopo, Torquato Tasso si
sarebbe ritirato per morire, in un luogo isolato da cui lo sguardo si stendeva sulla
campagna romana sino al mare. Di qui, forse addentrandosi nella cinta aureliana attraverso
la porta Settimiana, avevano poi raggiunto S. Pietro in Montorio, da cui si dominava
l’affollato quartiere di Trastevere. Chiesa e convento francescano amadeita di S.
Pietro in Montorio erano posti sotto il patronato del re di Spagna. Qui, agli inizi
del Cinquecento, mentre Bramante costruiva il suo perfetto tempietto in travertino,
marmo bianco e granito grigio, il cardinale spagnolo Bernardino de Carvajal si era
convinto di essere il «papa angelico» annunciato dalle antiche rivelazioni. Qui, come
Benedetto Accolti raccontò nel corso del processo, alcuni anni prima era stato trovato
un telo raffigurante il papa delle profezie con un mazzo di gigli rossi in mano10.
Dai primi interrogatori dei congiurati, sostanzialmente concordi nella loro versione,
appare chiaro come all’origine del loro progetto ci fosse la figura carismatica di
Benedetto Accolti, che avrebbe persuaso i suoi compagni di essere il depositario di
una rivelazione divina e lo strumento prescelto per la sua realizzazione. Allorché,
quello stesso giorno, l’Accolti comparve in Tor di Nona davanti ai giudici, questi
dovettero rendersi conto di avere davanti un personaggio molto speciale.
Quando iniziava a parlare, Benedetto era un fiume in piena difficile da arginare.
«Fu uno delli [più] belli parlatori che habbi mai sentito», dirà di lui l’estensore
di una relazione anonima, probabilmente un corrispondente del cardinal Farnese, che
lo andò a trovare in carcere poco prima dell’esecuzione della sua condanna a morte11. Un uomo tanto brutto quanto affascinante, «ingegnoso et erudito quanto si possa
dire», conoscitore del latino e del greco, imbevuto di letteratura classica ma anche
studioso delle Sacre scritture, peritissimo nella lingua toscana12. E in effetti, tutte le volte che prendeva in mano la penna, che si trattasse di
scrivere una lettera quando da studente universitario chiedeva soldi al potente cugino
cardinale; di dettare testamento o di chiedere il perdono del papa poco prima di morire
– persino negli atti notarili dove il formulario burocratico e la conformità alle
norme giuridiche avrebbero dovuto prevalere su ogni altra forma espressiva13 – Benedetto riusciva a spezzare codici, linguaggi e registri consueti, ad allargare
il discorso a orizzonti più vasti, a dare la stura a valutazioni di carattere filosofico,
morale o religioso a partire dalle quali leggere gli eventi particolari.
E così, con la medesima vertiginosa retorica, l’Accolti espone ai giudici il progetto
che aveva ispirato lui e i suoi compagni. Come avesse intenzione di convincere Pio
IV a rassegnarsi al volere di Dio e all’arrivo del vero papa, e, nel caso il pontefice
si rifiutasse, di assassinarlo. La sua certezza che intorno al papa santo si raccogliesse
la «Chiesa preservata», una Chiesa intorno a cui si radunava l’autentico popolo cattolico,
fedele all’autorità del futuro pontefice, che avrebbe bandito gli eretici e vinto
i turchi. La convinzione che il braccio di Dio avrebbe punito «tutti li avversari
della santa cattolica et apostolica Chiesa», primi tra tutti i principi tiranni. Benedetto,
in realtà, dice molto altro: parla della sua intenzione iniziale di non volere «entrare
in dispute» e «ciance» con Pio IV, ma di voler semplicemente proporre a Sua Santità
di affiancargli «tre o quattro homini dabbene» con i quali, fatti i debiti digiuni,
devozioni, e cerimonie, attendere un segno di Dio. Se questo non fosse arrivato, Benedetto
avrebbe chiesto al pontefice di rivolgersi direttamente all’Onnipotente «con il consiglio
de homini dotti» per avere un segno o un miracolo in Roma; anzi, lui stesso si sarebbe
offerto, al fine di dimostrare la verità di quanto sosteneva, di «entrare in una fornace
di fuoco ardente», sicuro di uscirne salvo14.
Benedetto – a quanto racconta inizialmente – aveva intenzione di buttarsi in ginocchio
davanti al papa e di parlargli: se Pio IV avesse mostrato di non credere «alla Chiesa
preservata e alla riforma di Cristo», «io allhora non come pontefice, perché non lo haveria in loco de pontefice, ma come persona privatissima, et in questo caso avversario et inimico de Christo et della fede apostolica, lo
volevo percotere ed ammazzare [...]; et in quanto de havere facultà de giudicare se
è il papa o no [...], questo non spetta a me, se non nel modo sopradetto»15. Affermazioni come queste sono sufficienti per dedurre che, se anche Benedetto è
un folle, di certo è un folle profondamente istruito, e sufficientemente lucido per
cercare all’interno della sua cultura una legittimazione «alta» al suo gesto.
Quando infatti afferma di aver voluto colpire Pio IV non «in loco de pontefice, ma
come persona privatissima», Benedetto non fa altro che richiamare la distinzione tra
la persona fisica del papa e la sua funzione; tra il papa in quanto uomo, dotato di
un corpo mortale, e il papa in quanto vicario di Cristo, capo della Chiesa eterna.
Una distinzione avviata all’interno della Chiesa a partire dal XII secolo, nel corso
del processo che trasferì progressivamente sulla figura istituzionale del pontefice
prerogative e attributi prima assegnati alla Chiesa nella sua totalità. All’origine
dell’argomentazione di Benedetto ci sono le riflessioni e le elaborazioni dottrinali
di canonisti e teologi medievali che accompagnarono il processo di strutturazione
in forma monarchica della cattolicità romana, tentando nel contempo di conciliare
l’umanità del singolo pontefice con la sua funzione eterna e universale di vicario
di Cristo16.
Sulla base di questa distinzione, nel pieno Cinquecento accadeva ancora che alla morte
del pontefice, ossia quando il papa cessava di essere papa e il suo corpo tornava
a essere quello di un uomo, la sua salma e il suo letto di morte diventassero oggetto
di spoliazioni e saccheggi proprio da parte di familiari e curiali17. Quando, nel 1513, Giulio II – il papa guerriero che non temeva di marciare con gli
eserciti in battaglia – si accorda prima di morire con il suo maestro di cerimonie
affinché si prenda cura del suo cadavere, è perché ricorda di aver visto tanti papi
defunti abbandonati sul letto di morte nudi con le «vergogne» scoperte. Per non parlare
di Alessandro VI, papa Borgia, morto nel 1503, la cui salma era stata fatta entrare
nella bara troppo stretta e troppo corta a forza di pugni dai falegnami18. Un destino del tutto simile ai predecessori sarebbe toccato allo stesso Pio IV.
L’ambasciatore veneziano a Roma racconta come, nel dicembre 1565, un anno dopo i fatti
che stiamo narrando, il cadavere di papa Medici fosse «subito segondo il solito abbandonato
da tutti li sui», e come si trovasse solo una camicia tutta stracciata da mettergli
indosso. Non avendo neppure un giubbone per coprirgli le gambe, fu usato un piviale
logoro e di pochissimo valore, mentre i cuscini postigli sotto la testa erano «così
pelati» che appena si poteva arguire come una volta fossero stati di velluto19.
Si trattava di una cultura evidentemente interiorizzata e condivisa, quella che trovava
espressione nei rituali di umiliazione e spoliazione del papa defunto tornato uomo.
Quando però Benedetto utilizza la distinzione tra il papa in quanto papa e il papa
come persona privata per giustificare davanti ai giudici il suo tentativo di uccidere
Pio IV, da lui definito «furbo ribaldo tiranno inimico del Cristo, el quale stava
in questa sedia indegnamente»20, egli ha in mente un concetto di umanità che non deriva dalla valutazione della caducità
del corpo del pontefice, ma dalla convinzione che questi, in quanto uomo, può sbagliare.
In altre parole, Benedetto estende le conseguenze dell’antica distinzione al di là
della sfera fisica per farne un uso politico contro il papa regnante. Non sarà il
solo, in quegli anni, a farlo, come vedremo più avanti.
Per ora basti evidenziare questa stupefacente ricerca di legittimazione del suo gesto,
che rivela un aspetto costitutivo della psicologia dell’Accolti: Benedetto aveva spasmodicamente
bisogno di trovare davanti alla propria coscienza e davanti agli altri una giustificazione
alta, nobile, ultraterrena delle proprie azioni. Ai suoi propri occhi, le sue qualità
intellettuali e il suo sapere non potevano essere subordinati a interessi contingenti
e di basso profilo, ma dovevano esser posti al servizio di un grande disegno spirituale
di cui egli era depositario. E come molti uomini di questo genere, la cui «economia
morale» si fonda su valori sovrumani, Benedetto non poteva stare zitto21. Dovremo cercare di non dimenticare questo aspetto, allorché vedremo come il figlio
bastardo del cardinale d’Ancona fosse un assiduo frequentatore dei palazzi di potenti
porporati e curiali. A Roma abitava in pianta stabile da quasi dieci anni, e in tutto
questo tempo non aveva smesso di parlare e di presentarsi come profeta.
Un profeta al quale i giudici del Tribunale del governatore mostrano di non credere
proprio. Interrompendone il profluvio di parole, essi pongono all’Accolti domande
precise, circostanziate: Qual è la statura di questo papa santo? Quale la sua età?
È vero che il «popolo preservato» e il nuovo papa sono accompagnati da «cavalieri
e fanti»? È vero che sono già in marcia verso Roma?22
La logica con la quale i giudici smantellano la versione degli imputati di un disegno
tutto spirituale in nome del quale volevano assassinare il papa è semplice: se davvero
i congiurati avessero confidato solo nel braccio di Dio, non avrebbero avuto bisogno
delle armi. E invece, erano tutti armati. Dunque, non si trattava di un gruppo di
folli visionari. Occorreva perciò trovare i mandanti, i finanziatori, gli «uomini
grandi»23 che stavano dietro al loro tentativo, che li avrebbero protetti una volta ucciso
il pontefice. E per farlo, occorreva seguire i percorsi degli oggetti materiali: le
armi, i vestiti, il denaro.
Le armi, innanzitutto. La loro presenza nella congiura emerge a poco a poco: non c’era
solo il coltellino che Benedetto portava sempre con sé per tagliare pane e frattaglie.
Le domande pressanti dei giudici stabiliscono che i congiurati erano entrati nel palazzo
papale armati di tutto punto24. Il conte Canossa portava una spada nuova, che aveva barattato con lo spadaro di
Borgo. Il cavalier Pelliccione, oltre alla spada, teneva nelle calze un pugnale lungo
un palmo e mezzo, con un fodero di velluto e il manico argentato: l’aveva chiesto
in prestito con un pretesto a Simone Della Barba, abitante sulla piazza S. Pietro
a ridosso del raffaellesco palazzo Branconio dell’Aquila, poco lontano dal palazzo
di Borgo Vecchio dove i congiurati si erano trasferiti alcune settimane prima dell’attentato
in Segnatura25. Simone, originario di Pescia, era un letterato legato tra gli anni quaranta e cinquanta
all’Accademia Fiorentina di Cosimo de’ Medici, traduttore per i tipi dello stampatore
veneziano Gabriele Giolito di un’opera di Cicerone. Ma a colpire i giudici dovette
essere un altro elemento. Suo fratello Pompeo, infatti, era l’archiatra pontificio,
ossia il medico ufficiale di Pio IV sin da quando nel 1560 questi era stato eletto
papa26.
La pista delle armi svelava così un legame inquietante tra i congiurati e un uomo
vicinissimo a Pio IV. Ma si tratta di un legame che va contestualizzato tenendo conto
del tessuto fitto di relazioni intrattenute a Roma negli ultimi mesi da Benedetto
e i suoi compagni: frequentazioni e amicizie con autorevoli curiali, con ambasciatori
di principi stranieri, con membri della familia papale, con aristocratici provenienti da diversi luoghi della penisola italiana.
E difatti i giudici non seguirono ulteriormente questa linea d’indagine, ma si limitarono
a una visita ai fratelli Della Barba e alla confisca del pugnale che, nel frattempo,
era stato loro restituito. Possiamo ipotizzare che il cavalier Pelliccione, legato
a indovini, astrologi e maghi, avesse qualche interesse in comune con Pompeo Della
Barba, il quale oltre che medico era filosofo platonico, convinto assertore dell’esistenza
di spiriti e demoni, del valore rivelatore dei sogni, indagatore dei rapporti complessi
tra anima e corpo e dei segreti della natura, fautore della comunicazione esoterica
delle verità filosofiche, studioso di Plinio e di Ficino, di Macrobio e di Giovanni
Pico, di cui aveva commentato la versione volgare dell’Heptaplus. E non è probabilmente un caso che della restituzione del pugnale ai fratelli Della
Barba, il cavalier Pelliccione avesse incaricato il cappellano di S. Spirito, quel
prete Orazio Cattaro da Urbino che sapeva leggere il futuro e conosceva gli astrologi
di Trastevere27.
È invece sul pugnale di Benedetto – quello che avrebbe dovuto uccidere il papa – che
si soffermano gli interrogatori. Un coltello tutto rugginoso e senza fodero, minimizzarono
inizialmente gli imputati. Ma, a poco a poco, emerse come si trattasse di uno stiletto
affilato, ben arrotato in vista dell’attentato. E come con quell’arma, arrotolata
una stola intorno alla lama, nelle serate passate nella casa di Borgo a un tiro di
schioppo dal palazzo pontificio, l’Accolti si fosse esercitato a tirare fendenti contro
il cavalier Pelliccione che, assiso su una sedia, fingeva di essere il papa. Ai giudici,
Benedetto raccontò che avevano inscenato questa esibizione tra loro per ridere28. Ma i giudici non ridevano quando mostrarono a Benedetto i due pugnali per il riconoscimento:
quello sequestrato a Simone Della Barba, e quello ritrovato dagli uomini del governatore
sull’architrave di una vecchia finestra sopra la loggia del palazzo del conte Manfredi,
dove il Pelliccione aveva confessato di averlo gettato dopo che Benedetto glielo aveva
restituito29. Per di più, l’Accolti si lasciò sfuggire come, nel trasferimento delle loro cose
da palazzo Cesi in Borgo al palazzo del conte Taddeo nel rione Colonna, dopo il fallito
tentativo in Segnatura, le due armi fossero state nascoste con cura in un materasso
per trasportarle da un capo all’altro della città30.
Ad accusare gli imputati e a indebolire la tesi che il loro fosse un disegno tutto
spirituale cui erano stati indotti dal fascino carismatico dell’Accolti, c’erano dunque
l’uso delle armi, l’accurata preparazione dell’attentato, e una cipolla. Con questa,
incalzati dagli interrogatori, confessarono di aver sfregato la lama del pugnale che
doveva atterrare il papa nel goffo tentativo di rendere la ferita più micidiale. L’indizio
della cipolla permette di comprendere l’insistenza dei giudici per sapere come mai
Benedetto avesse tolto il fodero al coltello che teneva al petto entrando in Segnatura,
e per quale motivo l’avesse avvolto in un panno d’ormesino nero. Perché i congiurati
si erano presi il disturbo di fare quell’insolita guaina? Quando era stata preparata?
E da chi? «Se fece la guaina a quel modo perché non se vedesse el lustro del pugnale»,
fu la risposta unanime31. Le voci che circolarono a Roma e presso le corti europee diedero su questo punto
una versione diversa rispetto a quella dei congiurati: la loro intenzione, scriveva
l’ambasciatore francese al suo re, era di colpire il papa con un coltello a tal punto
imbevuto di un potente veleno che chiunque fosse stato scalfitto sarebbe morto32. «Per fare la cosa più sicura, havevano cacciato li ferri nella cicuta per farli
velenosi», si legge in una relazione romana33. E di «un cortello che haveva da fare l’effeto quale era velenato» riferisce anche
l’agente del duca di Parma34.
La penuria di oggetti materiali che all’epoca caratterizza lo stile di vita della
maggior parte della popolazione si manifesta anche nella difficoltà con cui i congiurati
riuscirono a procurarsi gli indumenti adatti per presentarsi davanti al papa. Prospero,
il servitore del conte Manfredi, confessò di aver preso in pegno presso un lucchese
al servizio di Curzio Gonzaga – diplomatico, soldato e uomo di lettere amante del
gioco – un paio di calze nere, calzette di seta, un saio e una cappa di lana grossa
piena di cordoncini: nel carcere di Tor di Nona, Benedetto era ancora abbigliato con
alcuni di quei panni35. Per suo nipote Pietro si trovarono un paio di cosciali e un colletto di velluto
da un familiare del marchese Ascanio Della Cornia. Si trattava di un altro nome che
non dovette tranquillizzare i giudici, dal momento che il Della Cornia era uno dei
più grandi condottieri dell’epoca, un uomo d’arme in grado di mettere insieme in un
battibaleno un esercito, abbastanza spregiudicato e potente per dirigerlo anche contro
un pontefice, come già aveva fatto sotto papa Paolo IV. Ma anche in questo caso, i
giudici non ritennero di approfondire la pista d’indagine; e se il marchese di lì
a qualche settimana fu incarcerato in Castel Sant’Angelo e sottoposto a processo davanti
al Tribunale del governatore, le accuse riguardarono le malversazioni di cui si era
reso colpevole verso i sudditi del suo feudo di Chiusi36.
Come si è visto nel precedente capitolo, la notte del 6 novembre il conte Manfredi
si accomiatò dalla moglie raccomandandole di pregare per la «gran cosa» che si accingeva
a fare, e poi raggiunse i suoi compagni già radunati intorno al fuoco nella casa di
Borgo accompagnato da Prospero e dal suo garzone, entrambi caricati dei fagotti d’indumenti
da indossare la mattina seguente all’udienza del papa. Per procurarsi quei vestiti
e per affrontare le spese di quei giorni, i congiurati avevano venduto o dato in pegno
oggetti di loro proprietà o prestati da altri: un anello d’oro della contessa Manfredi,
dei giubboni ricamati dei due conti, la pelliccia di un amico. E ciononostante, erano
ancora pieni di debiti; nei testamenti dettati prima della loro esecuzione, si sarebbero
ricordati del denaro che dovevano a Giuseppe vascellaro a S. Silvestro, al pizzicarolo
in piazza Colonna, a Prospero fornaio di S. Marcello37.
La loro povertà contrastava con le ricompense promesse dall’Accolti a destra e a manca:
promesse di Stati, promesse di migliaia di scudi, promesse di grandi favori futuri.
Monsignor Angelini non avrebbe più avuto bisogno di servire, Giovanni da Norcia avrebbe
ricevuto 4000 scudi, Prospero 5000. «Faremo bon Natale», aveva detto Benedetto a quest’ultimo38. Persino alla moglie del conte Manfredi aveva assicurato che, dopo la «gran cosa»,
«lei staria da quella gentildonna come meritava»39. Interrogata dai giudici, la contessa rispose asciuttamente: «A me non me ha promesso
niente». Ma quando il procuratore fiscale le chiese se sapeva che l’Accolti stava
preparando un’impresa da menar le mani, allora Elisabetta Manfredi, la quale da ben
cinque mesi ospitava Benedetto nella propria casa, aggiunse con disprezzo e rancore
che lui era «homo da fare queste cose»40.
Capitolo terzo
«Io non nego et confesso di essere stato il principale authore de questa cosa ma dico
che, quanto al favore o aiuto [...], loro me hanno trovato l’arme, per loro e per me, [...]; loro me hanno trovato li panni; loro li favori con chi penetrasse del papa; loro incalzato e sollecitato»1. Quando, il 22 dicembre 1564, Benedetto Accolti pronuncia queste parole davanti al
governatore, è esausto per gli interrogatori e stremato dalle torture. «Dicete che
vol Vostra Signoria che li dica», implora dopo esser stato nuovamente spogliato per
il supplizio della corda. «Io voglio che voi me diciate li consili, li fautori, li
participi e li complici et li consiglieri de questo trattato fatto contro la persona
de Nostro Signore», incalza implacabile il governatore Pallantieri2. A questo punto del processo, la versione di un progetto tutto spirituale dei congiurati
si è ormai frantumata: i principali imputati s’incolpano vicendevolmente, forniscono
indicazioni che talvolta si rivelano autentici depistaggi, si perdono nel racconto
di eventi collaterali che, lungi dal chiarirlo, complicano e rendono sempre più indecifrabile
il quadro entro il quale è maturata la congiura.
L’arme, li panni e li favori: la scarsità e il valore degli oggetti che caratterizzano la vita materiale in antico
regime mettono in luce, come si è già visto, le reti di relazioni verso il basso che
i congiurati avevano intrattenuto con servitori, artigiani e bottegai. Ma non sono
questi i legami che interessano al governatore; sono piuttosto gli «aiuti» interni
alla corte su cui contavano i congiurati (come potevano, loro sei, immaginare di poter
restare in Palazzo una volta ucciso il papa?); sono i 60000 «homeni che stanno [ad]
aspettare el schioppo de questa materia» fuori della città, che Benedetto avrebbe
promesso al Canossa; è la «gente armata e in gran numero» di cui parlano Pietro Accolti
e altri imputati che, assassinato Pio IV, entro due mesi sarebbe arrivata a sedare
il caos di una sede vacante per morte violenta del pontefice3.
Il processo si avviluppa su se stesso complicandosi nelle deposizioni di uomini impauriti,
torturati (il primo è Benedetto, il 17 dicembre) che spesso – questo è un aspetto
fondamentale – conoscono solo una parte della verità. Dall’altra parte, i giudici
hanno bisogno – e questo è un altro elemento cruciale di cui tener conto – di accuse
corroborate da prove, non di vaghe indicazioni e sospetti, specie se questi riguardano
«uomini grandi». L’unica traccia concreta di un’organizzazione della congiura che
si allarghi al di là del piccolo gruppo degli arrestati e dell’intervento di Dio,
sono le polizze ormai distrutte, la cui esistenza è attestata da quasi tutti gli imputati.
Polizze destinate agli ufficiali del Palazzo e alle magistrature cittadine affinché
«non se meravigliassero se il papa era stato ammazzato, perché era il papa iuridico
né legittimo ma esso cardinale de Medici, et che era in essere un altro papa santo
el quale verria presto»4. Polizze della cui redazione l’Accolti affermava di esser stato tenuto all’oscuro,
e la cui compilazione il conte Canossa, che ne era l’autore, si ostina a negare anche
alla presenza dei suoi compagni, perfino durante un drammatico confronto con l’amico
fraterno Taddeo Manfredi. La versione mistica della congiura come iniziativa folle
di un gruppo di giovani ingenui soggiogati da un profeta visionario si va sbriciolando.
L’unica eccezione, Antonio Canossa, il quale resta tenacemente fedele alla strategia
difensiva iniziale e a una lettura esclusivamente spirituale dell’iniziativa, escludendo
recisamente il coinvolgimento di terzi5.
Il 28 dicembre, tre giorni dopo Natale, lo torturano per l’ultima volta a Castel Sant’Angelo.
Poco prima di lui, Benedetto Accolti, reso quasi delirante dal dolore fisico, è un
flusso incontenibile di parole che riversa sui giudici, nel tentativo di placare attraverso
la confessione il loro accanimento. È in questo momento finale che, come vedremo più
avanti, Benedetto tradirà se stesso, rassegnandosi a ridurre la ricchezza e la complessità
delle sue convinzioni religiose all’immagine dell’eretico «luterano» il cui progetto
era annientare l’Anticristo6.
I discorsi di Benedetto riempiono l’una dopo l’altra le pagine di questo processo:
è lui tra gli imputati quello che parla di più con i giudici. A suo confronto, la
figura del conte Canossa è ammantata di silenzi. Con quest’ultimo, i giudici si scontrano
contro un muro di orgoglio aristocratico e di ostinazione. Il 20 dicembre chiede che
gli venga consegnata copia degli articoli d’accusa e delle testimonianze raccolte
dal tribunale affinché possa approntare la propria difesa. Il procuratore fiscale
gli risponde che, data la gravità del reato, il papa gli rifiuta le consuete garanzie
processuali e ordina che sia torturato. Inutilmente, il conte si appella con veemenza
al suo status di aristocratico e di membro «de una famiglia a cui la Sede Apostolica è obbligata
più che a nessuna famiglia de Italia»7. Il 26 dicembre, interrogato nella sua camera dove giace disteso sul letto straziato
dalla tortura, dichiara di non avere nulla da dire. Il 28 dicembre, tormentato per
l’ultima volta, viene poi lasciato per un quarto d’ora accasciato su una sedia di
legno in attesa che riprenda i sensi prima di essere riportato in cella; dopo averlo
tenuto appeso per le braccia alla corda che lo storpiava per lo spazio di due Miserere, il governatore in persona l’aveva fatto slegare nel timore fosse morto8.
Chi è il giovane conte Antonio Canossa? Celibe, genitori viventi, un nome importante
e illustre ma pochi denari, il conte conosce bene il latino, se è vero che in questa
lingua aveva letto l’Apocalissi, mentre Benedetto la confrontava con il testo greco procuratogli da un nipote del
cardinal Sirleto9. L’identità aristocratica del Canossa si basava sulla discendenza da una famiglia
potentissima nel Medio Evo, che possedeva una rappresentante ormai leggendaria nella
contessa Matilde, vissuta oltre cinque secoli prima, signora di numerose contee padane
che si estendevano dalla Toscana a Mantova10. Un tassello importante del mito di Matilde, oltre alla «penitenza» inflitta nel
1077 da lei e dal papa all’imperatore scomunicato, era la successiva (e storicamente
controversa) donazione di tutti i suoi beni alla Santa Sede. Nel corso del Cinquecento,
la «contessa d’Italia» diventò l’icona femminile del perfetto sovrano cristiano paladino
dell’autorità papale, nonché il simbolo della supremazia del pontefice sui principi
italiani. A questa operazione propagandistica contribuirono sia la penna di storici
e letterati, sia le opere di artisti quali Giulio Romano, Federico Zuccari, Orazio
Farinati, il Cavaliere d’Arpino, sino al monumento funebre eretto dal Bernini (1633-34),
dopo che papa Urbano VIII aveva fatto trafugare la salma della contessa dal monastero
padano di S. Benedetto Po per collocarla a Roma nella basilica di S. Pietro.