Presentazione
A partire dal magistrale saggio di Delio Cantimori sugli Eretici italiani del Cinquecento, pubblicato nel 1939 e dedicato agli interpreti più radicali, in Italia, della Riforma
protestante, l’eresia protestataria ha esercitato il suo richiamo attrattivo su una
storiografia critica del «pensiero omologato».
Classico esempio, fra quelli possibili nella storia del pensiero medico, è il fascino
esercitato da Paracelso, il Luterus medicorum su cui sono comparsi, nel panorama storico-letterario dell’ultimo trentennio, tre
importanti saggi biografici, scritti rispettivamente da Walter Pagel, Pirmin Meier,
Philipp Bell. La sua figura, di eversore del galenismo assiso in cattedra e dominante
il sapere coniugato al potere, viene rivisitata da Massimo Fioranelli e Maria Grazia
Roccia nel capitolo terzo di questo libro.
Come gli autori opportunamente precisano nell’Introduzione, «eresia» è vocabolo del
lessico greco-antico significante «scelta» o «elezione»; ma anche «inclinazione» e
«ricerca», «studio» e «volontà». È un termine dotato di un significato molto ampio,
che fa dell’eretico colui che dal Nuovo Testamento in poi – dicono gli autori – «osa
esprimere giudizi e ragioni differenti dalla norma e dal dogma»; peraltro – aggiungono
– «l’eresiarca e l’eretico non sono in realtà per nulla estranei ai fondamenti di
quella stessa dottrina che in apparenza negano».
Essi negano la dottrina anche nella sostanza, aprendo in essa falle non più riparabili
da alcun aggiustamento ad hoc; ed è certo da condividere in pieno la tesi per cui la dottrina contestata è una
sorta di brodo colturale del quale i contestatori si nutrono; è il pabulum di una cultura in cui essi crescono prima di contribuire a metterla in crisi e infine
a rovesciarla. Invero non senza qualche ambiguità: come quella di Vesalio che, davanti
alla scoperta che il setto divisorio del cuore non è poroso ma compatto, impedendo
il passaggio intracardiaco del sangue (da venoso ad arterioso) consacrato dall’autorità
di Galeno, si inchina al «miracolo» sovvertitore della «medicina dell’evidenza» (o
dell’evidenza anatomica).
Dopo Ippocrate, che naturalizza l’epilessia a malattia del cervello, dissacrandola
rispetto al «male sacro» degli asclepiadi, dopo Averroè, l’aristotelico medico arabo
che scinde la verità di fede (assoluta) dalla verità di ragione (relativa), dopo Paracelso
e Vesalio, gli autori ci portano con un grande balzo nel cuore del Grand Siècle – il XIX secolo – in cui la medicina conosce nuove eresie e nuovi eretici.
Si affacciano alla ribalta della storia i protagonisti della lotta contro il dolore,
che capovolge la visione dell’accettazione rassegnata; della polemica contro la legge
allopatica, scatenata dall’opinione omeopatica; della vittoria dell’asepsi e dell’antisepsi,
ottenuta sulle malattie trasmesse per contagio. Le figure di Horace Wells e William
Morton, quella di Samuel Hahnemann e quella di Ignác Semmelweis sono disegnate a tutto
tondo sullo sfondo di una scienza e cultura medica che attiene al tempo non solo di
ieri ma anche di oggi, affrontando temi e problemi che sono tuttora di viva attualità.
Il libro si conclude con la messa a fuoco di due figure controverse: quella, ben nota,
di Ana Aslan, novecentesca ricercatrice dell’eterna giovinezza somato-psichica, e
quella, ancor più nota, di Christiaan Barnard, primo autore di un trapianto di cuore,
la cui tecnica d’avanguardia dovette comunque attendere i progressi dell’immunologia
per poter ovviare al rigetto e prolungare e migliorare la vita dei pazienti.
Più che ai profili di queste due figure, la conclusione del libro è affidata alla
personalità, assai meno nota, di René Favaloro, primo autore di un bypass aorto-coronarico.
Piace citare testualmente un passo tratto dalla pagina che, nel libro, precede il
«finale di partita»: «René Favaloro si rifiuta di riconoscere un altro modo di essere
medico e di essere uomo». Quale modo? «La scienza e la coscienza [...] devono stare
dalla stessa parte, quella dell’umanità. [...] Un medico non è chiamato a curare soltanto
un corpo, ma anche un’anima; per farlo, deve intendere la sua professione come un
servizio, come una missione».
È la voce di un tecnico d’alto rango, che rammenta a chi l’avesse dimenticato che
la medicina è un «mestiere» che nega se stesso se non si esercita in un contesto di
valori. Mestiere viene da ministerium, che significa appunto «servizio» e che, al dire di un filosofo morale come Seneca,
dev’essere prestato come officium, «dovere» o «incombenza», e come beneficium, «beneficio», «grazia» e «favore»: una vera «missione».
Giorgio Cosmacini
Prefazione
Il libro di Fioranelli e Roccia è uno di quei testi che fanno riflettere, per così
dire, a ondate successive. Quando Massimo mi ha consegnato il manoscritto, da appassionato
di storia della medicina, l’ho letto tutto d’un fiato. Il libro, infatti, ha un primo
pregio: stimola la curiosità del lettore. Innanzitutto perché alcune delle storie
che racconta non sono molto note. Personalmente, non conoscevo l’avvincente storia
del cardiochirurgo argentino Favaloro, mentre sapevo ovviamente molto del più famoso
collega Barnard.
Ma la curiosità viene stimolata anche dalle pagine che raccontano di personaggi molto
noti, ad esempio Galeno. La lettura che gli autori danno della vita e del pensiero
scientifico del celebre medico antico, lo confesso, d’acchito mi ha suscitato un moto
di forte sorpresa. Il Galeno che qui viene raccontato non è quello che conosco, mi
son detto.
Di qui, la riflessione successiva, a libro chiuso e dopo aver lasciato passare parecchi
giorni dopo la prima lettura.
In effetti, il Galeno raccontato dagli autori è certamente esistito, anzi è il Galeno
reale, la cui figura, in mano alla medicina tardomedievale, ha signoreggiato nelle
nascenti università e scuole mediche fino all’avvento di quello che gli autori giustamente
chiamano «l’altro Copernico»: Andrea Vesalio. La sua opera rivoluzionaria, per una
incredibile coincidenza, venne pubblicata lo stesso anno (1543) in cui Copernico dette
alle stampe la sua. Cosicché l’uno rivoluzionò l’anatomia e la medicina, l’altro l’astrofisca.
Resta il fatto che, come spesso accade, occorrerebbe discutere in dettaglio e nel
merito se davvero il dogmatismo galenico sia figlio «del medico di tre imperatori»
o se, invece, non sia frutto della medicina tardomedievale che, del resto, imbalsamò
anche Ippocrate.
Il Galeno che ho in mente io è il medico filosofo, anzi è il «filosofo scientifico»,
come amava appellarsi; è il Galeno che scrive lo splendido testo Il miglior medico è anche filosofo; è quello che si scaglia contro la «folla di calzolai» che in sei mesi d’apprendistato
pretendevano di imparare a praticare la medicina; è il raffinato studioso della diata che proponeva ai suoi pazienti (attività fisica, alimentazione, gestione delle passioni)
e dei rimedi terapeutici che rastrellava ad Oriente e ad Occidente nei suoi continui
viaggi di studio. Insomma, è il «mio» Galeno, che indubbiamente entra in conflitto
con il lascito storico, di cui con perizia raccontano gli autori (chi fosse curioso
di conoscere la mia lettura di Galeno nel quadro della medicina greca antica può leggere
Filosofia per la medicina. Medicina per la filosofia. Grecia e Cina a confronto, Milano, Tecniche Nuove, 2010).
Il libro di Fioranelli e Roccia è stimolante anche per la chiave interpretativa che
propone: invece di analizzare passaggi storici, critici e rivoluzionari attraverso
l’esame del contesto, ci racconta storie di vita di alcuni protagonisti della medicina
e della scienza da cui il contesto emerge con chiarezza. Da questo punto di vista,
il libro potrebbe essere un work in progress, una prima edizione di un lavoro più ampio che includa altri personaggi e passaggi
cruciali della storia della medicina e della ricerca. In questo ipotetico lavoro si
potrebbe inserire tutto il filone di medici e ricercatori eretici nel campo delle
relazioni mente-corpo: in questo Pantheon avrebbe un posticino, accanto al neurocentrismo
di Ippocrate, anche il Galeno critico radicale del dualismo metafisico di Platone,
per poi arrivare a Marie-François-Xavier Bichat e George Cabanis, fino ad Hans Selye,
a Robert Ader e via di seguito.
Questa lunga teoria di eretici materialisti non riduzionisti, studiosi della centralità
della psiche nella regolazione dell’organismo umano, senza per questo abbracciare
alcuna metafisica spiritualista e quindi non scientifica, negli ultimi decenni ha
prodotto una nuova scienza: la psiconeuroendocrinoimmunologia. Un’eresia che, piano
piano, sta diventando attraente anche per gli scienziati e gli operatori della salute
«normali», come direbbe Thomas Kuhn.
Francesco Bottaccioli
Introduzione
Il termine eresia deriva dal greco αρεσις, a sua volta derivato dal verbo αρω, e rimanda ai significati di «prendere» e di «afferrare», di «eleggere» e di «scegliere».
Purtroppo, tale neutralità semantica non resisterà a lungo nella storia dell’Occidente,
giacché l’eresia, con il Nuovo Testamento, prenderà a essere connotata a margine della
sua pericolosa separatezza nei confronti della dottrina dominante, il che avvenne
quale che fosse la deviazione dal percorso prescritto. Da allora in poi l’intolleranza
nei confronti di chi osasse esprimere giudizi e ragioni differenti dalla norma e dal
dogma crebbe in forme e misura allarmanti, divenendo un’idea contraria, una provocazione,
una sfida al sapere e al suo potere costituito. L’eretico, insomma, impersonava colui
che si era posto al di là del «pensabile» e del «praticabile», e come tale andava
condannato.
Dedicare un volume ad alcune figure esemplari dell’eresia in campo medico significa,
indubitabilmente, toccare nozioni e concetti la cui connotazione religiosa potrebbe
essere preponderante. Ma non sarebbe corretto, tanto nel merito quanto nel metodo,
farsi condizionare da questo fatto. In principio perché, oltre che in ambito religioso,
l’eresia è stata discriminata nei campi della politica, della filosofia, delle scienze
e persino delle arti; nella sostanza, poi, l’atto della «scelta» starebbe a indicare
qualcosa di nettamente diverso rispetto alla pura opposizione o al tradimento di una
fede e di una tradizione originarie. L’eresiarca e l’eretico non sono in realtà per
nulla estranei ai fondamenti di quella stessa dottrina che in apparenza negano.
D’altronde, il nostro «scegliere» veniva reso nella lingua latina col verbo eligere, che testualmente significava separare la parte migliore di una cosa dalla peggiore,
quindi eleggerne una delle due. E non c’è dubbio che una sentenza dell’attivista americana
Helen Keller torni utile per soppesare con una certa acutezza la questione: «L’eresia
di un’era diventa l’ortodossia dell’era seguente». Insomma, che sia sinonimo della
libertà di pensiero, qual era secondo Graham Green, o frutto di ozio, come sosteneva
Voltaire, l’eresia rimane un’avventura dello spirito, un racconto sospeso tra la realtà
e una visione immaginaria del mondo, che una prospettiva e un orizzonte mai osservati
prima rendono possibile, comprensibile, condivisibile.
Senza alcun paradosso, le storie di questi protagonisti della scienza e della medicina
antiche, moderne e contemporanee hanno insegnato all’umanità intera l’importanza di
sbagliare e di sapersi correggere. Ogni differente parabola esistenziale che in queste
pagine è stata tracciata ci restituisce il dolore e la fatica di coloro che si trovarono
a pensare e ad operare, talvolta in totale solitudine, contro tutto e tutti, per la
propria coerenza e in nome della propria dignità, per il fatto di credere in un’idea,
in un metodo, in una utopia.
Ricordare e ripercorrere queste esperienze rivela un’emergenza culturale che siamo
chiamati ad affrontare con fermezza: quella dell’omologazione a forme di sapere che
troppo spesso coincidono con il controllo e con il condizionamento delle nostre scelte
etiche e professionali. Questi grandi maestri del passato, senza eccezione alcuna,
ci hanno indicato la sola strada da percorrere a testa alta: quella della libera ricerca,
della speranza e, forse, della verità.
I.
La scomparsa degli dèi.
Ippocrate
È con Ippocrate di Kos, universalmente riconosciuto come il «padre della medicina»,
che la cura degli ammalati diviene una specializzazione – o meglio un’arte, come da
allora si userà dire. È con lui che la figura del medico trova un autonomo fondamento
e conquista una prassi definita, fatta di visite quotidiane, di una corretta ambientazione
del paziente, dell’annotazione e della raccolta dei sintomi, del diario della malattia,
di un repertorio di casi simili o analoghi, di diagnosi e di prognosi, di diete e
terapie ragionate....
Ippocrate, insomma, è il primo a indirizzare la medicina su un sentiero scientifico,
anche se, per comprensibili ragioni storiche, il suo pensiero parrebbe situarsi in
una terra di nessuno, tra i primi passi di una riflessione epistemologica e i meschini
paradigmi della sua stessa epoca. Già, perché a parte qualche brillante intuizione
nel campo della fisiologia, quel che egli crede di sapere o di aver scoperto sull’organismo
e sulle sue funzioni è profondamente errato, se non addirittura immaginato; pseudoscienza,
verrebbe definita oggi.
Tuttavia, se si guarda al suo metodo di lavoro, è innegabile che Ippocrate rappresenti
l’assoluto precursore della medicina moderna, almeno nella sua accezione più alta,
quella che permette di distinguere una ricerca oggettiva da un discorso metafisico
o religioso, basato sul puro pregiudizio. Questa constatazione giustifica ampiamente
la presenza di Ippocrate in apertura di un testo che ripercorrerà le orme di alcuni
celebri medici eretici.
Per il Maestro greco, del resto, la materia è l’unico agone plausibile in cui la salute
e la malattia possano battersi. Egli sarà il primo a scacciare gli dèi dal capezzale,
il primo a negare la loro concreta influenza sulla vita degli uomini, il primo a recidere
senza esitazioni legacci e pastoie che costringono la medicina al giogo della religione,
del soprannaturale, della superstizione. Così facendo, egli introduce nel suo operare
quella sorta di peccato ideologico – la libertà di pensiero e di ricerca – a cui la
Storia presenta assai spesso un conto salato. L’epoca di Ippocrate è sconvolta da
guerre terribili, l’arte e la cultura vengono sovente mortificate e lui stesso condannato
a pagare il suo debito con gli interessi, come se gli fosse stata cucita addosso una
sorta di maleficio che, pur dissimulato da un’aperta e generale ammirazione, se non
da una vera e propria venerazione, lo accompagnerà lungo tutta la posterità.
Il nostro obiettivo è soprattutto quello di restituire il mare aperto a questo antenato
ingombrante, riesumandolo dal porto delle nebbie dove certi falsi estimatori lo hanno
confinato. Proveremo a dissipare gli equivoci creati a maschera della sua inquieta
e controversa persona e ne denunceremo l’imbalsamazione virtuale: troppo famoso e
quindi impossibile da rimuovere, eppure del tutto inerme dinanzi alle astute manipolazioni
che, di fatto, finiranno per sottovalutare la profonda capacità sovversiva delle sue
idee.
Quel che sappiamo
Ippocrate vive tra il 460 e il 370 avanti Cristo, nel pieno tumulto di eventi quali la trentennale
guerra del Peloponneso, che segnerà il trionfo dell’autocrazia spartana sulla democrazia
ateniese, modificando radicalmente gli assetti politici dell’intera area mediterranea.
Ippocrate stesso ne sarà personalmente coinvolto, tant’era affine e solidale alla
cultura e alla società ateniesi. Sicché, a cinquantacinque anni, sarà costretto ad
abbandonare la nativa isola di Kos e la rivoluzionaria scuola medica che là aveva
fondato, e dopo varie peregrinazioni segnate dalle minacce spartane prenderà infine
dimora nell’entroterra greco, in Tessaglia, dove inaugurerà e dirigerà un’altra scuola.
Non esiste un resoconto sulle traversie di Ippocrate fuggiasco. Ciò appare stupefacente,
trattandosi di uno degli uomini più celebrati del suo tempo. Ma tale lacuna sembra
coerente con una generale ritrosia, da parte dei cronisti antichi, a intrattenersi
(e a intrattenerci) su quelle personalità che, a causa della guerra perduta, erano
divenute scomode (o lo erano sempre state a causa di quella sua «peste personale»
chiamata ateismo). Del resto, la vittoria militare di Sparta aveva anche comportato
il prevalere di una concezione arcaica del mondo, e con esso il ritorno a una supremazia
della religione su tutti i materialismi, i relativismi e gli agnosticismi che avevano
coabitato pacificamente nell’Atene dei filosofi.
E fu anche in ragione del suo particolare ateismo che Ippocrate era diventato un personaggio,
tanto illustre quanto isolato: un paria della scienza. Nell’immediato dopoguerra nessuno
osava scriverne, e semmai si cancellava quel che su di lui era stato scritto in passato;
per decenni ancora egli sarebbe rimasto un soggetto da seppellire politicamente e
socialmente. Nessun Senofonte gli dedicherà mai un libro. Non un capitolo, non una
pagina. Se non si fosse conservato il Corpus Hyppocraticum, se i posteri non avessero potuto leggere alcuni scarni riferimenti a lui dedicati
nelle opere di Platone e di Aristotele, l’umanità sarebbe stata legittimata a credere
che egli non fosse mai esistito. Neppure un autore prolifico come Plutarco, pur citando
assai spesso Ippocrate nelle sue innumerevoli opere, oserà dedicargli una «Vita».
E così, mentre di tutti i notabili della Grecia classica, compresi i minori, sono
giunte a noi notizie almeno essenziali, e più spesso superflue, su Ippocrate nulla
verrà tramandato dai suoi contemporanei. Del resto, Platone e Aristotele appartengono
già a un periodo successivo, in cui la libertà ateniese va rifiorendo. Al massimo
ci arriverà l’eco di una irresistibile tradizione orale arricchita da frammentarie
citazioni scritte, insieme a informi notizie parabiografiche recuperate da tardissimi
compilatori e da cantori di leggende. Ma di cronache e di testimonianze dirette, nulla;
di serie documentazioni, nemmeno.
Tanta miseria di fonti rappresenta quasi un unicum nella storiografia scientifica. E il sospetto che si tratti di una eccezione per
nulla casuale non sembra bizzarro. Dopo la disfatta ateniese, Ippocrate non è semplicemente
uno fra i tanti che si aggrappano ai rottami di una patria morente, ma colui che verrà
additato fra i testimoni più negativi di una società e di una cultura da abbattere.
Perché non si era limitato a schierarsi con la democrazia, ma aveva sparso i semi
velenosi dell’ateismo, e questo per Sparta era un crimine punibile con l’esilio o
con la morte.
Ciò nonostante, un certo superamento di una prospettiva meramente naturalistica è
merito che andrebbe serenamente attribuito alla scuola ippocratica. Grazie a Ippocrate
e agli anonimi autori di scuola, a cominciare dai compilatori del volume Sulla medicina antica, «la medicina segna una volta per sempre il suo confine dalla mera filosofia naturale,
configurandosi come arte indipendente». La fondazione dell’arte medica, quale si evince dall’opera di Ippocrate e dalla
sua divulgazione, si fonda essenzialmente sul rigetto di una ricerca e di una sperimentazione
basate su un principio unitario. Qui risiede la differenza tra i sistemi filosofici
e quelli scientifici, nel fatto che il rapporto tra la natura e la medicina può fondarsi
nella misura in cui quest’ultima sa osservare e valutare l’essere e il divenire della
natura medesima.
Il mirabile saggio di Werner Jaeger ci accompagna verso il cominciamento di un sentiero
speculativo che attraverserà tutto il pensiero occidentale. Il filosofo tedesco, infatti,
attribuisce a Ippocrate la serrata critica nei confronti di quella presupposta esigenza
di una techne basata su principi unitari; una techne che tuttavia «non conduce, come si pensa, a eliminare la non scientifica incertezza
nel cogliere le cause dei morbi, e ancor meno indirizza alla terapia appropriata,
ma porta solo a scambiare con un’ipotesi malsicura il certo funzionamento di esperienza
su cui è sempre proceduta l’arte risanatrice».
Un altro testo ippocratico di scuola, e di incerta attribuzione, Epidemiai, sottolineerà sin dal titolo il senso della professione medica. Qui il termine non
alludeva alla diffusione di malattie infettive presso le collettività di individui,
bensì all’uso di visitare persone distanti: in altre parole, all’attitudine del medico
a recarsi presso infermi e malati, praticando un’attività sommamente peripatetica, come vuole l’etimologia con il duplice significato di démos (epidmía, da epídmos «diffuso, generale», composto di epí «sopra» e dêmos «territorio, popolo»). L’opera segue i presupposti ippocratici, là dove occorre combinare
il perseguimento della verità con l’infinità dei casi clinici, con ciò tipizzando
la natura, l’umanità, le caratteristiche corporee e le malattie.
Eppure vi è una premessa che mai verrà oscurata dagli scritti della scuola dorica
di Kos (che però ci lascerà scritti in lingua ionica), e cioè che «l’arte sanitaria
dei greci è diventata arte metodicamente consapevole soltanto per l’efficacia esercitata
su di lei dalla filosofia ionica della natura. Questa verità – chiosa Jaeger – non
deve essere minimamente messa in ombra in considerazione dell’atteggiamento dichiaratamente
antifilosofico della scuola ippocratica a cui appartengono le prime opere della medicina
greca».
Jaeger ci mostra dunque come la medicina greca possa a ragion veduta essere considerata
quale annuncio delle filosofie platonica e aristotelica, al punto che essa «valicò
i limiti di una mera tecnica artigiana e si fece forza culturale, elemento di guida
intellettuale nella vita del popolo greco».
L’opera del tradimento
Ippocrate non coltiva una sensibilità metafisica e la sua è una medicina totalmente
«laica». Tutto è discutibile nel Corpus, tranne l’indifferenza metafisica degli autori. A indagare nelle circa settanta opere
di vario genere e di incerta attribuzione raccolte nella biblioteca di Alessandria
d’Egitto (qualcuna forse del Maestro, le altre di collaboratori, di tardi allievi
o persino di sofisti estranei alla Scuola), si scopre che l’origine «sacra» di ogni
malattia è espressamente negata, se non ignorata – il che suona persino peggio. Solo
in un brano del Corpus si legge di divinità che farebbero ammalare o guarire gli umani, che trasmetterebbero
sogni, che pretenderebbero offerte e preghiere; ciò si trova però in un libro chiaramente
aggregato, che gli esperti hanno definito «indipendente» rispetto all’insegnamento
di Ippocrate.
Di tale portata appariva la sua eresia che, dopo la sconfitta di Atene, Ippocrate
venne manifestamente discriminato. I nuovi padroni, tuttavia, reputarono pernicioso
agire contro di lui in modo violento e diretto, sicché non fu torturato, né esiliato,
né ucciso. Né si vagliò per un istante la soluzione di farlo sbranare dai cani, come
la leggenda avrebbe narrato a proposito della sorte dello «scandaloso» tragediografo
Euripide. Non si uccide un prestigioso dottore, che oltretutto impersona un caso particolarmente
scabroso; d’accordo, farne l’apologia mentre è in corso la restaurazione politica
e religiosa guidata da Sparta sarebbe impensabile; nondimeno scriverne male risulterebbe
controproducente, perché sul piano medico egli godeva di una fama che si accompagnava
a una sorta di venerazione popolare.
La scelta migliore per venire a capo dell’affare Ippocrate fu dunque quella di imporre
un silenzio assordante per poi, con comodo, disarmare e smantellare il suo pensiero.
Così ebbe inizio quell’opera di tradimento sistematico attraverso cui egli verrà via
via separato dalla sua stessa vicenda umana e recluso in una dimensione fantastica
dove, come per magia, si muterà in uomo esemplare e pio, in una icona rassicurante
e rispettosa delle divinità. Da vivo o da morto, insomma, sarà necessario neutralizzarlo,
abbandonarlo come una presenza vaga e non certificata nello spazio e nel tempo, con
l’obiettivo di rendere irrintracciabile la sua vera personalità. Tant’è che la prima,
incerta biografia del Maestro, a firma di tale Sorano, apparirà mezzo millennio dopo la sua morte. Vi si narra di come il Maestro di Kos,
diciannovesimo discendente maschio di Asclepio, dio della medicina, imponesse ai suoi
allievi un Giuramento etico da pronunciare in nome «di tutti gli dèi e di tutte le
dèe».
Secoli dopo i cristiani non saranno meno sbrigativi e trasformeranno quell’ingombrante
superbo che aveva cercato di espellere ogni divinità dal mondo della salute in un
precursore della vera religione, in una sorta di santo patrono. Nel Medioevo si distribuiranno
copie del Giuramento sulle quali sarà impresso il simbolo della croce. La storiografia
postuma contiene spesso degli aspetti di singolare mendacia. Forme di autoinganno
di cui si smarriscono persino le ragioni originarie.
Il grande silenzio
La colpa di Ippocrate è grave e imperdonabile in una misura che noi, abitanti del
XXI secolo, fatichiamo a comprendere. L’ateismo in Grecia si conosceva, ma nella stessa
libera Atene era una stravaganza da tenere confinata nei corsi di filosofia per giovani
ricchi. Predicarlo in pubblico era vietato: se si stava a questo patto, le autorità
politiche valutavano minimo e circoscritto il danno sociale e chiudevano un occhio.
Il problema cambiava totalmente se, dai piccoli numeri delle scuole, si passava a
quelli enormi della sanità. Allora entravano in gioco gli interessi venali della potente
corporazione dei medici-sacerdoti. Intorno ai santuari di Asclepio e degli altri dèi
si addensavano vere e proprie città di malati, che imploravano la guarigione e portavano
offerte. Ai sacerdoti si riconosceva il carisma di mediare con le divinità: essi sapevano
come placarne l’ira; il lucro era imponente e ci si doveva guardare bene dal fare
gli scettici dentro un santuario: a Delfi ci aveva provato lo scrittore Esopo, ma
era stato malmenato e scaraventato dall’alto di una rupe, come racconta Erodoto.
Col fanatismo non si scherzava. Perciò un insegnante «laico» che osasse tenere separate
le malattie da ogni causa divina – con ciò negando l’ingerenza degli dèi nelle fortune
come nelle disgrazie umane – poteva durare in cattedra solo fino a quando fosse riuscito
a godere della protezione di un sistema politico liberale. Egli incarnava una sfida
al sistema, e poteva provocare più di uno scricchiolio nelle fondamenta della credulità
popolare.
Ippocrate di Kos, che ideologo non è, si macchia tuttavia di una simile superbia:
fino ad allora, nessuno aveva mai osato tanto e dovrà passare ancora mezzo secolo
prima dell’arrivo di Epicuro, il filosofo più odioso alle classi dirigenti teocratiche
d’ogni tempo, col suo soave edonismo e la mormorata blasfemia secondo cui gli dèi,
se mai esistono, sarebbero indifferenti alle vicende umane.
Dunque, l’eresia di Ippocrate suona nel suo tempo così inedita e grave, così estemporanea,
così pericolosa in bocca a un uomo tanto caro alla gente e alla cui scuola accorrevano
studenti da ogni parte del mondo conosciuto, da non poter essere nemmeno apertamente
condannata: solo silenziata.
I moderni storiografi della medicina non hanno fatto molto per restituire al Maestro
la sua vera fisionomia, disseminando i loro studi di omissioni e reticenze – alcuni,
per esempio, «dimenticando» di accennare alla guerra del Peloponneso e ai suoi stravolgimenti.
È come se parlando di Einstein si tacesse il suo essere ebreo, costretto, come tanti
altri scienziati, a riparare in America per sottrarsi alla persecuzione dei nazisti.
Altri studiosi, per sfuggire al problema, parcellizzano la materia e si lasciano magari
assorbire dalla vexata quaestio se il «Giuramento dei medici» – di norma attribuito a Ippocrate ma chissà quante volte
manipolato – non debba invece esser fatto risalire alla scuola di Pitagora. Vi sono poi gli eruditi che leggono e rileggono, contano e ricontano gli scritti
del Corpus per decidere se Erotiano, grammatico del tempo di Nerone, abbia commesso errori nel
portare a glossario alcuni termini della medicina ippocratica.
Esercitazioni come queste sono senza alcun dubbio utili e interessanti, ma ci appaiono
meno essenziali rispetto allo stabilire in che misura Ippocrate abbia donato all’umanità,
e come mai l’umanità abbia provato così tanta paura di quel dono, fino a respingerlo.
Meno essenziali anche rispetto all’individuazione degli scrupoli etico-religiosi che
allora condannarono Ippocrate e che oggi, si direbbe, lo trattengono in una sorta
di gabbia morale.
La ricerca empirica avrebbe potuto, dalla medicina, estendersi a tutti i rami della
conoscenza, e chissà se sarebbero allora nati quelli che oggi chiamiamo spirito scientifico
e progresso. Forse l’intera storia del genere umano sarebbe cambiata. Invece, ogni
ansia del nuovo e del vero è stata mortificata e infine spenta. Ci sono voluti secoli
perché altre discipline scientifiche – l’astronomia, per esempio – intraprendessero
un analogo cammino di affrancamento dalla religione; e identico tempo, come vedremo,
prima che la ricerca medica facesse concreti passi in avanti. Bisognerà aspettare
il Rinascimento e una personalità come quella di Andrea Vesalio per trovare il coraggio
di bandire nuovamente ogni pregiudiziale filosofica, religiosa e dogmatica e guardare
davvero dentro il corpo umano.
Intanto, con la paralisi della medicina, tutta la ricerca, in qualsiasi campo, si
è bloccata e per mille e ottocento anni il sapere umano è rimasto come pietrificato
da un incantesimo. Nel sonno della ragione, l’umanità è stata costretta a camminare
lungo strade infestate da mostri.
II.
Vietato ai credenti?
Averroè
«[...] e vidi il buono accoglitor del quale,
Dioscoride dico; e vidi Orfeo,
e Tullio, e Lino, e Seneca morale;
Euclide geomètra e Tolomeo,
Ippocrate, Avicenna e Galieno,
Averroìs, che il gran commento feo».
È Dante, nel canto IV dell’Inferno, a lasciare una traccia storico-letteraria che resterà a perpetua memoria dei nomi
evocati. Durante la sua visita al Limbo, ove dimorano i non battezzati del pensiero
e delle arti, il poeta incontra quattro sovrani riconosciuti dell’arte medica del
suo tempo e, in appena due versi, unisce Ippocrate ad Averroè, il grande medico, filosofo
e commentatore di Aristotele. Grazie alla complessa figura di quest’arabo di Spagna
può avviarsi una riflessione sulla difficoltà di conciliare la libera speculazione
(clinica, scientifica e filosofica) con la dottrina e con i poteri religiosi.
E poiché Dante, tra Ippocrate e Averroè, assegna il ruolo di pontieri a Galeno e ad
Avicenna, va da sé dedicare loro qualche cenno prima di entrare nel vivo del nostro
racconto.
Il normalizzatore
Claudio Galeno, vissuto tra il 129 e il 200 circa, è considerato il secondo grande
medico dell’antichità dopo Ippocrate, del quale è generalmente indicato come erede
scientifico. Eppure riesce difficile immaginare due personalità a tal punto diverse
e distanti; l’uno, che in nome della libertà di pensiero vorrebbe sottrarre l’arte
medica a ogni potestà; l’altro, che invece trasforma quell’arte in uno strumento al
servizio dell’autorità costituita, quale essa sia. Per dire che di eretico e di sovversivo,
presso Galeno, non vi è nulla... Sarebbe assurdo tuttavia ignorarlo, perché la sua
opera dominerà il pensiero medico per mille e trecento anni, nel corso dei quali egli
verrà considerato una stella ben ferma nel firmamento della medicina.
Nativo di Pergamo, in Asia Minore, Galeno giunge a Roma nel 162, accompagnato da una
solida reputazione di clinico e di chirurgo; per lungo tempo egli cura, medica e richiude
le ferite a schiere di gladiatori. Sette anni dopo, regnante Marco Aurelio, diventa
archiatra di corte, incarico che manterrà almeno per tre decenni sotto altrettanti
imperatori. Queste scarne note biografiche bastano a raccontare di un uomo in grado
di muoversi nelle stanze del potere e di usare la politica con sapienza e accortezza.
Egli è ambizioso e determinato, ha un’attitudine mondana, è un ottimo oratore; oltre
a ciò, è autore assai prolifico.
Delle oltre quattrocento opere del Pergamita in lingua greca, cento e otto sono arrivate
a noi, dapprima tradotte in arabo, poi in latino (come vedremo, la questione non sarà
di secondaria importanza), infine in originale. Per brevità ne citiamo una soltanto,
quel celebre MethodusMedendi che del galenismo può essere considerato la summa e che, insieme agli altri libri
di anatomia, di patologia, di terapia, di diagnostica e di prognostica, ben dimostra
la sua ferrea volontà di fondare una medicina sistematica d’impianto ippocrateo, con
il fine ultimo di influenzare e indirizzare il pensiero e la pratica del tempo.
Quello di Galeno è dunque il primo, colossale tentativo di «istituzionalizzare» la
medicina occidentale, riparandola sotto l’ombrello autorevole del gigante di Kos il
quale, ancorché frainteso e snaturato, rimaneva un faro irradiatore di luce. Questa
operazione avrà un valore scientifico e politico. Come in tutti i regimi autocratici,
anche nell’impero romano la medicina aveva assunto il carattere di un instrumentumregni: strumento del potere nonché mezzo privilegiato di controllo del territorio, laddove
andavano crescendo ovunque scuole e sette mediche portatrici di grande confusione,
oltre che fungaia di gruppi ribelli. Urgeva pertanto omologare e ufficializzare la
medicina e Galeno, con l’autorità conferitagli dall’imperatore, incarnava perfettamente
la figura del «normalizzatore»: da una parte innalzando un solidissimo edificio di
saperi medici, dall’altra mettendolo a disposizione del sovrano, consentendo che la
medicina si riducesse a un elemento di ordine, a un dispositivo di indagine utile
a scovare e ad annientare gli oppositori dell’impero.
Il povero Ippocrate, che sull’indipendenza del medico da ogni potere (politico, filosofico,
religioso) aveva orgogliosamente issato la sua bandiera, avrebbe così subito il più
crudele dei tradimenti, il tutto senza che alcuno ne avesse sufficiente contezza.
Da un punto di vista meramente scientifico, i contributi di Galeno al sapere medico
non ne avrebbero giustificato la gloria millenaria. In buona sostanza egli aveva ripreso
e approfondito alcune teorie ippocratiche – quella dei «quattro umori», per esempio.
Ma si guadagnò grande fama come anatomista, anche se con ogni probabilità non sezionò
mai un cadavere umano, limitandosi a usare animali vivi e carogne. Inoltre colse la
differenza tra arterie e vene, dimostrando che le prime trasportano sangue e non aria,
come allora credevano in molti. Legò gli ureteri di animali vivi per dimostrare che
l’urina proviene dai reni. Sezionò i midolli spinali per studiare e documentare le
paralisi. E tuttavia, nel procedere in questo suo lavoro di anatomista «veterinario»,
commise alcuni grossolani errori, che schiere di epigoni e di falsificatori avrebbero
perpetuato nei secoli: quello di ritenere identiche le strutture dei corpi umani e
animali, o di attribuire all’uomo un plesso reticolare (la cosiddetta «rete mirabile»)
che invece è presente solo nel corpo degli ungulati, come nel caso del maiale.
Ma non è tutto: nell’affermare che ogni organismo appariva strutturato secondo il
piano inconoscibile di un ente supremo, Galeno incarnava lo spirito monoteista del
suo tempo. E fu proprio questo suo limite ad assicurare alla sua opera un’incredibile
fortuna, rendendola compatibile con il cristianesimo che ormai si andava diffondendo
ovunque e che di lì a poco avrebbe preso il sopravvento sul paganesimo di marca greco-romana.
Nel tempo, a fare il resto sarà anche la parziale ignoranza delle sue stesse opere,
tanto che, nella loro versione latina, esse erano divenute la pietra angolare dello
studio dell’arte medica. Ma qualcosa, nei vari passaggi linguistici, sarebbe andato
perso, al punto che, sebbene troppo tardi, ci si renderà finalmente conto di aver
male interpretato una grande quantità di nozioni e di informazioni. Fra il Trecento
e il Quattrocento, mettendo concretamente mano all’originale greco, i medici umanisti
si persuasero degli errori e delle mistificazioni dovute all’inesperienza, alla trascuratezza
o al dolo dei traduttori. Si dovrà però attendere fino alla metà del XVI secolo perché
un temerario di nome Andrea Vesalio faccia accomodare Galeno sul banco degli imputati
per interrogarlo a fondo.
Se dunque ci attenessimo ai puri fatti, diremmo che con Galeno la ricerca medica si
era interrotta; nei tredici secoli a lui successivi ciascun paziente saprà di sé,
del proprio corpo, delle proprie capacità e limiti – e quindi del proprio destino
– soltanto quello che il medico dei tre imperatori gli avrà imposto di credere. Con
lui verrà compiuto il destino della medicina antica, che rinuncerà alla ricerca e
alle sue applicazioni al misero fine di perpetuare se stessa. In tal guisa essa dominerà
il Medioevo fino alle soglie dell’età moderna, lungo quell’arco secolare in cui le
scienze erano parse immobili e in attesa che il Rinascimento le risvegliasse alla
vita piena. Di fatto fu proprio l’avversione a Galeno che permise di annotare l’empirismo
di Ippocrate, con ciò escludendo qualsiasi concezione teleologica: «Ippocrate passò
per uno dei più grandi rappresentanti antichi della concezione puramente causale-meccanicistica
della natura».
Ebbene, criticamente Jaeger porrà finalmente in dubbio l’interpretazione secondo cui
la misura e la proporzione sarebbero state altrettanti fondamenti della medicina ippocratica,
mentre le nozioni di mescolanza e di simmetria avevano escluso ogni credibile accostamento
tra Ippocrate e il pensiero democriteo quale si era tratto dalla lettura di Theodor
Gomperz e della sua GriechischeDenker. Allo storico tedesco, se da un lato verrà riconosciuta l’intuizione di aver immesso
la medicina nell’alveo della filosofia greca, dall’altro andrà rimproverato un eccesso
positivistico.
Per concludere, se pure il contributo filologico di Galeno risultò di grande importanza,
e con esso i suoi commenti agli scritti riferibili al corpus letterario ippocratico, rimane lo scetticismo dinanzi alla dotta acquiescenza e alla
troppa sicurezza con cui egli presunse di isolare il pensiero di Ippocrate nel volume
incontrollato di scritti a lui attribuibili. Ciò impedì di acquisire elementi nuovi
e decisivi per la storia e il progresso della medicina antica. Eppure il galenismo
sarebbe rimasto per secoli un paradigma formale del pensiero medico-scientifico. «Nella
storia delle idee – scrive Giorgio Cosmacini – il galenismo è una ideologia scientifica. Essa si applica a un sistema esplicativo caratterizzato dall’ambizione esplicita
di essere depositario di una scientificità indiscutibile, a imitazione di un paradigma
già consolidato e di cui cerca di imitare lo stile».
In equilibrio sopra l’eresia
Forse in qualche lettore i nomi di Avicenna e di Averroè risvegliano un ricordo scolastico,
a certuni i primi rudimenti di filosofia dai banchi del liceo. E dalla loro cattedra,
con un pizzico di noncuranza, i professori ci avevano insegnato che Avicenna, oltre
che filosofo, era stato anche medico, matematico e fisico – reincarnando in modo esemplare
quell’antica genìa di sapienti per i quali il termine «specializzazione» aveva scarso
o nullo significato.
Musulmano di stirpe iranica, Ab ‘Al Ibn Sn (Avicenna nell’adattamento occidentale) nasce nel 980 presso la città di Bukhara, che all’epoca
gravita nell’orbita dell’impero
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