Sommario
Introduzione
Attenzione all’attenzione
1. Un piccolo esperimento per cominciare
2. Che cos’è l’attenzione?
2.1. Diversi tipi d’attenzione
2.2. Lo sviluppo dell’attenzione nel bambino
3. Il multitasking: quanto ci costa!
3.1. Risorse limitate
3.2. Giocolieri dell’attenzione
4. Impatto delle tecnologie digitali sull’attenzione
4.1. I più giovani sono naturalmente multitasker?
4.2. Videogiochi e attenzione
5. Quanto incidono le tecnologie digitali sulla nostra capacità di lettura?
5.1. Per leggere è meglio la povertà che la ricchezza di stimoli
5.2. Sognavo ad occhi aperti
6. L’attenzione è un bene fragile: conseguenze per l’uso ragionevole delle tecnologie
digitali
6.1. Smettere di sopravvalutare la nostra capacità di attenzione
6.2. Far capire ai bambini l’importanza dell’attenzione
6.3. Adottare regole flessibili
6.4. I supporti per la lettura non sono tutti uguali
Qui torre di controllo
1. Un piccolo esperimento per cominciare
2. Imparare a conoscere il nostro pilota automatico
2.1. Sapete resistere a un delizioso dolcetto?
2.2. Le funzioni di controllo nei bambini di diversa età
2.3. Particolarità del cervello adolescente
3. Le tecnologie digitali ci rendono «dipendenti»?
3.1. Gli elementi per un videogioco di successo arrivano direttamente dalla nostra
storia evolutiva
3.2. Perché un videogioco attira più di un libro?
4. Se le tecnologie sono come dolcetti per il cervello: conseguenze pratiche per l’uso
ragionevole delle tecnologie digitali
4.1. Aiutare ciascuno a trovare le proprie strategie
4.2. Non avere fretta di immergere i bambini nell’universo digitale
4.3. Concorrenza sleale
4.4. Aiutare i bambini a sviluppare le funzioni esecutive
Ti ricordi? Il ruolo della memoria all’epoca di Wikipedia
1. Un piccolo esperimento per cominciare
2. Le molteplici facce della memoria
2.1. Memorie come saper fare (la memoria procedurale)
2.2. Memorie di fatti e concetti (la memoria semantica)
2.3. Memorie intricate (le memorie sensoriali)
2.4. La memoria è viva e cambia nel corso della vita (la memoria episodica)
2.5. Memorie brevi e attive (la memoria di lavoro)
3. Memorizzare serve a pensare, a capire, a cercare
3.1. Sapere serve a capire
3.2. Conoscere serve a cercare
4. Impatto dell’uso delle tecnologie digitali sulla memoria
4.1. Esternalizzazioni
4.2. Impatto cognitivo negativo dell’esternalizzazione
4.3. Abitudini in corso di formazione
5. La memoria non serve solo a ricordare: conseguenze per l’uso ragionevole delle
tecnologie digitali
5.1. Sviluppare strategie per ricordare: il caso dei bambini
5.2. Incoraggiare i bambini a usare le proprie capacità
5.3. Non essere pigri
5.4. Non tutto quello che si può imparare si può imparare su un tablet
5.5. Costruire conoscenze
Imparare nel nuovo millennio. S’impara diversamente nell’era del digitale?
1. I «nativi digitali»
1.1. Il mito dei nativi digitali
1.2. Qual è l’uso che i nativi digitali fanno delle tecnologie?
1.3. I rischi legati al mito
1.4. L’illusione di saperne troppo: un esperimento
2. I segreti dell’apprendimento
2.1. Sforzo volontario attivo e pratica
2.2. Che cosa accade nel nostro cervello quando impariamo?
2.3. Meccanismi diversi modellano il cervello nella prima infanzia
3. Imparare nell’era digitale
3.1. Software che permettono di praticare, forniscono un feedback e presentano difficoltà
crescente
3.2. Si può diventare più intelligenti più in fretta?
3.3. Più non è sempre meglio
3.4. Possiamo delegare l’apprendimento nei bambini agli strumenti digitali?
4. Per fare un uso intelligente delle tecnologie digitali ci vuole intelligenza
4.1. Imparare «il digitale»
4.2. Imparare «col digitale»
4.3. Imparare «senza digitale»
Io, tu, gli altri
1. Un piccolo esperimento per cominciare
2. Il cervello pro-sociale e il Web
2.1. Un cervello preparato per la cooperazione
2.2. Intelligenza collettiva, intelligenza sociale
3. Il cervello sociale e le reti sociali
3.1. Social network e amicizie
3.2. Il circolo della simpatia e dell’empatia
4. La selezione delle fonti d’informazione
4.1. Mi fido, non mi fido: il bambino non è naturalmente credulone, ma...
4.2. Influenze negative
5. Il ruolo fondamentale dell’educazione: una condizione per l’uso ragionevole delle
tecnologie digitali
5.1. Social network: un sistema artificiale su una base naturale
5.2. Sfruttare le forze positive del Web
5.3. Diventare più vigili, diventare più esigenti
Tempus fugit
1. Piccoli esperimenti per cominciare: tempo percepito e tempo reale
2. Cosa vuol dire percepire il tempo?
2.1. Il tempo dei bambini e quello degli adulti
2.2. Percezione del tempo e attenzione
3. La cronobiologia
3.1. Di quanto sonno abbiamo bisogno? Gufi vs. allodole
3.2. Sonno e apprendimento
4. L’impatto delle tecnologie digitali sul sonno e sulla percezione del tempo
4.1. Giocare prima di dormire ritarda il sonno?
4.2. I videogiochi alterano la percezione del tempo?
5. Conseguenze per l’uso ragionevole delle tecnologie digitali
5.1. Bisogna dire a un adolescente di andare a dormire
5.2. «Sono due ore che giochi!»: misurare il tempo
Conclusioni
1. Un cervello antico alle prese con un mondo ultra-moderno
2. Nascere e crescere in un mondo di super-stimoli
3. Approfittare pienamente delle opportunità
4. Sviluppare sistemi di difesa
Riferimenti bibliografici e letture consigliate
Introduzione
Attenzione all’attenzione
Riferimenti bibliografici
Letture consigliate
Qui torre di controllo
Riferimenti bibliografici
Letture consigliate
Ti ricordi? Il ruolo della memoria all’epoca di Wikipedia
Riferimenti bibliografici
Letture consigliate
Imparare nel nuovo millennio. S’impara diversamente nell’era del digitale?
Riferimenti bibliografici
Letture consigliate
Io, tu, gli altri
Riferimenti bibliografici
Letture consigliate
Tempus fugit
Riferimenti bibliografici
Letture consigliate
Conclusioni
Introduzione
Qualche anno fa ho assistito a un breve scambio d’informazioni tra mia figlia, che
adesso ha 10 anni, e un’amica: «Che mestiere fa tua mamma?» chiedeva l’amica. «Lavora
al computer».
Benché il mio lavoro non abbia nulla a che fare con i computer – lavoro per una Fondazione
che si occupa di educazione e scienza per bambini e adolescenti –, passo la maggior
parte del mio tempo di lavoro davanti a un computer o al tablet, a scrivere, a cercare
informazioni, a leggere, a comunicare a distanza con tutti i mezzi disponibili (tecnologie
digitali e dispositivi elettronici inclusi, dunque). I miei figli amano leggere (e-book
e libri cartacei in uguale quantità, smartphone per le notizie sportive), guardare
film (computer), fare foto e piccoli video (smartphone), scambiare battute con i propri
amici e, per il momento, con i propri genitori (smartphone). Oggi casa mia ospita:
4 smartphone, 3 computer portatili, 1 tablet, 3 lettori di e-book e 4 esseri umani
che passano da un supporto all’altro, quando non ne usano due allo stesso tempo.
Non tutte le famiglie usano le tecnologie digitali e i supporti elettronici tanto
quanto noi. Gli oggetti che ho nominato sono costosi e l’accesso alle tecnologie dell’informazione
e della comunicazione costituisce una delle nuove ingiustizie della nostra società,
che si estende dall’individuo alle famiglie, ai paesi. Molti paesi, del resto, stanno
adottando politiche per dotare le scuole di computer e tablet, nella speranza di favorire
forme d’apprendimento più al passo con i tempi e di colmare il divario tra allievi.
Tuttavia, il divario digitale non riguarda solo il possesso, ma anche l’uso che viene
fatto di queste tecnologie. Non sempre sappiamo sfruttarne le potenzialità, che ne
fanno oggetti preziosi per connetterci, comunicare, scambiare informazioni ben fondate,
divertirci e fare una pausa tra un impegno e un altro. Spesso ce ne sentiamo fagocitati,
come se il loro uso ci fosse diventato psicologicamente necessario e non solo pragmaticamente
utile. I proclami sulle potenzialità del digitale ci fanno oscillare tra rosee speranze
e oscuri timori.
L’uso del computer, di Internet, aiuta o riduce la memoria? Migliora oppure ostacola
le capacità d’imparare, a scuola e altrove? E che cosa dovremmo pensare dei software
che promettono di mantenere giovani più a lungo le nostre capacità mentali o di sviluppare
quelle dei nostri figli? Come reagire di fronte alla pratica dell’uso simultaneo di
due, tre dispositivi allo stesso tempo? Al telefono posato sul tavolo su cui si fanno
i compiti, o accanto al letto? Perché è così difficile resistere a un buon videogioco
o a un sms spedito a tarda sera da un amico, da un compagno di scuola? Che ne è della
nostra percezione del tempo? Che succede quando la nostra vita sociale diventa in
parte elettronica?
Il fatto che ci poniamo insistentemente queste domande suggerisce che ci sentiamo
disarmati di fronte alla rapida invasione delle nostre case, dei luoghi di lavoro
e del tempo libero, alla lenta ma progressiva penetrazione delle tecnologie digitali
nelle scuole. E non potrebbe essere altrimenti: l’incontro tra «schermi» (di computer,
tablet, smartphone, console di gioco) e cervelli (noi) è storia recente e le sue conseguenze non sono scontate.
Tanto più quando ad andare incontro a queste tecnologie sono giovani utilizzatori,
per i quali la costruzione di preferenze, abitudini e buone pratiche è largamente
in corso.
Sono proprio i più giovani utilizzatori a costituire l’obiettivo principale di questo
libro, il cui tema centrale è: come fare ad aiutare i nostri bambini a sviluppare
un uso intelligente e consapevole (un uso saggio) delle tecnologie a loro disposizione?
Nel corso dei diversi capitoli verranno proposti elementi di riflessione, a partire
dai quali ognuno potrà sviluppare strategie adatte al proprio caso: a quello della
propria famiglia o gruppo di allievi, ad esempio, ma anche a se stessi perché, come
avrete già potuto constatare, anche per noi adulti non è facile fare un uso saggio
del digitale.
Si tratterà in particolare di capire meglio limiti e possibilità di alcune funzioni
svolte dal nostro cervello e sollecitate dall’uso degli schermi: attenzione, memoria,
apprendimento, controllo volontario su scelte e preferenze, percezione e gestione
del tempo, cognizione sociale. Una migliore comprensione del nostro cervello «in azione»
può in effetti rivelarsi utile per guidare la nostra riflessione su come ottimizzare
l’uso che facciamo di videogiochi, Internet, reti sociali. Non solo perché le scienze
della mente e del cervello (le scienze cognitive e le neuroscienze), grazie ai recenti
progressi, permettono di valutare in modo obiettivo le risposte provocate dall’uso
delle tecnologie e l’eventuale impatto su ognuna delle funzioni citate, ma anche perché
il cervello ha una lunga storia evolutiva, che ne ha scolpito struttura e funzioni
al ritmo di milioni di anni di selezione. Le nostre risposte alla novità rappresentata
dagli schermi sono almeno in parte il frutto di questa storia. Possiamo dunque anticipare
come il cervello reagirà di fronte a un videogioco, a un messaggio postato sul nostro
telefono o a un sito di vendite online perché conosciamo sempre meglio i meccanismi
che ci inducono a privilegiare certi stimoli su altri, a prestare attenzione, a ricordare
e a imparare.
In ogni capitolo proporrò un piccolo esperimento o un gioco. Lo scopo è quello, da
un lato, d’introdurre in modo pratico e diretto una funzione, per poi approfondirla
grazie all’esposizione di qualche nozione riguardante il suo funzionamento, e prepararci
così a capire meglio il ruolo che essa gioca nell’interazione con gli schermi. Dall’altro,
di riflettere insieme, a partire da queste considerazioni, su quali strategie adottare
per favorire un uso saggio degli schermi, per i nostri bambini ma anche per noi.
Per cominciare: siete pronti a mettere in gioco la vostra attenzione?
Attenzione all’attenzione
Da quando le tecnologie permettono a bambini e adolescenti di accedere ai media quasi
24 ore su 24 nel corso delle loro attività quotidiane, la quantità di tempo che i
giovani trascorrono con mezzi d’intrattenimento è aumentata drammaticamente, soprattutto
tra le minoranze sociali – rivela un sondaggio nazionale dalla Kaiser Family Foundation
negli USA. In una giornata tipo, i giovani tra 8 e 18 anni dedicano una media di 7
ore e 38 minuti ai media di intrattenimento (più di 53 ore alla settimana). E poiché
molto di quel tempo è speso in multitasking (ovvero utilizzando più di un mezzo alla
volta), il totale in contenuti multimediali di quelle 7 ore ammonta in realtà a 10
ore e 45 minuti.
V.J. Rideout et al., Generation M2: Media in the lives of 8- to 18-years-old, 2010
Multitasking è un termine d’ingegneria. Si riferisce al fatto che un unico processore
può svolgere più calcoli allo stesso tempo, senza bisogno di ricorrere a più unità
parallele, perché passa da un compito a un altro rapidamente. Nel linguaggio comune
il termine è però utilizzato per descrivere i nostri comportamenti e non quelli delle
macchine con cui interagiamo: guidare e parlare al telefono, fare i compiti davanti
alla TV, parlare con qualcuno e intanto inviare messaggi a qualcun altro, seguire
una lezione controllando il proprio account Facebook, inviando tweets e sms... Si parla di multitasking in particolare per riferirsi all’uso simultaneo
di diversi media: TV e telefono, per esempio. E sempre più se ne parla come di una
capacità, e non solo come di un comportamento..
Nel corso di questo capitolo cercheremo di capire se è davvero possibile, a quali
condizioni e con quali costi, fare più cose simultaneamente e se, realmente, quella
di fare più cose alla volta è una nuova capacità, magari frutto dell’interazione tra
cervello e supporti elettronici e digitali. Ci sottoporremo innanzitutto a un piccolo
esperimento, che potremo condividere in famiglia, a scuola, con adulti e bambini.
Per renderci meglio conto dei problemi in gioco discuteremo poi brevemente organizzazione
e ingranaggi dell’attenzione. L’attenzione è, infatti, una funzione fondamentale della
nostra mente e i suoi limiti naturali hanno un impatto importante sulla possibilità
di portare a termine con successo più compiti simultaneamente. In seguito analizzeremo
alcuni risultati sperimentali riguardanti l’impatto del multitasking sul nostro cervello
e l’idea che si possa imparare a diventare dei bravi multitasker (o imparare a non
esserlo affatto...); rivolgeremo poi la nostra attenzione a un’attività in particolare:
la lettura. Infine potremo trarre considerazioni e immaginare strategie per un uso
più saggio delle tecnologie.
1. Un piccolo esperimento per cominciare
Se avete voglia di mettere alla prova la vostra capacità di attenzione aprite questo
link sul vostro tablet o sul vostro smartphone prima di procedere nella lettura: http://www.theinvisiblegorilla.com/videos.html.
Selezionate il video «Selective attention task». Si tratta di un test ideato da Daniel
Simons (professore alla University of Illinois, Beckman Institute for Advanced Science
and Technology, Department of Psychology). Nel video, alcuni ragazzi e ragazze vestiti
di bianco e altri vestiti di nero si passano una palla. A chi guarda il video viene
chiesto di seguire attentamente queste istruzioni: contare i passaggi di palla effettuati
solo tra i giocatori vestiti di bianco. Solo la metà delle persone che si cimentano
nel test si accorge che sta accadendo qualcosa di molto strano: un gorilla passa tra
i giocatori che si passano la palla.
L’esperimento permette di illustrare un fenomeno noto come «cecità d’inattenzione»:
per vedere, per percepire il mondo intorno a noi, gli occhi non bastano, è necessario
anche prestare attenzione (Simons e Chabris 2010). La nostra attenzione è tuttavia
un bene limitato, e quando si fa attenzione a qualcosa inevitabilmente si è disattenti
rispetto a qualcos’altro. Il video «del gorilla» permette dunque di far emergere i
limiti della nostra attenzione e di renderci conto che è bene fare attenzione... all’attenzione.
2. Che cos’è l’attenzione?
Come fa il nostro cervello (di adulti e bambini) a fare attenzione? E cosa succede
quando siamo distratti? Per meglio rappresentarci un aspetto fondamentale dell’attenzione
possiamo ricorrere a un’immagine: l’attenzione è come un fascio di luce che illumina
una parte del mondo esterno o dei nostri pensieri e li isola dal resto dei nostri
processi mentali che continuano a operare nell’oscurità. L’attenzione è dunque un
processo di selezione su informazioni provenienti dal mondo esterno o su processi
che hanno luogo nel nostro stesso cervello.
2.1. Diversi tipi d’attenzione
Gli studi in neuroscienze cognitive hanno permesso di dimostrare l’esistenza di diverse
forme di attenzione, legate al funzionamento di gruppi diversi di neuroni (Rueda et al. 2004). Alcune regioni profonde del cervello sono particolarmente implicate nell’attenzione
sostenuta, oltre che nello stato generale di vigilanza. L’attenzione sostenuta è quella sperimentata dal controllore della torre di controllo di un aeroporto, che
si mantiene in allerta per ogni evento anomalo. È anche, per esempio, quella che sperimentiamo
durante un videogioco quando siamo in attesa di un nemico, o quella cui facciamo ricorso
in montagna quando ci teniamo pronti a evitare gli ostacoli e i pericoli di un percorso
accidentato, senza focalizzare sull’uno o sull’altro in particolare.
Alcune regioni della corteccia cerebrale che si trovano al livello dell’osso temporale
(cioè dietro le orecchie) e quelle che si trovano nella parte superiore e posteriore
del cranio al livello dell’osso parietale sono invece coinvolte nell’attenzione selettiva. Questa funzione orienta l’attenzione verso certi stimoli piuttosto che altri tra
le miriadi presenti nel nostro ambiente visivo, sonoro, tattile. Si parla allora di
attenzione visiva, acustica, tattile a seconda di quali siano gli stimoli specialmente
selezionati. Si può dire che l’attenzione selettiva sia il vero e proprio proiettore
del fascio luminoso di cui abbiamo parlato sopra: quando un aereo sta per atterrare,
i nemici del videogioco sono in vista e gli ostacoli sul percorso si fanno più ardui,
non basta più mantenersi in stato di allerta, ma bisogna dirigere il proiettore su
un oggetto o evento precisi, escludendo tutto il resto. O quasi.
Niente ci dice, infatti, che a un certo punto altri stimoli del mondo esterno non
avranno il potere di richiamare la nostra attenzione, che lo vogliamo o no. Pensate
al clacson che ci fa sussultare mentre stiamo attraversando la strada, all’allarme
anti-incendio che interrompe ogni altra attività, al compagno di banco che parla mentre
l’altro cerca di ascoltare la maestra. In alcuni casi lasciarsi distrarre è un bene
(l’allarme, il clacson), in altri è un impedimento a portare a termine un compito
con successo. Capiamoci bene: la capacità di distrarsi e di focalizzare l’attenzione
su un nuovo compito è altrettanto importante della capacità di concentrarsi, e non
vorremmo rinunciare all’una più che all’altra. Tra i nostri antenati, quelli capaci
di farsi distrarre da un rumore improvviso nella foresta o nella savana sono quelli
che sono sopravvissuti all’attacco imprevisto di un predatore, quindi quelli che hanno
trasmesso alle generazioni successive i loro geni e la suscettibilità a rispondere
a certe classi di stimoli e... a distrarsi. Sebbene il problema dei grandi predatori
sia risolto, il meccanismo che ci rende capaci di reagire prontamente a stimoli visivi,
sonori o olfattivi sorprendenti, di metterci in allerta in presenza di anomalie nel
nostro ambiente, è ancora importante per la sopravvivenza. Basti pensare al modo in
cui siamo pronti a reagire quando sentiamo un inusuale odore di fumo o il clacson
di una macchina in arrivo. Tuttavia è bene essere consapevoli che ogni qual volta
il nostro cervello segue una direzione imprevista, dobbiamo faticosamente riportarlo
indietro e riattivare la buona strategia, quella utile a risolvere il nuovo compito.
L’ultimo tipo di attenzione che ci interessa per parlare di schermi è l’attenzione esecutiva. L’attenzione esecutiva entra in gioco per permetterci di restare focalizzati sul
nostro compito ed escludere tutto quello che non lo riguarda direttamente. È lei che
blocca le distrazioni e le risposte automatiche (come quelle al clacson o all’odore
di fumo, se le circostanze indicano che non corriamo alcun pericolo) e risolve i conflitti
tra stimoli, grazie all’attivazione di regioni specifiche della corteccia frontale
(le regioni che si trovano al livello della fronte e, in particolare, le regioni più
avanzate della corteccia frontale).
Ognuna di queste forme d’attenzione si sviluppa in parte indipendentemente dalle altre,
e può essere «disturbata» da lesioni e disfunzioni cerebrali specifiche, ma nella
vita di tutti i giorni è difficile distinguere l’una dall’altra, tanto lavorano di
concerto.
2.2. Lo sviluppo dell’attenzione nel bambino
Come tutte le funzioni cerebrali, le capacità legate all’attenzione si sviluppano
nel corso dell’infanzia (Posner e Rothbart 2007). Nei primi mesi di vita, per esempio,
l’orientamento dello sguardo si affranca dalla cattura automatica che ne fanno gli
stimoli esterni e passa progressivamente sotto il controllo delle regioni del cervello
implicate nell’attenzione selettiva sensoriale, diventando in questo modo più volontario,
rapido e preciso. Intorno ai sei mesi di vita circa la parte prefrontale del cervello
diventa sempre più importante per controllare l’attenzione, e in particolare per dirigerla
in vista di un certo obiettivo. Le regioni prefrontali seguono tuttavia un percorso
più tortuoso di altre regioni cerebrali: la loro maturazione è lenta e prosegue fino
alla fine dell’adolescenza (nella seconda decade di vita).
Per meglio capire ciò di cui stiamo parlando, esaminiamo due classici test di laboratorio
utilizzati per studiare e misurare il funzionamento dell’attenzione selettiva ed esecutiva.
Nel primo, il bambino (o l’adulto) è seduto davanti al computer; sullo schermo vengono
proiettate le immagini di un’anatra o di un coniglio; il bambino (o l’adulto) deve
rispondere premendo un tasto sul quale è stata incollata la figura di un’anatra o
un tasto con la figura di un coniglio. La difficoltà consiste nel risolvere un conflitto
di tipo spaziale. In certi casi, infatti, l’anatra appare a destra dello schermo,
ma la figura dell’anatra è incollata a sinistra sulla tastiera. Bisogna quindi utilizzare
un tasto a sinistra per rispondere a uno stimolo che arriva a destra del campo visivo.
Stessa cosa col coniglio. Questo compito è praticamente impossibile da risolvere per
i bambini di 2 anni, ma diventa progressivamente più facile e a 4 anni è decisamente
acquisito. Intorno ai 4 anni si situa dunque una tappa importante per lo sviluppo
dell’attenzione.
Passiamo al secondo test: si tratta, nella versione più semplice – da realizzare anche
a casa –, di rispondere battendo le mani una sola volta se lo sperimentatore (un vostro
complice, in questo caso) le batte due volte e due volte se lui le batte una. Potete
immaginare anche combinazioni e ritmi più complessi: quello che conta è che, magari
dopo un periodo in cui si è stati istruiti a «copiare il maestro» e ci si è dunque
abituati a fare come lui, si sia invitati a fare diversamente: se lui fa «x» voi fate
«y», se lui fa «y» voi fate «x». La capacità di rispondere a questo tipo di compito
mostra miglioramenti importanti a partire dai 6 anni fino ai 10-13, quando le capacità
del bambino diventano simili a quelle dell’adulto.
Attraverso questi esperimenti possiamo meglio comprendere che il controllo attivo
sull’attenzione non è ancora maturo nel bambino. Risposte impulsive, difficoltà a
prestare attenzione in presenza di distrazioni, sono aspetti naturali dello sviluppo
progressivo di questa funzione: ciò implica pertanto una particolare fragilità del
bambino di fronte a stimoli molteplici e a compiti simultanei, come quelli posti molto
spesso dalle tecnologie digitali quali tablet, computer e smartphone. Ma attenzione!
Lo sviluppo dell’attenzione è soggetto a variabilità da un individuo all’altro e non
è mai «perfetto». Anche l’attenzione dell’adulto è lontana dall’essere impermeabile
alla distrazione e le situazioni di «attenzione divisa» su compiti molteplici sono
costose per tutti.
3. Il multitasking: quanto ci costa!
Il nostro cervello è capace di portare avanti numerosi «calcoli» allo stesso tempo:
senza che ce ne accorgiamo, mantiene la nostra temperatura e pressione stabili, adatta
la nostra respirazione e il nostro battito cardiaco alle circostanze, ci mantiene
in stazione eretta, seduta o supina mentre contemporaneamente riceve e analizza implicitamente
una parte degli stimoli visivi che lo raggiungono attraverso gli organi di senso.
Per tutto questo il nostro cervello non ha bisogno di far ricorso all’attenzione:
il «programma» per gestire questo tipo di reazioni funziona in modalità automatica
perché il cervello ha incamerato una conoscenza tale del compito che non necessita
più di un controllo speciale dell’attenzione. Pensate a quanta attenzione avete dovuto
mettere nei vostri gesti quando avete imparato a utilizzare una bici, la tastiera
di un computer, una racchetta da tennis. Con l’esercizio i gesti si sono automatizzati,
e questo apprendimento ha reso possibile fare cose sempre più difficili con gli stessi
strumenti. Il nostro cervello è dunque in grado di svolgere due o più compiti simultaneamente,
se questi compiti non mobilitano simultaneamente la nostra attenzione.
Ma cosa accade in caso contrario?
3.1. Risorse limitate
Ricordatevi della metafora del fascio di luce che abbiamo introdotto all’inizio del
capitolo: se l’attenzione è come un fascio di luce, non possiamo rivolgerla simultaneamente
su due processi cerebrali. La maggior parte dei modelli del funzionamento cognitivo
afferma che le nostre risorse sono limitate (Pashler 1997). Questo perché numerosi
test di laboratorio rivelano che svolgere compiti diversi simultaneamente comporta
sforzo e degradazione delle performance (più errori commessi e più tempo impiegato).
Ad esempio, se cerchiamo di fare dei calcoli a mente mentre seguiamo con lo sguardo
un oggetto, rischiamo di fare errori nell’uno e nell’altro compito, errori che non
faremmo se eseguissimo i due compiti separatamente. Se cerchiamo di contare i passaggi
di palla tra i giocatori vestiti di bianco nell’esperimento del gorilla, tendiamo
a non vedere altri eventi maggiori. Se cerchiamo di guidare e parlare al telefono
siamo meno efficaci in ambedue le azioni (Brown et al. 1969). Se parliamo al telefono camminando siamo più lenti, e meno capaci di notare
eventi curiosi (Hyman et al. 2009). Fare i compiti con la televisione accesa ha un impatto negativo sia sulla
capacità di lettura (comprensione) sia sulla memorizzazione (Armstrong e Chung 2000;
Armstrong et al. 1991). Insomma, benché ci illudiamo di esserne capaci, in realtà non siamo in grado
di fare attenzione a più cose simultaneamente (portare avanti più compiti che richiedono
attenzione allo stesso tempo) senza pagarne i costi.
Ecco un nuovo piccolo test che potete realizzare in famiglia o in classe per sperimentare
e far sperimentare direttamente la difficoltà di portare avanti un compito mentre
se ne svolge un altro: dunque, resistere a una distrazione. Prendete un’immagine con
molti dettagli e mostratela agli amici o ai familiari, chiedendo di rintracciare,
il più rapidamente possibile, un dettaglio nascosto a vostra scelta. Vince chi lo
trova per primo. Adesso fate lo stesso esercizio con un dettaglio diverso, ma soprattutto
con l’aggiunta di un handicap: una distrazione esterna. Potete fare quello che volete
per distrarre i giocatori: cantare, battere sulle pentole, agitare le mani davanti
ai loro occhi, far squillare i loro telefoni. Non sarete sorpresi di scoprire che
nella seconda condizione il gioco diventa molto più duro. Provate a cronometrare:
i tempi si allungano. In presenza di distrazioni esterne, infatti, una parte del nostro
cervello deve fare lo sforzo di bloccarle per mantenersi focalizzato sul compito di
trovare il dettaglio. In pratica, state chiedendo al vostro cervello di (cercare di)
fare due cose simultaneamente, e ne state pagando i costi.
3.2. Giocolieri dell’attenzione
Perché (cercare di) fare più cose simultaneamente è così arduo e costoso? Secondo
i modelli principali nello studio dell’attenzione, il multitasking è in realtà una
forma di spostamento dell’attenzione molto rapido da un compito a un altro (task switch), tale da dare l’illusione della simultaneità (Monsell 2003; Welford 1980). Fate
questa prova: che animale riconoscete nella figura che segue? C’è chi vi vede un’anatra
e chi vi vede un coniglio. Una volta realizzato che la figura «nasconde» un’anatra
e un coniglio potete passare dall’una all’altro indifferentemente e rapidamente. Quello
che non potete fare, invece, è vedere l’una e l’altro allo stesso tempo.
Come nel caso dell’immagine dell’anatra-coniglio, quando pensiamo di prestare attenzione
a due cose c’illudiamo di farlo simultaneamente, e invece stiamo semplicemente (e
costosamente) passando dall’una all’altra in rapida sequenza. Ad esempio, se parliamo
al telefono guidando costringiamo il nostro cervello a spostare rapidamente l’attenzione
dalla strada al telefono, dal telefono alla strada, dalla strada di nuovo al telefono,
e così via. Un vero lavoro da giocolieri!

Gli psicologi hanno analizzato varie situazioni in cui il nostro cervello si trova
a passare da un compito a un altro (Pashler 2000). Quale che sia la situazione, o
l’età, il task switch ha un costo. Il cervello deve in primo luogo distaccarsi dal
compito iniziale e portarsi sul nuovo, per poi attivare la buona strategia. Siccome
le strategie utili per il primo e per il secondo compito non sono uguali, il nostro
cervello si deve in un certo senso ricalibrare. E, in effetti, il costo è tanto più
importante quanto più i compiti sono difficili, ma anche quanto più sono diversi tra
di loro, quindi quanto più le strategie per rispondervi sono diverse. C’è però anche
un’altra ragione per la quale cambiare compito o portare avanti più compiti simultaneamente
è costoso.
Un’altra funzione altrettanto fondamentale – la memoria a breve termine, che per qualche
istante mantiene attive le tracce delle nostre azioni e pensieri – viene infatti sollecitata
perché possiamo tornare al punto precedente delle nostre operazioni mentali (Foerde
et al. 2006). Se uno stimolo esterno ci distrae dal nostro compito, anche per una frazione
di secondo, siamo obbligati a ricorrere alla memoria a breve termine per mantenere
attiva la traccia di quello che stavamo facendo, per poi tornare al compito iniziale
sperando che tutte le informazioni importanti siano state mantenute vive. Ogni cambiamento
di compito comporta una ginnastica del genere e quindi una difficoltà aggiuntiva per
il nostro cervello. L’unità di misura principale del carico di lavoro imposto al nostro
funzionamento cognitivo è il tempo: ogni switch costa tempo, e può comportare errori. È bene, dunque, essere consapevoli che le fonti
di distrazione cui siamo soggetti non sono sempre utili segnali d’allarme che ci salvano
la vita. L’apparizione di un messaggio visivo sullo schermo del computer, lo squillo
del telefono (il nostro, ma anche quello del vicino!) o l’allerta sonora di un messaggio
in arrivo sono stimoli «potenti» che impongono uno switch dell’attenzione, e un costo, che lo vogliamo o no.
4. Impatto delle tecnologie digitali sull’attenzione
I dispositivi elettronici digitali hanno un impatto immediato e facilmente osservabile
sul difficile equilibrio tra attenzione e distrazione. La maggior parte di essi consente
molti tipi d’interazione: è possibile, con uno stesso dispositivo, consultare più
pagine web, rispondere a messaggi per iscritto o tenere una conversazione a distanza,
giocare, ascoltare musica, guardare un video, leggere, e svolgere almeno due di queste
attività in rapida successione o simultaneamente: una parte importante dell’uso dei
dispositivi elettronici digitali – fino al 30% dell’uso totale – avverrebbe infatti
in modalità «simultanea». Questa percentuale, tuttavia, varia significativamente da
un individuo all’altro. Un’altra caratteristica delle tecnologie digitali è la portabilità,
ovvero la facilità che esse hanno di integrarsi nelle nostre attività quotidiane o
semplicemente di rimanere sempre in prossimità, qualunque altra attività stiamo svolgendo.
Il risultato è il moltiplicarsi delle fonti esterne di distrazione.
Nonostante questo, alcuni proclami particolarmente ottimisti sostengono che la nuova
generazione di utilizzatori di dispositivi elettronici sarebbe molto più performante
delle generazioni precedenti nella pratica del multitasking, e questo proprio grazieall’intenso uso simultaneo delle tecnologie. C’è del vero in quest’affermazione?
4.1. I più giovani sono naturalmente multitasker?
Bisogna premettere che lo studio dell’impatto dei dispositivi elettronici sulle diverse
operazioni cognitive è storia recente, che molti studi sono in attesa di replica e
molti risultati in attesa di conferma. Se presi con le dovute precauzioni, alcuni
studi in corso possono tuttavia risultare utili per identificare strategie e buone
pratiche adatte a noi come anche ai più piccoli.
Uno studio realizzato da ricercatori tedeschi ha mostrato, ad esempio, che i giovani
sono effettivamente più performanti, rispetto ai meno giovani, nei compiti di tipo
multitask; ma questa differenza non è legata alla quantità di tecnologie normalmente
utilizzate o alla pratica più o meno spinta del multitasking (König et al. 2005). Abbiamo visto poco sopra che il multitasking può essere considerato una forma
rapida di task switch, cioè di cambio di compito, che implica di mantenere provvisoriamente nella memoria
a breve termine le informazioni del compito momentaneamente messo in attesa. Si dà
il caso che la memoria a breve termine sia una di quelle funzioni che si degradano
con l’età. Un cervello giovane è tipicamente più capace di tenere a mente qualche
secondo una stringa di cifre rispetto a un cervello adulto. Non sorprende, quindi,
che il cervello giovane si trovi meno in difficoltà (ma non senza difficoltà) di fronte
a certi compiti.
Per poter attribuire degli effetti positivi alla pratica del multitasking dovremmo
però provare che esiste una relazione positiva tra l’intensità di tale pratica e il
miglioramento delle performance relative. È qui che arrivano le sorprese. Uno studio
realizzato da psicologi della Stanford University nel 2009, basato su test di switch attenzionale, capacità esecutive e attenzione focalizzata, ha paragonato i risultati
di studenti (di livello universitario) che dichiarano di ricorrere più spesso al multitasking
e di utilizzare un più grande numero di tecnologie contemporaneamente con quelli di
studenti che dichiarano di fare un uso ridotto di queste pratiche (Ophir et al. 2009). I primi si sono dimostrati meno performanti dei secondi: la pratica, almeno
nel caso del multitasking, non rende più capaci di passare da un compito all’altro.
Inoltre, l’opinione che abbiamo delle nostre capacità di multitasking, e più in generale
delle nostre capacità cognitive, non corrisponde necessariamente alla realtà. Uno
studio ulteriore ha infatti messo in evidenza che esistono discrepanze importanti
tra la misura obiettiva delle capacità cognitive d’attenzione, controllo, flessibilità
e la percezione soggettiva che chi lo pratica ha di sé in quanto «multitasker», da
una parte, e la quantità di multitasking praticato, dall’altra (Sanbonmatsu et al. 2013). Questo può indurre a sovrastimare la propria capacità di svolgere più compiti
simultaneamente e quindi a praticare il multitasking senza rendersi conto del peggioramento
delle proprie performance.
Sembra poi esistere un’associazione positiva tra pratica del multitasking e impulsività
e un’associazione negativa tra multitasking e misure cognitive come quella della memoria
a breve termine (Cain et al. 2016). Non è detto però che la pratica del multitasking sia all’origine del degrado
delle performance cognitive. È possibile, ad esempio, che certe caratteristiche cognitive
predispongano al multitasking (le associazioni in questione sono, infatti, presenti
già all’adolescenza). È possibile, ad esempio, che il fatto di avere migliori capacità
di controllo conduca a focalizzare di più e più facilmente l’attenzione su un compito
alla volta, a resistere alle distrazioni e quindi a non cedere alla tentazione di
usare più tecnologie simultaneamente. In ogni caso, è importante evitare di confondere
fare, pensare di saper fare e saper fare.
4.2. Videogiochi e attenzione
La questione se sia possibile modificare capacità fondamentali come l’attenzione attraverso
degli addestramenti specifici, di breve durata, ripetuti nel tempo (delle forme di
«training»), è oggetto di dibattito e non di consenso. Sappiamo, ad esempio, che certi
allenamenti al computer permettono di ridurre il costo cognitivo di alcuni compiti
che richiedono attenzione, quindi di migliorare le prestazioni. Ma i miglioramenti
osservati si limitano, nella maggior parte dei casi, ai compiti su cui ci si è allenati,
e non si traducono in benefici per la vita di tutti i giorni (Cardoso-Leite et al. 2015). Forse perché gli allenamenti in questione sono «astratti», privi di agganci
con la vita quotidiana, e poco motivanti?
Alcuni psicologi cognitivi hanno studiato pratiche più «ecologiche» e stimolanti,
come quella dei videogiochi (Bavelier et al. 2012; Green e Bavelier 2012). La maggior parte dei risultati disponibili mostra in
effetti che esiste una relazione positiva tra la pratica intensa di certi videogiochi
e alcune capacità attenzionali. È possibile che i videogiochi influenzino lo sviluppo
di queste capacità? Sembrerebbe di sì, almeno per quel che riguarda gli aspetti dell’attenzione
più fortemente legati alla percezione (come la capacità di prestare attenzione a quello
che accade alla periferia del campo visivo o di seguire diversi target visivi simultaneamente)
(Cardoso-Leite e Bavelier 2014). Ci sono tuttavia diversi «ma».
Innanzitutto, i costi legati al multitasking non scompaiono dopo l’addestramento con
i videogiochi, ma sono solo ridotti rispetto a chi non ha giocato (Donohue et al. 2012). In secondo luogo, almeno per il momento sono stati ottenuti risultati positivi
solo con una categoria specifica di giochi, i first person shooter, cioè i più attivi ed emotivamente intensi a causa della carica di violenza che contengono
(Green e Bavelier 2015). Terzo, non è stato ancora possibile stabilire se le capacità
mostrate in laboratorio sono realmente trasferibili e trasferite in condizioni di
vita quotidiana (Bavelier et al. 2010). I test d’attenzione cui vengono sottoposti in laboratorio i partecipanti agli
esperimenti somigliano molto, infatti, alle situazioni di gioco e si svolgono come
dei videogiochi su uno schermo di computer. Mancano dunque vere prove di transfert
verso compiti più ordinari e «naturali». Per finire, non tutti i risultati positivi,
in particolare quelli riguardanti la misura delle capacità di task switch, hanno potuto essere replicati in esperimenti condotti da altri laboratori, condizione
necessaria per escludere l’«effetto laboratorio», ossia la tendenza, in seno a un’équipe
di ricerca, a riprodurre un medesimo risultato per ragioni legate al modo in cui l’esperimento
è stato realizzato (Boot et al. 2008). Né esistono per il momento studi sui bambini capaci di misurare l’impatto
della pratica dei videogiochi sulle capacità d’attenzione.
Molto rimane dunque da investigare in un campo che suscita allo stesso tempo speranze
e preoccupazioni. Nell’attesa, converrebbe evitare di cercare di tirare la coperta
della scienza da una parte e dall’altra di un dibattito spesso troppo orientato su
posizioni estreme e basato su affermazioni troppo generali o su semplici ipotesi.
5. Quanto incidono le tecnologie digitali sulla nostra capacità di lettura?
Nel 2008 il giornalista Nicholas Carr pubblicava un articolo in cui descriveva con
orrore il drammatico declino delle proprie capacità di lettura e accusava Google,
Internet e le tecnologie digitali di stare rendendo tutti più stupidi. La lettura
in modalità web sarebbe colpevole, secondo Carr, di modificare in maniera profonda
i circuiti del nostro cervello in modo tale da rendere difficile o addirittura impossibile
leggere da cima a fondo un testo lungo e complesso. Il web costituirebbe un addio
a Proust, e a tutta la letteratura che supera i pochi caratteri di un tweet o le poche linee di una pagina web. I bambini e i ragazzi non sarebbero più capaci
di leggere testi complessi perché abituati esclusivamente alla brevità e semplicità.
In risposta alla polemica sollevata dall’articolo Is Google making us stupid? due psicologi cognitivi, Christopher Chabris e Daniel Simons, ci ricordano che il
cervello è molto meno plastico di quanto spesso pensiamo:
Il piano di base del «cablaggio» del cervello è determinato da programmi genetici
e interazioni biochimiche che svolgono il loro lavoro in gran parte prima che il bambino
scopra Facebook e Twitter. Semplicemente non esistono prove sperimentali che dimostrino
che vivere con le nuove tecnologie induce cambiamenti fondamentali nell’organizzazione
cerebrale, in modo tale da influenzare la capacità di focalizzare l’attenzione. Certo,
il cervello cambia ogni volta che formiamo nuove memorie o impariamo a fare qualcosa.
Tuttavia, i nuovi apprendimenti vengono costruiti a partire dalle capacità esistenti,
senza che queste ne vengano fondamentalmente alterate. Non perderemo la capacità di
prestare attenzione più di quanto non perderemo quella di udire, vedere o parlare
(Chabris e Simons 2010).
Chabris e Simons sottolineano in questo modo che affermazioni estreme come quella
che staremmo perdendo la capacità di fare attenzione o di leggere contraddicono le
leggi generali del funzionamento del nostro cervello. Tuttavia i due psicologi evidenziano
pure che il cervello cambia ogni qual volta un nuovo apprendimento viene memorizzato
e una nuova capacità acquisita. Lo
...