Premessa
L’occasione di fare una sintetica, ma piena riflessione sulla storia della storiografia
italiana mi fu offerta dall’Istituto della Enciclopedia Italiana (vulgo: la Treccani), incaricandomi della direzione di un volume dedicato, per l’appunto,
alla storiografia nella VIII Appendice di quella Enciclopedia Italiana che non è lontana dal compiere, ormai, un secolo di vita e che rimane, da ogni punto
di vista, un monumento insigne della cultura italiana della prima metà del XX secolo.
Questa Appendice aveva come proprio tema Il contributo italiano alla storia del pensiero. La storiografia non poteva mancarvi. In un secondo momento fu deciso dall’Istituto
di affiancare ad essa la politica, e non se ne poté fare a meno, come sarebbe stato
preferibile. Ai fini della trattazione storiografica ve ne fu, comunque, qualche giovamento.
Nella tradizione culturale e civile dell’Italia fin dagli inizi il rapporto tra pensiero
storico e riflessione politica è stato costante e spesso addirittura organico. Alcuni
dei maggiori storici italiani dall’Umanesimo a oggi sono stati anche pensatori politici
di rilievo. Le vicende del paese hanno sempre sollecitato un interesse non limitato
alla dimensione strettamente storiografica, e ciò anche quando non si trattava di
sola storia politica e sociale: basti pensare al capolavoro di Francesco De Sanctis,
che attraverso la letteratura ha fissato uno dei ritratti storici più memorabili dell’Italia
e degli italiani.
Nel piano di quel volume dell’Appendice mi riservai, in accordo coi colleghi responsabili dell’opera, l’ampio saggio introduttivo
destinato a delineare un profilo complessivo della vicenda storiografica italiana.
Per ciascun periodo di tale vicenda vi sarebbe poi stato un altro saggio introduttivo
alla serie delle voci biografiche previste per lo stesso periodo (io stesso provvidi
al saggio relativo al Medioevo, dal VI al XIV secolo). In tal modo, dunque, mi ritrovai
a poter soddisfare un’idea che mi portavo dentro da tempo, e che nel corso dei miei
studi mi era apparsa sempre più opportuna.
Opportuna perché, malgrado i tanti progressi e le tanto mutate condizioni soggettive
e oggettive del lavoro degli storici italiani, non mi sembra ancora davvero e del
tutto superata nel quadro internazionale la condizione per cui Benedetto Croce si
indusse a scrivere una storia della storiografia italiana nel secolo XIX, avendone
constatato la completa carenza nella storia della storiografia moderna di Eduard Fueter.
E opportuna anche perché di uno strumento, sia pur sintetico e agile, di valutazione
dell’esperienza storiografica italiana non mi pare che si disponga da ormai parecchio
tempo; e non mi sembra che in alcun modo e per molte ragioni ciò giovi al lavoro degli
storici italiani, e, in un ben più vasto campo, al di fuori di quello disciplinare
e professionale degli storici; né mi sembra che ciò serva a una coscienza più soddisfacente
dell’identità e della specificità italiane.
Quante ambizioni! Se lo si dirà, sarà giusto. L’autore di queste pagine non vuole,
però, servire – gli si creda – a nessuna ambizione, e tanto meno alle proprie. Ha
solo inteso stimolare alla possibile, maggiore e più approfondita, considerazione
di un problema di cui nessuno può negare il rilievo, né la non piena consapevolezza
che se ne ritrova in giro, offrendo, nello stesso tempo, un qualche punto di partenza,
checché se ne pensi, di quella riconsiderazione.
Nel propormi il lavoro di sintesi per la suddetta Appendice, mi fu di conforto il fatto che della storia di cui mi dovevo occupare avevo già
percorso moltissimi tratti, fermandomi nel corso del tempo su molti aspetti, figure,
stagioni, problemi della storiografia italiana, ritornandovi sopra più volte, partecipando
a moltissimi, specifici dibattiti, polemiche, iniziative didattiche ed editoriali,
e pubblicando volumi e saggi in cui si è espresso il mio assiduo interesse e studio
della materia.
Potei, perciò, stendere quel profilo avvalendomi dei frutti di un’assidua, ininterrotta,
pluridecennale attività di ricerca, di approfondimento, di valutazione o critica mia
ad altri e di altri a me, di riflessione anche teorica sui problemi di teoria e metodologia
della storia. Il che – sia detto per inciso – non poteva essere e non fu una facilitazione,
e lo si poteva anche prevedere. E ciò non solo per la grande ricchezza della tradizione
storiografica, sulla quale continuavo a lavorare, ma anche, molto di più – e, in realtà,
essenzialmente –, perché, nella storiografia non meno che in ogni altro aspetto o
settore delle vicende italiane, non è affatto semplice ritrovare un punto di vista
intrinseco dominante, che sfugga a ideologismi, pregiudizi, tradizionalismi, parzialità
e simili o altre deteriori influenze.
A sfuggirvi e a individuare e svolgere quel punto di vista ha mirato il profilo che
ora si presenta qui. Il quale profilo, alla fine, dopo qualche riflessione al riguardo,
io non ritenni, invero, elegante – in un’opera di cui avevo la direzione, ma che restava
pur sempre un’opera collettanea – portare fino agli inizi del XXI secolo, comprendendovi,
quindi, anche il periodo, dalla metà del XX secolo in poi, in cui io stesso ho avuto
nella storiografia italiana una qualche parte. In nessun caso se ne sarebbe avuto
un danno per l’opera, nel cui piano per il periodo dal 1945 in poi era già stato previsto
uno di quei saggi introduttivi alle varie sezioni di cui ho fatto cenno, affidato
ad altro studioso. Ora, però, pubblicando a sé il saggio introduttivo sotto il mio
solo nome, e con la relativa ed esclusiva responsabilità, ho potuto pensare anche
a un suo completamento per il lungo ‘dopoguerra storiografico’ che un po’ ovunque
si aprì con la fine della guerra, e, non costretto dai limiti di spazio del volume
dell’Appendice che avevo diretto, ho potuto largheggiare nell’ampiezza della trattazione: sempre
sintetica, beninteso, ma su una diversa e più conveniente scala.
Perché abbia portato il dopoguerra fino al 1985-1990 e perché mi è parso opportuno
fermarmi qui, spero emerga dalla trattazione, anche a prescindere dal fatto che la
«cesura» degli anni Novanta o metà anni Ottanta appare, fra l’altro, come un dato
di fatto scontato nelle rassegne storiografiche che si sono via via susseguite in
varie sedi.
Aggiungo che profili specifici, individuali di singoli storici ne ho fatti solo per
coloro che ci hanno lasciato (e tanto spesso con personale, grande sofferenza di chi
ha visto chiudersi il tempo di amici fra i suoi più cari e di personalità fra le sue
più stimate, e da alcune delle quali sa e sente di aver tanto imparato). Per tutti
gli altri mi sono limitato a elenchi, fatalmente sempre insufficienti, delle personalità
presenti sul campo; e perciò chiedo fin da ora scusa per le omissioni in cui mi sarà
avvenuto di incorrere. Naturalmente, il limite del 1985-1990 vale in particolare per
tutti gli studiosi che solo da queste date in poi hanno avuto nella storiografia italiana
una più visibile presenza, e dei quali solo in alcune occasioni mi sarà capitato di
fare il nome.
Aggiungo ancora che, nel ripubblicare qui il capitolo Italia e storiografia, l’ho lasciato tal quale è stato pubblicato nel volume della Treccani, salvo che
per la correzione di qualche refuso o svista e salvo che per alcune notazioni che
ne erano state, in ultimo, da me tagliate per guadagnare qualcosa ai fini del rispetto
dello spazio concessomi.
Una tradizione di quindici secoli
Dalla storiografia classica alla moderna: novità e discontinuità
Nella generale crisi e involuzione in cui tramontò l’antica civiltà ellenistico-romana
del Mediterraneo la storiografia non soffrì meno di qualsiasi altro settore o elemento
di quella civiltà. E quindi subì anch’essa dispersioni o perdite di una gran parte
dei testi, anche di primaria importanza, in cui si era espressa la storiografia antica,
ma soprattutto mutamento di valori e di categorie del giudizio storico; profonde innovazioni
nel sistema cronologico, nella natura e nella valutazione delle fonti; sostituzioni
di nuovi ai vecchi elementi o parametri di riferimento logico e pratico; diversità
di mezzi e di fini del racconto storiografico; alterazione profonda del lessico e
dei connotati grammaticali del discorso; riduzione amplissima non solo della conoscenza
ma anche della tradizionale suggestione degli storici antichi.
L’Italia fu colpita, al pari di tutte le altre province del mondo romano, da questo
radicale e totale sconvolgimento delle condizioni civili di quell’imperium sine fine che era stato a lungo ritenuto l’impero di Roma. Uno sconvolgimento che non fu la
tempesta di un anno o di un breve giro di anni, poiché occupò un lungo arco di tempo.
Nel IV secolo, fra gli anni di Costantino e quelli di Teodosio, molto si era già
disperso dell’antico patrimonio culturale classico, ma il peggio doveva ancora venire;
e venne, infatti, con il dilagare delle invasioni germaniche nel V secolo e con il
drammatico acuirsi della crisi economica e sociale nel V e VI secolo – crisi che,
secondo un giudizio abbastanza convenuto, toccò il suo culmine nel VII secolo. Né,
toccato il culmine, si avviò una ripresa. Il cosiddetto rinascimento carolino, come
è stato definito da molti studiosi il periodo dominato dalla figura di Carlomagno,
è discutibile nella sua effettività e nella sua portata, ma – fosse stato anche il
più ampio che si possa pensare – non durò a lungo, e i secoli IX e X furono ancora
un’epoca di profondo travaglio, di letali traversie e di ulteriori impoverimenti del
patrimonio morale e culturale dell’Occidente già romano; furono, cioè, ancora ‘secoli
bui’, secondo l’espressione consueta che indicava nel Medioevo una lunga notte della
civiltà, prima che di quel Medioevo le revisioni e le rivalutazioni delineatesi fra
i secoli XVIII e XIX modificassero del tutto l’immagine e l’idea.
Ciò premesso, appare anche difficile parlare di «fondamenti classici della storiografia
moderna», tanto più in quanto sembra almeno altrettanto difficile una caratterizzazione del
pensiero storico classico in base a «formule sintetiche, troppo sbrigative e relativamente
facili», laddove la storia ha «per gli storici greci e romani metodo e senso diversi
secondo le varie epoche e i varii autori»; e, del resto, è comune l’osservazione che molti e diversi furono i tipi di storia
dell’antichità. Beninteso, sulla parte che il riferimento alla storiografia antica
ha avuto negli storici del Medioevo e dell’età moderna nessun dubbio è possibile,
e ancora meno è possibile dubitare del forte incremento di questa parte dall’Umanesimo
in poi. E per riferimento non intendiamo la semplice lettura e consultazione, che
nel corso del tempo variarono di estensione, di consistenza e di diffusione, bensì
soprattutto l’imitazione degli storici antichi e l’adozione delle categorie e delle
procedure ad essi proprie. Tuttavia, quel che storicamente è più notevole, anzi dirimente,
è che il percorso segnato dalla storiografia posteriore è un percorso nuovo, che va
progressivamente delineandosi nel contesto di una storia intellettuale e morale nuova
e molto diversa rispetto a quella antica.
Questa progressiva e profonda novità non può essere vista soltanto nella sostituzione
– per quanto indubbia, radicale e fondamentale – di una concezione lineare del tempo,
propria dello storicismo moderno, a una concezione ciclica del tempo, propria della
storiografia antica. E neppure nell’inserzione, in quella antica, di una tradizione storica e storiografica
diversa per il sopravvenire di una storiografia ecclesiastica alla Eusebio, o per
l’importanza acquisita dall’antiquaria fra le caratteristiche costitutive della prassi
storiografica moderna, o ancora per il trasferimento della nozione di immortalità
dalla natura all’uomo, o per altri elementi particolari – per quanto, ancora una volta,
presi ciascuno a sé, questi elementi abbiano un rilievo indiscutibile.
La novità medievale e moderna è, infatti, una novità di produzione medievale e moderna,
che non consente di parlare propriamente di fondamenti antichi del moderno. Da un
altro angolo visuale, si può dire che l’eredità del passato vive ma non si continua
nel presente, perché è in esso trascesa e trasfigurata, assorbita e superata dalle
spinte e dalle logiche del presente stesso. È questo il motivo della profonda, insuperabile
diversità o alterità fra classicità e classicismo. Può suonare peregrino che una filosofia
della storia a schema chiuso sul modello cristiano (Eden-caduta-redenzione) si ritrovi
– nella forma (idealistica) affermata da Georg Wilhelm Friedrich Hegel o nel suo rovesciamento
(materialistico) operato da Karl Marx – nell’Europa dei secoli XVIII-XX, quando, cioè,
la laicizzazione o secolarizzazione della cultura europea è così forte e generale.
Ma quel che si ritrova in questo caso è solo la forma esteriore di uno schema triadico,
in una profonda differenza di senso che toglie a quello schema la sua materiale –
per così dire – fisicità aritmetica e ne fa, sostanzialmente, un’altra cosa.
La ‘storiografia’ nell’Italia dei ‘secoli bui’
Anche di questa generale vicenda della storiografia dall’età antica alla moderna,
come di ogni altro aspetto della storia europea, l’Italia fu pienamente partecipe.
È, peraltro, davvero difficile parlare di una storiografia italiana per epoche anteriori all’effettivo delinearsi di una italianità nel cui manifestarsi
presenze e attività di storici, così come interessi e sviluppi storiografici nel senso
moderno proprio di ‘storia’ e ‘storiografia’, abbiano una parte costitutiva rilevante.
Per le epoche antecedenti, almeno fino al Mille, occorre piuttosto parlare di storiografia
in Italia. Una storiografia che, scritta – come era consuetudine nei ‘secoli bui’ – da ecclesiastici,
tratta soprattutto di chiese, di abbazie o monasteri; oppure, magari a opera sempre
di ecclesiastici per via della quasi completa corrispondenza fra stato clericale e
cultura, tratta anche di genti e di regni e delle loro vicende, ma su di esse, come
su ogni altra vicenda degli uomini e del mondo, vede sempre ugualmente distesa la
mano provvida o giustiziera del Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola.
Non basta ancora, tuttavia, questa caratterizzazione di ‘storiografia in Italia’ a
designare la reale condizione o, se si vuole, la qualità delle cose in materia storica
nell’Italia di quei secoli. Altri problemi si delineano già per quella che possiamo
considerare e definire ‘storiografia pontificia’: la si può comprendere senza riserve,
anche quando è opera di autori italiani, nell’ambito della storiografia italiana?
E che dire della storiografia non solo attinente alle genti straniere che scesero
e si insediarono definitivamente in Italia, ma anche, e largamente, comprensiva di
esperienze e vicende della popolazione locale, quando gli autori di questa storiografia
sono espressione della cultura e degli interessi di quegli invasori?
Problema, comunque, ancor più radicale per ciò che riguarda la storiografia dei ‘secoli
bui’ è – come abbiamo accennato – se essa possa essere qualificata, in senso proprio,
in maniera pertinente, come, appunto, storiografia. Il suo aspetto formale prevalente
è, come si sa, quello annalistico: la notazione cioè, anno per anno, degli avvenimenti
che si intendeva registrare e di cui si voleva dare o lasciare notizia. Non si tratta
di una novità medievale. Già la storiografia antica aveva largamente adottato questo
modulo compositivo; in particolare, lo aveva fatto proprio la cultura latina, alla
quale l’esperienza del mondo europeo occidentale fu più strettamente legata. Gli storici
più insigni della latinità vi si erano conformati in opere che lasciarono un segno
profondo nella memoria storica dei tempi successivi, a cominciare da Livio nei suoi
libri ab Urbe condita e da Tacito – generalmente ritenuto «uno dei maestri della moderna storiografia politica
dalla Controriforma fino agli inizi del secolo XIX» –, autore di un’opera anch’essa famosa e denominata, appunto, Annales. I lavori di storiografia più tematica, più concentrata su un argomento particolare
e specifico – come, per esempio, le opere di Sallustio sulla guerra di Giugurta e
sulla congiura di Catilina –, erano non solo più brevi, ma anche non alieni essi stessi
dal seguire poi, al loro interno, lo schema annalistico.
Un altro genere storiografico antico, la biografia, aveva avuto indubbiamente una
assai maggiore libertà compositiva, e fu anche il genere che, in certo qual modo,
più si poteva legare ai nuovi tempi. La vita degli apostoli, dei martiri, dei santi,
dei padri della Chiesa e dei suoi uomini (papi, abati, vescovi, preti, monaci, eremiti,
predicatori, missionari ecc.) rappresentava infatti un modulo letterario molto idoneo
alla esemplificazione di una pedagogia eroica ed edificante delle comunità cristiane.
Si spiega, perciò, come il genere biografico abbia avuto nel mondo medievale una sua
particolare fortuna, ma per esso, più ancora che per altre opere storiche del tempo,
la pertinenza di una qualificazione come ‘storiografia’ è discutibile, o, almeno,
dev’essere definita e delimitata.
In questa storiografia, comunque, gli avvenimenti erano meno importanti del loro senso
generale. E anche sul rapporto fra avvenimenti e senso si deve fare qualche osservazione.
Gli avvenimenti erano la cronaca alla quale quotidianamente si assisteva di persona
o di cui si aveva in vario modo notizia. Erano la storia che direttamente si viveva
o si subiva, e in cui ci si esaltava o si soffriva. Il senso generale degli avvenimenti,
invece, era reso chiaro a priori e fino in fondo dalla presenza e dai decreti della Provvidenza, secondo il dettato
della rivelazione. Nella sua pratica manifestazione la conversione degli annales in cronaca – il passaggio dalle notazioni annalistiche tradizionali alla scarna ma pittoresca
e viva, disordinata ma puntuale, notazione dei cronisti dei secoli più bui – è anche
un effetto della sfasatura incolmabile tra la singolarità degli eventi e il senso
generale di tutto il corso degli eventi stessi; una sfasatura per cui può perpetuamente
accadere che si debba constatare, interdetti o ammirati, atterriti o esultanti, che
haec mutatio dexterae Excelsi.
V-XII secolo: i grandi eventi fra cronaca e storia
Nella storiografia dei ‘secoli bui’ non sono, però, soltanto la sua tipologia né soltanto
la sua qualità storiografica a dover essere messe in evidenza. Vi si aggiunge un elemento
di non minore rilievo se si considera il suo rapporto, in generale, con la portata
degli sviluppi storici dei suoi tempi. Tempi che nell’Europa occidentale furono, innanzitutto,
quelli della formazione di nuovi nuclei e centri storici protagonisti della successiva
storia europea fino a tutta l’età moderna; dei popoli che formeranno poi le nazioni
dell’Europa moderna; degli Stati che attraverso innumeri variazioni e integrazioni
o riduzioni andranno a costituire il plurisecolare quadro geopolitico di base delle
vicende europee. La grandiosità di questo processo storico, durato all’incirca dal
V-VI secolo fino all’XI-XII, è pari alla sua decisiva e radicale importanza storica,
ma non è affatto eccessivo affermare che essa non trova nella storiografia del tempo
una corrispondenza adeguata al suo rilievo.
Gli scrittori di cronache e di storie, infatti, sono per un verso strettamente legati
alle vicende delle singole entità o dei nuclei o centri storici in cui si ritrovano
a muoversi (una gente, una corte, un monastero, un episcopio e così via); e, per un
altro verso, condizionati dalla filosofia cristiana della storia, che è per tutti
la bussola esclusiva per inquadrare e giudicare i fatti, e dal metro dell’esercizio
della pietas cristiana quale criterio di valutazione della quotidianità. Gli elementi di fatto,
se così si potesse o volesse dire, della grande trasformazione e formazione storica
– che in seguito sarebbero apparse a molti come la ‘nascita’ o la ‘fondazione’ dell’Europa
– sono presenti, in un modo o nell’altro, nei testi che costituiscono il corpus della storiografia europea dei ‘secoli bui’. Manca, invece, se non per rari squarci
o in qualche particolare, il senso profondo della direzione e del significato della
nascita o fondazione dell’Europa.
Vi fu, cioè, se lo si vuol dire in altro modo, un dislivello generalmente assai forte
tra il piano della grande storia che oscuramente e faticosamente si viveva e il piano
della storiografia, tutta concentrata sulle forme e sulle apparenze cronachistiche
alle quali ci si interessava. E ben si può dire che l’ultima grande opera di pensiero
storico, e di riflessione storica, di ambito occidentale debba essere considerata
la Civitas Dei agostiniana, con la sua interpretazione dei motivi e del significato del dilagare
dei ‘barbari’ nell’impero di Roma e del crollo della stessa Roma in preda alla loro
violenza dissacratrice e devastatrice. Dopo di allora dovranno passare secoli perché
si abbia nuovamente un pensiero storico di simile altezza e venga compensato il dislivello
tra la forza e l’intensità dei processi storici in corso e la debole pulsione della
riflessione storica coeva.
Al di fuori del problema centrale e fondamentale dell’epoca sono invero anche le maggiori
idee storiche allora correnti. Una di esse, fra le principali, può essere forse considerata
la teoria provvidenzialistica della formazione dell’impero di Roma, anch’essa, peraltro,
di ascendenza tardoantica o patristica. Il provvidenzialismo sarebbe consistito qui
nell’aver voluto un vasto mondo unificato politicamente, e quindi privo di contrasti
e travagli interni, in grado di accogliere più facilmente e rapidamente la buona novella
cristiana. Questa idea non escludeva le altre sull’impero romano come ultimo e definitivo
nella teoria della successione degli imperi, familiare alla cultura ellenistico-orientale;
o sull’impero come civitas terrena, in drastica opposizione all’agostiniana Civitas Dei; o, ancora, sull’impero come premio alla virtù, saggezza e giustizia dei Romani.
Tuttavia, il connotato provvidenzialistico forniva una versione particolarmente concordante
con l’ispirazione generale della filosofia cristiana della storia, e non è un caso
che esso abbia tanto rilievo in Dante, ossia in una delle personalità più emblematiche
della cultura medievale.
A una migliore collocazione della storiografia nel panorama culturale del tempo può
anche giovare il confronto – se praticato con tutta la dovuta discrezione – con gli
svolgimenti coevi della filosofia, fino ai culmini davvero notevoli della scolastica,
e del pensiero giuridico, fino al cosiddetto risorgimento del diritto romano e alla
formazione dell’imponente corpus del diritto canonico e del non meno ragguardevole sistema del diritto comune. La
diversità di livello concettuale e critico della filosofia e del pensiero giuridico
rispetto al pensiero storico del tempo, che da un tale confronto indubbiamente emerge,
può in effetti aiutare a intendere il luogo certamente non primario, né privilegiato,
che la storia e la storicità occupano fra le idee regolative e i valori dell’epoca.
Benché la vicenda della caduta e della redenzione sia distesa nel tempo e abbia le
sembianze inconfondibili di un dramma dalla precisa cronologia di inizio e di conclusione,
il tempo ne è, paradossalmente, la dimensione meno importante e meno fondante. La
storia è, in ogni senso, il regno dell’effimero. È passata e passerà; ha avuto un
inizio e avrà una fine, e di tutto si conoscono già le cause e il senso.
È anche in questa disposizione mentale la radice della così larga diffusione del falso
storico in questi secoli. La ‘donazione di Costantino’ è solo il picco di un iceberg della falsificazione che in innumerevoli situazioni era pratica quotidiana per grandi
e piccoli interessi, e da parte di grandi e piccoli falsari. E ciò a tal punto che
la nascita della filologia moderna sarà largamente collegata alla dimostrazione della
falsità di documenti e narrazioni di ogni genere di cui è disseminato il campo delle
fonti medievali. In una storia senza un interno e autonomo statuto critico e ancorata
a un quadro di valori trascendenti, la pertinenza e l’autenticità documentaria diventano
aspetti di non primaria importanza, e la tradizione orale – comunque costituita e
riferita – assume un valore cui non può sostituirsi alcun elemento documentario, ma
a cui qualsiasi, anche meno probabile, elemento documentario può servire di conferma.
Nascita dei Comuni e storiografia comunale
Su queste basi la conformità tra storiografia italiana e storiografia europea fin
oltre il Mille è un dato evidente. I maggiori autori italiani di questo periodo –
da Paolo Diacono a Liutprando da Cremona – e le cronache coeve navigano anch’essi
nelle acque di quella storiografia per la quale la storia dei Franchi poteva essere
senz’altro definita Gesta Dei per Francos, e per la quale – come abbiamo notato – gli avvenimenti erano meno importanti del
loro senso generale.
Nel complessivo quadro europeo dei ‘secoli bui’, l’Italia era peraltro un paese dalla
singolare struttura geopolitica, sospesa com’era fra l’Oriente (al quale apparteneva
la sua parte meridionale) e l’Occidente (al quale apparteneva la sua parte centro-settentrionale).
Proprio per questa sua bipartizione la penisola poté avere un ruolo anche nei rapporti
culturali fra Est e Ovest. Al suo centro, poi, si trovava un potere politico-religioso
di originalissima costituzione e fisionomia, qual era il papato, in costante rafforzamento.
L’Italia fu inoltre la culla dell’ordine benedettino – una delle massime espressioni
nonché fondamentale veicolo della civiltà medievale –, di cui ospitò non solo la sede
madre, ma innumerevoli altri insediamenti di grande prestigio e di forte tradizione.
In questo paese non si ritrovavano sovrani della sacralità e del radicamento di quelli
dei Franchi o di altre genti. Il suo legame con l’impero di Carlomagno e dei suoi
successori era stato originario e organico, ma, con le travagliate vicende delle successioni
carolingie e col passaggio finale del titolo imperiale ai sovrani di Germania, si
tradusse ben presto nell’idea di un potere transalpino straniero. Vi si sviluppò,
invece, un particolarismo politico-istituzionale assai più spinto che negli altri
paesi europei, destinato a restare la nota più caratteristica della sua storia per
molti secoli. Peraltro, proprio da questo particolarismo l’Italia – attraverso un
lungo e oscuro travaglio – avrebbe visto emergere tra XI e XII secolo, con il Comune,
una delle sue massime e più originali creazioni in fatto di civiltà politica.
Nei limiti sopra indicati la storiografia italiana dei ‘secoli bui’ espresse appieno,
come era naturale, la complessità strutturale del mondo italiano, che tanto la distingueva
nel contesto europeo. È bene, anzi, notare fin dal principio che alla singolarità
italiana vanno senz’altro riportate molte di quelle che poi saranno giudicate ‘anomalie’
di un ‘caso italiano’ ritenuto poco conforme, da molti e diversi punti di vista, ai
modelli europei. Di tali ‘anomalie’, giudicate negativamente, si farà nel corso del
tempo la materia amplissima di ricorrenti e insistenti critiche e autocritiche, assai
spesso molto severe, dell’italianità e degli italiani. È chiaro invece che in esse
si manifesta (e come tale va inteso) il modo italiano di vivere la sempre piena e
mai negabile compartecipazione della penisola alla storia europea.
Nella grande, straordinaria fioritura della vita italiana dopo il Mille, fra l’XI
e il XV secolo, lo si vede più che evidentemente. La storiografia comunale italiana,
alla quale si affiancò ben presto quella relativa al Mezzogiorno monarchico – anche
se negli studi non appare sufficientemente chiaro e riconosciuto –, è una delle pagine maggiori della coeva storiografia europea, per forza, densità,
novità e varietà di espressione del mondo nuovo che la generava: un mondo che nella
generale vicenda della civiltà europea diede luogo a innovazioni definitive e condizionanti,
dall’ambito della banca e della finanza a quello delle scienze e del loro metodo,
da quello della vita di società e delle buone maniere a quello dei rapporti tra cultura
e potere, da quello delle lettere e delle arti a quello della filologia e della critica.
Cominciò, così, anche una secolarizzazione o laicizzazione del pensiero e del metodo
storico destinata, malgrado ogni contraria apparenza e vari episodi e momenti di opposto
segno, a non arrestarsi più e a completarsi nella storiografia dall’Illuminismo in
poi.
Nello stesso periodo divenne specifico e consistente il contributo italiano allo sviluppo
del pensiero politico europeo. È discutibile fino a qual punto rientri in tale specificità
l’elaborazione del pensiero ierocratico che da papa Gregorio VII a papa Bonifacio
VIII portò alle ultime conseguenze la tesi della preminenza del potere ecclesiastico
su quello civile. Il fatto che questo pensiero sia stato elaborato in Italia, e a
opera di una curia in cui la parte degli italiani fu sempre forte, non toglie che
la Chiesa romana e la sua curia sono il soggetto di una storia che non è per nulla
soltanto o soprattutto italiana. Nel pensiero politico da considerare più propriamente
italiano la tendenza ierocratica non è, però, affatto assente, e si manifesta in varie
forme e con vari episodi, fino a suoi sostenitori come Egidio Colonna (o Egidio Romano)
e Agostino Trionfo durante i secoli XIII e XIV. Resta, comunque, che un’espressione
di pensiero politico davvero qualificabile come italiana si può ritrovare nei giuristi
che resero gli Studi italiani, a cominciare da quello di Bologna, il faro del rinnovamento
del diritto nella nuova Europa. E ciò vale sia per i fautori delle tesi papaliste,
sia per l’opposta tendenza ghibellina, nella quale si ritrovano pure – ovviamente,
nei termini lessicali e concettuali consentiti dal pensiero di quel tempo – le dottrine
che preludono, attraverso la difesa del potere e della giurisdizione imperiale, alla
formazione delle teorie moderne dello Stato.
Lo sviluppo del pensiero storico: la «De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio»
Ciò premesso, non sorprende che, se il pieno sviluppo del pensiero storico italiano
dopo il Mille si colloca nell’epoca della massima fioritura comunale, con gli scritti
dedicati ai Comuni e alle monarchie meridionali, i semi sparsi nell’esperienza storiografica
italiana fra l’XI e il XIV secolo siano sbocciati e abbiano dato tutti i loro frutti
nel periodo successivo, portando al rapido conseguimento di un primato, culturale
e civile, destinato a durare per più di due secoli e di cui la storiografia fu un
campo di esplicazione fra i più notevoli.
Per gli storici neppure il ritorno al latino ebbe, sul piano sostanziale, grandi effetti
rispetto alla nuova cultura e allo spirito del tempo. Non che questo dato di fatto
linguistico fosse senza importanza. La ricerca dell’eleganza e della correttezza o
proprietà linguistica non era, però, fine a se stessa. Era anche l’affermazione di
un’esigenza superiore di ordine concettuale e di spirito critico. Il migliore latino
richiedeva una filologia nuova e un rigore stilistico e grammaticale che portavano
all’implicita promozione di una sensibilità più attenta alle forme e ai volti propri
del passato. Il latino rimase poi – come si sa – ancora per molto tempo la lingua
della comunicazione internazionale, dell’erudizione, di alcuni particolari usi civili
(per esempio nella diplomazia), degli ambienti religiosi. Quando alle esigenze cui
esso aveva corrisposto con il ritorno umanistico al latino classico si sentì di poter
rispondere appieno con l’uso dell’italiano (così come avvenne negli altri paesi europei
con le rispettive lingue nazionali), si fece un grande passo in avanti non solo nell’ambito
della vita culturale, ma anche nella storia dell’identità e della vita nazionale.
Documento-simbolo del nuovo avvio storiografico può – e deve – essere considerata
la De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio, composta da Lorenzo Valla nel 1440 e pubblicata a stampa per la prima volta nel
1517. Il suo valore non è per nulla sminuito dalle anticipazioni che ve ne possono
essere state. Né questa né altre critiche riducono, infatti, il valore della diretta
polemica con la curia romana su un documento considerato ufficiale e avvalorato da
una lunga tradizione storica, o il vigore di un attacco che non si rivolgeva a una
semplice memoria o trasmissione cronachistica, o la perizia dell’analisi linguistica,
che fu il principale strumento critico usato da Valla per confutare l’autenticità
del testo, o il particolare impegno di una critica svolta non in via marginale o addirittura
incidentale nel quadro di altri interessi, bensì in una monografia ad hoc, che già solo per questo assumeva il significato di un attacco frontale a un elemento
centrale del pensiero storico-politico-giuridico della Chiesa di Roma.
Semmai, è da ritenere assai probabile che nell’idea e nella stesura della Declamatio Valla sia stato ispirato e guidato da fermenti e tendenze largamente presenti nella
cultura del tempo. E non è un caso, quindi, che la Declamatio possa apparire come una istituzionalizzazione, per così dire, delle principali caratteristiche
della nascente storiografia moderna. Tale è la secolarizzazione della storia, che
libera la considerazione storica da ogni elemento di finalità, presupposto o argomentazione
ecclesiastico-religiosa. Tale è la critica dei fatti condotta non solo con criteri
di verisimiglianza o di probabile credibilità di ciò che si afferma, né solo ricorrendo
a un incrocio o comparazione fra quanti più dati possibile, ma anche e soprattutto
con un procedimento di esegesi delle fonti, di cui in età umanistica filologia e linguistica
erano la naturale e maggiore risorsa.
Tra Quattrocento e Cinquecento: storici italiani, storia europea
Il recuperato classicismo porta inoltre a separare e distinguere in maniera chiara
antichità classica e mondo medievale, al quale si applicano prontamente gli stessi
criteri di studio adottati per l’antichità. Né passa molto tempo perché antiquaria,
in senso lato, e archeologia vengano a integrare questi criteri. Con l’invenzione
della stampa nasce poi la prassi delle edizioni critiche, che sollecitano fortemente
la filologia testuale e, con essa, la critica delle fonti. L’insorgere della Riforma
protestante spinge ulteriormente, in funzione di polemica confessionale, allo studio
filologico e critico delle fonti, specie nel campo biblico e patristico; e, ovviamente,
alla lunga le esigenze polemiche finiscono con l’attenuarsi o, addirittura, con lo
svanire, laddove i progressi nelle tecniche di studio restano e si emancipano dalle
loro originarie radici ideologico-confessionali. Infine, con la scoperta del Nuovo
Mondo si vanno gradualmente affermando nuove spinte agli studi storico-etnografici
e alle connesse comparazioni. Comparazioni sollecitate anche dall’instaurazione di
rapporti commerciali diretti con l’India e l’Estremo Oriente e, dopo la caduta di
Costantinopoli, dalla trionfale affermazione della potenza ottomana.
Di tutti questi avanzamenti l’Italia è in Europa, per tutto il periodo umanistico
e rinascimentale, prima anticipatrice e poi massima protagonista. Un primato pienamente
riconosciuto, del resto, dai contemporanei. Un primato consacrato anche dalla frequenza
con cui autori italiani cominciano a scrivere, su commissione dei rispettivi sovrani,
storie dei vari paesi europei ispirate e condotte con i nuovi criteri umanistici.
Così a Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II, l’imperatore Federico III chiese
di scrivere un Bellum austriacum, poi malamente titolato Historia austriaca o Historia Friderici III, ossia una storia del contrasto fra la corona asburgica e gli Stati austriaci, che
il Piccolomini scrisse in una prima redazione fino al 1452 e in una seconda redazione
fino al 1458, e che fu messa a stampa oltre due secoli dopo (alla Historia si collegava, e nella parte finale coincideva, una Historia bohemica che giungeva fino al 1458 e che era stata pubblicata già nel 1475).
Così l’urbinate Polidoro Virgilio ebbe a Londra, da Enrico VII, l’incarico di scrivere
una storia dell’Inghilterra, gli Anglicae historiae libri XXVII, di cui i primi ventisei, che arrivano fino al 1509, furono pubblicati a Basilea
nel 1534, mentre l’ultimo, che giunge al 1538 – quando il re era ormai da tempo Enrico
VIII –, fu pubblicato, sempre a Basilea, alquanto dopo, nel 1555.
Così il veronese Paolo Emili, al quale Luigi XII commissionò una storia di Francia:
intitolata De rebus gestis Francorum libri X, giunge fino al 1488 e fu pubblicata a Parigi fra il 1516 e il 1539 (ma Emili morì
nel 1529, anno in cui apparve il libro IX, lasciando incompiuto il X, dedicato ai
sovrani da Carlo VI a Carlo VIII, che fu completato da un altro veronese, Daniele
Zavarisi).
Così il meno valoroso siciliano Luca Marineo, detto Lucio Marineo Siculo, autore di
un De rebus Hispaniae memorabilibus che pubblicò in prima edizione ad Alcalá e in cui si dimostra disinvolto utilizzatore
sia di buone fonti sia di falsificazioni, con il fine precipuo di attribuire antiche
e illustri ascendenze romane alle grandi famiglie spagnole (ma non per questo un’autorità
come Leopold von Ranke si astenne dal definirlo «laudatore bene informato»).
Così in Polonia il fiorentino Filippo Buonaccorsi, noto come Callimachus Experiens,
autore di una Historia de rege Vladislao (ossia di Ladislao III Jagellone, re dal 1434 al 1444) edita ad Augusta nel 1519.
Così in Ungheria dove, in stretto rapporto con il re Ladislao II, il marchigiano Antonio
Bonfini (o anche Buonfini) scrisse le Rerum Ungaricarum decades, in 45 libri, che seguono il modello compositivo liviano e giungono fino al 1495;
furono pubblicate a Basilea, le prime tre nel 1543 e nel 1568 la quarta e metà della
quinta, con la quale, per le traversie di salute dell’autore, l’opera si arrestò,
ma che ne costituisce la parte di maggiore valore storico.
E così in Portogallo, dove nel 1461 il governo avrebbe voluto assumere come storico
del paese Biondo Flavio, ma non ci riuscì.
Sulla stessa linea, si può segnalare la tempestività dell’interesse storiografico
italiano per le nuove condizioni geopolitiche determinate dalle lotte di potenza del
XVI secolo. Da questo punto di vista sono meritevoli di menzione anche opere di non
grande respiro, come i Commentarii delle cose dei Turchi di Paolo Giovio, editi nel 1531 e poi nel 1537 in latino, col titolo De rebus gestis et vitis imperatorum Turcarum; o come la Persicarum rerum historia in XII libros descripta, dell’umbro Pietro Bizzarri, che operava lontano dall’Italia, ad Anversa. Pubblicata
nel 1578, alla fine, dopo l’errata corrige, essa riporta la frase «sono aggiunte le ultime notizie da Costantinopoli, quasi
fossero telegrammi arrivati dopo terminata la redazione»: un dettaglio che, da solo, rivela l’interesse per l’attualità di tutta questa storiografia.
A sua volta, Pietro Martire d’Anghiera (di Arona, sul Lago Maggiore) fu prolifico
autore di un Opus epistolarum, serie di lettere sugli eventi dal 1488 al 1525 edita nel 1530 ad Alcalá de Henares;
di una Legatio babylonica, resoconto di una sua ambasceria al Cairo nel 1501-1502, edito nel 1511; e di De orbe novo decades, che vanno dal primo viaggio di Cristoforo Colombo fino al 1525 (la prima pubblicata
con altre cose sue, ma senza la sua autorizzazione, a Siviglia nel 1511, la prima
con la seconda e la terza da lui stesso ad Alcalá nel 1516, e complete, dopo la sua
morte – avvenuta nel 1526 –, a Madrid nel 1530). Le aveva cominciate già nel 1493,
e per l’ultima parte ricevette un incarico ufficiale come «cronista per l’India».
Radici della nuova storiografia: Petrarca, Boccaccio, Salutati
Superfluo notare qui che il protagonismo e l’influenza europea degli storici italiani,
pienamente in atto nella seconda metà del XV secolo, sono il riflesso di un quadro
storiografico nazionale già in crescente arricchimento quantitativo e qualitativo
nella prima metà di quel secolo. Al centro di tale quadro ben si può porre, ancora
una volta, Firenze, i cui «cancellieri umanisti» (così li definiva Eugenio Garin)
furono in prima linea nello sviluppo della nuova storiografia, così come lo furono
nel conformare le scritture cancelleresche ai modelli della prosa classica.
Iniziatore di questa fase è indubbiamente Coluccio Salutati, e non solo per la sua
opera di cancelliere, ma anche per la parte che ebbe nell’affermare i valori umanistici.
Il suo trattato De tyranno (1400) ha un’importanza storico-politica che va assolutamente sottolineata. Pur riconoscendo
il rispettivo ruolo storico di Cesare, di Bruto e di Cassio, vi si afferma infatti
che Cesare non era propriamente un tiranno. Lo si raffigura, invece, come detentore
di un grande potere conseguito per vie legali. La sua uccisione non è quindi giustificabile
con l’accusa di violazione tirannica dell’ordine costituito e della legalità, che
è la motivazione fondamentale della liceità del tirannicidio. E qui non è difficile
leggere tra le righe la preoccupazione che l’ordinamento comunale fiorentino possa
essere sovvertito dall’interno con un’azione illegale e violenta da parte dei fautori
di un regime signorile. Il rischio di sopraffazioni liberticide all’interno appare,
così, non meno temibile delle minacce esterne, da parte di altri potentati, all’indipendenza
e all’integrità del dominio fiorentino. Allo stesso modo, la monarchia si configura
come la forma di governo preferibile, ma questa appare come una concessione essenzialmente
teorica per meglio affermare l’esigenza primaria della legittimità e della legalità
del potere, la trasmissione monarchica del quale sembra garantire contro i guasti
e le degenerazioni che chi lotta per acquisirlo provoca nell’ordinato svolgimento
della vita civile.
Non appare infondato, quindi, considerare Salutati come un decisivo anello di congiunzione
tra la fase di incubazione e di gestazione dell’Umanesimo e la piena esplicazione
del nuovo spirito e della nuova cultura nel secolo detto, appunto, dell’Umanesimo.
Quella incubazione e gestazione erano state già largamente espresse nell’attività
di Francesco Petrarca e di Giovanni Boccaccio, con i quali non a caso Eduard Fueter
apre la sua citata Geschichte der neueren Historiographie.
Vale anche la pena di notare qui che proprio con Petrarca Coluccio Salutati aveva
condiviso l’interesse per la figura di Cesare, così importante per la sua riflessione
politica. Il grande poeta ne aveva profondamente ripensato, nel suo De gestis Caesaris, l’opera e la personalità. Era così passato da una iniziale avversione (esemplata
sulla Pharsalia di Lucano) per il conculcatore della libertà repubblicana di Roma a una valutazione
diversa, fondata sulle espressioni di apprezzamento contenute nell’epistolario di
Cicerone e sugli stessi Commentarii cesariani, da lui attribuiti a un Giulio Celso. Salutati non solo aveva riconosciuto
per primo la paternità cesariana dei Commentarii, ma aveva anche raffigurato Cesare non come il primo imperatore romano, bensì come
il protagonista dell’ultima fase della storia repubblicana di Roma.
Inoltre, nel parlarne aveva decisamente spostato l’accento dalla dimensione del vir illustris capace di grandi e mirabili imprese a quella dello statista e dell’uomo di governo,
e su questo piano, per l’appunto, aveva escluso che potesse essere qualificato come
tiranno. L’indugio su questo punto è dunque giustificato a esemplificazione e riprova
di quanto la piena maturazione dell’Umanesimo proceda attraverso una graduale accumulazione
e sedimentazione di sviluppi culturali e civili, e non per salti o discontinuità più
o meno repentini. È per questo che per quanto riguarda la storiografia in particolare,
nonostante ogni apparenza contraria, in Petrarca e in Boccaccio (e nel primo ancor
più che nel secondo) gli esiti umanistici sono soltanto presentiti e preannunciati.
Basti pensare, per esempio, all’uso delle fonti in Petrarca, nel quale egli fece molti
progressi, ma senza dimostrare «alcuna disposizione critica». Purché «una fonte fosse
antica» egli la utilizzava senza esaminarne l’attendibilità, a meno che non si presentassero
inverosimiglianze grossolane, e senza distinguere «fra autori più antichi e posteriori» o studiarne la tendenza. Sorprende perciò che Fueter, che ne evidenziava questi tratti,
lo abbia poi considerato un pioniere della storiografia moderna.
Il confronto con gli storici umanisti di pochi decenni dopo mostra infatti chiaramente
quanto fosse ancora lungo il cammino da fare per parlare di storiografia moderna,
senza tuttavia nulla togliere al rilievo storico della figura di Petrarca e alla funzione
da lui esercitata anche sul piano storiografico. È vero, invece, che dopo Petrarca
– e già lo si vede bene con Salutati – la storia romana, e più in generale la storia
antica, entra nel circolo della considerazione storico-politica della prima età moderna;
viene spogliata dei suoi tratti medievali provvidenzialistici ed emancipata dalla
dottrina o filosofia della storia fondata sulla successione degli imperi o da altre
dottrine storiche pregiudiziali e condizionanti; comincia ad essere analizzata e ricostruita
come una grande fase storica della civiltà di cui l’Europa moderna si sente continuatrice,
oltre che erede; è assunta quale paradigma imprescindibile di logiche storiche di
valore imperituro e di perenne ammaestramento.
La storiografia umanistica
Nella già accennata centralità fiorentina, allo sbocciare del nuovo tempo umanistico
i nomi che subito risaltano sono quelli di Leonardo Bruni e di Poggio Bracciolini,
le cui storie di Firenze vanno, rispettivamente, dalle origini al 1404 e dal 1352
al 1455. Sulla scia di Jacob Burckhardt, la critica non è stata, in generale, molto
indulgente né con l’uno né con l’altro, e gli accenni di una revisione di questa severità
– che pure non sono mancati – non sembrano aver portato a un effettivo superamento
del relativo pregiudizio.
In realtà, non sono pochi in Bruni i motivi che ne mettono in risalto un non trascurabile
interesse storiografico: come l’esaltazione della libertas fiorentina, che si è formata nella lunga e travagliata vicenda della storia cittadina
e che è considerata la civiltà politica nella quale soltanto si può esplicare il maggiore
valore umanistico rappresentato dalla virtus individuale; o come il passaggio già chiaro dallo stato comunale cittadino allo stato
regionale, per cui si ricorda l’exemplum romano della trasformazione di una potenza locale in una potenza egemone in ben più ampi
spazi. Anche le capacità critiche di Bruni possono essere meglio valutate, e così
il suo ricorso a documenti cancellereschi e archivistici là dove poteva, mentre si
può più che dubitare che possano essere considerati una «storia contemporanea d’Italia»
i suoi Rerum suo tempore gestarum commentaria, che vanno dal 1378 al 1440 e nella cui prefazione si ritiene che sia stato in un
certo senso esposto «il programma ufficiale della storiografia umanistica».
Quanto a Bracciolini, la cui opera si crede che non regga il confronto con quella
di Bruni, ma che «in merito alla storiografia occupa una posizione particolare», e
ciò anche per la sua dottrina storiografica, sono certo almeno da apprezzare la sua diligenza nel narrare le guerre sostenute
da Firenze e la sua chiara esaltazione della Firenze medicea, e in specie della politica
del vecchio Cosimo.
La visione umanistica della natura e dei compiti della storiografia fu poi espressa
– compiutamente, si può dire – da Bartolomeo della Fonte (o Fonzio) nella lezione
che nel 1482 egli tenne nello Studio fiorentino come introduzione a un corso universitario
sulla Pharsalia di Lucano, considerata come testo storico, e sui Commentarii di Cesare. In questa Oratio in historiae laudationem l’autore delineava un abbozzo di prospettiva storica della storiografia – anche se, occorre specificare, certamente non una storia della storiografia – proponendo
un quadro significativo degli storici greci e romani. Ne veniva fuori, come punto
basilare, la centralità di Livio, giudicato al di sopra di tutti gli altri non solo
dal punto di vista letterario, ma anche per l’ampiezza da lui data al suo argomento.
Da Livio è ugualmente tratto il principio della storia come magistra vitae in quanto magistero morale, scuola di vita morale, educazione alla virtù umanisticamente
intesa.
In conclusione, si può pure ritenere non eccelso l’avvio fiorentino della storiografia
umanistica, mossa fortemente, oltre che dall’accennata concezione della storia come
magistra vitae, dalla definizione ciceroniana della storia come opus oratorium maxime, di cui risentì a lungo la prassi storiografica posteriore (invece il modello annalistico
di stampo liviano, seguito in specie da Bruni, non prolungò altrettanto la sua influenza).
Non per ciò, tuttavia, si può omettere di vedere in questo avvio il delinearsi della
strada maestra poi seguita dalla storiografia moderna; e dovrebbe bastare a comprovarlo
il confronto con la prassi storiografica dei due o tre secoli precedenti per quanto
riguarda l’organicità e la qualità del discorso storico e la concezione puramente
umana degli sviluppi storici di cui si tratta.
La storiografia umanistica di altre parti d’Italia lo conferma ampiamente con i suoi
molti nomi di rilievo, per esempio, a Napoli (Lorenzo Valla, Bartolomeo Facio, Giovanni
Pontano, Antonio Beccadelli) o in Lombardia (Giovanni Simonetta, Giovanni Crivelli,
Francesco Filelfo, Donato Bossi, Giorgio Merula, Bartolomeo Calco), o a Roma (con
le Vitae pontificum di Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, che scrisse anche una storia di Mantova),
a Siena (Agostino Dati e il figlio Niccolò), a Ferrara (Pietro Cirneo). A Venezia,
dove era anche proseguita la vecchia tradizione cronachistica (e basti menzionare
Marin Sanudo il Giovane, i cui Diari, che vanno dal 1496 al 1536, sono fra le fonti più rilevanti del tempo), l’approdo
della nuova storiografia ebbe in Marcantonio Coccio, detto Sabellico, un esponente
di rilievo, cui vanno aggiunti Pietro Paolo Vergerio, Andrea Morosini, Pietro Bembo.
Più isolato ma non trascurabile fu il caso di Genova, dove il cancelliere della Repubblica
Giacomo Bracelli fu anche uno dei primi umanisti liguri e scrisse un De bello quod inter Hispanos et Genuenses saeculo suo gestum libri V, sulla guerra fra Genova e l’Aragona conclusasi nel 1444, che fu spesso consultato.
Da citare sono anche gli autori di storie di argomento non cittadino, come la storia
della famiglia signorile dei da Carrara, di Vergerio; la storia della guerra tra Siena
e Firenze a metà del XV secolo, di Francesco Contarini; la storia della guerra fra
Venezia e Milano nel 1438-1441, di Giorgio Bevilacqua; la biografia di Ercole d’Este
scritta da Pier Candido Decembrio e quella di Bartolomeo Colleoni scritta da Antonio
Cornazzano.
Peraltro, nella comunanza di ispirazione e di modello di questa storiografia che si
sviluppa sul modello umanistico fiorentino, non si può fare a meno di scorgere anche
qualche profonda differenza. E ciò soprattutto per il fatto che ovunque, a differenza
di quanto si ebbe in Firenze, l’impulso del governo fu per la storiografia un elemento
determinante. Per Firenze si può parlare, invece, di una genesi prettamente culturale
della storiografia umanistica, nata nel quadro di una restaurazione dell’antichità
nel cui ambito certamente il genere letterario della storiografia non poteva mancare.
E questa genesi culturale si rivelò così essenziale e forte che la storiografia fiorentina
continuò a esserne ispirata, ancora per qualche tempo, anche dopo che il regime politico
della città si modificò nel senso del principato: altro elemento di quella singolarità
della storia comunale di Firenze che va sempre tenuta presente.
Infine, il tempo umanistico fu anche quello della rivelazione e della prima pratica
di un ‘uso pubblico’ della storia, che trovò rapidamente una sua istituzionalizzazione
con la nomina di storiografi ufficiali di monarchie e repubbliche oppure con la diffusa
committenza di determinate trattazioni storiche a letterati e studiosi più o meno
di grido. Era uno svolgimento significativo, già in piena esplicazione nel XV secolo,
che attestava l’avvento di una civiltà politica nuova in cui le ragioni della storia
appaiono sentite con una specificità inedita.
La ‘pubblica storiografia’ fu ovviamente e fortemente condizionata dalle esigenze
pratiche da cui nasceva, ma non per questo perde di importanza dal punto di vista
sia storico sia storiografico. Nella misura in cui le scritture segnate dall’etichetta
di ‘pubbliche’ o di ‘commesse’ rispondessero in tutto o solo in parte o per nulla
ai desideri e agli interessi dei committenti o dei poteri interessati (il che non
si può dire sempre, o per una certa autonomia dello scrittore o per sue eventuali
deficienze di qualsiasi genere), ci dicono sempre qualcosa, sul piano storico – e
spesso qualcosa di importante –, sui momenti e i problemi o processi storici di cui
trattano; e altrettanto si dica per il piano storiografico, sia quando seguono, sia
quando non seguono le convenzioni culturali e i procedimenti euristici e narrativi
del loro tempo.
Biondo Flavio e Leonardo Bruni
Se i temi dinastici o comunali e politico-istituzionali e le vicende belliche prevalgono
di gran lunga fra gli storici, è vero pure che interessi più larghi non mancano di
affacciarsi nella storiografia del tempo.
È soprattutto nell’allargamento antiquario ed erudito degli interessi storiografici
che se ne può scorgere il primo e maggiore riflesso. Protagonista fu, per questo verso,
Biondo Flavio. A parte le grandi visioni medievali (di cui il canto di Giustiniano
nel Paradiso dantesco è un mirabile documento), la storia dell’età antica aveva sempre attratto
soprattutto per le sue connessioni con gli orizzonti cittadini e comunali dominanti
in storici e cronisti. Con Biondo si andò oltre queste prospettive. All’antichità
egli si volse in una prospettiva antiquario-archeologica e di erudizione che fondò,
in effetti, tutta una serie di nuove discipline storiche, destinate a un grande futuro
nella tradizione europea. Così fu con il De Roma instaurata, manuale di topografia di Roma antica, terminato nel 1446 ed edito nel 1471; con
l’Italia illustrata, una sorta di dizionario storico-geografico dell’Italia centro-settentrionale, terminato
nel 1458 ed edito nel 1474; con il De Roma triumphante, manuale di antichità romane, terminato nel 1459 ed edito nel 1472, cui servì da
appendice un De militia et iurisprudentia, edito, però, solo quattro secoli dopo.
Una vera e propria storia del Medioevo furono le Historiarum ab inclinatione Romanorum imperii decades, in 32 libri, che vanno dal 412 al 1441, composte fra il 1440 e, forse, il 1452 e
pubblicate nel 1483. In effetti, agli ultimi quarant’anni di questo periodo sono dedicati
ben undici libri, mentre al precedente millennio sono dedicati gli altri ventuno:
il che fa pensare che l’autore sia partito, nel comporre l’opera, dagli anni più recenti
e che il disegno gli si sia poi allargato fra le mani, o, viceversa, che abbia proceduto
al contrario.
Il carattere fondativo di queste opere non è inficiato dalle notazioni, indubbiamente
giustificate dalla carenza di vera capacità storiografica e di riflessione storica
dell’autore, nonché di altri interessi che quelli eruditi, per cui le sue opere appaiono
molto di più come raccolte di fonti e di notizie che come vera e propria composizione
storica, quasi lavori soltanto preparatori per il vero lavoro dello storico. È vero,
inoltre, che la sua critica e il suo uso delle fonti sono piuttosto elementari e insufficientemente
temporalizzati. Agli occhi dei suoi contemporanei umanisti questi difetti si sommarono
alla qualità non eccelsa della sua prosa, e determinarono il concetto non elevato
che ne ebbero, e che è poi durato alquanto anche negli studi successivi su di lui.
In realtà, pur nella fondatezza di molti di tali rilievi, e senza poter in alcun modo
parlare di Biondo come di uno storico di un certo spessore, neppure gli si può negare
un certo senso della storia e di quel che egli ne scriveva. Così, per le Decades dalla caduta dell’impero romano in poi egli nota che dopo Orosio non vi sono più
stati autori che ne abbiano trattato. Di conseguenza, egli si accingeva consapevolmente
a riempire un vuoto storiografico, postulando un’esigenza fondata. Così, quando esalta
l’impero romano perché ha portato unità culturale e sicurezza al mondo europeo. Così,
quando manifesta la sua preferenza per i periodi di pace, in cui si può attendere
agli studi, rispetto ai periodi agitati da guerre mosse da ambizioni riprovevoli.
Così, quando nella sua trattazione della storia medievale non pone in posizione privilegiata
il ruolo del papato e lo sviluppo della sua potenza politica con la formazione dello
Stato della Chiesa. Così, quando, narrando di Alberico da Barbiano, nota che l’Italia
del suo tempo ha raggiunto un grado di prosperità e di civiltà di gran lunga maggiore
rispetto al periodo precedente.
Che però nelle Decades, pur rivolgendo la sua attenzione alla storia dell’intera area europea, Biondo abbia
finito con lo scrivere, in pratica, una storia d’Italia è difficile da sostenere.
Se un avvio di storia d’Italia si può ravvisare in questo periodo, parrebbe più pertinente
ritrovarlo nella storia fiorentina di Leonardo Bruni, che fissa nell’esposizione della
storia cittadina dell’età post-romana un canone al quale risalgono anche autori posteriori.
È inoltre lo stesso Bruni a notare che l’Italia del suo tempo, come l’antica Etruria,
è caratterizzata da una ricca fioritura di città-Stato; e a valutare negativamente
l’assorbimento imperiale di questo pluralismo da parte dell’imperialismo romano, secondo
una delle linee di lettura della storia dell’Italia antica e moderna che avrà poi
largo corso nella storiografia italiana. In Biondo, invece, la prospettiva italiana
si riduce, in effetti, al proposito di scrivere delle cose accadute nell’età post-romana
ubique in Italia, con una nozione, in realtà, puramente geografica del paese italiano, di
cui lo stesso Biondo nota quanto il pluralismo politico del suo tempo sia di ostacolo
a padroneggiare le vicende storiche.
Era già un guadagno aver individuato il tema di un’Italia post-romana. Una vera e
propria prospettiva storica italiana esigeva altre categorie. La storiografia italiana
– malgrado i molti tratti che se ne sono ravvisati da Albertino Mussato a Biondo –
ne restò ancora molto lontana, anche se un’idea di Italia si era fatta ampiamente
strada fin dal XIII secolo e aveva avuto espressioni ripetute di varia natura, dalla
letteratura al campo delle arti figurative, dal piano politico a quello diplomatico
e a quello commerciale e finanziario.
La ‘storia prammatica’
La storiografia umanistica tende, tutto sommato, a irrigidirsi in un modulo letterario
e compositivo che andrà diventando sempre più statico e uniforme. Essa, però, non
rimase per nulla il modello esclusivo della storiografia italiana. Con il maturare
della fase più alta e piena del Rinascimento nuovi concetti, nuove esigenze e nuove
prassi si affacciarono e rapidamente si affermarono.
Mutò – e fu mutamento decisivo – l’idea della storia come magistra vitae. Questo magistero non fu più concepito essenzialmente come scuola di virtù, di moralità,
di spinta a imprese gloriose. La storia diventò maestra della vita in senso eminentemente
pratico, come scuola di arte politica, individuazione di ciò che l’esperienza insegna
come ricorrente nel governo degli Stati e nelle relazioni fra di loro, nei rapporti
politici fra uomini, partiti, istituzioni, realtà variamente statali. Le arti, insomma,
come avrebbe detto Niccolò Machiavelli, della volpe e del leone.
Nasce così una nuova ‘storia prammatica’. Una storia di fatti selezionati in ragione
della loro importanza e del loro significato ed effetto. Fatti umani considerati,
analizzati, descritti e giudicati con criteri anch’essi tutti e soltanto umani, secondo
quella metodologia della ricerca delle «cagioni e perché» dei fatti che era stata
già enunciata da Giovanni Villani nel prologo alla sua Nuova cronica, ma che in lui era rimasta ancorata al quadro cittadino e settoriale dei suoi interessi
storiografici, come un particolare della sua più generale considerazione storica,
e che ora diventa, invece, espressione di tutta una cultura, di tutta una visione
del mondo.
Che in questa nuova tipologia della materia storica la guerra abbia un primato tematico
non sorprende. Era già nella storiografia antica la preminenza della guerra come tema
dominante della materia storica e massimo metro del relativo giudizio. Nella storiografia
umanistica questo criterio trovò immediata rispondenza: res gestae plerumque bellicae sunt, afferma decisamente Pontano nel dialogo Actius. Nel nuovo prammatismo storico che ora si afferma la guerra non è, però, semplicemente
un dato di fatto costitutivo della realtà storica, né un percorso tematico obbligato
in forza di una convenzione letteraria. La guerra diventa ora davvero, anche molto
più di quanto lo fosse mai stata nella tradizione storiografica antica, una naturale
estensione, una ineludibile integrazione, della politica. Di fatto, siamo già alla
convinzione che la guerra non sia che la prosecuzione della politica con altri strumenti
e per altre vie. Nella Storia d’Italia di Francesco Guicciardini questa implicazione è di una evidenza macroscopica; nel
Machiavelli sarà, a non dir altro, un’altrettanto macroscopica implicazione della
politica considerata come naturale e indefettibile sintesi delle arti della volpe
e di quelle del leone.
Machiavelli e Guicciardini
L’esame della volontà politica e dei fini dell’azione politica diventa così per lo
storico un punto centrale di ricerca e di osservazione per la ricostruzione dei fatti
e per il giudizio su di essi che egli intende proporre.
La forma espositiva può essere diversa, e anche molto discutibile. In Guicciardini,
per esempio, l’inserzione dei discorsi dei protagonisti è realizzata in base a un
criterio che si rifà alla storiografia antica anche più che alla storiografia umanistica
(si pensi, tra gli altri, al proemio di Tucidide alla sua opera). In Guicciardini
non c’è, invero, alcuna esplicita dichiarazione in materia, ma anche chi vede in questa
prassi narrativa un cedimento alle convenzioni della storiografia umanistica deve
poi riconoscere che il momento letterario è sempre accompagnato dalla severa analisi,
che lo stesso autore compie, dei motivi reali delle azioni e decisioni di cui si parla
nei discorsi attribuiti ai protagonisti. In effetti, i discorsi dei protagonisti servono
allo storico per delinearne il carattere e la personalità in quanto elemento costitutivo
della condizione storica in cui si opera, e anche, in qualche misura, per indicare,
di questa condizione, dettagli che possono meno facilmente rientrare nel solco principale
della narrazione.
Che si mantenga (come in Guicciardini) o non si mantenga l’ordinamento annalistico
del racconto non è più, a questo punto, una questione essenziale, sia che lo si voglia
sia che non lo si voglia considerare un’altra forma di cedimento a convenzioni umanistiche.
L’importante non è il vaso annalistico, ma la qualità del vino storiografico che in
quel vaso si versa; e nel caso di Guicciardini, come di altri autori, questa qualità
è di prim’ordine.
Da questo punto di vista è importante, ad esempio, che il Guicciardini, su una strada
senza «precedenti né nella storiografia antica, né in quella moderna», abbia tentato una rappresentazione complessiva e unitaria dell’amara vicenda degli
Stati italiani, nella persuasiva riduzione della storia d’Italia alla storia delle
‘guerre d’Italia’ nei decenni in cui queste guerre decisero del destino del paese.
È questa voluta e consapevole problematica a dare «unità, vigore e legittimità alla
[sua] impresa storiografica», che, così, con implacabile coerenza di metodo e di logica,
ricostruisce «nella loro organicità i nessi causali che determinano, in senso proprio,
il soggetto dell’opera», ossia quelle guerre e le loro vicende.
Guicciardini, cioè, non riduce «effettivamente ad unità concettuale, al di là del piano della politica di potenza, la storia
del paese»; e si pone, perciò, quale culmine conclusivo della storiografia umanistica piuttosto
che quale inizio di un nuovo percorso e procedimento storiografico unificante della
storia d’Italia. Ma proprio in questa adesione alla immediata realtà del paese egli
aveva modo di giungere a comprendere sino in fondo «la specificità, l’autonomia, il
particolarismo della storia italiana»; ed è questo a dare «valore definitivo» alla
«prospettiva storica italiana» da lui, nella scia della tradizione comunale e umanistica,
elaborata, «e che nella storia posteriore del paese sarebbe stata largamente messa
a frutto».
Col Machiavelli ci troviamo di fronte a una intelligenza storica superiore. Gli è
chiaro, per dirla nei termini di un pensiero posteriore, che «la storia si fa del
positivo e non del negativo», ravvisando un augumento anche quando o là dove non si vede che una rovina. Così, nella storia post-romana dell’Occidente europeo e dell’Italia egli non vede
«più la rovina dell’Imperio, che è tutto in terra, ma lo augumento dei pontefici e
di quegli altri principati che di poi la Italia infino alla venuta di Carlo VIII governarono». Così, nel periodo della storia dei regni romano-germanici affermatisi dal V-VI secolo
nel territorio già dell’impero romano d’Occidente – egli nota – sia l’Italia, sia
«l’altre provincie romane [...] non solamente variarono il governo e il principe,
ma le leggi, i costumi, il modo del vivere, la religione, la lingua, l’abito, i nomi».
Questa profondità di pensiero, per cui la decadenza non è altro che una nuova e diversa storia, non accompagna il Machiavelli nel giudizio sulle cose italiane, delle quali egli
più che ogni altro vede profondamente interconnesse e unite le vicende e le sorti,
per cui di nessuna parte d’Italia si può parlare senza parlare di tutte le altre.
Ma nel pluralismo italiano egli ravvisa soprattutto l’«insuccesso di un processo di
unificazione» anziché «una dimensione che, se non è quella monarchico-unitaria di
altri paesi, è già una dimensione italiana, almeno nel senso che in una particolare
città o centro politico vengono fatti gravitare gli avvenimenti che hanno luogo nel
quadro peninsulare». E, come nel caso del Guicciardini, anche la prospettiva machiavelliana dell’unità,
necessaria ma mancata nel corso dei secoli, riceverà nella storiografia posteriore
sviluppi di notevole portata politica, concettuale e storiografica.
La diversità di vedute non impedirà, comunque, sia al Machiavelli che al Guicciardini
di comprendere il «significato europeo delle ‘guerre horrende de Italia’ apertesi
nel 1494».
Non meno importante è la nuova concezione della esemplarità politica attribuita alla
storia. Grazie a essa, in misura e con frequenza tendenzialmente larghe, negli scrittori
del XVI secolo, e soprattutto negli autori maggiori, racconto storico e riflessione
politica si congiungono in un nesso originale di estrema importanza sia per la storiografia
sia per il pensiero politico. È difficile, da questo punto di vista, non indicare
in Machiavelli il vertice di questa congiunzione e del rilievo che essa assume nella
vita culturale e morale del tempo. E questo dovrebbe ammonire a non considerare Machiavelli
quale storico soltanto nelle opere formalmente definibili come tali (le Storie fiorentine, la Vita di Castruccio Castracani o, magari, i Decennali) e a reputare, invece, di interesse storico l’intera sua opera, a partire dal Principe e dai Discorsi.
Naturalmente, Guicciardini è anch’egli da richiamare a questo riguardo, benché sia
consueta e quasi rituale la sua contrapposizione a Machiavelli, fin dalle rispettive
storie di Firenze. Realistico – Machiavelli – ma pervaso di grandi idee etico-politiche;
sostanzialmente repubblicano e legato all’ordinamento comunale fiorentino; appassionato
critico della condizione politica dell’Italia nel contesto europeo e sostenitore della
formazione di un grande Stato italiano per mettere il paese sullo stesso piano delle
grandi potenze transalpine; fiducioso nelle possibilità di reagire, con la forza della
volontà e dell’iniziativa politica e sulla scorta della «lezione» del passato e della
riflessione sul presente, ai condizionamenti delle situazioni storiche. Pessimista
– Guicciardini – sulla condizione umana e sulle sue prospettive di azione e di riforma;
chiuso nella logica degli interessi e delle convenienze immediate e particolari; fautore
di un regime oligarchico; convinto sostenitore del pluralismo politico italiano come
grande risorsa e ragione della molteplice fioritura di centri di cultura e di civiltà
nel paese; oppositore perciò di ogni idea di superare il pluralismo con la formazione
di un grande Stato peninsulare; fidente nell’ammaestramento della storia ma più ancora
nel valore condizionante o obbligante del presente.
Una contrapposizione così piena è in gran parte fondata, ma è anche altrettanto fuorviante,
poiché cede troppo al luogo comune del ‘particulare’ quale sintesi esauriente e negativa
della riflessione guicciardiniana, e troppo, altresì, a un’interpretazione, per così
dire, romantica della personalità e del pensiero di Machiavelli. Ben più rilevante
appare, invece, il parallelismo fra i due autori nella percezione di dati fondamentali
della storia del loro tempo, a cominciare dal peso decisivo assunto dalle grandi potenze,
dall’importanza del fattore militare nel determinare le vicende della grande storia
contemporanea, dal rilievo delle grandi personalità agenti allora sulla scena storica,
dalla radicalità e inevitabilità dei conflitti di potenza sia in Italia sia in Europa,
e da altri vari argomenti. Semmai, quel che più diverge è in effetti il maggiore valore
di esemplarità e di normatività della lezione del passato in Machiavelli.
È vero, inoltre, che in Machiavelli tutto ciò si traduce in un’altezza e originalità
del suo pensiero politico, che ne ha fatto per generale consenso, malgrado non poche
opinioni e riserve in contrario, il geniale e originale assertore dell’autonomia della
politica. Autonomia che non significa semplicemente immoralità o amoralità della politica
(si è parlato anche di un suo «cristianesimo civile»), ma è, piuttosto, il riconoscimento di una logica della politica considerata iuxta propria principia, che con la morale si può incontrare o scontrare senza che questo tolga o aggiunga
nulla alla qualità dell’azione politica. Anche l’appassionato appello a un principe
redentore dell’Italia preda della prepotenza straniera è condotto, a ben vedere, sulla
scorta di un calcolo politico che giudica realistica la prospettiva di successo di
questa azione redentrice, se conforme alla logica indefettibile che è propria di una
tale azione.
Il Rinascimento e la fioritura della storiografia
La preminenza in Europa della storiografia italiana fu fortemente accresciuta dal
rilievo e dall’originalità del pensiero politico italiano di allora, grazie – come
è da sottolineare – soprattutto a Machiavelli.
Il panorama storiografico italiano del pieno Rinascimento fu, però, molto più ricco
di quanto la preminenza dei nomi di Guicciardini e di Machiavelli potrebbe far pensare.
Nei diversi Stati italiani proseguì o ebbe inizio la tradizione storiografica avviata
nel XV secolo, mentre presero un loro spicco alcune branche storiche nuove, come quella
relativa alle arti figurative.
Nel Regno di Napoli si ebbe, per esempio, a opera del marchigiano Pandolfo Collenuccio,
la prima vera storia unitaria e complessiva del Mezzogiorno d’Italia, che rimase poi,
in questo ambito, un classico, generalmente seguito anche se spesso discusso. Angelo
Di Costanzo e Camillo Porzio furono, a loro volta, storici di un certo rilievo nel
trattare le cose del Mezzogiorno, nel periodo angioino il primo e al tempo dei sovrani
aragonesi il secondo. Grandi cronisti, fra cui indubbiamente primeggia Giovanni Antonio
Summonte, fornirono testi rimasti poi fondamentali per la storia di Napoli e del Regno,
malgrado tutte le loro vistose insufficienze storiografiche.
La ‘pubblica storiografia’ veneziana proseguì dopo Bembo sulla stessa linea di ufficialità,
ormai colà stabilita al riguardo dalla tradizione statale. Con Paolo Paruta essa ebbe
un esponente di rilievo, sia pure non già per vigore di pensiero storico, ma soprattutto
per una certa acutezza dello sguardo politico con cui egli segue le vicende narrate,
alla quale nuoce, forse, meno di quanto si pensi, il suo pregiudizio circa la perfezione
del reggimento veneziano e le buone ragioni del suo governo nell’azione a livello
italiano ed europeo. Sensibilità politica che si può bene osservare anche in un esponente
della classe politica della città quale fu Bernardo Giustiniani, autore di una storia
di Venezia dalle origini, che si fa notare anche per lo scrupolo del suo lavoro di
ricerca e di critica.
La maturazione di una storiografia umanistica fu più lenta, dopo il caso di Bracelli,
a Genova, stanti le note vicende culturali della città, e una sua funzione pubblica
venne effettivamente riconosciuta solo con Uberto Foglietta, ufficialmente nominato
nel 1576 scriptor historiarum et annalium rei publicae. I suoi Historiae Genuensium libri XII rimasero incompleti – giungevano fino al 1527 – e furono poi pubblicati nel 1585,
con un’aggiunta che li portava fino al 1528. Altri autori (Pietro Bizzarri, Iacopo
Bonfadio) ebbero minore rilievo, e non valsero davvero a irrobustire la tradizione
storiografica cittadina.
A Firenze, una vera schiera di storici degni di nota si accompagnò ai due maggiori,
da Bernardo Segni a Iacopo Nardi, da Francesco Vettori a Benedetto Varchi e ad altri.
A Varchi viene riconosciuta una non indebita preminenza di vigore e di originalità
di pensiero storico, ma in realtà negli storici fiorentini di questo periodo la qualità
della scrittura e la tenuta del discorso storico sono quasi sempre degne di nota,
e appaiono una conferma di quella centralità fiorentina che abbiamo già rilevato come
caratteristica non solo di questo periodo. Notevole è pure che da Firenze ci si volgesse
alle vicende di altre parti d’Italia, come accadde, in particolare, con Donato Giannotti,
autore di un’opera sulle istituzioni e sul regime politico veneziano in cui l’esame
del loro stato attuale è sempre accompagnato dall’indicazione della loro origine e
vicenda storica. E ciò richiama ancora al fatto che negli scrittori fiorentini del
periodo l’interesse per l’osservazione politica integra costantemente l’interesse
per la ricostruzione storica; ed è un altro motivo per non ridurre questo panorama
fiorentino alla semplice bipartizione in ‘scuola del Machiavelli’ e ‘scuola del Guicciardini’,
davvero molto insufficiente a rappresentarne la vivacità e la varietà.
In tutta Italia il modulo storiografico umanistico, con poche variazioni, durò molto
a lungo. Tale permanenza è spesso considerata, anche a giusta ragione, un elemento
deteriore nella storia della storiografia italiana. A parte, però, il fatto che ai
suoi tempi il modulo umanistico aveva significato un oggettivo avanzamento dell’idea
e della prassi storiografiche correnti in Europa, è anche da considerare, in primo
luogo, che la tradizione umanistica non persistette a lungo soltanto negli schemi
convenzionali e retorici del primo secolo dell’Umanesimo, perché larghissima fu la
sua conversione nei moduli, soprattutto guicciardiniani, della moderna storia prammatica;
in secondo luogo, che altrettanto larga fu la sua permanenza nella storia della storiografia
in tutta Europa addirittura ancora nel XX secolo. E ciò senza contare la varietà di
forme e di temi in cui la storiografia umanistica e quella prammatica vennero praticate
in Italia, oltre che fuori d’Italia.
Certamente nel solco della storiografia umanistica fu Paolo Giovio, la cui principal
...