Premessa
In questo libro il lettore troverà sei storie riguardanti una stessa famiglia nobile,
un ramo dei Bracci di Firenze costituitosi in famiglia a sé stante a Pisa col nome
Bracci Cambini a fine Seicento. Essa viene qui seguita, fra Pisa e una località della
provincia, Buti, fino alla metà circa dell’Ottocento. Le sei storie sono raggruppate
in tre parti, che grosso modo corrispondono rispettivamente alla prima metà del Settecento,
alla seconda metà di quel secolo, e alla prima metà del successivo. Ognuna delle sei
storie viene raccontata intorno a un protagonista che le dà il nome e il carattere
saliente; ma accanto ai protagonisti compaiono altri personaggi, e del resto il protagonista
di una storia può figurare come personaggio minore o comparsa in un’altra. L’albero
genealogico familiare, qui riportato, con qualche semplificazione, a p. 2, permette
di orientarsi in una rete di rapporti che comunque non è molto complicata.
Niente in questo libro è frutto di fantasia, molto è frutto di scelte arbitrarie.
Qualsiasi lettore appena esperto di vita, anche se affatto ignaro di epistemologia
e metodologia storica, sa già che l’esistenza di una persona non si esaurisce in una
parola, che l’identità stessa di un individuo non è qualcosa di assoluto e granitico
nel tempo, e che in ogni modo una serie di esperienze individuali non compone una
storia familiare. Non pretendo certo di aver detto tutta la verità: ho solamente accolto
la suggestione a raccontare – a raccontare storie parziali, ma non storie false –
che mi sembrava venire fortissima dall’insieme dei documenti conservati nell’archivio
privato della famiglia.
Voglio dare rapidamente un’idea della natura di tale archivio, perché essa ha determinato
l’impostazione dei miei racconti. L’archivio si è costituito grazie alla raccolta
che i capifamiglia maschi, succedutisi nel corso di cinque generazioni, hanno fatto
delle carte che sono sembrate loro più importanti nell’ottica familiare: dunque, carte
di acquisizione e amministrazione delle proprietà, stime di periti, rogiti di notai,
fascicoli di cause civili. L’abbondanza di simili documenti è consueta negli archivi
familiari. Un più raro pregio dell’archivio su cui si basa questo libro è invece la
buona presenza di documenti di tutt’altro genere, di tipo più intimo, soprattutto
libri di annotazioni personali e lettere private. Sono state perciò le carte che mi
passavano davanti agli occhi a indurmi a imbastire una narrazione in cui la storia
del patrimonio familiare si arricchisse e si intrecciasse con quella dei rapporti
fra le persone; una narrazione di interessi e affetti.
A proposito di questi due termini, che ho scelto per sintetizzare l’argomento del
libro, ritengo opportuna una breve riflessione preliminare. Penso che non vadano intesi
quali termini di un’inconciliabile contrapposizione; e ciò neppure per quanto riguarda
l’epoca dei nostri racconti, benché essa sia forse quella in cui è stata più forte
la tensione fra le pratiche familiari di difesa di posizioni economiche e sociali
consolidate e i desideri individuali di affermazione di comportamenti diversi. Anticipo
qualche elemento che il lettore troverà poi sviluppato nella narrazione.
Fra fine Seicento e inizio Settecento, quando cominciano le nostre storie, molte famiglie
nobili di molte parti d’Italia, come pure d’Europa, stavano cercando di aggirare i
rischi del ristagno economico e della decadenza, mettendo in atto alcuni sistemi di
conservazione dei patrimoni il più possibile compatti nelle mani del maschio anziano
a capo del casato, e ciò senza troppo curarsi delle aspettative e dei destini personali
di tutti gli altri, maschi e femmine. Non era un’attitudine tanto illuminata; e infatti
nel corso del Settecento venne messa in discussione sia in scritti ispirati alla mentalità
nuova che si andava diffondendo, sia in alcune leggi emanate dai sovrani riformatori.
I Francesi arrivati in Italia dopo aver fatto la loro Rivoluzione presero in materia
decisioni ancora più avanzate di quelle dei sovrani illuminati; decisioni che i governi
della Restaurazione cancellarono poi in gran parte ma non completamente, finché nel
1865 il primo Codice civile dell’Italia unita rinverdì lo spirito del periodo francese.
I circa due secoli abbracciati dalle nostre storie sono insomma pieni di rivolgimenti
e di contrasti – anche nello specifico campo della storia della famiglia – e i lettori
vedranno che i personaggi qui ritratti e le testimonianze che ci hanno lasciato sono
tali da offrire, dei contrasti, un’immagine tutt’altro che attenuata; sono tali, anzi,
da prestarsi fin toppo bene a disegnare un arco narrativo caratterizzato dalla progressiva
e drammatica affermazione del cambiamento.
Ma ciò detto, sarebbe, appunto, un errore intendere il cambiamento come una vittoria
degli affetti sugli interessi. Via via che diminuisce la distanza fra noi e le vicende
qui raccontate si prova ovviamente una sensazione crescente di consonanza e compartecipazione,
perché sta nascendo qualcosa di abbastanza vicino a noi, e di cui capiamo perciò spontaneamente
l’autenticità, la complessità, e l’espressione: qualcosa insomma di cui percepiamo
facilmente il calore umano. Le situazioni più lontane, quelle ancora dominate quasi
senza contrasto da una logica di famiglia che non è la nostra, ci risultano invece
spesso estranee, e per qualche tratto – benché riguardino una delle nostre città italiane
in secoli non remoti – perfino un po’ esotiche. L’affettività, presente anche in esse,
è dunque più difficile da cogliere, talora tanto difficile da sembrare cancellata
da una concentrazione ossessiva e quasi disumana sull’interesse.
In realtà le cose non stavano affatto così: interessi e affetti si mescolavano anche
allora in esperienze esistenziali di grande ricchezza, se pure in modi molto diversi
dai nostri; e quelle esperienze si può cercare di ripercorrerle guidati dal principio
fondante, e semplicissimo, dell’antropologia storica: che se accettiamo di relativizzare
il nostro inconsapevole complesso di superiorità e di non ridurre alla sola nostra
misura la definizione di ciò che è umano, scopriamo vita ed esseri umani appassionanti
dove prima vedevamo solo una sconcertante e offensiva freddezza. Ho fatto lungo tutto
il libro ogni sforzo per attenermi a questi buoni propositi metodologici, anche se
ho risparmiato al lettore il fastidio di sentirselo ricordare ad ogni pagina.
Con questo, non ho però voluto minimamente ridimensionare, bensì riportare con quanta
maggior correttezza ed efficacia mi era possibile, l’impressione complessiva, un’impressione
vibrante, che le nostre storie danno, in un altro senso, di cambiamento profondo:
non dal mondo degli interessi a quello degli affetti, ma da un mondo di interessi
e affetti quasi del tutto chiuso, a uno assai più aperto ai diritti e alle aspettative
individuali. A questo proposito i personaggi delle storie parlano nel corso del libro
più eloquentemente di quanto non sarei capace io; e anche questo è il motivo per cui
qualche volta ho lasciato loro la parola – il loro è un vivace e comprensibilissimo
toscano – abbastanza a lungo. Devo comunque avvertire che su questo argomento dell’affermazione
dell’individualismo contro la logica familiare all’antica, in quanto uno degli aspetti
della discussione sulla ‘modernità’ del-
l’Ottocento, gli storici hanno fra loro opinioni assai diverse; e che in particolare
la documentazione messa a frutto in questo libro spinge a porre in luce gli elementi
di rottura più di quanto non faccia con quelli di continuità.
Nella Nota bibliografica e documentaria gli interessati troveranno, oltre che i riferimenti
alle fonti, qualche indicazione ulteriore su questo come su altri problemi. Qui, per
concludere l’introduzione alla lettura del mio libro, vorrei sbilanciarmi in una tenue
valutazione personale. Il caso singolo che vi è trattato – il caso, per giunta, di
una piccola famiglia in una piccola città – è ben lungi dal poter spostare i termini
di un dibattito generale. Tuttavia, di fronte all’immagine, una di quelle al centro
del dibattito fra gli storici, di un Antico Regime che nella vita familiare, come
in tante altre cose, proietta la sua ombra fino a coprire addirittura tutto l’Ottocento,
il nostro caso singolo potrebbe almeno suggerire un ritocco. La pretesa di sostenere
la vecchia logica del casato nobiliare è stata certo ancora diffusa lungo il secolo
successivo alla Rivoluzione, ma non come un comportamento neutrale, normale e senza
alternative. I conflitti molto aspri qui testimoniati denunciano con la loro stessa
esistenza quanto quella pretesa potesse essere avvertita come un intervento autoritario,
prepotente e ormai inaccettabile.
Ringrazio coloro che mi hanno aiutato nel lavoro per questo libro. Il personale dell’Archivio
di Stato di Pisa, un posto accogliente per chi vuol fare ricerca. Gli studenti del
mio seminario presso l’Università di Pisa nell’anno accademico 1998/1999, che mi hanno
incoraggiato con la loro partecipazione calorosa. I miei primi lettori: Alberto Banti,
Marzio Barbagli, Alessandro Barbero, Carlo Capra, Elena Fasano, Lucia Frattarelli,
Michele Luzzati, Mario Montorzi, Ottavia Niccoli, Roberto Pertici, Armando Petrucci,
Adriano Prosperi, Grazia Tomasi. Infine, Antonio Sennis, che ha coniugato abilità
e simpatia nel curare il passaggio dal dattiloscritto al testo per la stampa.
I.
Leonardo: il casato
Una citazione d’epoca – un giudizio acuto e severo – ci può aiutare a entrare nel
vivo della nostra storia.
Chi vuol chiarirsi della superbia umana non ha che da leggere i vari testamenti, che
tutto dì si fanno. Quivi i testatori non solamente trasmettono la roba loro a qualche
erede, ma vogliono ch’essa si conservi e passi ad altre mani, sostituendo al primo
erede altre persone determinate, siano discendenti, o trasversali, agnati, o cognati,
oppure estranei, secondo la predilezion loro, e vincolandola in maniera che tutti
i chiamati ne godano piuttosto l’usufrutto che il vero e libero dominio. Chiamo io
superbia quella di una creatura, destinata da Dio a vivere per pochi anni sopra la
terra e a goder di quei beni che la fortuna o l’industria ha portato in sua casa,
che voglia anche far da padrone d’essa, giacché non se la può portar dietro, non solamente
allorché spira l’ultimo fiato, ma per moltissimi anni anche dopo la morte sua. E divien
poi questa ridicola, se si tratta di poche sostanze, o se si vuol tramandare una tale
disposizione fino ai secoli avvenire, e molto più se in infinito, come cantano alcune
ultime volontà.
Queste parole di descrizione e condanna dei fedecommessi – le trasmissioni predeterminate
di eredità inalienabili – sono state pubblicate nello stesso anno della morte di Leonardo,
il 1742, nel trattato Dei difetti della giurisprudenza di un grande studioso, e sacerdote illuminato, Ludovico Antonio Muratori. La mentalità
cui si riferiscono, cioè la pretesa di sfidare il tempo e la morte con la perpetuità
di una propria riconoscibile discendenza assicurata da un sistema successorio ferreo,
è molto più antica del Settecento, e neppure del tutto spenta ancora oggi. Uno dei
periodi in cui ha dispiegato la sua massima forza è stato appunto quello dei due secoli
precedenti la Rivoluzione francese, e ciò grazie all’unione di almeno due fattori.
Il primo è che allora la maggior parte degli uomini colti in Europa ha continuato
a pensare, sulla scorta della Bibbia e dei classici greci e latini, che quanto più
qualcosa – una credenza, un popolo, un’istituzione, una città, una famiglia – durava
a lungo, da più tempo e per più tempo, tanto maggiore doveva essere il suo valore
e il suo diritto. Il secondo è che contemporaneamente in molti paesi europei i ceti
di governo hanno accentuato la loro chiusura, tracciando separazioni nettamente definite
fra nobili e non nobili. Per non decadere, smarrirsi nell’anonimato o perire, una
famiglia importante, poco o molto che lo fosse, un casato comunque dotato di cognome,
stemma, posizione politica, privilegi e proprietà, doveva proiettarsi nel futuro al
medesimo alto livello sociale; e dunque produrre eredi maschi e serbare loro un patrimonio
consistente.
Questo progetto, la passione del casato, è stato l’affetto dominante di Leonardo:
per essere più precisi, è l’affetto che appare dominante nelle sue scritture che gli
sono sopravvissute, e che ci permettono oggi di raccontare una parte della sua storia.
Antefatto
Leonardo nasce a Firenze il 9 febbraio 1663 nella nobile famiglia Bracci, che allora
possiede da un secolo un importante palazzo, il palazzo Neroni, in via Ginori, nel
cuore del quartiere ‘mediceo’ della città. Leonardo è un figlio minore, un cadetto,
per la precisione l’ultimo di otto fratelli, quattro maschi e quattro femmine, giunti
alla maggiore età. In una società in cui si vuole, e molto spesso accade, che il destino
di una persona sia iscritto nella sua nascita, quello di Leonardo è dunque un destino
di subordinazione. Infatti, la strategia di eternare un casato sulla base della conservazione
del suo patrimonio provoca facilmente disparità di trattamento. Una versione è quella
che ci ha raccontato Manzoni nei Promessi sposi: nell’escludere le figlie femmine dalla successione ereditaria, mandarle in monastero
costa molto meno che sistemarle in un onorevole matrimonio. E le quattro sorelle di
Leonardo sono tutte monache. Ma anche per i figli maschi è necessario stabilire delle
differenze; perché se ad ogni generazione tutti i maschi ottenessero la loro parte
dei beni di famiglia, rapidamente questi si frazionerebbero e si disperderebbero.
In molte parti d’Italia e d’Europa si è ovviato a tale inconveniente nel modo più
radicale, e cioè chiamando alla successione ereditaria solo uno dei figli, in genere
il maggiore. Per quanto ne sappiamo, in Toscana le famiglie nobili si comportavano
appena un po’ diversamente: chiamavano all’eredità tutti i maschi, perché questa era
l’abitudine invalsa durante gli ultimi secoli del Medioevo, quando la regione pullulava
di compagnie mercantili composte di fratelli; ma per evitare la dispersione del patrimonio
esercitavano una pressione psicologica sui cadetti affinché non si sposassero. In
tal modo, la temuta divisione dei beni si sarebbe ricomposta subito ogni volta; meglio
ancora, non sarebbe neppure avvenuta, perché i fratelli scapoli potevano accontentarsi
di un appannaggio, senza aver bisogno di rivendicare la loro quota ereditaria per
metter su una nuova famiglia e una nuova casa.
Così era da tempo avvenuto fra gli antenati di Leonardo: il fratello di suo nonno
e i due fratelli di suo padre erano infatti tutti ecclesiastici. Così sembra dover
avvenire anche nella sua generazione. Tra Leonardo e il maggiore dei fratelli, Onofrio,
ce ne sono altri due, Domenico e Giovanni Battista, rispettivamente un prete e un
militare di carriera. Alla morte del padre, nel 1677, prete Domenico, che è già priore
di Vinci, si affretta a donare la propria quarta parte di eredità a Onofrio, in cambio
di un vitalizio che quattro anni più tardi viene fissato a 100 scudi l’anno. Giovanni
Battista e Leonardo non si sacrificano fino a questo punto, ma nel 1682 fanno anch’essi
un accordo con Onofrio: rinunciano alla divisione del patrimonio comune e gliene affidano
la gestione, in cambio di una somma di 200 ducati ogni sei mesi ciascuno. Del resto,
in questi anni sono entrambi lontani da Firenze: Giovanni Battista nelle varie campagne
di guerra, Leonardo nel suo tirocinio di giovane uomo d’affari come agente proprio
del fratello Onofrio, che da qualche tempo ha una società per «negoziare in cambi
e in ogni altra merce utile».
Non siamo in grado di ricostruire le peregrinazioni di Leonardo, che comunque gli
hanno fatto imparare un po’ d’inglese, francese e spagnolo, e soggiornare per un periodo
a Napoli, e per un altro a Livorno, la città che più resiste all’involuzione e al
ristagno dei commerci toscani. Non sappiamo nulla, purtroppo, neppure delle sue esperienze
e della sua formazione morale. Lo incontriamo improvvisamente, uomo fatto, intorno
ai trent’anni, quando a differenza di Giovanni Battista, che rimane fedele al suo
ruolo di cadetto fino alla morte in Spagna nel 1694, Leonardo ritira la sua collaborazione,
con la decisione di fissarsi stabilmente a Pisa, di sposarsi, e di pretendere la sua
quota ereditaria. La storia della passione di Leonardo per il casato comincia dunque
con un gesto di ribellione: non, certo, al copione di quella recita sul teatro del
mondo, ma alla parte di comparsa che gli toccherebbe. Come vedremo bene fra poco,
Leonardo non è uomo da accontentarsene.
La storia del suo distacco dal patrimonio comune e dai comuni interessi familiari
è lunga e contrastata: è perciò necessario raccontarla con qualche semplificazione,
ma ascoltarla comunque con un poco di pazienza, perché è la più ingarbugliata fra
le storie che incontreremo. Già conosciamo la ragione della lunghezza e dei contrasti:
la separazione di un fratello era di per sé un danno al casato, una minaccia al suo
futuro. È perciò probabile che Leonardo dica la verità quando, nell’ispirare un promemoria
non datato sul conflitto con Onofrio, lo fa accusare di ostacolare da tempo con pretesti
la divisione dei beni, di «voler andar in lunga con dette divise», suggerendo che
ciò sia «per attraversare i disegni dell’accasamento di detto suo fratello minore».
Invece Leonardo ha fretta: in questi anni Novanta del Seicento sta impiantando la
sua posizione e i suoi affari a Pisa; si appresta ad aprirvi una ditta di spedizioni;
vi ottiene dal granduca, nel 1695, un lucroso incarico, la gestione di una specie
di ufficio del registro; soprattutto, senza aspettare oltre, nel maggio 1694 vi ha
preso per moglie Bona Ruschi, una ragazza di diciotto anni che appartiene a una famiglia
del patriziato cittadino e che gli porta 2.000 ducati di dote. Le conseguenze pratiche
e psicologiche di questo matrimonio sono accentuate dal fatto, cui Leonardo fa cenno
in una lettera di quel periodo a un funzionario granducale, che non avendolo Onofrio
risarcito per la sua rinuncia all’uso del palazzo fiorentino, egli è costretto a starsene
«fuori, a mendicare il vitto dai parenti».
Ma queste erano vertenze che non finivano mai. Già due commissioni di arbitri hanno
lavorato per trovare un accordo tra i due fratelli (come si ricorda, Giovanni Battista
è morto e prete Domenico è fuori causa); e pare che la seconda abbia escogitato nell’agosto
1695 un compromesso praticabile – assegnando a Onofrio il palazzo di Firenze e le
case e poderi di Rovezzano e Castelfiorentino, a Leonardo la casa e i poderi di Vinci
– quando la morte di Onofrio all’inizio del 1697 riapre, se mai si era davvero chiusa,
la questione. Ci sono infatti dei figli maschi in minore età, e dei tutori nella persona
della madre, Prudenza Ferroni, del fratello di lei, e di vari parenti Arrighetti e
Ginori, fra cui un senatore. La vedova Ferroni è certo un osso durissimo, anche se
tanto più ci appare tale perché la vediamo con gli occhi di Leonardo. Approfittando
dell’estrema confusione in cui sono rimasti gli affari, i crediti e i debiti del marito,
e della malleveria firmata a suo tempo con lui dai fratelli Bracci con l’impegno di
restituirle la dote, Prudenza cerca ora di rinegoziare in modo più vantaggioso per
i suoi figli l’accordo di divisione.
Le donne, come i cadetti, erano ovviamente spesso un grande elemento di disturbo per
la logica del casato; ma ciò non significa che esistesse una strategia patrimoniale
specificamente femminile, un comportamento standard delle donne in quanto tali. In
questo caso Prudenza, madre di minorenni maschi della linea primogeniturale, si fa
interprete delle pratiche del potere maschile nella sua versione più rigida contro
i progetti di uno zio paterno che, per quanto adulto e sposato, non è che il potenziale
capo di un ramo cadetto. In favore dei suoi figli la vedova riesce a mobilitare la
rete della prestigiosa e influente parentela. La pressione psicologica che questa
ha saputo esercitare sul perturbatore dell’ordine primogeniturale traspare ancora
dal racconto che più tardi lo stesso Leonardo ha fatto a un suo legale del consiglio
di famiglia cui è stato convocato in Firenze per discutere la sua richiesta di essere
liberato dalla malleveria per la dote di Prudenza:
et essendosi su questo emergente – riferirà il legale – fatto una sessione in casa
il quondam signor Gio. Luigi Arrighetti uno dei tutori di detti figli, con l’intervento
de signori senatore Lorenzo e Niccolò Ginori, signor Francesco Silvio e detta signora
Prudenza Ferroni tutti contutori, e de signori dottori Giovanni Lapi e Bartolomeo
Archi, con il signor priore Domenico e Leonardo Bracci, fu questo pregato da detti
signori tutori, e specialmente da detti signori Ferroni, a non voler proseguire il
detto giudizio di liberazione a fine di non sconcertare lo stato di detti pupilli,
che non havrebbe mai ricevuto alcuna molestia o patito per detta malleveria. Fidatosi
di tal promessa, si quietò il detto Leonardo e senza proseguir più i detti atti se
ne ritornò alla sua residenza di Pisa.
In realtà la promessa – continuiamo a seguire la vicenda dal punto di vista di Leonardo
– non viene mantenuta; e Prudenza, accampando i pretesi debiti del cognato nei confronti
della sua dote, riesce a fargli bloccare da un tribunale l’uso dei beni di Vinci in
attesa di un nuovo processo. Tutto torna dunque in alto mare, e la sistemazione di
Leonardo viene ancora una volta rinviata. Il giovane, ma non più giovanissimo uomo,
dev’essere stato preso da un senso di esasperazione e di sfinimento, come da un indurimento
di carattere che riaffiorerà qualche volta nell’uomo maturo e vecchio al ricordo delle
difficoltà di quegli anni lontani. Ma la sua non era neppure una vicenda eccezionale:
le ambiguità della legislazione del tempo, le contraddizioni del sistema successorio
e di quello dotale, rendevano quasi fisiologica una litigiosità che a noi pare insostenibile.
Ed è davvero significativo il fatto che il conflitto fra Leonardo e Prudenza si sia
infine risolto non grazie a una semplificazione dei termini del contendere, ma grazie
a un’ulteriore loro complicazione, all’apertura di un nuovo fronte.
Tale apertura è anch’essa l’effetto di una passione per il casato, di un desiderio
di eternità. L’episodio ci riporta quasi un secolo indietro, quando, il 28 luglio
1611, la nobildonna fiorentina Diamante, figlia del defunto Antonio Cambini, vedova
di Raffaele della Fonte, giunta al suo settantacinquesimo anno di età decide di fare
testamento. Diamante non ha figli né figlie, e anche suo fratello Vincenzo è morto
senza prole; la parentela del marito, se esiste, non viene presa in considerazione.
Non sono le condizioni ideali per dar corpo a un progetto di perpetuazione di un casato,
eppure Diamante non vi rinuncia; anzi lo disegna col massimo di forza, istituendo
dei suoi beni un fedecommesso. Sappiamo già da Muratori di che cosa si tratta: è l’istituto
giuridico che permette di indicare non solo il primo e prossimo erede di un patrimonio,
ma anche da subito l’erede dell’erede, e così via all’infinito; è la pratica che più
perfettamente corrisponde all’ideale nobiliare di identificarsi con la storia e impadronirsi
del tempo.
In mancanza del sangue, qui a far da fulcro della continuità familiare sarà il nome.
Diamante Cambini sceglie come erede un giovane protetto suo e del defunto fratello,
Vittorio Scuffiottini, e dopo di lui predetermina la successione futura dei figli
e discendenti di Vittorio non solo maschi ma anche femmine (un’aggiunta comprensibile
da parte di una donna); e nel caso che tale discendenza si estingua chiama fin d’ora
alla successione quella di un proprio nipote. Si tratta di Onofrio Bracci, colui che
sarà il nonno dei nostri Leonardo e Onofrio. Al Bracci, come del resto allo Scuffiottini,
Diamante impone, pena la decadenza dal diritto, di farsi carico della sopravvivenza
morale sua propria e del padre Antonio: «con questo espressamente dichiarato, che
il detto magnifico messer Onofrio Bracci sia tenuto et obbligato di porre nome al
primo figliuolo che averà maschio, Antonio, e la prima figlia femmina che averà, similmente
si deva porre nome Diamante, e che siano obbligati cognominarsi Bracci Cambini». Il
tutto, come dice, per «perpetuare più che sia possibile la memoria di detta sua casata,
e mantenere il nome d’Antonio Cambini suo padre».
Passano novant’anni, il tempo di svolgimento della vita di Vittorio Scuffiottini,
morto entro il 1675, del suo figlio maggiore Antonio, che muore celibe, dell’unico
altro figlio, prete Vincenzo: alla morte di questi, nel 1701, il fedecommesso Cambini
tocca agli eredi e discendenti del vecchio Onofrio Bracci, cioè proprio ai personaggi
della nostra storia. Questa eredità sembra in un primo momento dover esasperare ulteriormente
il conflitto che è intanto in corso fra Leonardo e la cognata. Leonardo ne ha preso
subito possesso, e la sta difendendo con successo in un’altra causa col monastero
fiorentino di S. Anna, cui l’ultimo Scuffiottini l’ha senza alcun diritto donata.
Prudenza vuole invece far partecipare alla successione anche i propri figli, e ottiene
in proposito una sentenza favorevole del Magistrato Supremo di Firenze nel 1706. Ma
alla lunga è proprio questo nuovo motivo di contesa a suggerire una soluzione meno
squilibrata, un accordo che mette fine alla vicenda apertasi con la richiesta di divisione
di Leonardo ormai vent’anni prima. Tale accordo, sancito da un ennesimo lodo arbitrale,
pronunciato il 5 dicembre 1711 da due avvocati nominati dal granduca, assegna ai figli
di Prudenza i vecchi beni Bracci, compresi tutti quelli di Vinci, a Leonardo tutta
intera l’eredità fedecommessaria Cambini, più a conguaglio una rendita annua di 150
scudi da pagarsi da parte dei nipoti.
Anche con il conguaglio, le due parti sono, come ci si aspetta, molto diseguali: senza
contare i beni di Vinci, una stima redatta nel 1697, alla morte di Onofrio, valutava
3.500 scudi il palazzo di Firenze, 800 altri immobili a Empoli e in campagna, 15.500
i vari poderi di Rovezzano e Castelfiorentino; e quanto ai liquidi della compagnia
di Onofrio, nel districare l’intreccio di debiti e crediti Prudenza non ci avrà certo
rimesso; per contro, il fedecommesso Cambini consta di una casa a Firenze, difficilmente
comparabile al palazzo Bracci-Neroni, e di due unità poderali, la più grande delle
quali sarà valutata più tardi dallo stesso Leonardo 4.000 scudi. Come si ricorderà,
il fratello prete, Domenico, aveva fin dall’inizio squilibrato le parti donando la
sua a Onofrio; ed è sicuro che altri fattori pratici e psicologici si saranno aggiunti
a favorire la linea primogeniturale. Eppure Leonardo ha così dopo tutto realizzato
il suo intento di separazione; ed anzi lo ha fatto in un modo che sottolinea marcatamente
il suo distacco dal ramo principale e la sua indipendenza.
Le terre del fedecommesso Cambini si trovano infatti tutte in località Caprona, pochi
chilometri a est di Pisa; sicché la costituzione della porzione patrimoniale di Leonardo
con tale fedecommesso ha l’effetto di consolidare la sua sistemazione in una città
diversa da quella d’origine. Quanto all’aggiunta, in ossequio al testamento di Diamante,
del cognome Cambini a quello originario del casato Bracci, essa è un elemento essenziale
di ridefinizione di un’identità, di conferma dell’apertura di una nuova storia. È
ciò che Leonardo ha da tempo voluto. Insediato e definitivamente stabilito a Pisa
negli anni della rottura col ceppo Bracci di Firenze, Leonardo Bracci Cambini si appresta
ad affrontare la seconda parte della sua lunga vita nelle condizioni e nella disposizione
d’animo del fondatore di un nuovo casato. Come ora vedremo, il giovane diventato uomo
maturo nel ruolo e attraverso l’esperienza del cadetto ribelle invecchierà nella parte
del capostipite patriarcale.
Ricordi e carattere
È proprio nel periodo fra la sistemazione a Pisa e la prima presa di possesso del
fedecommesso Cambini, intorno al volgere del secolo, che Leonardo comincia a lasciare
un’abbondante, quasi quotidiana, traccia scritta di sé. Il risultato sono ben 15
libri di ricordi che coprono – con la lacuna degli anni 1718-1721, corrispondenti
al perduto libro n° 5 – l’ultimo quarantennio della sua vita, fino alla morte a ottant’anni
nel 1742. Il più antico dei libri superstiti, che va dal 1703 al 1709, è stato intitolato
da Leonardo stesso col numero 2; è plausibile che esistesse un numero 1, e che questo
abbia coperto la stessa quantità di anni del numero 2, o magari anche qualcuno di
più, dato che nei primi libri le annotazioni sono progressivamente più frequenti con
l’andar del tempo. Tutto considerato, si può supporre che Leonardo abbia cominciato
a tenere questi libri intorno alla metà degli anni Novanta del Seicento, e dunque
subito o alquanto tempo dopo l’inizio, nel 1694, della sua vita matrimoniale.
L’esistenza stessa dei libri suggerisce del resto una scelta di radicamento e di continuità
da parte di un uomo che, superati i trent’anni, smette di viaggiare, si sistema, e
costruisce una famiglia. I loro titoli stessi mostrano la deliberata intenzione di
Leonardo in proposito. Si assomigliano molto, anche se non tutti sono ugualmente lunghi
e complessi. Un esempio:
Libro di ricordi di me Leonardo Bracci de Cambini Cittadino Fiorentino e Pisano, dove
saranno notati diversi ricordi et altro di cose che occorreranno o fossero occorse
concernenti la mia casa e famiglia, per il buon servizio et indirizzo della medesima,
per supplire in parte al difetto della memoria, a gloria e laude di Dio e della Santissima
Vergine Maria sua madre avvocata nostra, e se qualcosa non vi fosse notata per appunto
sia in pagamenti o riscossioni, non deva attribuirsi a mancanza di fedeltà ma all’inavvertenza
e memoria debole, perché tutti siamo huomini e difettosi per più capi.
Per apprezzare un simile titolo bisogna sapere che la parola ricordi ha qui un significato che non corrisponde perfettamente al nostro, ma tiene ancora
dell’italiano antico, in cui i nostri ricordi si chiamano piuttosto ricordanze, come ancora nel canto di Leopardi, mentre ricordi vuol anche dire, come per i Ricordi di Guicciardini, cose da ricordare, e dunque ammonimenti. Leonardo pensa in effetti
non solo alla «memoria», ma anche al «buon servizio et indirizzo» della sua casa e
famiglia; sicché i suoi libri si propongono insieme come registrazione di cose accadute
e modello di comportamento; più esattamente: come registrazione con valore di modello.
Un’altra importante sfumatura che non coincide con la nostra accezione di ricordi
appare nelle ultime righe del titolo, dove Leonardo implicitamente rivendica l’affidabilità
quasi notarile delle sue scritture come attestazioni di transazioni d’affari. È un’intenzione,
questa, confermata da una notazione in un altro libro, dove essendosi accorto di aver
sbagliato una data, Leonardo sottolinea con enfasi l’errore e la correzione, «acciò
nel vedersi la posposizione de’ giorni non si dubitassi della buona fede delle scritture
del presente libro». Di fatto, qualche volta egli ha usato i libri come documenti
nel senso anche più strettamente legale del termine, facendovi apporre di loro mano
firme di debitori.
Si tratta dunque di un complesso di scritti che, per quanto accompagnino quasi passo
passo quarant’anni di vita, hanno ben poco dell’autobiografico nel nostro corrente
senso del termine. Non sono libri di memorie, e neppure diari personali, come pure
ne esistevano ormai da tempo a quell’epoca in Europa e anche in Italia, e quali Leonardo
stesso avrebbe certo potuto cominciare a scrivere durante i suoi anni giovanili. Sono
propriamente libri di famiglia, anche se come tali molto diversi da quelli largamente
prevalenti in età moderna, vale a dire le storie genealogiche più o meno incredibili,
spesso pompose e solenni, qualche volta anche pubblicate a stampa, che restano piuttosto
distinte dalle coeve memorie personali. I libri di Leonardo emanano invece un profumo
antico di fioritura fuori stagione, perché rimandano al genere ibrido che era stato
tipico dei libri di ricordi dei mercanti italiani della fine del Medioevo, specie
proprio a Firenze e in Toscana: libri in cui intorno alle registrazioni e ai conti
degli affari concrescevano in un contesto di buoni consigli le annotazioni degli eventi
cittadini e delle vicende familiari.
Tutto questo non è appunto più attuale all’inizio del Settecento, quando ci sono i
parroci e i notai dei vescovi a prender nota di nascite, matrimoni e morti, e i burocrati
dello Stato a riferire ai superiori sugli eventi pubblici, mentre, in sempre maggior
numero, i pronipoti dei mercanti della Toscana comunale si ritirano dagli affari per
condurre una vita da signori. Ma in fondo Leonardo, dopo il suo faticoso distacco
da Firenze e dai Bracci, può ben sentirsi – primo dei Bracci Cambini a Pisa – come
uno di quegli uomini, tanto spesso uomini ‘nuovi’, che avevano popolato e arricchito
le città della Toscana medievale; proprio come quel ser Tommé di Mazzeo di Braccio
che trasferendosi da Vinci a Firenze vi aveva dato origine, nel Trecento, al suo vecchio
casato. Anche lui capostipite di un ceppo familiare, come il lontano avo, Leonardo
ha così adottato in tutta naturalezza un genere di scrittura che, senza escludere
l’esperienza personale, la traduce nel linguaggio del casato, e d’altra parte mostra
più che non possa fare una genealogia erudita il tratto individuale di una passione
per la cultura dell’eternità.
Lo mostra, com’è giusto di fronte a una prospettiva di eternità, in una fissità senza
tempo. Perché nelle migliaia di annotazioni, separate le prime dalle ultime da quarant’anni
di vita, non si percepisce un senso di evoluzione di una personalità, ma la continua
conferma dell’incrollabile fedeltà a un progetto più importante della vita di un individuo:
quello, appunto, del casato. Prima di addentrarsi un poco in questi libri di famiglia
bisogna fare in proposito una riflessione duplice: che da dei libri destinati a modello
per i discendenti, e su cui addirittura possono lasciare una firma gli estranei, c’è
tutta una parte del vissuto individuale che comunque deve essere esclusa; che scegliere di tenere dei libri così fatti, e perseverare nella
scelta fino alla morte, è pure il segno di una coscienza di sé tutta diversa dalla
nostra, e anche da quella di tanti contemporanei di Leonardo che hanno affidato alla
propria pagina i particolari più delicati della loro vita intima.
Unica traccia dello scorrere del tempo nei libri di Leonardo, pur tanto pieni – lo
vedremo – anche di eventi drammatici, è l’appesantirsi, nell’uomo vecchio rispetto
a quello maturo, della tendenza al moralismo predicatorio, e l’accentuarsi dell’attenzione
ai segni del logoramento e della malattia sul suo corpo; ma senza che ciò apra la
strada al pessimismo dello spirito, all’infiacchimento del carattere: Leonardo è stato
aiutato da una fede religiosa ferma e da una tempra d’acciaio. Quando nel 1723, a
sessant’anni, gli viene un attacco più forte del solito della sua gotta, al culmine
del male si ricorda che è il giorno di San Pietro, e inoltre «quanto viene scritto
nel sacro Testo nuovo al libro degli Atti degli Apostoli, che S. Pietro anco con l’ombra
guariva gli infermi»: si raccomanda al Santo e subito guarisce.
Assai più tardi, quando ha ormai 72 anni, gli succede nella villa di Caprona un episodio
potenzialmente ben più pericoloso, ma cui reagisce con la solita forza. Lasciamocelo
raccontare da lui, in data 9 novembre 1735:
in procinto di tornare a Pisa per essere al termine de feriati, e volendo riporre
alcuni ferramenti nelle stanze del piano di sopra, essendo salito la prima scaletta
che è volta verso mezogiorno, e principiato a salire i pochi scalini che voltano a
Ponente per intrar nella stanza di sopra, mancatomi il piede destro per la debolezza,
precipitai a piombo sopra l’altra scala di sotto, trovandomi sul piano del terreno
della detta prima scala, dove atteso la gravità del corpo e l’impeto della caduta
dovevo esser tutto sfracassato; ma per la misericordia del Signore Dio e la buon’assistenza
del mio Angelo Custode non mi trovai addosso altro che la contusione della persona
et un piccol taglio sopra il capo che non m’impedì l’alzarmi dapper me, star alquanto
levato a trattar diverse cose e di poi venirmene a Pisa in calesse, dove confesso
che soffrij alquanto nello sbalzarsi del calesse per la strada cattiva.
Relazioni e affari
È questo tipo di settantaduenne l’uomo che ha intrapreso oltre trent’anni prima la
costruzione di un nuovo casato familiare, tenendone regolarmente nei suoi libri di
ricordi un registro che è anche esso stesso parte integrante della costruzione. Alla
base c’è naturalmente proprio l’aspetto materiale, l’abilità negli affari abbinata
alla tenace e mirata tendenza agli investimenti immobiliari. Con la stessa attenzione
che dedica ai traffici di maggiore importanza, quelli della ditta di spedizioni, Leonardo
segue, e puntigliosamente annota, le più piccole entrate e le più piccole spese. Si
ha l’impressione che il rafforzamento della sua posizione economica, evidente sul
lungo termine, sia stato non solo o non tanto il frutto di grandi operazioni ma anche
in misura notevole di moltissimi minuti investimenti, oltre che, si capisce, di implacabili
risparmi. Sempre vigile sulla piazza, è pronto a comprare e rivendere piccole partite
di merci, ma anche singoli oggetti, articoli di liquidazioni fallimentari, cambiali:
un’attività poco specializzata, il cui profilo piuttosto arcaico è accentuato dal
carattere paternalistico/clientelare di molti dei suoi contratti, stretti con vicini
socialmente inferiori, artigiani di cui si serve, affittuari.
Sono appunto loro le principali controparti di una pratica sistematicamente attuata
da Leonardo, il prestito su pegno, un metodo per far fruttare il denaro o comprare
beni a prezzi convenienti, nonché per intrattenere relazioni di controllo sociale.
Per spiegarne il funzionamento possiamo ricordare il modo in cui Leonardo si è procurato
nel settembre 1716 una rosetta d’oro con diamanti, che sarà poi uno degli importanti
gioielli di famiglia: l’ha avuto in deposito dall’orefice Antonio Masi in cambio di
un prestito che gli ha fatto di 18 scudi all’interesse del 5%; Masi non riesce a restituirgli
il denaro entro il tempo concordato, e il gioiello rimane a Leonardo. I due sono in
relazione da tempo: nell’estate 1714 Masi ha già dovuto dare in pegno un orologio
con custodia d’argento; ma in quel caso ha restituito la somma maggiorata e ritirato
l’oggetto. Spesso sono gli inquilini delle varie case cittadine di Leonardo a entrare
in una sorta di spirale di sostegno/sfruttamento, con cui il padrone di casa si assicura
il versamento del futuro affitto, appropriandosi intanto di un oggetto di qualche
valore. Ecco l’esempio di una registrazione del 1° settembre 1714: «Ho imprestato
alla Maddalena moglie di Girolamo Rocca nostro pigionale lire quattro sopra una gonnella
di rovescio rossa dataci in pegno».
La versione più interessante di questo tipo di rapporti è quella che riguarda i contadini.
Dal 1710 circa in poi Leonardo è stato un grande acquirente di terre. Lo è stato seguendo
un metodo molto preciso, che si capisce bene dal confronto fra i libri di ricordi
e una più tarda – anni Settanta del Settecento – stima dei beni fondiari di famiglia,
che per ogni singolo appezzamento di terra riporta meticolosamente data e prezzo di
acquisto e nome del venditore. Leonardo cerca di entrare in rapporto, da condizioni
di forza, con piccoli proprietari contadini indebitati, siano o no anche suoi mezzadri,
facendo loro dei prestiti o comprando le cambiali dai creditori. Se il contadino non
riesce a risollevarsi, si trova prima o poi costretto per estinguere il debito a vendergli
la propria terra, che poi magari rimane a lavorare con qualche forma di contratto,
in genere anche con la clausola, piuttosto aleatoria, di poterla ricomprare entro
un anno.
Leonardo ha perseguito questo metodo molto mirato di acquisto anche perché ha avuto
in mente un progetto, sempre più evidente col passare degli anni, di aumento della
sua proprietà fondiaria in due direzioni precise. La prima è il potenziamento ma anche
la razionalizzazione del fedecommesso Cambini di Caprona; la seconda è la costituzione
ex novo di un’altra tenuta a Buti, una località poco discosta, a est, verso i monti
pisani. La stima più tarda mostra che Leonardo ha nel complesso quasi raddoppiato
il valore – 7.078 scudi – delle terre dell’eredità Cambini, perché ne ha comprate
altre per 2.751 scudi a Caprona e per 3.964 a Buti. Mostra anche che ha ottenuto questo
risultato grazie a numerosi e relativamente piccoli acquisti susseguitisi attraverso
i decenni secondo una logica di paziente accorpamento, perché quasi ogni nuovo appezzamento
acquistato confina con terre già possedute. La logica è stata perfettamente chiara
e consapevole: ecco la riflessione sul prezzo fatta nel registrare il 22 aprile 1730
l’acquisto di un terreno a Castel di Nocco nella comunità di Buti per 24 scudi: «È
stato un poco rigoroso, ma atteso l’esser confinante al nostro non li ho guardato».
Fermiamoci a fare una considerazione. Questo modo di procedere a piccoli passi e calcolando
minuziosamente ogni mossa, caratteristico dello stabilirsi della posizione di Leonardo
nella sua nuova città e condizione, può apparirci forse poco elegante; perché non
è così che si comporta il tipo più affascinante che abbiamo in mente di nobile d’Antico
Regime: un redditiero ozioso, munifico, splendido e dissipatore. Ma Leonardo appartiene
a un altro genere, che discende dalla tradizione dei vecchi patriziati mercantili
italiani, gente che porta anche nella vita da signore, possidente di terre e palazzi,
una vena robusta di attivismo e di pratico senso degli affari; e che nel porre le
basi di un casato nobiliare non dimentica le proprie radici cittadine e ‘borghesi’.
Non si tratta di un profilo poi tanto peregrino: è quello disegnato tante volte nei
Pantaloni goldoniani, le cui classiche raccomandazioni programmatiche – prudenza! economia!
giudizio! – potrebbero assumersi a sigla della condotta e delle scritture di Leonardo.
Anche in quest’orizzonte c’è comunque posto per rapporti di affari che proprio perché
arcaicamente vischiosi, complicati da aspetti di protezione e dipendenza, non si possono
descrivere solo in termini di sfruttamento e di espropriazione. C’è forse in Leonardo
una forma di carità cristiana, che per il fatto di apparire ad alcuni di noi esotica
nella sua compatibilità col paternalismo gerarchico non è stata però meno sincera.
Possiamo ricostruire in questa luce la lunga vicenda dei suoi rapporti con Santi
Sabatino e Pierantonio Favilli di Titignano, due fratelli a capo di quella che probabilmente
è stata una estesa famiglia contadina. Il 1° dicembre 1713 Leonardo ha comprato, grazie
ai crediti che vanta nei loro confronti, un loro pezzo di terra, impegnandosi alla
retrovendita nel caso siano in grado di ripagarlo entro un anno, e mantenendoli intanto
a lavorarla come affittuari. Alla scadenza del primo anno, e poi a tutte le successive,
man mano meno brevi, per un trentennio fino alla morte di Leonardo, il patto di retrovendita
è stato sempre prorogato. Il rapporto così consolidatosi ha due facce: Leonardo si
è legato sempre più strettamente e con maggior frutto i Favilli, i quali, oltre che
pagargli l’affitto delle terre, si devono impegnare in almeno due casi a versare loro
le tasse al fisco in cambio della proroga del patto di retrovendita. D’altra parte
i Favilli sono stati trattenuti da lui e nel suo stesso interesse sulla soglia del
disastro, perché nei momenti di emergenza ha prestato loro denaro gratis. Una nota
dei libri di ricordi al 5 maggio 1731 apre uno spiraglio sull’ambiguità dei rapporti
fra padrone e contadino: Santi Sabatino è venuto in città a chiedere aiuto, e Leonardo
gli presta subito senza interessi la somma non trascurabile di 14 lire, «che disse
bisognarli per sovvenire la sua famiglia». Per farsi un’idea completa di tutta la
storia del rapporto fra Leonardo e i Favilli bisogna anche sapere che due anni dopo
la sua morte, il 24 ottobre 1744, Santi Sabatino è stato in grado di versare agli
eredi oltre la metà del prezzo della terra, riottenendone così la proprietà e un ennesimo
rinvio per il saldo.
Questa stessa combinazione di carità cristiana, paternalismo e ordine gerarchico è
del resto evidente nei rapporti che Leonardo ha intrattenuto col ceto dei servi. Molti
di loro compaiono più volte nelle annotazioni dei libri, e più degli altri il fido
Giuseppe Bellucci, e Caterina Bagni, alla cui morte Leonardo ricorda l’abnegazione
che aveva dimostrato nell’assistere un figlio di lui mortalmente malato. In quest’ambito
di nobiltà civile e ancora caratterizzata da un senso familiare degli affari, i domestici
non si profilano come dei lacchè inanimati, ma come delle persone ben individuate
con le quali intercorrono dei rapporti che, per quanto gerarchici, possono essere
intellettualmente ed emotivamente connotati. Leonardo conosce il nome, e registra
il 30 giugno 1716 la morte, di Bartolomea, «serva del signor Filippo Simoni da lui
molto stimata». E il 28 novembre 1715 può fare altrettanto, pur con l’aiuto di notizie
venute da Firenze, per la sua antica balia Margherita Giorgetti; e il 1° febbraio
1726 anche, forse con una memoria più personale per quanto a un sessantennio di distanza,
con la ragazza assegnatagli a suo tempo come bambinaia, Piera Tarchi poi moglie di
Camillo Mainardi, «stata già – come scrive – da fanciulla in casa nostra in Fiorenza
per serva al tempo di mio padre, e che mi haveva quasi che rilevato e sempre è stata
affezionata alla nostra casa». Nei suoi estremi anni Leonardo ha avuto come serva
personale e governante una giovane Maria Angela, che nel testamento di lui, dove compare
quale destinataria di un piccolo lascito, è descritta come «neofita nera nadiva di
Bongasi presso Tunis in Affrica». Da qualche annotazione si vede che Leonardo ha dedicato
un poco del suo tempo a istruirla nella religione cattolica e l’ha avuta compagna
nelle sue preghiere giornaliere.
Quello di Leonardo è un mondo, e la sua vita quotidiana è di un tipo, tali che una
forte sovrapposizione fra rapporti d’affari e rapporti privati, caratteristica per
definizione coi domestici, è però riscontrabile anche in molti altri casi. L’organizzazione
stessa degli spazi di vita ci insegna qualcosa in proposito. Come per le sue terre,
Leonardo ha costituito la sua residenza in città non in un colpo solo, ma con una
serie di acquisti e accorpamenti, in via Mercanti nella cura di San Paolo all’Orto,
lungo il primo decennio del Settecento. Il risultato è un edificio che in almeno due
casi, nel 1726 e nel 1729, Leonardo chiama, con un pizzico di pomposità a lui per
solito affatto estranea, «palazzo»; ma non si tratta né di un luogo di rappresentanza,
sfarzo e spreco, né di un ampio e sontuoso involucro protettivo di una domesticità
raccolta ed esclusiva. Piuttosto, i libri di ricordi ci restituiscono il senso di
una condivisione di spazi e di un andirivieni proprio di una casa che ha anche una
spiccata funzione economica.
Leonardo ne ha tenute quasi costantemente affittate delle parti, non solo fondi e
magazzini, ma anche quartieri d’abitazione, e ciò arrivando ad accollarsi delle servitù
di passaggio. In assenza di inventari dettagliati, il ricordo del contratto di affitto
del gennaio 1728 con la famiglia Pinucci ci dà un’idea della situazione. Leonardo
concede ai Pinucci per 18 lire al mese – un po’ più del quadruplo del salario che
percepirà la serva di Bengasi – «una parte della nostra casa propria di via Mercanti»,
quella parte dov’era stato fino ad allora il prete siciliano Francesco Gregori, e
più precisamente «stanze quattro al primo piano, e che se gli devan dare nel modo
che di presente si ritrovano, cioè con la facultà di poter passare nelle stanze terrene
col solo fine di potersi prevalere del pozzo e pila, con dover dette stanze terrene
restare a nostra libera disposizione». Naturalmente Leonardo vive con la famiglia
al piano nobile, sopra i Pinucci, come risulta senza dubbio dal confronto col ricordo
del contratto col prete siciliano; resta nondimeno – poiché si tratta della casa di
un uomo ricco – l’impressione di una pratica ancora alquanto flessibile della delimitazione
e tutela dello spazio privato. Del resto, quattro anni più tardi, nel dicembre 1731,
Leonardo, i cui figli sono ormai tutti sistemati altrove, vende per 900 scudi – circa
trecento volte la pigione mensile dei Pinucci – una parte certo non irrilevante della
casa di via Mercanti. Non pare affatto in difficoltà economica, ma la vendita è un
affare: 100 scudi in più del prezzo di acquisto, e insieme l’estinzione di un vecchio
censo dovuto alla parte compratrice, il monastero di Nicosia nella valle di Calci,
e comunque col diritto di continuare ad abitare l’intero palazzo. Ancora una volta
Leonardo si conferma un patrizio mercante all’antica, che vuole fondare un casato
sugli investimenti produttivi e non sugli sprechi.
Dell’abitazione di via Mercanti non siamo purtroppo in grado di conoscere né la divisione
e destinazione degli spazi né le abitudini e i ritmi di vita. La sappiamo però, attraverso
i libri di ricordi, frequentata fittamente da parenti e amici che sono spesso anche
soci o controparti di affari, e che ritroviamo quasi tutti nella lista dei padrini
di battesimo dei numerosi bambini di casa. Leonardo non è stato infatti un uomo isolato.
I casi della vita hanno finito fra l’altro col rimettergli accanto l’unico fratello
maschio vivente, il prete Domenico, che anziché occuparsi della sua prioria di Vinci,
evidentemente affidata in qualche forma di gestione a un sostituto, si è ritirato
fin dai primissimi anni del Settecento a vivere di rendita a Pisa. Senza mai tradire
un solo moto di affettuosità, e forse perfino di simpatia, il rapporto tra i due fratelli,
o meglio tra il prete e la famiglia e casa dello sposato, è abbastanza stretto. Domenico,
che vive per conto suo, è ogni tanto a pranzo da Leonardo; partecipa, in un caso anche
come padrino, alle feste di battesimo; in un’altra occasione organizza e guida un
pio pellegrinaggio dei più grandi dei nipoti. In particolare, è più volte al centro
di un ben regolato meccanismo di scambio di doni natalizi, in cui di solito riceve
vestiti o cibi, e dà denaro in forma di regali ai nipoti e mance ai servi. Come sempre,
Leonardo tiene i conti, e uno di questi vale la pena esaminarlo. Il 24 dicembre 1716
Domenico ha mandato in dono 4 talleri; si tratta di monete reali, pari in tutto a
24 lire (7 lire equivalevano a 1 scudo) in moneta di conto, di cui 4 toccano una ciascuna
ai servi, le restanti vanno divise fra i figli in proporzione all’età (non al sesso).
Il giorno stesso vengono portate a Domenico diverse derrate alimentari, di cui Leonardo
trascrive la distinta coi costi, assommanti a poco più di 25 lire.
È una transazione caratteristica, ancora una volta, di uno stile di vita tradizionale,
in cui lo scambio di doni è inseparabile non solo dalla coltivazione dei legami personali
e dalla conferma delle gerarchie, ma anche dai rapporti economici; perché la quasi
perfetta corrispondenza fra il costo dei generi alimentari inviati in dono a Domenico
e il denaro da lui regalato – un fenomeno che si ripete in molti altri casi – ci suggerisce
che questo è anche un modo in cui il prete, privo di terre in gestione diretta, acquista
provviste per il suo ménage. Del resto fra lui e il fratello corrono in diverse altre
occasioni rapporti che sono più esplicitamente d’affari, e nei quali comunque continua
a giocare un elemento molto personale. Come puro rentier, Domenico dispone di abbondante liquidità inattiva, con la quale può fare prestiti
più o meno consistenti a Leonardo. Almeno in alcuni casi i prestiti vengono contratti
senza pattuire esplicitamente un interesse; in uno di questi casi, il 6 maggio 1727,
a proposito di un prestito particolarmente forte, Leonardo annota: «toccherà a noi
a renderli qualche gratitudine per tal servizio». Il prestito in questione è di 666.
13. 4 lire, pari a 37 volte la pigione mensile dei Pinucci; due giorni più tardi
Leonardo manda al fratello in ‘dono’ un pezzo di carne secca del valore di 3. 15.
0 lire e uno staio di miglio del valore di 1. 6. 8: in altri termini, un interesse
appena dell’1%, ma anticipato.
Con tutto questo, la temperatura emotiva del rapporto tra i due fratelli, che dura
quasi quotidianamente oltre trent’anni, pare rimasta sempre, nel bene e nel male,
piuttosto bassa. I pochi apparenti contrasti compaiono nei libri di ricordi come disinnescati
dall’appianamento già procuratone da Leonardo col suo atteggiamento accomodante, «bonario»,
come egli stesso lo definisce una volta. Per altro si ha l’impressione che col passare
degli anni tale accampata bonarietà si sia, pur senza scontri clamorosi, un poco inasprita.
Il ritardo del prete nel consegnare una ricevuta per un pagamento di messe suscita,
il 20 gennaio 1733, un risentito commento di Leonardo: «notasi che con i parenti non
si deve uno intrigare che meno che si puole, perché chi è galant’huomo non si puole
conseguire il suo giusto, andandosi sempre al di sotto per convenienza, e non voler
parere strano». I due fratelli invecchiano senza alcun reciproco intenerimento; e
quando don Domenico muore, il 5 aprile 1739 Leonardo registra il fatto senza una parola
di descrizione o di ricordo, per non dire di commozione. Solo, si scusa di non averlo
potuto visitare perché anche lui malato, e dichiara le proprie intenzioni circa l’eredità
che Domenico, da tempo in rapporti freddi con i nipoti fiorentini della linea primogenita,
gli ha lasciato: «Dubitando giustamente di poter incontrar de litigij a recuperare
quello che vi puol essere in detta eredità me ne voglio astenere in tutto e per tutto,
e quel poco di bene che gli ho fatto ho inteso farlo tutto per carità semplice e non
per obbligo».
Il fatto di appartenere al casato paterno, alla parentela agnatizia, non è stato per
Domenico un motivo in più d’importanza agli occhi del fratello minore; perché verso
i Bracci di Firenze Leonardo, chiusa la lite con la divisione del 1711, si è mostrato
poco interessato, come appare del resto naturale, avendo egli per l’appunto fondato
un casato nuovo, con un altro nome e in un’altra città. L’opera del tempo, insieme
col precetto cristiano del perdono, ha pure attutito i risentimenti più vivi, se non
è tutta da attribuire a una compunzione d’obbligo in un libro di ricordi per i discendenti
la pacatezza del commento sulla morte, avvenuta a Firenze il 17 febbraio 1730, dell’antica
avversaria, la cognata Prudenza Ferroni:
Il Signor Dio gli habbi dato il premio delle sue buone opere per esser stata sempre
buona christiana, e gl’habbi perdonato quanto havesse fatto contro la mia persona
in passato, che quando sia stato havrà facilmente creduto di far bene et il giusto;
et io di tutto quore gli rimetto qualunque ingiuria mi havesse fatta e prego il Signor
Dio a perdonarli tutto come fatto per ignoranza, e mi dia grazia di rivederla in Paradiso.
Le comparse degli altri Bracci di Firenze nei libri di ricordi sono anche più anodine:
i rapporti d’affari scarsi, i contatti diradati, le commemorazioni convenzionali.
Nel rivolgere il pensiero, una volta tanto per ciascuna, alle due sorelle monache
a Firenze delle quali gli viene comunicata la morte, Leonardo non va oltre qualche
stereotipata parola di circostanza sulla loro vita da buona religiosa; e neppure la
morte prematura del figlio primogenito di un figlio di Prudenza gli strappa un moto
di vera partecipazione.
Il punto di riferimento fiorentino di Leonardo non è stato un esponente del suo cognome
– più esattamente del suo ex cognome – ma un parente acquisito per via femminile,
Onofrio Arrighetti. Cavaliere dell’ordine nobiliare del Granducato di Toscana, l’ordine
di santo Stefano, con sede a Pisa, Arrighetti si serve di Leonardo come agente e appoggio
per i suoi interessi pisani: ne viene ripetutamente accolto e ospitato, sostituito
nella riscossione delle rendite dei beni del suo cavalierato, in un caso aiutato fattivamente
dall’esperto parente per un problema di gestione del suo bestiame. Specularmente,
Leonardo fa capo ad Arrighetti per gli affari con Firenze, e si affida a lui per l’assistenza
e i rapporti con due sue figlie e un suo figlio monacati nella capitale. Quella fra
Leonardo e Arrighetti è una relazione più che trentennale, nella quale gli incontri,
i favori reciproci, lo scambio di notizie familiari sono una cosa sola con gli affari,
gli investimenti in comune, i prestiti da parte di Leonardo. Ancora alla fine del
1736, quando questi ha dato in sposa a Livorno la minore delle figlie, Arrighetti
ha un ruolo essenziale nella costituzione della dote, perché se ne fa mallevadore
allo sposo in forza del notevole debito che ha con Leonardo in quel frangente dei
loro intrecciatissimi affari. L’impegno non ha nulla di freddamente impersonale, perché
qualche settimana più tardi Arrighetti e Leonardo vanno a Livorno a liquidare la somma
al genero, insieme in carrozza come i due vecchi amici che sono.
L’altra figura che compare con un’importanza paragonabile, forse anche maggiore, nei
libri di Leonardo, è un altro parente acquisito, questo a Pisa, il cognato Verissimo
Ruschi. Verissimo è l’uomo della sua generazione più presente nei libri di ricordi
e nella vita di Leonardo, il quale mentre si stizzisce per il ritardo di una ricevuta
del proprio fratello, col cognato fa affari sulla parola, «per passarsela – come scrive
una volta – in confidenza». I due si frequentano spesso, si invitano regolarmente
«a desinare» per decenni, come continueranno a fare anche dopo la morte della rispettiva
moglie e sorella; si scambiano anche loro i regali di Natale, in un giro che comprende
«galanterie» con le altre sorelle di Ruschi, monache in S. Lorenzo di Pisa. Relazioni
economiche e relazioni parentali sono fra loro tanto più inscindibili, in quanto le
prime sono largamente condizionate e alimentate dai traffici, sempre amichevolmente
condotti, dopo il superamento di un’iniziale vertenza, intorno alla dote di Bona Ruschi.
Dei 2.000 scudi che comporta, Verissimo al 30 novembre 1726, più di trent’anni dopo
il matrimonio, ne deve al cognato ancora 500; il 2 dicembre 1728 ancora 400, su cui
paga il 4% di interesse (16 scudi). Questo residuo verrà liquidato a Leonardo nei
mesi successivi alla morte della moglie, in due rate di 200 scudi fra novembre 1734
e febbraio 1735. Questi che in termini di efficienza e impersonalità di rapporti economici
moderni si potrebbero definire ritardi o strascichi sono piuttosto, nel quadro della
vita e dell’attività di Leonardo, legami e opportunità: il residuo della dote è come
un prestito fatto al cognato, e i frutti che ne ricava rientrano in gioco anche in
altri affari intrapresi con lui, e possibili anche grazie alla loro parentela e amicizia.
Le relazioni sociali di Leonardo sono dunque nel complesso quelle di un uomo di negozi
all’antica, che non distingue fra sfera privata e mondo del lavoro, e pensa all’ozio
solo in termini negativi, senza poterlo concepire come un’occasione di socializzazione.
Proprio il ritratto in morte del cognato Ruschi nell’aprile 1741 esprime efficacemente
il programma di questa tradizionale arte della ‘economica’:
Gentilhuomo pisano, huomo di grand’economia e principalmente buon christiano, che
con le sue industrie ha tirato avanti e posta la sua casa e famiglia in buono stato
di facoltà. Egli ha sofferta una malattia penosa di paralisia e dolori di nervi per
più di due anni. È stato compianto da buoni per esser vivuto sempre in buon credito
di tirar avanti bene le cose sue, e buona economia per la quale si è avanzato come
detto, ond’è che la città di Pisa ha perso un buon cittadino e che ha dato buon esempio,
perché quelli che non vivon bene e si danno alli sciali e bel tempo, come s’usa nelle
città per lo più oziose, possino imparare a governarsi, e che quei denari che si gettan
via in sfarzi e lussi si perdono, e non si profitta.
Letture
Abbiamo ancora una volta constatato che l’idea nutrita da Leonardo dell’industriosità
e del profitto non ha niente di moderno, ma corrisponde piuttosto all’etica del mercante
dell’Italia comunale, quella – come s’è detto – dei libri di ricordi basso-medievali,
o dei Libri della famiglia di Leon Battista Alberti, cui egli aggiunge anzi un tocco di polemica contro l’oziosità
cittadina che ne accentua la sfumatura di arcaica rusticità. È un atteggiamento tanto
più interessante perché, a differenza dei Rusteghi goldoniani, Leonardo, fra l’altro da giovane – non dimentichiamolo – buon viaggiatore,
non è un ombroso barbogio, ma un uomo curioso, attento e abbastanza informato. La
grande politica e i grandi dibattiti d’idee sono ovviamente appena presenti sullo
sfondo dei suoi ricordi: con la registrazione, sempre in occasione delle morti, della
sua ammirazione per Luigi XIV di Francia, «difensore della Chiesa Cattolica»; e della
sua ostilità per Giorgio I Hannover, «il quale s’usurpava detto regno d’Inghilterra
dovuto al legittimo re Jacomo Stuard esule dal suo regno per la pertinacia degl’eretici
suoi sudditi».
Sono invece ben presenti e attestate le sue letture, perché Leonardo, sempre meticoloso,
ha preso nota dei suoi acquisti di nuovi libri e dei prestiti fatti o avuti, ed egli
non è stato certo tipo da spender soldi o anche solo crearsi un obbligo senza un buon
motivo. A parte la «Gazzetta di Bologna», la sua fonte d’informazione corrente per
notizie come quelle sulle morti dei re, il catalogo di biblioteca che si può idealmente
formare grazie alle sue registrazioni è assai vario, non sempre scontato, e riserva
anche qualche sorpresa.
Molti libri di religione, certo, alcuni posseduti e prestati, altri chiesti in prestito,
altri ancora regalati ai figli e alle figlie entrati nello stato ecclesiastico. Varie
grammatiche e dizionari francesi e spagnoli, e un poco di viaggi e geografia. Qualche
classico latino – sono citati Virgilio, Orazio, Catullo e Properzio – che Leonardo
sembra essere addirittura in grado di leggere in originale. Libri di storia, le Vite dei papi dell’umanista Platina con le aggiunte dell’erudito Panvinio, e altri libri di storia
ecclesiastica. Farraginosi centoni cinquecenteschi dell’enciclopedico sapere medievale,
quali la Poliantea di Nanni Mirabello e le Cronache di Iacopo Foresti. E come appropriato coronamento di tutto ciò, le opere di Jacques-Bénigne
Bossuet, per le quali Leonardo nutre abbastanza interesse da ricopiarne, il 20 aprile
1738, un elenco diffuso da un libraio. L’attenzione particolare per Bossuet è comprensibile:
si tratta dell’ultimo grande sostenitore, nella Francia di Luigi XIV, dei princìpi
dell’ortodossia religiosa, dell’autorità e della tradizione, che fra Sei e Settecento
vengono ormai contestati in vari paesi d’Europa in nome dello spirito d’indagine e
della libertà di pensiero: un campione ideale per un piccolo patrizio misoneista in
una piccola città italiana, destinato a rimanere del tutto estraneo a quella crisi
della coscienza europea.
Eppure Leonardo, un uomo molto meno credulone che conservatore, e sempre vigile per
curiosità, ha avuto per mano – in questo caso li ha posseduti e prestati – anche dei
libri ben poco compatibili col cattolicesimo reazionario della Francia dell’ultima
parte del regno di Luigi XIV: nel maggio 1726 «un libro metà spagnolo, e metà italiano
della Relazione della conquista della nuova Spagna e crudeltà state commesse dagli
Spagnoli contro i poveri Americani scritta dal Rev.mo Vescovo di Ciappas»; nel marzo
1730 «il libro de Pensieri di M.r Pasquale in Francese»; nell’ottobre dello stesso
anno «un quadernuccio manuscritto da me che è l’Apologia del Galileo sopra il suo
sistema che il globo terraqueo si rivolge intorno al sole, e che questo sia immobile
nel centro del mondo». Dunque: Las Casas contro i cattolicissimi Conquistadores; le
Pensées di Pascal, il grande esponente a metà Seicento del Giansenismo poi perseguitato da
Luigi XIV; e addirittura lo scienziato processato dal Santo Uffizio, le cui eresie
Leonardo non si limita a meditare con tutto l’agio concesso da un lavoro di trascrizione,
ma grazie alle sue relazioni diffonde come un veleno nel cuore del clero pisano, perché
il suo «quadernuccio» il 4 ottobre 1730 l’ha «imprestato al signor canonico Giuseppe
Ruschi»!
Un filone di razionalismo galileiano è del resto sempre rimasto vivo in Toscana, e
ancora più viene ravvivato giusto negli anni Venti e Trenta del Settecento per le
scelte culturali del granduca Giangastone de’ Medici; Leonardo sembra il tipo d’uomo
in grado di apprezzarlo. Nell’ultimo foglio dello stesso libro di ricordi dove ha
registrato il prestito di Galileo, prende un appunto di lettura della Storia dell’Antico Testamento di Augustin Calmet. Si tratta di un’opera scritta proprio in quegli anni da un erudito
monaco francese per narrare con ordine sistematico le vicende storiche della Bibbia,
non intese allegoricamente ma prese alla lettera – secondo l’illustre tradizione
inaugurata da sant’Agostino – anche nei dettagli e nelle misure, come statura degli
uomini, età dei patriarchi e simili.
Molti di noi sono lettori di Calmet senza saperlo, perché la sua Storia ha offerto la trama di vari articoli del Dizionario filosofico di Voltaire, che vi ha ottenuto un effetto comico irresistibile limitandosi ad aggiungere
qualche sottolineatura ironica alle parole stesse dell’erudito. Leonardo, che avrebbe
potuto leggere altre opere di Voltaire ma comunque non ancora il Dizionario, deve aver letto con cura la Storia di Calmet: abbastanza da soffermarsi a riprendere e parafrasare con un’attenzione
tutta speciale una pagina di calcoli su pesi e misure, ispirata dall’asserzione del
II libro di Samuele (XIV, 25-26) che «i capelli d’Assalonne pesavano 200 sicli». Questo
dato non è plausibile: «i capelli non crescono più di 4 dita in un anno». E per quanto
Assalonne si sia tenuto lontano dal barbiere, la sua chioma non può aver raggiunto
il peso di oltre 200 sicli. L’unica ipotesi da prendere in considerazione è perciò
che in questo caso la Bibbia si riferisca al siclo babilonese, pari a 1/3 di quello
ebraico. Questa piccola nota di lettura ha il suo interesse: l’esistenza di una cultura
– nel senso di una sfera mentale entro le cui coordinate e per mezzo della cui attrezzatura
intellettuale si svolgono le nostre idee – non è un’invenzione degli antropologi;
e nella cultura cui è appartenuto Leonardo, quella dell’obbedienza alla tradizione,
la ragione critica di Voltaire era ben lungi dal fare breccia. Ma entro tale cultura
Leonardo ha dimostrato le sue preferenze e fatto le sue scelte; da buon mercante toscano,
si è appuntato su quella che era pure un’altra forma di ragione: non ha smesso, anche
di fronte alla Bibbia, di fare i conti.
Società e famiglia
L’aspetto della vita verso cui Leonardo ha invece proprio chiuso gli occhi, con una
reazione di ostilità cieca non per ottusità ma per furore, è stato quello della socievolezza,
della frequentazione mondana; ciò che egli chiama, con parola settecentesca, «conversazione»,
per significare sia la stessa cosa che intendiamo noi, sia, in senso lato, le occasioni
che la provocano, l’incontrarsi in società. È una pratica tutta diversa dalle relazioni
sociali, fra il familiare e l’economico, di Leonardo; è inscindibile dall’ozio professionale
dei letterati, dalla nascita dei salotti intellettuali, oltre che dalla diffusione
di feste e spettacoli. E non per nulla Muratori, il grande contemporaneo di Leonardo
che già conosciamo, uomo illuminato ma prete, ne ha attribuito la causa, o meglio
la colpa, all’influsso esercitato in Italia dai Francesi durante la guerra di successione
spagnola all’inizio del secolo, influsso ispiratore, fra le altre corruzioni, della
«gran libertà di commerzio fra l’uno e l’altro sesso»; dove commercio vale più o meno
come una conversazione piena di cattive tentazioni.
Leonardo vede rosso, al punto quasi da perdere il suo abituale ben calcolato ed equilibrato
rapporto con la realtà. L’assalto subìto nel maggio 1726 da un cavaliere pisano per
strada al ritorno da un ritrovo è per lui «avviso alla gioventù di stare in casa e
ritirarsi presto lasciando la notte alle bestie et alla gente poco morigerata». Le
cadute, a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, nell’agosto 1728, dei soffitti
di un salone usato per il teatro e di un altro luogo a uso pubblico sono il segnale
della pazienza divina, ma anche del fatto che perfino questa ha un limite: «Da tutto
si deve riconoscere e ringraziare la bontà del Signor Dio nostro, che ha permesso
queste rovine in tempo che [né] nell’uno né nell’altro luogo vi era gente, come era
successo la sera avanti nel primo, che fu fatta la commedia con molto concorso di
popolo, et io oltre al benefizio della misericordia di Dio ne cavo un documento, che
sia bene guardarsi tanto da dette commedie perché credo vi si facci più male che bene».
Anche la morte, registrata il 6 maggio 1728, del giovane primogenito dell’amico e
parente Onofrio Arrighetti, conosciuto in occasione di una seduta dell’Ordine di santo
Stefano, contiene una lezione antisettecentesca da parte del Padreterno: «Nel Capitolo
passato, assieme con detto suo padre venne in casa nostra e ci dette un buonissimo
esempio de suoi costumi innocenti, che perché non havesse a macchiare la sua vita
illibata in questo secolo dove i costumi son molto depravati per le conversazioni
troppo libere, forse il Signor Dio per sua pietà l’ha tirato a sé».
{
const voices = speechSynthesis.getVoices()
});
console.log(voices);
msg.voice = voices[10]; // Note: some voices don't support altering params
function leggi(){
window.speechSynthesis.speak(msg);
icon = document.getElementById('leggi');
}
function stop_leggi(){
window.speechSynthesis.cancel();
}
-->