Alberto Cutillo^*.
I rapporti tra Italia e Albania durante la Guerra fredda

Da alcuni anni gli astrofisici di tutto il mondo vivono una situazione per certi versi paradossale. Misurando la velocità con la quale l’universo si espande oggi e confrontando tale velocità con quella registrata nel passato sono giunti ad una conclusione tanto inequivocabile quanto sconcertante: l’universo che ci circonda è molto più massiccio di quello che riusciamo a vedere. Per essere precisi, l’universo che noi osserviamo costituisce soltanto il 5% del «vero» universo. E il resto? Gli astrofisici ritengono che il 27% sia composto da «materia oscura», ossia materia per molti versi analoga a quella di cui siamo fatti noi, la terra, le stelle e tutto quanto esiste nell’universo che conosciamo, a parte il fatto che questa materia non interagisce con il 5% a noi familiare. Quindi rimane «oscura». Quanto alla parte mancante più grossa, il 68% del tutto, gli astrofisici l’hanno battezzata «energia oscura», ma in realtà nessuno ha un’idea di che cosa possa mai essere questa energia oscura. Sappiamo soltanto che non la vediamo e che ha una natura diversa da quella della materia che conosciamo.

Se mi è concesso un parallelo un po’ ardito, questo contesto astrofisico potrebbe essere traslato ad un altro universo, quello che forma l’oggetto di questo convegno, ossia i rapporti tra Italia e Albania durante la Guerra fredda. Le percentuali sono difficili da determinare, ma non credo di sbagliare troppo dicendo che gli storici odierni hanno finora esaminato soltanto una piccola frazione (diciamo il 5%?) di questo universo. Per tutta una serie di ragioni che emergeranno dalle relazioni che ascolteremo, da entrambe le sponde dell’Adriatico non abbiamo visto la materia e l’energia oscure che compongono molta parte della nostra storia comune, o meglio, come dicono gli astrofisici, non vi abbiamo interagito.

Durante la Guerra fredda l’Italia è entrata nella vita degli albanesi attraverso la radio, e poi la televisione. Ma le onde elettromagnetiche viaggiavano anche nell’altra direzione dell’Adriatico e portavano verso le regioni italiane notizie da quella terra misteriosa che era allora l’Albania. A livello personale, serbo un ricordo vivo di Radio Tirana quando, verso la fine dei lunghi pomeriggi estivi, nella casa di famiglia di mia madre, in Basilicata, avevamo preso l’abitudine di riunirci alle 19 per ascoltare il bollettino in lingua italiana. Preceduto da otto note marziali ripetute ad intervalli regolari per alcuni minuti, il notiziario – almeno nel mio ricordo – consisteva nella rapida lettura di notizie sulle diverse produzioni agricole e industriali, tutte caratterizzate da tassi di crescita vertiginosi, segnali inconfutabili dell’inarrestabile progresso del socialismo reale. Ascoltandolo, ci guardavamo scettici, cercando di immaginare quello che le impersonali statistiche economiche non dicevano: che aspetto avessero le donne e gli uomini albanesi, come vestissero, cosa sognassero, quali programmi guardassero alla televisione. Domande destinate a rimanere senza risposta ancora per lunghi anni.

Qualche anno prima del socialismo reale in Albania, in Italia si era chiuso con una guerra civile il ventennio di dittatura fascista. Io sono nato diciassette anni dopo quella tragica fine, ma ricordo bene come fosse difficile affrontare serenamente una discussione storica su quel periodo, almeno fino a quando io non fui adulto.

Credo fosse la fine degli anni Ottanta quando un mattino, andando al lavoro al ministero degli Esteri, mi accorsi che era terminato il restauro dell’obelisco del Foro Italico. Rimosse le impalcature, su di esso si leggeva chiaramente la scritta «Mussolini Dux». La scritta, per quanto ne so, c’era sempre stata dal 1932, quando l’obelisco era stato eretto, ma fino a quel momento la patina degli anni l’aveva pudicamente nascosta. Seguirono settimane di aspri dibattiti tra coloro che volevano coprire nuovamente quell’iscrizione, percepita come un’apologia del fascismo, e quanti credevano invece che fosse giunta l’ora di fare i conti con il nostro passato, anche quello relativamente prossimo e per molti versi imbarazzante, perché collegato a eventi di cui molti provano ancora oggi vergogna e repulsione. L’iscrizione è tuttora ben visibile.

Questo convegno è frutto di oltre un anno di lavoro e si inserisce in un progetto più ampio, come spiegherà meglio il suo coordinatore, Paolo Rago. Ringrazio il presidente Moisiu per la sua presenza, che ci onora e i cui ricordi personali arricchiranno i lavori odierni. E ringrazio, naturalmente, gli illustri relatori – albanesi e italiani – che hanno accettato di partecipare a questa ricerca e che oggi ci guideranno nell’esplorazione di quel 95% di terra incognita che era sotto i nostri occhi e non vedevamo: il professor Roberto Morozzo della Rocca il quale, affrontando il tema dell’occupazione dell’Albania da parte dell’Italia fascista, ci fornirà le necessarie coordinate per comprendere i successivi sviluppi che hanno interessato il Paese a partire dalla capitolazione militare italiana e dalla presa del potere da parte della resistenza comunista; il professor Settimio Stallone, che ci parlerà della politica estera post-bellica svolta dall’Italia nei confronti dell’Albania, oramai ritenuta un Paese non più oggetto di mire espansionistiche ma pienamente sovrano; la dottoressa Enriketa Papa Pandelejmoni, che affronterà il delicato capitolo del rimpatrio dei cittadini italiani, civili e militari, presenti al termine del conflitto su tutto il territorio albanese; il professor Antonio D’Alessandri, che ci introdurrà nell’importante tema del ripristino degli scambi commerciali tra i due Paesi individuato, tra l’altro, quale principale mezzo per proseguire sulla strada della normalizzazione dei rapporti politici; il consigliere Sokol Dedja, che ci illustrerà l’evoluzione delle relazioni tra Albania ed Italia in seguito al distacco di Tirana dal campo socialista; il dottor Artan Hoxha, che analizzerà la specifica posizione nei confronti dell’Albania socialista assunta dagli USA e mediata dal punto di vista dell’Italia, alleato NATO più interessato al mantenimento della stabilità nel settore del Mediterraneo; il dottor Nicola Pedrazzi, che spiegherà le insanabili diversità tra il Partito Comunista Italiano e quello albanese, sebbene entrambi caratterizzati dalla lotta al fascismo, fattore unificante le due esperienze pur tanto differenti; la dottoressa Anna Esempio Tammaro, che ha condotto uno studio di carattere giuridico sui documenti conservati negli archivi britannici e italiani, ci parlerà dell’importanza della questione dell’oro della Banca Nazionale d’Albania (BNA); ed infine la professoressa Nevila Nika, la quale, compiendo un prezioso lavoro di ricerca e di sistemazione documentaria, ha reso un servizio a tutti quegli studiosi intenzionati ad accedere alle carte archivistiche conservate presso l’Archivio Centrale di Stato della Repubblica d’Albania relative ai rapporti italiano-albanesi dal 1944 al 1990.

Queste «scoperte», ne sono convinto, gioveranno non solo e non tanto agli storici, ma soprattutto a noi, cittadini e istituzioni dei due Paesi, per conoscerci ancora meglio e guardarci negli occhi con rinnovata e più solida amicizia.

Paolo Rago.
Le ragioni di uno studio storico

Il presente convegno è stato pensato con l’obiettivo di dare vita ad un primo tentativo di approfondire argomenti di carattere storico fino ad ora poco o nulla studiati, aventi reciproco interesse per l’Italia e l’Albania. Coinvolti su un piano paritario, gli studiosi italiani e albanesi qui riuniti hanno risposto positivamente alla proposta di approfondire lo studio delle relazioni bilaterali durante gli anni della cosiddetta «Guerra fredda» (1945-1991). Tale frangente, forse tra i più complessi della storia contemporanea, ha profondamente segnato le mutue relazioni tra i nostri due Paesi, in quei decenni aderenti a due inconciliabili contesti geopolitici che avevano assunto, per la prima volta nella storia, caratteristiche globali.

Questo convegno giunge a conclusione di un’accurata fase di indagine documentale operata in vari enti archivistici non soltanto appartenenti ai due Paesi interessati alla ricerca. Il suo principale scopo è quello di portare a conoscenza di un ampio pubblico, con ricchezza di argomenti e con un approccio multi-dimensionale, il livello e la complessità dei rapporti bilaterali esistenti durante il periodo storico preso in esame. Questa fase di studi è stata sostenuta con convinzione ed incoraggiamento dall’ambasciata d’Italia a Tirana, la quale tuttavia non è stata direttamente coinvolta nell’attività preparatoria, quando si è proceduto a individuare i relatori, i quali hanno successivamente compiuto le proprie scelte di studio, avvalendosi del presupposto dell’assoluta libertà di ricerca.

Molte sono le ragioni che ci hanno spinto a realizzare questo progetto. In primo luogo, è apparsa sempre più indilazionabile la necessità di rendere esplicita una narrazione, seppure parziale ed incompleta, degli eventi accaduti, allo scopo di contribuire a una più autentica conoscenza dei fatti occorsi e ad una ricostruzione più reale – ancor meglio se condivisa – degli avvenimenti. In secondo luogo, pur non sottovalutando in alcun modo l’impegno intrapreso in passato da alcuni studiosi, soprattutto italiani, un semplice sguardo ai titoli editi durante gli ultimi venticinque anni è sufficiente per comprendere come l’intero arco temporale che va dal 1944 al 1989 sia stato contrassegnato dalla pubblicazione di un numero limitato di opere a carattere storico. In effetti, gli sforzi compiuti finora non rendono ragione appieno della complessità delle relazioni intercorse tra la Repubblica Popolare Socialista d’Albania e la Repubblica Italiana. E per quanto a prima vista possa sembrare bizzarro, i rapporti bilaterali avviati in una condizione del tutto inedita, tra innegabili problematicità e contraddizioni a seguito della infelice esperienza dell’occupazione militare dell’Albania e la successiva tragedia della guerra, hanno finito per ripercorrere il solco della secolare amicizia tra i due popoli vicini, pur esplorando sentieri originali e fino a quel momento mai battuti.

Come accennato poco sopra, fin da subito è parso appropriato fondare il progetto unicamente sulla lettura essenziale degli avvenimenti, lasciando i documenti accessibili liberi di «parlare» nonché interpretandoli in maniera rigorosa. Ci si è sforzati, altresì, di affrancare la documentazione rintracciata dalla sovrapposizione di teorie storiografiche e condizionamenti di natura politica oramai inattuali o, ancor di più, precostituiti, in modo da rimuovere gli ostacoli di carattere ideologico-interpretativo, presenti in modi e quantità diversi su entrambe le sponde dell’Adriatico. Non è mancata la consapevolezza che la presenza di argomentazioni riconducibili dapprima al nazionalismo e più tardi al comunismo hanno inevitabilmente favorito la strutturazione di narrazioni pregiudiziali, soprattutto – ma non soltanto – nei Balcani. Solo a titolo di esempio vorrei accennare a quelle teorie storiografiche che hanno teso a presentare comunità etnicamente pure, vissute ermeticamente separate l’una dalle altre e del tutto refrattarie agli influssi ed alle commistioni culturali con i propri vicini: tali teorie appaiono oggi non solo inconcepibili ma, ancor di più, sostanziali impedimenti per una veritiera conoscenza della regione e degli avvenimenti che l’hanno caratterizzata. Parimenti, le diverse versioni del comunismo edificate nei Paesi balcanici, con il loro carico ideologico totalitario, hanno necessariamente influenzato la formazione di almeno due generazioni di storici, imponendo forzatamente modelli culturali ispirati alla ragion di Stato di quei decenni. Essendo quest’ultimo un elemento immancabilmente riscontrabile in tutti i Paesi della regione, è logico dedurre che anche l’Albania non ne sia stata immune.

Per chi è addentro alle cose dell’Europa orientale non rappresenta certo un inedito la necessità, frequentemente addotta negli ultimi due decenni in modo più o meno coerente, di una pur doverosa revisione interpretativa della storia contemporanea. Capi di Stato e di governo di questi Paesi, ministri e funzionari di partito di diversa formazione ed orientamento politico sono intervenuti molte volte, e non di rado in modo più passionale che razionale, in un dibattito culturale che, per sua natura, dovrebbe essere lasciato nelle mani degli «addetti ai lavori», vale a dire di storici, studiosi ed esperti della materia. Detto ciò, la politica non può e non deve restare al di fuori dei tentativi di dare vita ad una rilettura storica: essa dovrebbe svolgere il suo compito di garanzia di tutte le parti in causa e, senza troppe interferenze, limitarsi ad assicurare la libertà di ricerca, evitando di imporre soverchi condizionamenti, siano questi palesi o impliciti. Va detto con obiettività e senza polemiche ma anche con rammarico che, nonostante alcuni innegabili risultati raggiunti, fino ad oggi tutto ciò ha faticato non poco a realizzarsi. Non è certo questa la sede per comprendere le ragioni di questo ritardo. E tuttavia non può non essere notato un modo di agire inopportuno da parte della politica, allorquando quest’ultima non cessa di ritenere il terreno degli studi storici alla stregua di una riserva di caccia, finendo per riproporre l’amara realtà degli anni della dittatura comunista, caratterizzata da continue pressioni e dispotiche intrusioni.

Proprio allo scopo di esporre nitidamente quanto accennato poco sopra, trovo appropriato riportare una testimonianza rintracciata nell’Archivio di Stato di Tirana, qui conservata tra la documentazione proveniente dall’ex Archivio del Partito del Lavoro della Repubblica Popolare. Dalla lettura del testo emerge in più punti l’intransigente obbligatorietà di dover piegare le ragioni della ricerca storica – nel caso in essere – a quelle dell’ideologia politica, per mezzo della pervasiva intromissione del partito-Stato esercitata con il chiassoso intervento della seconda più alta carica di quegli anni.

Sotto la guida del presidente del Consiglio dei ministri, Mehmet Shehu, il 9 marzo 1979 si svolge infatti una riunione alla quale partecipano, tra gli altri, Aleks Buda, presidente dell’Accademia delle Scienze, e Stefanaq Pollo, direttore dell’Istituto di Studi storici. Il tema è: Esame delle relazioni «sul rafforzamento della linea politica proletaria del partito e del carattere nazionale degli studi nelle istituzioni delle scienze sociali dell’Accademia delle Scienze e nelle scuole universitarie» e «sull’ampliamento e la riorganizzazione degli studi di storia contemporanea»1. Il lungo colloquio intercorso tra Mehmet Shehu e Aleks Buda mette anzitutto in evidenza per la classe dirigente del tempo l’interesse rappresentato dagli studi sulla mitica popolazione dei Pelasgi, tema perentoriamente assegnato anni addietro dallo stesso Enver Hoxha ai membri dell’Accademia delle Scienze. Gli auspicabili risultati delle ricerche sulla materia avrebbero dovuto inconfutabilmente far risaltare la continuità storica della presenza albanese nella regione.

Introducendo la riunione, Shehu chiede ai presenti «come deve essere valutato il problema dei Pelasgi, predecessori degli Illiri nelle terre dei Balcani [...] quale è il pensiero degli storici e dei linguisti per i problemi dell’antichità»2. Pur attento a non scontentare il primo ministro, Buda risponde provando a portare la conversazione su un ambito più scientifico: egli, infatti, spiega come, in mancanza della benché minima traccia relativa alla esistenza storica dei Pelasgi, sia necessario un lavoro congiunto di specialisti di diversi settori (archeologi e linguisti) e aggiunge che tale impegno non potrà necessariamente esaurirsi in un tempo breve. Tuttavia, lo sforzo di far cogliere all’interlocutore la labilità della richiesta si rivela privo di esito positivo e le argomentazioni addotte finiscono per accrescere l’irriducibilità del primo ministro, che afferma: «Penso che il primo compito non debba essere il reperimento del collegamento che unisce storicamente i Pelasgi con gli Illiri quanto il problema dell’origine degli Illiri. Questo deve essere posto all’ordine del giorno...»3.

Da quanto brevemente riportato, appare evidente come le esigenze ideologiche del Partito sopravanzino ogni altro ragionamento razionale; per di più, di fronte alle argomentazioni addotte dallo storico, Shehu sembra ostinarsi a seguire unicamente il filo della sua logica4, di altra natura rispetto a quella più rigorosa espressa da Buda. E di fronte alle osservazioni e ai dubbi espressi da quest’ultimo sulla necessità di avviare una prudente attività di scavi, non solo per non provocare danni ai reperti ma anche per avere il tempo necessario di catalogare con inconfutabile precisione il materiale ritrovato, Shehu non esita ad usare nei confronti dello studioso un linguaggio impertinente, al limite dell’offensivo: «A quanto sembra, lei sta agendo come il direttore della segheria, il quale afferma che non è necessario tagliare più legna di quanto stabilito dal piano e quella che si taglia deve essere consumata perché non sia infradiciata dalla pioggia»5. Al dileggio Shehu aggiunge poi benevoli quanto spicci consigli su come conservare i reperti portati alla luce, facendo altresì mostra di una certa presunzione: «Penso che dobbiamo conservare gli oggetti scoperti in maniera che non vengano danneggiati né dalla pioggia né dal sole; questi possono essere conservati sia sotto terra sia su scaffali, a seconda del tipo di oggetto, mentre le colonne... possiamo lasciarle anche nel cortile»6.

Nel medesimo documento si incontra un altro passaggio di grande interesse, dove è nuovamente Mehmet Shehu a spiegare a Aleks Buda e a Stefanaq Pollo la «giusta» interpretazione di un episodio della storia contemporanea del Paese, vale a dire la rivolta dell’Albania centrale del 1914-1915, capeggiata da Haxhi Qamili. Facendo riferimento agli studi compiuti sugli avvenimenti di quegli anni, il primo ministro afferma che in primo luogo è indispensabile intraprendere una battaglia contro le cosiddette «manifestazioni straniere», vale a dire le interpretazioni borghesi importate o – ancora peggio – presenti nelle convinzioni di determinati studiosi albanesi. Aggiunge che tale imprescindibile battaglia è un altro aspetto della lotta di classe che deve essere messa in atto anche nel campo delle scienze sociali. Shehu afferma con convinzione:

Per tale questione, come è noto [...] fino a che non è stato pubblicato lo studio del compagno Enver [...] nel quale per la prima volta viene fatta una corretta interpretazione marxista-leninista dell’accaduto, molti storici non hanno avuto punti di vista del tutto esatti. Perché? Perché essi non vedevano gli avvenimenti, i fenomeni, i fatti [...] relativi a tale questione, non li analizzavano e non li interpretavano pienamente attraverso il prisma di classe e a partire da posizioni pienamente marxiste-leniniste. Solo ora, a seguito dello studio del compagno Enver, il problema della rivolta contadina dell’Albania centrale [...] è divenuto del tutto chiaro per chiunque7.

Con le sue affermazioni Shehu offre, quindi, una garantita ricetta di imparzialità e di obiettività per «gli storici, i linguisti, gli studiosi del folklore, gli scrittori, gli artisti, i pittori, gli scultori, in una parola tutti i funzionari delle nostre scienze sociali [...] che studino senza interruzione il marxismo-leninismo, che non si allontanino mai e nemmeno per un minuto da Marx, Engels, Lenin e Stalin, dai documenti del nostro Partito e dalle opere del compagno Enver»8. Insomma, una volta per sempre le linee guida dell’analisi storica erano state tracciate dal Partito e gli storici non dovevano far altro che seguirle senza mai distaccarsene. Oggi appare più chiaro a tutti che tale metodologia, indiscutibile e dogmatica, ha portato inevitabilmente a generare una corrente di pensiero nella quale le vittime più immediate sono state la stessa libertà di ricerca e la conseguente libertà di espressione.

Per concludere questa breve prefazione vorrei ricordare quanto siano state dirompenti le trasformazioni politiche e sociali che hanno chiuso il XX secolo restituendo a questa parte di Europa la speranza di tornare a far parte a pieno titolo della famiglia dei popoli del continente, strada che ogni Paese si è avviato a percorrere. Personalmente, ricordo con commozione i primi momenti dell’epocale cambiamento avvenuto in Albania quando, sfidando la paura e sognando ad occhi aperti, moltissimi cittadini gridavano per le strade di Tirana: «rendiamo l’Albania come l’Europa», ribadendo con queste parole un profondo desiderio di appartenenza alla storia continentale, largamente condiviso. Tuttavia è necessario sottolineare che molto resta ancora da fare. È proprio quella stessa libertà, oramai acquisita in Albania nelle sue forme più sostanziali, che oggi deve essere affermata nei confronti di coloro che svolgono l’importante compito della ricerca storica, in modo da divenire elemento costitutivo appartenente al patrimonio inalienabile della nazione. La libertà di pensiero e la libertà di opinione sono le uniche garanzie per la costruzione di una società realmente aperta e plurale, dove le idee di ciascuno abbiano la medesima dignità e dove non si corra il rischio di essere messi ai margini a causa delle proprie convinzioni. È inutile sottolineare che la libertà, ed ogni effetto derivante da essa, non può essere confusa con la prevaricazione, che è esercizio arbitrario di potere, o con la menzogna.

Sono consapevole che questo processo di edificazione non sarà privo di ostacoli; tuttavia, nutro ancora una volta la fiducia nell’orgoglio e nel senso di dignità così peculiare della società albanese di prendere su di sé un compito primario e portarlo a compimento. In quei giorni ormai lontani e straordinari il rinnovato spirito di libertà non era percepito con timore ma, al contrario, veniva accolto con naturalezza e spontaneità, poiché grazie ad esso si iniziava a comprendere più profondamente la verità delle tristi vicende accadute fino a quel momento nel Paese. Il mio augurio è che quello stesso spirito di libertà possa oggi appianare la strada per raggiungere una più veritiera conoscenza di avvenimenti storici, tanto importanti per le reciproche relazioni, quale frutto della continua ricerca della verità tra le infinite contraddizioni della vicenda umana.

Desidero ringraziare la dottoressa Stefania Ruggeri, la dottoressa Paola Busonero e la dottoressa Federica Onelli per l’assistenza fornita agli autori di questo volume nel lavoro di ricerca da essi svolto presso l’Archivio del ministero degli Affari Esteri italiano.

Alfred Moisiu^*.
Le relazioni albanesi-italiane durante la Guerra fredda

Ho accettato con molto piacere di portare il mio saluto in questa interessante quanto significativa conferenza sulle relazioni tra l’Italia e l’Albania durante gli anni della Guerra fredda. Siamo, infatti, due Paesi vicini, divisi da un braccio di mare di circa 80 km, eppure nel bene e nel male legati storicamente l’uno all’altro e dunque ritengo sia molto importante conoscere più approfonditamente il nostro passato e le relazioni intercorse per poter costruire un futuro più luminoso tra i nostri Paesi ed i nostri popoli. Per di più, i comuni interessi e l’ulteriore rafforzamento dell’Unione Europea, della sua ispirazione e delle sue strutture, richiedono nuovi miglioramenti nei reciproci rapporti, anche a causa dell’importanza del fattore albanese nella regione.

È noto che durante gli anni della Guerra fredda l’Albania faceva parte del blocco orientale guidato dall’Unione Sovietica e, parimenti, era membro del Trattato di Varsavia. La sua posizione geostrategica rivestiva soverchia importanza per l’attuazione dei piani del Patto ed era in grado di provocare serie preoccupazioni nella NATO grazie all’alleanza militare stretta tra gli aderenti. Ancor di più, il Trattato era fonte di inquietudine in particolare per l’Italia, poiché il territorio albanese poteva essere utilizzato per scopi militari da parte dell’aggressivo blocco orientale. A tale scopo vennero infatti individuati sulla penisola del Karaburun specifici siti per la collocazione di missili terra-terra, i quali avrebbero dovuto colpire posizioni militari italiane.

Non va poi dimenticato che a quel tempo presso il porto di Pasha Liman, nelle vicinanze di Valona, erano posizionati dodici sottomarini che avevano il compito di controllare l’intero Mediterraneo; da quel che ricordo, la Marina italiana non ne possedeva più di tre o quattro mentre quella greca due al massimo. L’aviazione militare albanese, priva di bombardieri veri e propri se si eccettua un IL28 utilizzato per scopi ausiliari e per l’addestramento dei controllori di volo, aveva a disposizione soltanto caccia e caccia-bombardieri. I piani a lungo termine concepiti dagli strateghi del Patto di Varsavia prevedevano che dovessero essere dislocate nei nostri aeroporti fino a due squadriglie di bombardieri.

Nel 1959 giunse in Albania in visita ufficiale Chrušëv, accompagnato, tra gli altri, dal ministro della Difesa dell’URSS, il maresciallo Malinovski. La visita si protrasse per più di una settimana, fatto non abituale per un capo di Stato. Al di là degli obiettivi politici del viaggio, Chrušëv esaminò con attenzione, assieme agli esperti militari, il territorio albanese per stabilire dove, oltre a Pasha Liman, potesse essere collocata una base militare di particolare rilievo strategico. Fu deciso di costruirne una a Butrinto: tale provvedimento avrebbe rappresentato un grande rischio non solo per la NATO ma soprattutto per l’Italia.

Tuttavia, i missili non vennero mai installati e la nuova base navale non fu mai costruita. L’Albania si staccò, infatti, dal Patto di Varsavia nel 1961, cessando di rappresentare un rischio per l’intero Occidente. A seguito della partenza dei sovietici rimasero soltanto quattro sommergibili e ciascuno di essi fu affidato al comando di un equipaggio albanese. L’obiettivo era ora differente dal passato in quanto la nuova strategia aveva unicamente scopi difensivi; pertanto, quei sottomarini non rappresentavano più alcun rischio oggettivo per l’Italia.

L’allontanamento dall’alleanza si verificò non perché la strategia decisa fosse contrastata dalla nostra classe dirigente ma perché quest’ultima preferì evitare di affrontare eventuali cambiamenti politici interni, come era accaduto in altri Paesi del blocco socialista – ma non in Albania e Romania – dove Chrušëv aveva potuto avvicendare i massimi dirigenti del partito e dello Stato, rimuovendo i seguaci di Stalin e sostituendoli con altri a lui più fedeli. Di conseguenza, la decisione presa in quegli anni da parte del governo albanese finì per favorire indirettamente i nostri vicini italiani, ed in generale l’Europa, poiché venne definitivamente evitato il rischio di uno scontro militare diretto. Ciò comportò maggiore tranquillità tra le famiglie italiane, minori spese per la difesa, e così via.

In seguito alla fuoriuscita dal Patto di Varsavia, la strategia politico-militare albanese mutò radicalmente. Ora essa prevedeva che il nostro Paese dovesse essere messo in condizione di far fronte, se ce ne fosse stato bisogno, ad un attacco lanciato contemporaneamente da parte del Patto di Varsavia e della NATO, alleanze militari contro le quali l’Albania si sarebbe potuta scontrare per uscirne vincitrice. Spesso tra amici fidati sorridevamo quando parlavamo di queste cose, ma la nuova dottrina strategica prevedeva che la guerra, in caso di necessità, si sarebbe dovuta svolgere in due fasi: dapprima impegnandosi in uno scontro frontale e poi mettendo in atto una guerra partigiana. Furono adottate una serie di misure studiate nei minimi particolari: la costruzione di fortificazioni in lunghezza e in profondità, operazione oltremodo dispendiosa per l’economia nazionale che prevedeva l’edificazione di basi per il deposito delle munizioni, degli armamenti, del vestiario, delle vettovaglie e di tutto il necessario per sostenere lo sforzo bellico. Era stato calcolato che le munizioni immagazzinate avrebbero dovuto bastare per un anno di guerra, anche nel caso in cui non fosse più giunto alcun tipo di rifornimento dall’estero.

Ho ritenuto importante condividere alcuni ricordi delle reciproche relazioni di quegli anni – e anche di quelli precedenti, di cui parlerò tra breve – poiché ritengo che nel momento in cui gli avvenimenti vengono scissi l’uno dall’altro la storia non può essere ben compresa né valutata correttamente.

Io appartengo ad una generazione che ha vissuto gli ultimi anni del regno d’Albania, l’occupazione fascista, la guerra contro il nazifascismo, il primo periodo della liberazione, gli anni della dittatura e quelli della democrazia. A quel tempo prestai il mio impegno presso gli organi amministrativi di comando ed in seguito feci parte degli organismi dirigenti delle Forze Armate albanesi. Di conseguenza, la mia testimonianza deve essere ritenuta di prima mano.

In Albania citiamo spesso un vecchio proverbio: «Puoi scegliere l’amico ed il compagno, ma il vicino te lo dà Dio». Ciò vuol dire che occorre trovare la maniera per costruire una buona e quanto più stabile amicizia con i vicini. Storicamente gli albanesi non hanno mai aggredito alcun Paese straniero, ma ciò non significa che non abbiano mai dovuto affrontare difficoltà. Se si prescinde da quel che è accaduto durante le due guerre mondiali, gli albanesi hanno sempre riconosciuto l’amicizia e l’accoglienza loro ininterrottamente riservata dal popolo italiano; ciò spiega al meglio il fatto che oggi in Italia vivano e lavorino diverse generazioni di emigranti provenienti dal nostro Paese. Tra queste, vi sono coloro che sono giunti al tempo di Skënderbeg e che sono conosciuti con il nome di arbëreshë; gli emigranti arrivati durante e dopo la seconda guerra mondiale e infine coloro che sono sbarcati sulle coste adriatiche negli anni Novanta. Questi ultimi rappresentano un folto numero che secondo le stime supera le 500.000 persone.

Senza dubbio devono essere lodati la natura e l’animo oltremodo generoso e liberale del popolo e della politica italiani. Nel 2003 mi recai in Italia, invitato dal presidente Ciampi, per compiere una visita ufficiale. In quei giorni ebbi l’occasione di visitare alcune zone della Sicilia e della Calabria abitate dagli arbëreshë. Non riesco a dimenticare l’incontro con quelle persone: i loro antenati erano partiti dalla loro patria oltre cinquecento anni addietro, eppure esse continuavano ad usare la lingua albanese – certo, quella parlata in quel periodo storico –, conservavano gli abiti nazionali, i canti dell’emigrazione e della nostalgia, i racconti tramandati della perduta terra d’origine e le tradizioni popolari, inclusa la fede degli antenati.

Mi trovavo in Sicilia, a Piana degli Albanesi. Lì, oltre agli appuntamenti ufficiali, potei incontrare la popolazione e visitare la chiesa di rito bizantino. Sottolineo questo episodio poiché al termine di quella visita riportai impressioni oltremodo toccanti. Nella chiesa la mia attenzione fu attratta dal lampadario di cristallo appeso al centro, a forma di aquila bicipite, simbolo della nazione albanese. Entrato nel presbiterio, volli sapere in quale lingua erano scritti i libri sacri. Restai sorpreso quando vidi che erano scritti in albanese, certamente nella variante del tempo. Tutto ciò mi fece molta impressione, poiché oggi nelle nostre chiese ortodosse si possono anche non trovare i libri sacri in lingua albanese, sebbene in passato vi siano stati. Particolarmente emozionante fu poi la visita al museo etnografico, nel quale erano esposti oggetti e abiti appartenuti ai nostri avi, custoditi fin dal tempo della loro venuta in Italia. Ringraziai le autorità per il fatto che fosse giuridicamente garantita ai bambini la possibilità di studiare in lingua albanese. In breve, ebbi modo di verificare un trattamento non solo umano ma anche moderno, applicato secondo quanto previsto dalle regole europee.

Parimenti, voglio citare il fenomeno della grande emigrazione del 1990. La maggior parte di coloro che partirono in quegli anni oggi ha un lavoro; in migliaia hanno aperto attività commerciali; tutti si sono integrati al meglio e a tutti sono stati garantiti i diritti previsti dalla legislazione comunitaria. Queste persone – oltre 500.000 – non sono poche e rappresentano quasi un sesto della popolazione albanese. Alcune di loro hanno deciso di ritornare in patria, dove hanno intrapreso con successo attività commerciali grazie all’esperienza acquisita durante il soggiorno in Italia.

Il contributo italiano per far conoscere in Albania uno spirito europeo e moderno ha avuto inizio, pur se in modo disorganizzato e spontaneo, fin dagli anni della dittatura, esattamente al culmine della Guerra fredda. In particolare a partire dal 1973, e benché la diffusione delle trasmissioni televisive straniere fosse vietata, la gente prese a ideare le iniziative più disparate per poter vedere i programmi della RAI. Allora, in maniera del tutto clandestina, veniva largamente utilizzata la cosiddetta «lattina», un prodotto artigianale venduto di nascosto grazie al quale era possibile seguire la televisione italiana. La gente apprezzava soprattutto lo sport e la musica, in particolare il festival di Sanremo. Coloro che amavano il festival, e allo stesso modo quelli che adoravano le partite, si incontravano nelle case dotate di apparecchi televisivi prodotti in Occidente: questi ultimi, diversamente da quelli fabbricati in Albania – ai quali doveva essere applicata una «lattina» piuttosto sofisticata –, erano forniti di un pacchetto che consentiva di ricevere il segnale UHF, il quale rendeva possibile la visione diretta delle trasmissioni RAI. Quando arrivava l’ora della partita o del concerto, la gente saliva sui tetti oppure raggiungeva luoghi elevati per collocare le antenne. Oltre a queste trasmissioni, ne vedevamo altre su differenti tematiche che ci consentivano di avere una qualche nozione sul mondo occidentale e comprenderne le differenti situazioni politiche.

L’Italia era ben conosciuta in Albania anche prima della seconda guerra mondiale. In base alle proprie possibilità finanziarie le famiglie mandavano i figli a studiare nelle università della Penisola, poiché a quel tempo nel nostro Paese tali istituzioni non esistevano. Oltre a ciò, i maggiori scambi commerciali si svolgevano con l’Italia e viaggiare era molto più facile di quanto non lo sarebbe diventato più tardi. Ricordo una volta, quando venne in Albania il primo ministro Berlusconi per una visita ufficiale. Rivolgendomi a lui, gli chiesi: «Eccellenza, per quale ragione avete reso più complessa per gli albanesi la possibilità di viaggiare verso l’Italia? Ricordo quando mio zio, commerciante, andava e veniva dall’Italia senza incontrare particolari difficoltà; al contrario, oggi richiedere un visto per l’Italia è un’impresa quasi catastrofica. Non capisco: stiamo andando avanti oppure indietro?». La nostra conversazione toccò anche altri temi e, comunque, essa oggi non riveste più alcuna importanza. Ho voluto ricordare questo episodio solo per rammentare una fase delle reciproche relazioni.

La lingua italiana è molto diffusa in Albania e viene appresa principalmente in maniera autodidatta. Durante gli anni dell’occupazione l’italiano, accanto all’albanese, era materia di studio obbligatoria nelle nostre scuole. Al termine della guerra, in modo particolare lungo la costa e nelle località dell’Albania centrale, lo si imparava seguendo le trasmissioni televisive del vostro Paese. Scherzando, dissi una volta ad un ambasciatore italiano: «Signor ambasciatore, occorre far attenzione al fatto che un giorno potreste dirci che in Albania ci sono minoranze italiane a causa della diffusione della vostra lingua soprattutto nelle zone costiere». Era una conversazione molto amichevole, e perciò la battuta fece sorridere entrambi.

Subito dopo l’occupazione italiana del 1939 l’Albania godette di un evidente miglioramento delle condizioni generali: in maniera specifica, venne dato inizio a grandi lavori di ammodernamento della rete stradale, seppure eseguiti allo scopo di migliorare il teatro militare locale in vista del successivo attacco italiano nei Balcani. Vennero tracciate molte nuove strade e indubbiamente migliorati i ponti e le vie esistenti. Si avviarono i lavori di costruzione di una sezione di montaggio di macchine FIAT che, tuttavia, vennero interrotti all’inizio delle operazioni belliche intraprese dalle brigate partigiane. Da parte italiana, poi, fu dato avvio a molte attività commerciali, le quali resero possibile non soltanto l’impiego ma anche l’addestramento di un folto gruppo di ottimi specialisti, esperti in ogni settore industriale e nella manutenzione tecnica.

Le relazioni tra Italia e Albania si fecero più difficili all’inizio della resistenza antifascista. Avvennero scontri armati tra forze della resistenza e truppe di occupazione che causarono vittime su entrambi i fronti. I carabinieri, la polizia e la milizia fascista avviarono rappresaglie che senza dubbio accrebbero i sentimenti di ostilità nei confronti dell’Italia. Ma immediatamente dopo l’8 settembre 1943, quando l’Italia si risolse ad interrompere il conflitto, i militari italiani si trasformarono rapidamente da nemici in amici degli albanesi. È ben conosciuto il fenomeno dell’ospitalità offerta dalle famiglie contadine, presso le quali si rifugiò la gran parte dei militari italiani fino al termine del conflitto. Appoggiati dallo Stato Maggiore dell’UNÇL, tutti coloro che avevano espresso il desiderio di combattere contro i nazisti vennero inquadrati in reparti partigiani formati dagli stessi italiani; altri, in particolare artiglieri e personale medico, furono invece inseriti nelle brigate partigiane albanesi conservando le armi in quel momento a loro disposizione. Per organizzare al meglio una qualche forma di coordinamento venne creato presso lo Stato Maggiore dell’UNÇL un ristretto Stato Maggiore italiano guidato dal generale Arnaldo Azzi. Ospitato in una casa di contadini situata nelle vicinanze dello Stato Maggiore albanese, esso operava nella località di Alltat, posta ad un’ora di distanza da Arbana, villaggio poco distante da Tirana. Ricordo come fosse ieri la collaborazione tra i componenti dei due Stati Maggiori per quel che riguarda il coordinamento delle azioni, il dislocamento delle unità e la pianificazione delle operazioni belliche. Insieme vennero progettate la ripartizione degli specialisti, in particolare artiglieri e medici, nei diversi reparti partigiani, l’organizzazione dei reparti stessi e delle unità partigiane italiane, la sistemazione di quei militari che non volevano combattere contro le forze naziste e che per questo vennero inviati in sperduti villaggi di montagna allo scopo di non cadere nelle mani del nemico, la preparazione di programmi di addestramento dei reparti e delle unità partigiane, le soluzioni ai più disparati problemi. Ricordo bene tutto questo impegno alla reciproca collaborazione perché a quel tempo prestavo servizio presso lo Stato Maggiore albanese. I miei ricordi, pertanto, non sono solo quelli di un contemporaneo ma anche quelli di una persona presente ai fatti narrati, di un testimone oculare.

Inizialmente fu creato il battaglione «Antonio Gramsci» che più tardi, a causa del moltiplicarsi delle richieste di prendere parte ai combattimenti, venne trasformato in brigata ed infine in divisione, mantenendo tuttavia il medesimo nome. Vale la pena sottolineare che i militari italiani inquadrati in queste unità, al pari di coloro che erano inseriti nelle unità e nei reparti partigiani, combatterono con grande eroismo e coraggio e durante i mesi del conflitto molti caddero in azioni contro le truppe naziste. Al termine del conflitto, avendo i governi italiano ed albanese raggiunto un accordo, venne organizzato il rientro in patria non solo degli effettivi delle divisioni ma anche delle altre migliaia di militari ospitati nei nostri villaggi. Tutto ciò è stato descritto con ricchezza di particolari dal nostro scrittore Petro Marko nel romanzo L’ultima città.

Un evento rilevante, che preannunciava i grandi cambiamenti dei primi anni Novanta, si verificò nel 1985. Quell’anno segnò l’inizio di una evoluzione nelle reciproche relazioni culminata, un lustro dopo, nell’assalto alle ambasciate da parte di un gran numero di giovani e di cittadini albanesi. L’evento riguardava la famiglia Popa, la totalità dei cui membri aveva trovato rifugio presso l’ambasciata italiana a Tirana, dove venne ospitata fino al 1990. Va detto che, a prescindere dalle specifiche situazioni venutesi a creare e nonostante gli alterni momenti che caratterizzarono le varie fasi della vicenda, non si arrivò mai a pensare di sospendere le rispettive missioni diplomatiche.

Ancora una volta desidero manifestare la mia soddisfazione per questo convegno, augurando a tutti buon lavoro e buon esito.

Vi ringrazio dell’attenzione.

Roberto Morozzo della Rocca.
L’occupazione italiana dell’Albania

Non poco è stato scritto sull’invasione italiana dell’Albania nel 1939. Ma occorrerebbe andare più in profondità dentro questa pagina di storia per la quale non disponiamo ancora di una ricostruzione complessiva convincente. Il fatto di veder tanto citato Albania at War di Bernd J. Fischer negli studi recenti, e raramente con senso critico, oppure lo scoprire qua e là riprese come attendibili le memorie del luogotenente Francesco Jacomoni di San Savino9 – difesa postuma di un operato inglorioso, quasi costui si trovasse in Albania da osservatore super partes anziché da esecutore e pianificatore di un’aggressione in riferimento alla quale nel dopoguerra avrebbe conosciuto varie traversie giudiziarie – induce a ritenere che ci sia molto ancora da scavare, da capire e da acquisire alla conoscenza storica.

Quando, quasi trent’anni fa, scrissi il mio libro sull’Albania tra la prima e la seconda guerra mondiale abbozzai, in parallelo alla ricerca su nazione e religione, una storia dell’occupazione italiana, ossia di quei quattro anni e più che vanno dal 7 aprile 1939 all’8 settembre 1943, e lo feci sulla base di fonti diverse: la copiosa letteratura sull’Albania fiorita in Italia in quell’epoca; la documentazione degli archivi di Stato italiani; gli apporti storiografici albanesi, purtroppo viziati dagli indirizzi politici del regime enverista; materiali da archivi diplomatici di vari Paesi europei. Erano fonti che consentivano di approssimarsi alla verità storica, e però queste non erano tutte le fonti possibili e desiderabili.

Quando nel 1999 è apparso il volume di Fischer, il sopracitato Albania at War, 1939-194510, ho sperato in un marcato progresso degli studi mediante un ampliamento delle fonti, data anche la liberalizzazione nel frattempo invalsa in Albania (i miei studi erano precedenti alla fine del regime nel 1990). Fischer aveva realizzato nel 1984 un documentato studio sull’Albania di re Zog11 che aveva rappresentato un notevole progresso nelle conoscenze, visto anche l’approccio ideologico unilaterale a tale capitolo di storia patria che si aveva allora a Tirana. Anche Albania at War si fonda su ampie ricerche. Tuttavia Fischer non usa fonti d’archivio albanesi, mentre i riferimenti a fonti italiane sono scarni e frammentari. Certamente rastrella tutto ciò che di autori albanesi e italiani sul tema ha trovato in lingua inglese, ma è evidente che nelle due sfere culturali che sono necessarie per capire l’Albania fra 1939 e 1943, appunto l’albanese e l’italiana, è poco a suo agio. Fischer attinge le sue informazioni soprattutto da fonti anglosassoni, che sono piuttosto secondarie rispetto al terreno studiato12.

La delusione suscitata dal volume di Fischer viene anche dalle sue attitudini interpretative. Sia pure con minore presunzione intellettuale, lo storico americano ricalca la contemporaneistica inglese sugli italiani e sulle società mediterranee, quella, per intenderci, alla Denis Mack Smith, spesso citato da Fischer: una storiografia caricaturale, derisoria, costruita su cliché negativi pregiudiziali seppure collocati in quadri macro-politici corretti. Fischer usa le fonti con una guardia ermeneutica piuttosto bassa, così da incorrere in improbabili asserzioni che qualche verifica ed esame critico gli avrebbero risparmiato. Gli italiani, nella descrizione di Fischer, sono essenzialmente farseschi, corrotti, incapaci, disorganizzati, codardi, talora depravati e scandalosi.

Per la verità, lo storico americano non tace – i dati quantitativi da lui stesso riportati sono espliciti – il grande impegno dell’Italia nella trasformazione materiale dell’Albania nei primi tempi dopo l’invasione, con notevoli investimenti finanziari e soprattutto con la costruzione di una rete capillare di infrastrutture, rapidamente messa in opera prima che le operazioni belliche imponessero altre priorità. Ma si avverte, nella sua penna, l’impulso a gettare nel ridicolo ogni iniziativa italiana. Accade così che le centinaia di strade costruite dagli italiani vengano da lui considerate semplicemente «inutili», in quanto si consumavano a causa del traffico automobilistico, quasi avessero dovuto essere adoperate soltanto da biciclette e carretti. Per inciso, la rete viaria dell’Albania alla scomparsa del regime comunista, nel 1990, era ancora quella disegnata e costruita dagli italiani. O, per fare un altro esempio, accade che i palazzi in stile razionalista fascista costruiti a Tirana, per decenni principale patrimonio immobiliare di edifici pubblici nella capitale, gli appaiano altrettanto «inutili» e anzi sarebbero soltanto il frutto sconsiderato dei maneggi corruttivi di un intrigante segretario di Mussolini che aveva interessi nel marmo di Carrara. Marmo notoriamente di così infima qualità da potersi rifilare, in così massiccia quantità, solo a dei primitivi albanesi.

Fischer abbonda di giudizi moralistici su persone e situazioni, dando credito ad aneddoti, a dicerie, a disinformazione da chicchessia distillata all’uno o all’altro agente diplomatico inglese di servizio in capitali europee. La sua narrazione ne guadagna in colore e in gossip. Chi frequenta i Balcani conosce bene la difficoltà di distinguere fra le tante voci contraddittorie che circolano su ogni fatto e personaggio, e sa quanto sia difficile orientarsi nel ginepraio della disinformazione che spesso deriva soltanto dall’estrema credulità, tipica di queste terre, di chi cerca conferme ai propri pregiudizi radicati e inamovibili. È sempre difficile distinguere, nei Balcani, tra propaganda, immaginazione e realtà. Fischer sembra accettare tutto ciò che incontra nelle sue fonti, se vivacizza la sua prosa. Inevitabili le contraddizioni.

Di Ciano, ad esempio, utilizza diffusamente le memorie, accreditandole per ciò stesso come fonte seria e autorevole. Questo contrasta con il ritratto scandalistico che Fischer, nelle pagine iniziali, offre del genero di Mussolini, mescolando dati di fatto e illazioni: un ministro degli Esteri privo di esperienza, irresponsabile, frivolo, fanatico della corruzione, più dongiovanni che lavoratore, con una tendenza incontrollata a servirsi di spie e intrighi, deriso dai diplomatici stranieri, incapace di concentrarsi per più di pochi minuti, tanto volgare che persino Hitler lo trovava disgustoso, screditato dal suo esibizionismo, dalla sua vanità, dalla sua indiscrezione a cominciare da quanto rivelava alle varie amanti che poi riferivano ad agenti esteri.

Ammesso e non concesso che tutto ciò fosse vero – Ciano fu un imberbe e mondano ministro degli Esteri a soli 33 anni, esprimeva un vitalismo giovanilista oltreché fascista, doveva tutto a Mussolini di cui era genero e nella cui ombra viveva, e però il fatto stesso di essere una sorta di protuberanza del duce faceva sì che contatti e trattative di cui era protagonista venissero portati all’attenzione di quest’ultimo, e ciò gli conferiva autorità, come pure il nutrire opinioni personali che cercava di trasmettere al suocero, salvo beninteso assecondarne in ultima istanza la volontà – è Fischer per primo a smentire sé stesso, non solo riferendo in vari passaggi successivi di un Ciano energico, fattivo e realista, ma anche facendone un riferimento essenziale nella sua narrazione. Lo scarso discernimento critico delle fonti conduce poi Fischer a travisare eventi non secondari.

Il caso a mio parere più evidente è quello del 7 aprile 1939, ovvero dell’operazione militare di invasione dell’Albania da parte dell’Italia. Fischer scrive di combattimenti e di morti mai verificatisi, se non nella fantasia di qualcuno comprensibilmente interessato a inventarne. Sappiamo che in quei giorni apparvero notizie false su vari giornali europei, ispirate politicamente da avversione all’Italia fascista13. Secondo Fischer, aspri scontri avrebbero rallentato la marcia degli invasori, le perdite italiane sarebbero ammontate all’incirca a 700 uomini e quelle albanesi sarebbero state maggiori. La cifra di soli 12 soldati persi dagli italiani sarebbe ascrivibile alla propaganda fascista. Ora, la storiografia più recente e documentata su questo episodio militare – ed è una storiografia anche antifascista – ha ricostruito in dettaglio quanto accaduto e conferma la cifra di 12 morti italiani in tutta l’operazione, che ebbe per certi aspetti il carattere di una passeggiata e fu comunque un’impresa estremamente facile, forse non per merito di chi dirigeva l’invasione ma perché la resistenza albanese fu quasi inesistente, benché lo sbarco italiano fosse preannunciato dalla scadenza di un ultimatum posto a Zog14. L’unico serio scontro a fuoco si ebbe a Durazzo, dove appunto si ebbero le sole 12 vittime italiane del 7 aprile 193915. L’esercito era stato organizzato da Zog in funzione del mantenimento dell’ordine interno, cioè del suo potere, e non per combattere invasori esterni (fra l’altro era stato addestrato da ufficiali italiani). Qualcosa più dell’esercito valeva la gendarmeria, protagonista della breve resistenza a Durazzo e di qualche scaramuccia altrove, ma anch’essa ritenne inutile opporsi con vigore a un invasore ritenuto al momento invincibile.

Più felice è il lavoro di Fischer su aspetti per i quali dispone di documentazione di prima mano, come per il mondo partigiano albanese su cui esiste a Londra notevole documentazione essendo il maquis albanese sostenuto da ufficiali inglesi che redigevano i dovuti rapporti ai superiori (e nel dopoguerra pochi di loro avrebbero tralasciato di pubblicare memorie sulla guerra nei Balcani).

Nell’insieme, però, la ricerca di Fischer costituisce un’occasione mancata per approfondire pagine storiche complesse, dei cui protagonisti occorre conoscere mentalità e costumi in maniera approfondita per muoversi nel vasto insieme di fonti e interpretazioni, spesso non veritiere o specchio di soggettività non spassionate. Si spera che altri tentino di ricostruire in un coerente insieme politico e culturale le vicende dell’Albania fra 1939 e 1945, sulla base delle tante fonti oggi finalmente disponibili. Non ripropongo qui le mie ricerche passate, con i limiti documentari già segnalati, limitandomi a toccare alcuni punti controversi dell’occupazione italiana del piccolo Paese balcanico, senza pretese di esaustività, utilizzando anche lavori apparsi successivamente alle mie ricerche – lavori settoriali e parziali se si vuole, e tuttavia metodologicamente apprezzabili per un verso o per l’altro16.

Un primo interrogativo. Perché l’Italia fascista invase l’Albania di Zog?

L’invasione dell’Albania rientrava nei piani imperialisti di Mussolini, si potrebbe dire in modo naturale. Mussolini collocava nei Balcani una delle principali direttrici di espansione dell’Italia – le altre riguardavano, com’è noto, parti della Francia e del suo impero, il mondo mediterraneo, settori dell’Africa. E, nei Balcani, l’Albania era il Paese più debole e vulnerabile, come già l’espansionismo dell’Italia liberale aveva ben compreso sin dalla prima guerra mondiale. La conquista dell’Albania ne avrebbe fatto una testa di ponte italiana nei Balcani, a soli 70 km in linea d’aria dal territorio metropolitano. Con l’azione del 7 aprile 1939 le incertezze della politica albanese dell’Italia vennero definitivamente sciolte. Negli anni Venti e Trenta il governo italiano aveva oscillato costantemente tra una politica tesa a fare dell’Albania uno Stato solido, che fosse utile come antemurale nei confronti di slavi e greci considerati concorrenziali e ostili all’Italia, e fungesse eventualmente da valido alleato nel caso di conflitto, e, dall’altra parte, una politica che intendeva ridurre l’Albania a semplice protettorato dell’Italia, se non parte integrante del suo territorio nazionale17.

Zog aveva saputo giocare astutamente su queste due politiche, adattando i suoi atteggiamenti all’uno o all’altro orientamento prevalente a Roma. Nel 1938 Ciano innanzitutto e poi Mussolini erano giunti alla persuasione di non poter continuare a investire denari in Albania, in buona parte a fondo perduto, senza disporre in contropartita di quel pieno controllo del Paese che Zog, diffidente, abile, doppiogiochista, non garantiva loro. Il passivo economico dell’impegno finanziario dell’Italia in Albania, non compensato da adeguati vantaggi politici, contribuì alla decisione di invadere il fragile dirimpettaio adriatico.

Il Diario di Ciano è una fonte molto esplicita, a tratti persino sfacciata, sui pensieri e le decisioni del suo autore18, ed è stata molto utilizzata per spiegare l’invasione italiana dell’Albania come il frutto di una personalistica volontà del ministro degli Esteri italiano fatta valere nel quadro del suo rapporto con Mussolini, che era sia istituzionale sia familiare. Indubbiamente Ciano fu un protagonista della vicenda. Secondo Renzo De Felice, Ciano cercava in Albania quel successo personale che lo avrebbe accreditato come delfino di Mussolini19. Il suo sogno di «completo dominio di questo Paese che sarà nostro», come il giovane ministro degli Esteri scriveva nel suo Diario, era noto nei circoli politici romani dove si diceva che l’Albania sarebbe diventata il Granducato di Toscana, essendo Ciano di origine livornese. E però l’avventura del 7 aprile 1939 s’inseriva in una storia di lungo periodo.

La contingenza volle Ciano attore iperattivo, così come il rapido susseguirsi di annessioni e fatti compiuti da parte della Germania hitleriana (Anschluss, occupazione dei Sudeti, frantumazione della Cecoslovacchia) indusse Mussolini a realizzare in fretta un successo espansivo per l’Italia. Mussolini aveva bisogno di un «trofeo albanese» per non essere da meno di Hitler nell’espansione imperialista e soprattutto non voleva che la Germania estendesse la sua sfera d’influenza nei Balcani, come tanti indizi gli stavano segnalando. L’occupazione dell’Albania doveva fermare l’avanzata della Germania nel Sud-Est europeo. Come Giorgio Rochat ha osservato, l’invasione dell’Albania rappresentava una conquista territoriale che suppliva a un’incapacità di penetrazione economica per la quale l’Italia non aveva i mezzi, mentre la Germania stava assumendo il controllo dei Balcani senza bisogno di annessioni ma semplicemente grazie alla superiore disponibilità e articolazione di risorse20.

Beninteso, fu Mussolini a decidere l’invasione dell’Albania e non Ciano, che della volontà del suocero era un esecutore ancorché cercasse di ispirarla secondo i suoi desideri. Mussolini secondò in questa vicenda l’ambizione e l’interessamento di Ciano all’Albania, ma fu lui a ordinarne l’invasione. Il regime fascista aveva un carattere personalistico e Mussolini aveva l’ultima parola su tutto. Ciano stesso aveva scritto un anno prima: «In fondo, non si lavora che per far contento lui; se si riesce, è la più grande soddisfazione»21. Fino all’ultimo, Ciano subì le tergiversazioni di Mussolini, che il 16 marzo ritenne di dover rinunciare all’invasione dell’Albania nel timore che destabilizzasse la Jugoslavia e favorisse l’indipendenza della Croazia filotedesca, con la conseguenza di trovarsi l’esercito germanico ai confini orientali italiani, ma poi il 23 marzo autorizzò di nuovo l’invasione avendo percepito una luce verde da parte tedesca che lasciava immutato il quadro interno jugoslavo.

Tuttavia l’occupazione italiana dell’Albania era tutt’altro che un’azione improvvisata frutto di circostanze accidentali. C’era infatti una prospettiva di politica estera di lungo periodo, di proiezione balcanica dell’Italia, facilmente comprensibile geopoliticamente, manifestatasi sin dall’epoca di Crispi, lui stesso di origine albanese in quanto arbëresh di Sicilia, il quale poneva volentieri all’ordine del giorno internazionale la questione albanese. Nella prima guerra mondiale l’Italia aveva poi cercato di fare dell’Albania una sua quinta sponda – al tempo stesso tutelandola da austriaci, serbi, bulgari, greci – e vi sarebbe forse riuscita almeno parzialmente se nel 1920 le turbolenze del biennio rosso non le avessero fatto lasciare Valona senza opporsi più di tanto ai patrioti albanesi in rivolta. Giustamente Alberto Basciani ha osservato, riflettendo criticamente sull’opera di Fischer:

Pare eccessivamente riduttivo presentare, come fa Fischer, l’occupazione dell’Albania come un’avventura militare che intendeva soprattutto soddisfare le ambizioni personali di Ciano e i desideri del Duce di menare le mani. La questione era senz’altro più complessa e va inquadrata sia nell’intricata storia dei rapporti italo-albanesi intessuti nel corso del Novecento sia, anche, nella speciale situazione in cui l’Italia venne a trovarsi tra il 1938 e il 1939. L’occupazione dell’Albania era la risposta politica e militare più immediata che il regime fascista poteva offrire per cercare di contenere l’alleato tedesco, il quale, ormai, esercitava il ruolo di potenza dominante della regione balcanica e di fatto relegava l’Italia in una posizione subalterna22.

Un secondo interrogativo. Perché l’Italia si affidò, soprattutto inizialmente, a bey e bajraktar nella gestione dell’Albania occupata? Io stesso in passato ho scritto:

Con la popolazione albanese, al di là delle proclamazioni altisonanti sull’unione con l’Italia, sull’affinità italo-albanese, sulla comune romanità delle origini, sulla nuova èra di prosperità creata dal fascismo, si attuò una politica di compromessi, intesa a garantire la tranquillità dello sfruttamento economico e della trasformazione dell’Albania in piattaforma per l’espansione militare italiana nei Balcani. Persuasi di avere a che fare con una popolazione priva di aspirazioni collettive e con una società aliena dai conflitti sociali che caratterizzavano il mondo occidentale più sviluppato, gli italiani cercarono sin dai primi giorni dell’occupazione di trovare fra gli albanesi dei qualsiasi interlocutori a buon mercato con i quali fosse possibile accordarsi per avere mano libera sulle risorse del Paese. Li trovarono negli antichi notabili, i bey e i bajraktar, i più insensibili a quanto di nuovo era maturato in Albania dalla raggiunta indipendenza nazionale in poi. Il primo capo del governo albanese sotto tutela italiana fu significativamente Shefqet Vërlaci, il maggiore proprietario terriero dell’Albania, un bey che gli stessi italiani avrebbero presto considerato con diffidenza, ma che garantiva apparentemente l’acquiescenza degli albanesi ai programmi di Roma in cambio della riaffermazione in loco della classe dirigente conservatrice tradizionale. Del nazionalismo albanese, della relativamente vasta classe di coloro che sotto Zog avevano potuto studiare e reclamavano ora una riforma sociale radicale, dei paurosi squilibri sociali delle campagne albanesi, gli italiani non intendevano tener conto. Il problema era disporre di una amministrazione di sussistenza albanese, che interferisse il meno possibile con i piani a breve termine di utilizzazione delle risorse e del territorio albanese23.

Questa mia visione sopravvalutava la portata innovativa del breve regno di Zog. Come Marco Dogo ha scritto, Zog non poté cambiare la società albanese se non entro limiti molto ristretti24. In particolare la struttura economica-sociale del Paese rimase immutata sotto il suo governo. La riforma agraria fu del tutto insignificante. I capi tradizionali, cioè i bey del Sud e i bajraktar del Nord, le cui prerogative di tipo feudale e tribale non sto qui a spiegare, continuarono a dominare la società. Zog mancava di una alternativa. Non poteva creare strutture statuali forti perché non aveva introiti sufficienti dal primitivo sistema fiscale. La formazione di una nuova e più moderna classe dirigente era ostacolata dall’arretratezza del Paese, in cui l’agricoltura rappresentava il 90% dell’economia, l’analfabetismo ancora nel 1939 era diffuso nell’85% della popolazione, l’industria e la classe operaia erano inesistenti, la scolarizzazione stentava. Zog avrebbe voluto disporre di uno Stato che funzionasse e di un potere meno vincolato ai capi tradizionali, e per questo sapeva di avere bisogno di tempo. Ragionò su come instillare negli albanesi un sentimento di cittadinanza. Puntò sull’ideologia nazionalista per unificare una società anarchica e divisa secondo fedeltà claniche e territoriali. Il risultato fu, alla fine del suo regno, l’esistenza di due o tremila persone provviste di coscienza patriottica e senso della nazione declinato intellettualmente oltre che visceralmente. Il ceto più avanzato in questo senso era quello scolare: insegnanti e studenti dei pochi licei esistenti nel Paese (non c’era alcuna università).

Peraltro Zog si avvide che la modernizzazione culturale promossa per dare consistenza allo Stato gli si ritorceva contro, per i caratteri orientaleggianti e la corruzione che inevitabilmente segnavano la sua prassi di governo suscitando la critica della nascente intellighenzia. Lo stesso nazionalismo che Zog promuoveva per modernizzare l’Albania e avvicinarla al clima culturale europeo diventava la bandiera dei suoi oppositori. Va detto però che non venne a crearsi una classe dirigente alternativa al tradizionale potere dei bey e dei bajraktar, uno dei quali originariamente era lo stesso Zog che ora, divenuto re, avvertiva sulla sua pelle la pesante ipoteca dell’arretratezza albanese.

Blerina Suta ha descritto l’esigua intellighenzia albanese degli anni Trenta, flagellata da rivalità personali, da contrasti generazionali, da controversie politiche, da astruse questioni teoriche, da penuria di risorse per vivere, da reciproche accuse di corruzione morale e materiale. Non erano questi intellettuali, fra l’altro spesso costretti all’esilio oppure condizionati dalla troppo giovane età, a poter costituire un’alternativa alla classe dirigente tradizionale25.

Gli italiani ereditarono da Zog questo contesto politico e sociale e anch’essi ritennero, specie agli inizi, di non poter fare a meno, per governare, del consenso e della collaborazione dei capi tradizionali. Come già aveva fatto Zog nel 1936 allorché aveva varato un governo nazional-progressista, quello di Medhi Frashëri, un nazionalista che si rivolgeva al popolo, e lo aveva fatto sia in funzione antitaliana sia per mostrare le sue capacità di manovra, così anche gli italiani alla fine del 1941, in crollo di prestigio per lo smacco greco, vararono – pensando di cattivarsi il favore patriottico degli intellettuali e dei giovani, e di poter meglio sfruttare la creazione della Grande Albania per orientare il nazionalismo albanese a favore dell’Italia – un governo collaborazionista guidato da Mustafa Kruja, nazionalista di lungo corso, tra i promotori dell’indipendenza nel 1912, che si voleva del popolo e per il popolo26. Gli esiti non furono quelli sperati, mentre bey e bajraktar, che detestavano Kruja per la sua modesta origine, accentuarono quel disincanto e quel distacco rispetto agli occupanti innescato dalle disfatte della campagna di Grecia. In ogni caso, sia Frashëri sia Kruja durarono il tempo concesso agli espedienti tattici che essi rappresentavano, e dopo di loro il potere tornò in entrambi i casi a bey e bajraktar (anch’essi nazionalisti ma in altra maniera). Come Zog, così gli italiani ritenevano di non poter prescindere indefinitamente dalle strutture di potere tradizionali del Paese.

Davide Rodogno ha sostenuto, rimarcando il mantenimento formale di uno Stato albanese nell’unione sotto la corona dei Savoia, che l’intento dell’Italia non era la scomparsa della nazione albanese, ma fare del popolo albanese uno dei popoli costitutivi della «comunità imperiale» di Roma fondata sulla supremazia della nazione italiana e dell’ideologia fascista, sicché le altre nazioni che ne avrebbero fatto parte – come l’albanese – vi avrebbero avuto un loro spazio, ancorché con l’imperativo a fascistizzarsi e a ricevere dagli italiani la loro superiore civiltà.

Ma, se così era, non si trattava in pratica dello svuotamento dell’identità nazionale? L’occupazione dell’Albania era di fatto un’annessione, dato che l’attività esecutiva e legislativa dipendeva in ultima istanza sempre da Roma. E la creazione del Partito Fascista Albanese, identico nelle strutture e nelle funzioni al PNF della Penisola, non era una maniera di assimilare gli albanesi agli italiani, pur teoricamente dicendoli popolo a parte? In Albania vennero «esportati, senza chiedere l’opinione degli albanesi, le strutture, le manie, l’organizzazione, i modi, gli usi e le consuetudini del Littorio»27, il che equivaleva a una italianizzazione. E non mirava all’assimilazione la diffusione della lingua italiana, della cultura italiana, di libri e film italiani? Si tentava in effetti di imporre un bilinguismo mai esistito in precedenza. Per non dire che tra Mussolini, Ciano e quanti a Roma seguivano gli affari d’Albania non erano certo evitate le parole «annessione» e «assorbimento».

C’era però un problema di consenso politico e sociale. Gli occupanti italiani cadevano in contraddizione. Da una parte non volevano dare spazio alle frange più nazionaliste, che avrebbero rivendicato un’indipendenza albanese ben più sostanziale di quella solo simbolica che veniva concessa. Ma d’altra parte sentivano anche la necessità di dare soddisfazione agli albanesi, il cui patriottismo o meglio etnicismo appariva molto radicato, per riceverne consenso. Da qui la creazione della cosiddetta Grande Albania e il fatto che le autorità italiane nei Balcani favorissero gli albanesi nelle lotte di nazionalità tra questi ultimi e i loro storici avversari serbi, montenegrini, bulgari, greci, macedoni.

Si trattava, per gli italiani, di evitare che il nazionalismo albanese fosse rivolto contro di loro, rivendicando quella sovranità che il 7 aprile 1939 aveva di fatto annullato. In qualche caso individuale gli occupanti riuscirono a corrompere e a convincere al collaborazionismo. Ma la propaganda, il denaro, l’offerta di posti non faceva cambiare i convincimenti intimi. Sicché pareva utile secondare il nazionalismo, anche a livello di massa, nella misura e nelle modalità in cui poteva essere indirizzato contro popoli slavi ed ellenici. Si blandiva dunque il patriottismo albanese oppure, se rivolto contro l’Italia, lo si reprimeva: era, insomma, una politica che alternava carota e bastone. Non era, quella degli occupanti, una strategia lineare e coerente ma forse altre strade non esistevano.

Il nazionalismo albanese era insopprimibile e tanto più dopo la penosa ritirata davanti ai greci era impensabile che gli albanesi fossero proni davanti alla pretesa superiorità italiana, dimostratasi inesistente. Se non si voleva avere nell’Albania una terra ostile occorrevano compromessi. Gli italiani tollerarono violenze e pulizie etniche praticate (o restituite) nella Grande Albania dai loro protetti, di cui sempre meno avevano il controllo. Anche se la Grande Albania contraddiceva il programma a lungo termine di fare della nazione albanese un pezzo d’Italia, nell’immediato rappresentava una garanzia di buoni rapporti tra albanesi e italiani (sebbene senza le armi tedesche – e gli albanesi lo sapevano bene – una Grande Albania non vi sarebbe stata, e forse neppure una media Albania, visto che alla fine del 1940 i greci vittoriosi sugli italiani ne avevano occupata la parte meridionale).

Senza la Grande Albania, la resistenza antitaliana degli albanesi sarebbe stata molto più diffusa e robusta. La minaccia partigiana risolse infine il dilemma politico degli occupanti, se combattere il nazionalismo o dargli spazio. Entrambe le opzioni furono praticate ma prevalse, a livello strategico, la seconda, per esigenze di opportunità e per la debolezza intrinseca degli italiani. Certamente l’impegno militare ci fu, come dimostra la presenza in Albania di almeno 100.000 soldati italiani nell’ultimo periodo dell’occupazione. E vi fu lotta ai partigiani che provocò lutti e danni per la popolazione civile considerata loro fiancheggiatrice. Essendo i ribelli sfuggenti e inafferrabili, ci furono rappresaglie, esecuzioni sommarie, distruzioni di case, villaggi rasi al suolo, arresti di familiari di ribelli, ancorché ad onor del vero non si ebbero in Albania sofferenze, rovine, sangue, crudeltà come in altri quadranti dei Balcani. E tuttavia sempre, da parte degli occupanti, si pensò che la politica poteva risolvere positivamente l’agitazione insurrezionale. Dunque il governo di Roma, la luogotenenza, il governo collaborazionista di Tirana non mancarono di valorizzare aspetti del nazionalismo albanese. Fino all’ultimo gli italiani armarono reparti di albanesi, quasi non volendo vedere che questi si dissolvevano in breve tempo andando a infoltire le brigate partigiane e portando le armi via con sé.

In sostanza, gli italiani pensarono di contenere il movimento insurrezionale albanese, fattosi consistente sotto il profilo bellico a partire dall’estate 1942, con misure politiche prima che militari. Non è casuale il ritardo con cui la lotta antipartigiana venne affidata a reparti dell’esercito anziché della polizia ordinaria: gli occupanti erano meravigliati da una ribellione del tutto inaspettata dopo avere investito tanto in Albania e dopo aver creduto al legame storico di questo Paese con l’Italia. Come è stato a ragione osservato, gli italiani mancarono «di elaborare una reazione unitaria e coerente che non fosse un intreccio confuso di misure oppressive e nuove concessioni nella direzione dell’indipendenza nazionale»28. Non si concepiva una Resistenza antitaliana in una regione considerata di fatto facente parte dell’Italia.

Certamente gli italiani, insediandosi a Tirana, avevano un progetto di trasformazione dell’Albania che già a medio termine avrebbe esautorato il potere dei bey e dei bajraktar, in forza di una modernizzazione ritenuta inevitabile. Ma l’evoluzione immaginata dagli occupanti non andava nel senso desiderato dai nazionalisti albanesi puri, vogliosi di sostituirsi a bey e bajraktar. Come già osservato, infatti, gli italiani non prevedevano – una volta esautorati i capi tradizionali – di rimpiazzarli con le élites nazionaliste, ma intendevano assimilare l’Albania alla civiltà italiana, indubbiamente più moderna, progredita, socialmente equa rispetto a quella albanese, ma anche strutturata nel segno dell’ideologia fascista. Che poi gli invasori non capissero il fiero radicamento identitario del popolo albanese, la sua diffidenza verso lo straniero, il suo attaccamento profondo, viscerale, etnico a tradizioni, costumi, lingua e cultura proprie, è altra questione. Mai l’Albania sarebbe diventata un’Italia in miniatura: prima di pensarsi come italiani, gli albanesi volevano riavere la libertà, fosse anche di scegliere una tale opzione. Tuttavia, a causa dell’infausta guerra contro la Grecia, già alla fine del 1940 l’operosità italiana in Albania veniva meno e la pianificazione di un nuovo Paese veniva rimandata al dopoguerra.

Infine, un ultimo interrogativo. Cosa davvero pensavano gli albanesi degli occupanti italiani? Provavano sempre e soltanto odio e disprezzo, come sostiene Fischer?

La mia esperienza nei primi anni Novanta, nell’incontro con numerosi anziani albanesi che parlavano bene l’italiano, è perlopiù nel senso di gradevoli ricordi di giovinezza nel rapporto con gli italiani. Valeva anche per queste persone il detto utilizzato fra italiani e greci, «stessa faccia stessa razza». Effetto della nostalgia di giovinezza? Oppure dei 46 anni di duro regime comunista che tingevano di rosa quanto era avvenuto prima? Comunque sia, è incontestato che tra l’aprile 1939 e l’ottobre 1940 il governo di Roma investì molto in Albania e molti albanesi pensarono che con gli italiani vi era tutto da guadagnare. Furono avviati ingenti lavori pubblici29. Si costruirono strade, ponti, palazzi, acquedotti, stadi, cinema e alberghi prima inesistenti. Si avviarono bonifiche di paludi. I ragazzi albanesi anche non abbienti conobbero le loro prime vacanze nelle colonie estive. Le paghe aumentarono più volte, vennero introdotti livelli salariali minimi, si stabilì la previdenza sociale e sanitaria, la disoccupazione scomparve e addirittura nelle campagne cominciò a scarseggiare la manodopera.

Certo, tutto questo era ossessivamente marcato dall’italianità: imprese e società erano italiane, i commerci esteri solo con l’Italia, le risorse naturali del territorio erano sfruttate per l’Italia, il futuro era essere come l’Italia. Ciò non piaceva incondizionatamente agli albanesi. Tuttavia essi vedevano aumentare il loro benessere e questo faceva sì che acconsentissero ad essere gregari degli occupanti, accettando il loro attivismo realizzativo. D’altra parte era difficile per un albanese immaginare di opporsi alla potenza italiana, tanto più finché l’Asse sembrò dimostrare nella guerra mondiale una schiacciante superiorità. Un’interessante analisi dello stato d’animo degli albanesi sullo scorcio del 1939 si può leggere in un rapporto inviato a Londra dal consolato inglese a Durazzo, che Mussolini dopo l’unione dell’Albania all’Italia non aveva fatto sopprimere per non peggiorare i rapporti con il governo britannico, mantenendo una parvenza di indipendenza al Paese. E si tratta, si badi, di una fonte antitaliana e antifascista:

L’orientamento generale della popolazione albanese può essere forse compreso nel modo migliore osservando alcune delle numerose celebrazioni che sono state organizzate in onore delle varie personalità che hanno visitato l’Albania: Ciano, Starace, Badoglio, de Bono. La tecnica adottata in ogni singola occasione ha seguito linee similari, variando solo nell’intensità secondo la fama di ogni particolare visitatore. Vengono portati contadini da zone periferiche e disposti in parata nelle strade. A essi si danno delle bandiere e queste vengono debitamente agitate al passaggio del grande uomo. I contadini probabilmente si divertono e dal punto di vista dell’esibizione e della tecnica scenografica sono certamente meglio valorizzati di quanto non facesse il passato regime. La gente di classi sociali più elevate appare in uniforme, procurata loro dalle varie organizzazioni fasciste e indossata non tanto per volontà propria quanto piuttosto perché il non farlo potrebbe imbarazzare notevolmente. Questa gente penetra in qualche misura nello spirito della manifestazione, ma non ho ancora mai visto, né da uno di loro né da uno dei contadini, un solo segno di entusiasmo spontaneo. Credo ad ogni modo che molte di queste persone possano sentirsi meglio garantite economicamente sotto il dominio italiano di quanto lo fossero sotto re Zog. Il lavoro abbonda e i salari sono più alti e più sicuri. Non mancano naturalmente coloro che sono scontenti – gli impiegati del governo che hanno perduto il lavoro o che sono stati destinati a ruoli inferiori, commercianti che non possono più godere di profitti illimitati, proprietari terrieri che non possono più contabilizzare rendite illimitate – ma questi sono una minoranza. La maggioranza ha, almeno apparentemente, accettato il nuovo regime...30.

L’atteggiamento albanese sarebbe cambiato con i primi rovesci italiani nella campagna contro la Grecia e poi con l’attacco hitleriano all’Unione Sovietica, che dette vigore anche in Albania al movimento comunista. La politica economica dell’Italia in Albania, inoltre, avrebbe rivelato con l’andar del tempo una serie di inconvenienti. Gli italiani facevano affluire merci in Albania e vi investivano capitali, ma la ricchezza finiva in poche mani. Si creavano grosse fortune, ad esempio attraverso il sistema dei permessi di importazione, che il luogotenente Jacomoni concedeva a suo piacimento a notabili e commercianti albanesi e che fruttavano redditi molto elevati, ma l’inedita circolazione di beni e di moneta non migliorava il livello di vita delle masse oltre una certa soglia. Se i salari aumentavano, cresceva anche la spirale inflazionistica indotta dalla circolazione di tanto denaro. Gli italiani moltiplicarono il numero dei dipendenti dello Stato albanese (da 6.000 a 18.000) così come aveva fatto il fascismo in Italia per avere consenso e stabilità sociale, ma la corruzione dilagava negli uffici pubblici in misura mai raggiunta sotto il regime zoghista. Si potrebbe dire che la corruzione si diffondeva in proporzione alle risorse che affluivano in Albania, al fervore economico, alla crescita della massa monetaria, all’aumentato benessere. Ma era comunque corruzione.

In ogni caso, la guerra vanificò presto ogni pianificazione degli italiani e gradualmente mise gli albanesi contro di loro, non senza precipitare l’Albania in quella che infine, tra lo scorcio del ’43 e quello del ’44, fu una breve guerra civile. Nel 1942 gli italiani iniziarono la repressione militare delle prime formazioni organizzate ribelli, dopo avere a lungo creduto di dover fronteggiare, con operazioni di polizia, solo il banditismo, e si trovarono nella disagiata situazione tipica delle truppe regolari davanti ad attività di guerriglia. Senza riuscire a colpire direttamente i partigiani, i militari italiani ripiegavano su rappresaglie a danno della popolazione civile accusata di sostenerli. In tale contesto, malgrado i tentativi sul piano politico di blandire gli albanesi con sempre maggiori concessioni al loro nazionalismo, le possibilità italiane di un’intesa amichevole e collaborativa precipitarono.

Per concludere, vorrei ricordare un documento giustamente valorizzato da Federico Eichberg, riferito al governo badogliano sotto il quale ebbe fine l’occupazione italiana dell’Albania. Si tratta di una lettera del ministro degli Esteri, Raffaele Guariglia, del 19 agosto 1943, indirizzata al generale Alberto Pariani che da alcuni mesi aveva sostituito Jacomoni quale luogotenente a Tirana. Guariglia prendeva atto del fallimento della politica albanese del fascismo che aveva visto nell’Albania il «trampolino per l’espansione italiana nell’Oriente europeo». Secondo Guariglia era necessario che l’Albania «rappresentasse per l’Italia un fattore di difesa cioè quella compagine politica che, consolidando il suo carattere di nazione e di Stato, possa contenere la spinta della Grecia e degli Slavi verso l’Adriatico in funzione fatalmente antitaliana». E aggiungeva:

Tale concetto pone chiaramente il problema dell’indipendenza dell’Albania e del suo rafforzamento come Stato, al quale l’Italia, logicamente e sinceramente, non può che tendere nel suo interesse [...] È così interesse italiano che l’Albania si presenti in sede di organizzazione europea del dopoguerra come un’entità etnica e politica, collaudata attraverso le vicende e le difficoltà del periodo bellico per evitare che il suo territorio venga diviso tra gli Stati confinanti, suoi nemici tradizionali...

Qualora il nazionalismo albanese – concludeva Guariglia – non avesse più voluto mantenere legami istituzionali con l’Italia, «dovrà da parte nostra essere accolta quella soluzione mediante la quale possa essere mantenuta la compagine politica del Paese»31.

Per Guariglia, che pure istruiva un luogotenente incaricato, a Tirana, di tutelare l’unione dinastica fra Italia e Albania, era meno importante il vincolo giuridico che poteva legare l’Albania all’Italia che non l’esistenza di un’Albania unita, forte, sovrana, e in grado pertanto di sottrarsi a sfere di influenza internazionale ostili all’Italia. Gli italiani comandavano ancora a Tirana, erano ancora potenza occupante, ma i tempi erano profondamente cambiati e a Roma la prospettiva di un’Albania indipendente era già accettata. Era un ritorno alla politica tradizionale dell’Italia nei confronti del Paese schipetaro prima che i fumi dell’imperialismo penetrassero nei palazzi romani: una politica di sostegno della sua sovranità, per quanto possibile nel segno dell’amicizia.

La lettera di Guariglia prefigurava, in fondo, anche la politica italiana nei confronti dell’Albania durante la Guerra fredda. Come Luca Micheletta ha illustrato, dopo che l’Albania riuscì a svincolarsi dalla tutela del regime di Tito, l’Italia favorì la sicurezza del piccolo vicino adriatico: «[L’Italia] aveva ripreso a manifestare, come nei decenni precedenti, il suo interesse verso la stabilità dell’Albania. Per motivi strategici, infatti, i militari italiani continuavano a pensare, anche negli anni Cinquanta, che fosse cruciale per la difesa dell’Italia, e ora anche, più in generale, per quella dell’Occidente, il mantenimento dell’integrità e dell’indipendenza dello Stato albanese»32. Ma con queste considerazioni siamo ben oltre il tema qui trattato e altri ci diranno se davvero l’Italia, in tempi di Guerra fredda, scelse una politica e una strategia internazionale filo-albanesi.

Settimio Stallone.
«Così vicina, così lontana»
I rapporti fra Italia e Albania negli anni della destalinizzazione e della coesistenza pacifica (1953-1961)

La morte di Stalin, il 5 marzo 1953, pur introducendo nuove e complesse variabili, liberò le relazioni italiano-albanesi da un condizionamento che ne aveva fino ad allora impedito la normalizzazione33. Si aprì una nuova stagione in cui i due governi riuscirono faticosamente a risolvere parte di quelle criticità che avevano rappresentato un ostacolo insormontabile per il raggiungimento di nuovi e più produttivi equilibri fra le due sponde dell’Adriatico.

La sollecitudine con cui il Regime riaffermò l’indissolubilità dell’amicizia con l’URSS34 era finalizzata a smentire quelle tesi – piuttosto diffuse in alcune cancellerie occidentali – che avvaloravano la possibilità di un futuro isolamento della Repubblica Popolare d’Albania (RPA) determinato da una revisione degli equilibri interni al Cominform35. L’Albania aveva avuto sempre bisogno di «un amico, pur lontano, leale»36 per bilanciare le relazioni insoddisfacenti con i Paesi vicini, frutto di un moloc – legato all’adesione ortodossa alle passate direttive del Cremlino – ch’era comunque destinato di lì a poco a spegnersi, in virtù dell’invito di Molotov a Hoxha per un miglioramento dei rapporti con Roma, Atene e soprattutto Belgrado37. Anche se le «mire aggressive e le provocazioni» non erano cessate, i rapporti con la Jugoslavia vennero ufficialmente ristabiliti il 21 dicembre38. Minor fortuna ebbe il tentativo di persuadere i greci ad avviare un negoziato costruttivo per la definizione dei confini39.

Palazzo Chigi faticò non poco a convincersi della bontà delle intenzioni albanesi. Le prime avances, in primavera, furono accolte con una certa diffidenza che si tramutò in speranza solo verso la fine dell’estate quando a Roma – in seguito al rilascio dei visti per alcuni degli italiani trattenuti – ci si persuase che, forse, alle parole con cui il Regime si diceva pronto a inaugurare una nuova stagione basata «su di un’atmosfera di generale distensione» potesse seguire anche qualche concreta manifestazione di disponibilità40.

Quel «fatene la prova: non la prenderemo a cannonate» – l’improvviso, e in un certo senso provocatorio, invito che l’incaricato d’affari a Roma, Skënder Konica, formulò il 17 settembre al consigliere Michele Lanza affinché una nave italiana fosse inviata a Durazzo – spinse Palazzo Chigi a ritenere che, conseguentemente «a un nuovo indirizzo della politica sovietica nel sudest del Mediterraneo», fosse finalmente in atto un mutamento delle direttive del Regime verso l’Italia41. Occorreva evitare che a Tirana s’interpretasse in chiave «protettiva se non mandataria» la reiterazione di dichiarazioni come quelle rivolte dal presidente del Consiglio Giuseppe Pella al maresciallo Papagos in occasione della sua recente visita a Roma, ovvero che l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Albania rappresentavano per la politica estera nazionale un valore non negoziabile42.

Tale positiva evoluzione spinse Palazzo Chigi a regolarizzare la situazione della Rappresentanza a Tirana, che era priva de facto di un suo titolare dal 19 maggio 1950, quando Omero Formentini aveva lasciato l’Albania. La scelta ricadde su Umberto Lanzetta che aveva retto dall’aprile del ’52 la legazione in qualità d’incaricato d’affari43. Anche l’indicazione del successore di Shtylla lasciò intravedere la volontà del Regime d’inviare segnali distensivi: il nuovo ministro a Roma, Edip Çuçi, proveniva da una famiglia borghese che, ai tempi dell’Unione, si era dimostrata favorevole all’Italia44.

Era probabilmente giunto il momento di portare la qualità delle relazioni bilaterali ad un livello più alto. Hoxha non perseguiva «una politica esclusivamente albanese»: questo era fuori discussione. Il «nuovo corso» poteva essere interpretato sia come un tentativo di creare imbarazzo all’Italia nel campo occidentale – il mutamento tattico sovietico appariva chiaramente finalizzato a neutralizzare il Patto balcanico45 – sia come indirizzato ad assecondare l’idea – in linea con la «spersonalizzazione» dei Paesi satellite promossa dalla nuova direzione collegiale moscovita (che aveva portato a un rafforzamento del ruolo di Mehmet Shehu46) – che il Regime stesse attraversando una fase di cambiamento abbandonando quell’immobilismo che ne era stato fino ad allora un carattere peculiare. Anche se per la diplomazia italiana il fine ultimo della politica estera albanese restava incerto, l’adozione di un «approccio continuativo», per risolvere almeno alcune delle troppe questioni che avevano fino ad allora impedito un effettivo ravvicinamento, avrebbe reso più facile affrontare il vero nodo che impediva la normalizzazione dei rapporti fra i due Paesi, ovvero l’adempimento formale degli obblighi derivanti dal Trattato di pace47.

Si potevano altresì sfruttare, per rafforzare le capacità negoziali dell’Italia, le preoccupazioni del Regime per lo stato dell’economia nazionale. Gli obiettivi del primo piano quinquennale, che di lì a poco si sarebbe concluso, erano stati solo parzialmente raggiunti e i traffici commerciali con i Paesi del Comecon continuavano a far registrare risultati deludenti. Tirana non era riuscita a sostituire il partner jugoslavo: più che scambi quelli con l’URSS erano aiuti che Mosca inviava sostanzialmente a fondo perduto48.

In proposito, facendo seguito ad alcune avances del precedente settembre, Shtylla49 aveva esplicitamente chiesto a Lanzetta all’indomani del suo arrivo a Tirana di adoperarsi «per una ripresa degli scambi commerciali»50. C’era un qualche interesse negli ambienti dell’imprenditoria pugliese, che – unito a considerazioni di carattere politico più generale – spinse Palazzo Chigi a valutare con attenzione un primo invito, il 12 febbraio 1954, per l’avvio di negoziati finalizzati alla conclusione di un accordo commerciale51. Nel complesso la proposta che Çuçi ebbe a precisare all’inizio del mese di aprile – ovvero che le trattative si svolgessero articolandosi su due tavoli di lavoro, uno a Tirana per le sole questioni commerciali, l’altro a Roma indirizzato alla risoluzione delle controversie legate al Trattato di pace – parve alla diplomazia italiana «ragionevole»52. Sfruttando «la carestia che (imperversava) in Albania» – suggeriva Lanzetta – era giunto il momento «dopo tanti ricatti di approfittare della situazione», facendo comprendere al Regime che concessioni in ambito commerciale avrebbero dovuto essere compensate innanzitutto con la liberazione dei detenuti italiani53. Non era però il caso di farsi illusioni: a Tirana si stava progressivamente definendo una tattica negoziale che puntava a servirsi strumentalmente delle questioni più sentite dall’opinione pubblica italiana come mezzo di pressione per le trattative più importanti, ovvero quelle connesse all’adempimento del Trattato di pace54.

A complicare i negoziati intervenne la resistenza dei ministeri del Tesoro e del Commercio estero che giudicavano fondamentale ottenere dal Regime precise garanzie sulla liquidazione dei beni confiscati ai connazionali e sul pagamento dei crediti dovuti a società italiane private e parastatali prima di acconsentire allo stabilim

Una pace necessaria

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Paolo Rago

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