Comunità immaginate
La nazione sembra un orizzonte naturale della società e della politica. Non è così. Il primo a dirlo è stato nel 1983 Benedict Anderson con Comunità immaginate, che ha imposto una svolta decisiva alla riflessione sulla materia e oggi è considerato il più importante libro sui nazionalismi.
Perché individui anche lontani tra loro, che non si conoscono, immaginano di appartenere a una comunità – la nazione – e finiscono per considerarla primigenia ed esistente da un tempo immemorabile? Perché i concetti di nazionalità o di nazionalismo scatenano attaccamenti così profondi? Per capirlo è necessario considerare accuratamente come essi siano nati storicamente, in che modo il loro significato sia cambiato nel tempo. Anderson, attraverso innumerevoli esempi, dimostra che altro non sono che manufatti culturali di un tipo particolare. Una nazione è una comunità politica immaginata, il frutto della spontanea distillazione alla fine del ’700 di un complesso ‘incrocio’ di forze storiche discontinue, ma capace di impiantarsi in una grande varietà di terreni sociali e di fondersi con un’ampia varietà di costellazioni politiche e ideologiche. Ad alimentarne la diffusione globale hanno contribuito la territorializzazione delle fedi religiose, il declino delle sovranità, la relazione tra capitalismo e stampa, lo sviluppo dei linguaggi laici di stato, la mutata percezione di spazio e tempo. La magia del nazionalismo è stata trasformare il caso in un destino.