Edizione: 2020, IV rist. 2023 Pagine: 472 Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788858130742 ISBN digitale: 9788858142899 Argomenti: Attualità politica ed economica, Storia del pensiero economico, Economia e finanza
Il nuovo libro dei premi Nobel per l’economia 2019
Non tutti gli economisti indossano la cravatta e pensano come banchieri. In questo libro meravigliosamente innovativo, Banerjee e Duflo utilizzano un’impressionante quantità di nuove ricerche che mettono in discussione le opinioni tradizionali, dal commercio alla tassazione, fino alla mobilità sociale. Una lettura obbligatoria.
Abhijit V. Banerjee, vincitore del premio Nobel per l’economia 2019 con Esther Duflo, insegna Economia presso il Massachusetts Institute of Technology. È co-fondatore e co-direttore dell’Abdul Latif Jameel Poverty Action Lab (J-PAL). Nel 2011 è stato annoverato tra i cento intellettuali più influenti al mondo dalla rivista “Foreign Policy”. Ha fatto parte del Secretary-General’s High-Level Panel of Eminent Persons on the Post-2015 Development Agenda delle Nazioni Unite. Con Esther Duflo ha pubblicato anche Poor Economics: A Radical Rethinking of the Way to Fight Global Poverty (Public Affairs 2011).
Esther Duflo, vincitrice del premio Nobel per l’economia 2019 con Abhijit V. Banerjee, è docente presso il dipartimento di Economia del Massachusetts Institute of Technology. È co-fondatrice e co-direttrice dell’Abdul Latif Jameel Poverty Action Lab (J-PAL). Tra le sue pubblicazioni, Le développement humain (Seuil 2010) e Poor Economics: A Radical Rethinking of the Way to Fight Global Poverty (con Abhijit V. Banerjee, Public Affairs 2011). Per Laterza ha pubblicato Una buona economia per tempi difficili (con Abhijit V. Banerjee, 2020), che ha riscosso grande successo di stampa e di pubblico.
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
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Dieci anni fa scrivemmo un libro sul lavoro che facciamo. Con nostra sorpresa, quel
libro trovò un pubblico. Ne fummo lusingati, ma davamo per scontato che non ce ne
sarebbe stato un altro. Gli economisti in realtà non scrivono libri, men che mai libri
accessibili agli esseri umani. Noi lo avevamo fatto e chissà come eravamo riusciti
a farla franca: era tempo di tornare a fare quello che facevamo normalmente, cioè
scrivere e pubblicare saggi di ricerca.
Ed è quello che abbiamo fatto mentre l’alba dei primi anni di Obama cedeva il passo
alla psichedelica follia della Brexit, dei gilet gialli e del Muro di Trump, e dittatori
tronfi (o i loro equivalenti eletti) prendevano il posto del confuso ottimismo della
Primavera araba. La disuguaglianza sta esplodendo e catastrofi ambientali e disastri
politici globali incombono su di noi, ma per fronteggiarli ci resta soltanto qualche
banalità o poco più.
Abbiamo scritto questo libro per aggrapparci alla speranza. Per riepilogare la storia
di quello che è andato storto e del perché è andato storto, ma anche per ricordarci
di tutto quello che è andato per il verso giusto. È un libro che parla dei problemi
e anche di quello che possiamo fare per rimettere insieme il nostro mondo, se riusciremo
a fare una diagnosi onesta. Un libro che racconta dove ha fallito la politica economica,
dove ci siamo fatti accecare dall’ideologia, dove non siamo riusciti a vedere delle
cose ovvie: ma anche un libro che racconta dove e perché la buona economia è utile,
soprattutto nel mondo di oggi.
Il fatto che si senta la necessità che qualcuno scriva un libro del genere non significa
che noi siamo le persone giuste per scriverlo. Molti dei problemi che affliggono il
mondo in questo momento sono particolarmente rilevanti nel ricco Nord, dove abbiamo
passato la nostra vita a studiare i poveri nei paesi poveri. Era evidente che per
scrivere il libro avremmo dovuto approfondire molti ambiti di studio per noi nuovi,
e che ci sarebbe sempre stata la possibilità che ci sfuggisse qualcosa. Ci abbiamo
messo un po’ soltanto per convincerci che valeva la pena provarci.
Alla fine, abbiamo deciso di buttarci, in parte perché eravamo stufi di starcene in
disparte a guardare il dibattito pubblico su questioni economiche fondamentali – immigrazione,
commerci, crescita, disuguaglianza, ambiente – che partiva sempre più per la tangente.
Ma anche perché, man mano che ci ragionavamo sopra, ci rendevamo conto che i problemi
che devono fronteggiare i paesi ricchi spesso, in realtà, sono inquietantemente simili
a quelli che siamo abituati a studiare nei paesi in via di sviluppo: persone lasciate
indietro dallo sviluppo, esplosione della disuguaglianza, mancanza di fiducia nello
Stato, spaccature sociali e politiche e così via. Abbiamo imparato molto scrivendo
questo libro, e questo ci ha dato fiducia nella cosa che come economisti abbiamo imparato
a fare meglio, cioè concentrarci ostinatamente sui dati reali, diffidare delle risposte
superficiali e delle soluzioni miracolose, affrontare con umiltà e onestà le cose
che non capiamo ed essere pronti – forse la cosa più importante di tutte – a sperimentare
idee e soluzioni e a sbagliarci, se questo serve ad avvicinarci allo scopo ultimo
di costruire un mondo più umano.
1. Make Economics Great Again
Una donna si sente dire dal suo dottore che le rimangono solo sei mesi di vita. Il dottore le consiglia di sposare un economista e trasferirsi nel Sud Dakota.
la donna: «Questo curerà la mia malattia?»
il dottore: «No, ma i sei mesi le sembreranno lunghissimi».
Viviamo in un’era di crescente polarizzazione. Dall’Ungheria all’India, dalle Filippine
agli Stati Uniti, dal Regno Unito al Brasile, dall’Indonesia all’Italia, il confronto
pubblico fra destra e sinistra si trasforma sempre più in uno scambio d’insulti ad
alto tasso di decibel, dove l’asprezza dei toni a cui tutti si abbandonano con disinvoltura
lascia pochissimo margine per fare marcia indietro. Negli Stati Uniti, dove viviamo
e lavoriamo, lo split ticket (votare per candidati di liste diverse quando si rinnova più di una carica) è ai
suoi minimi storici1. L’81 per cento di quelli che si identificano con uno dei due grandi partiti ha un’opinione
negativa di quello avversario2: il 61 per cento dei democratici dice di vedere i repubblicani come persone razziste,
sessiste e intolleranti; il 54 per cento dei repubblicani trova i democratici astiosi.
Un terzo di tutti gli americani si sentirebbe deluso se un proprio parente stretto
sposasse qualcuno dell’altro schieramento3.
1 Amber Phillips, Is Split-Ticket Voting Officially Dead?, «Washington Post», 17 novembre 2016; disponibile al seguente indirizzo: https://www.washingtonpost.com/news/the-fix/wp/2016/11/17/is-split-ticket-voting-officially-dead/?utm_term=.6b57fc114762.
28. Partisan Animosity, Personal Politics, Views of Trump, Pew Research Center, 2017; disponibile al seguente indirizzo: https://www.moreincommon.com/media/nhplchwt/hidden_tribes_report.pdf.
3Poll: Majority of Democrats Think Republicans Are ‘Racist’, ‘Bigoted’ or ‘Sexist’, Axios, 2018; disponibile al seguente indirizzo: https://www.countable.us/articles/14975-poll-majority-democrats-think-republicans-racist-bigoted-sexist.
In Francia e in India, gli altri due paesi in cui trascorriamo molto tempo, l’ascesa
della destra politica, nel privilegiato mondo liberale e «illuminato» in cui viviamo,
è discussa in termini sempre più apocalittici. C’è la chiara sensazione che la civiltà
così come la conosciamo, basata sulla democrazia e sul dibattito, sia a rischio.
In quanto studiosi di scienze sociali, il nostro lavoro consiste nel proporre fatti
e interpretazioni dei fatti che speriamo possano contribuire a mediare queste divisioni,
aiutare ogni schieramento a capire quello che sta dicendo l’altro e arrivare quindi,
se non a un consenso, almeno a un disaccordo ragionato. La democrazia può convivere
con il dissenso, fintanto che c’è rispetto da entrambe le parti. Ma il rispetto richiede
un certo grado di comprensione.
La cosa che rende particolarmente preoccupante la situazione attuale è che lo spazio
per questi confronti sembra ridursi. Sembra esserci una «tribalizzazione» delle opinioni,
non solo per quanto riguarda la politica, ma anche su quali siano i problemi principali
della società e cosa si debba fare per risolverli. Un sondaggio su larga scala ha
osservato che le opinioni degli americani, rispetto a un ampio ventaglio di questioni,
tendono ad agglomerarsi come grappoli d’uva4. Le persone che condividono alcune convinzioni fondamentali, per esempio sui ruoli
di genere o sull’importanza dell’impegno e dell’abnegazione per giungere al successo,
sembrano avere le stesse opinioni anche su tutta una serie di argomenti, dall’immigrazione
ai commerci internazionali, dalla disuguaglianza alla tassazione e al ruolo dello
Stato. Le loro opinioni politiche sono influenzate da queste convinzioni di fondo
più di quanto siano influenzate dal reddito, dalle caratteristiche demografiche o
dal luogo in cui vivono.
4 Stephen Hawkins, Daniel Yudkin, Míriam Juan-Torres e Tim Dixon, Hidden Tribes: A Study of America’s Polarized Landscape, «More in Common», 2018; disponibile al seguente indirizzo: https://www.moreincommon.com/hidden-tribes.
Queste problematiche, per certi versi, sono la parte più visibile e centrale del dibattito
politico, e non soltanto negli Stati Uniti. L’immigrazione, i commerci, le tasse o
il ruolo dello Stato sono temi molto controversi, in Europa come in India, in Sudafrica
come in Vietnam. Ma le opinioni al riguardo spesso e volentieri si basano esclusivamente
sull’affermazione di valori personali specifici («Sono a favore dell’immigrazione
perché sono una persona generosa», «Sono contrario all’immigrazione perché i migranti
mettono a rischio la nostra identità nazionale»). E quando sono supportate da qualcosa,
si tratta sempre di statistiche elaborate appositamente e letture estremamente semplicistiche
dei fatti. Nessuno ragiona troppo a fondo sui temi in sé.
Ed è un vero disastro, perché siamo precipitati in tempi difficili. Gli anni rampanti
di crescita globale, alimentata dall’espansione dei commerci e dallo straordinario
successo economico della Cina, potrebbero essere finiti: un po’ per il rallentamento
della crescita cinese e un po’ per le guerre commerciali che divampano in ogni dove.
I paesi che hanno tratto beneficio da questa marea montante, in Asia, Africa e America
Latina, stanno cominciando a chiedersi che cosa riserva loro il futuro. Certo, nella
maggior parte dei paesi del ricco Occidente, la lentezza della crescita non è propriamente
una novità, arrivati a questo punto, ma quello che la rende particolarmente preoccupante
è il rapido sfilacciarsi del contratto sociale a cui stiamo assistendo. Sembra di
essere tornati nel mondo dickensiano di Tempi difficili, con gli abbienti da una parte e dall’altra i non abbienti sempre più alienati, senza
nessuna soluzione all’orizzonte5.
5 Charles Dickens, Hard Times, pubblicato sul settimanale «Household Words» nel 1854 [trad. it., Tempi difficili, Feltrinelli, Milano 2015].
Nella crisi attuale giocano un ruolo centrale gli interrogativi legati all’economia
e alla politica economica. Si può fare qualcosa per potenziare la crescita? Il ricco
Occidente dovrebbe porsi questo potenziamento della crescita come una priorità? E
se non questo, cos’altro? Che cosa bisogna fare di fronte alla disuguaglianza che
dilaga ovunque? I commerci internazionali sono il problema o la soluzione? Che effetti
hanno sulla disuguaglianza? Che futuro si profila per i commerci? I paesi con un costo
del lavoro più basso possono sperare di attirare la produzione industriale mondiale,
sottraendola alla Cina? E le migrazioni? È vero che c’è un eccesso di migranti a bassa
qualifica? E le nuove tecnologie? Dobbiamo celebrare l’ascesa dell’intelligenza artificiale
o vederla come un pericolo? E, cosa forse più importante, che può fare la società
per aiutare tutte quelle persone che i mercati lasciano indietro?
Per rispondere a questi problemi non basta un tweet, ecco perché l’istinto è semplicemente
di ignorarli. È per questo, fra gli altri motivi, che le nazioni stanno facendo così
poco per risolvere le sfide più pressanti della nostra epoca, continuando ad alimentare
la rabbia e la sfiducia che ci polarizzano, che ci rendono ancora più incapaci di
parlare, di ragionare insieme, di fare qualcosa. Spesso la sensazione è di essere
prigionieri di un circolo vizioso.
Gli economisti hanno molto da dire su questi grandi temi. Studiano l’immigrazione
per capire che impatto ha sui salari, studiano le tasse per stabilire se scoraggiano
lo spirito d’impresa, studiano la ridistribuzione per valutare se incentiva la pigrizia.
Ragionano su quello che succede quando le nazioni commerciano fra loro e sfornano
previsioni utili su chi ci guadagnerà e chi ci perderà. Si scervellano per capire
perché alcuni paesi crescono e altri no, e che cosa possono fare i governi (sempre
che possano fare qualcosa) per migliorare la situazione. Raccolgono dati sui fattori
che rendono le persone generose o diffidenti, su cosa spinge un uomo a lasciare casa
propria per trasferirsi in un posto straniero, sulla capacità dei social media di
far leva sui nostri pregiudizi.
Quello che hanno da dire le ricerche più recenti, si scopre, spesso è sorprendente
– specie per quelle persone abituate alle risposte preconfezionate proposte dagli
«economisti» che si vedono in televisione e dai manuali delle scuole superiori – e
può fare luce su questi dibattiti.
Sfortunatamente, pochissime persone si fidano degli economisti abbastanza da stare
ad ascoltare attentamente quello che hanno da dire. Subito prima del voto sulla Brexit,
i nostri colleghi del Regno Unito cercavano disperatamente di mettere in guardia i
cittadini contro i costi che avrebbe comportato uscire dall’Unione Europea, ma avevano
la sensazione che il loro messaggio non passasse. E avevano ragione, nessuno dava
loro retta. All’inizio del 2017 YouGov realizzò nel Regno Unito un sondaggio in cui
chiedeva: «Tra le seguenti categorie, chi considerate più affidabile quando parla
del proprio campo di competenza?». Gli infermieri si classificavano al primo posto,
con la fiducia dell’84 per cento degli intervistati, i politici all’ultimo, con il
5 per cento (anche se il deputato locale godeva di un po’ più di credito, con il 20
per cento). Gli economisti erano poco al di sopra dei politici, con il 25 per cento.
La fiducia nei meteorologi era due volte più alta6. Nell’autunno del 2018 noi abbiamo posto le stesse domande (insieme a molte altre
su varie questioni economiche, che utilizzeremo in diversi punti del libro) a diecimila
persone negli Stati Uniti7: anche in questo caso, appena il 25 per cento degli intervistati si fidava della
competenza degli economisti nella loro materia; solo i politici si piazzavano peggio.
6 Matthew Smith, Leave Voters Are Less Likely to Trust Any Experts – Even Weather Forecasters, «YouGov», 2017; disponibile al seguente indirizzo: https://yougov.co.uk/topics/politics/articles-reports/2017/02/17/leave-voters-are-less-likely-trust-any-experts-eve.
7 Questa inchiesta è stata condotta in collaborazione con Stefanie Stantcheva ed è
descritta in Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Stefanie Stantcheva, Me and Everyone Else: Do People Think Like Economists?, saggio non pubblicato, Massachusetts Institute of Technology, 2019.
Questo deficit di fiducia si rispecchia nel fatto che il consenso tra gli economisti
di professione (quando c’è) spesso diverge in modo sistematico dalle opinioni dei
cittadini comuni. La Booth School of Business dell’Università di Chicago chiede regolarmente
a un gruppo di una quarantina di professori di economia, tutti esponenti di primo
piano della disciplina, le loro opinioni su temi economici fondamentali. In questo
libro vi faremo spesso riferimento come «Igm Booth» (Igm sta per Initiative on Global
Markets, iniziativa sui mercati globali). Abbiamo selezionato dieci delle domande
poste agli economisti dell’Igm Booth e le abbiamo sottoposte tali e quali ai partecipanti
al nostro sondaggio. Nella maggior parte dei casi, le risposte degli economisti e
dei nostri intervistati erano agli antipodi. Per esempio, nell’Igm Booth neanche un
economista si dichiarava d’accordo con l’affermazione che «imporre nuovi dazi sull’acciaio
e l’alluminio migliorerà il benessere degli americani»8; nel nostro sondaggio, invece, solo poco più di un terzo degli intervistati la pensava
nello stesso modo.
8Steel and Aluminium Tariffs, Igm Forum, Booth School of Business, 2018; disponibile al seguente indirizzo: http://www.igmchicago.org/surveys/steel-and-aluminum-tariffs.
In generale, i partecipanti al nostro sondaggio tendevano a essere più pessimisti
degli economisti. Il 40 per cento degli economisti era d’accordo con l’affermazione
che «l’afflusso di rifugiati in Germania cominciato nell’estate del 2015 porterà benefici
economici al paese nel decennio successivo», e gli altri erano per lo più incerti
o non esprimevano un’opinione (solo uno era in disaccordo)9; inversamente, soltanto un quarto dei partecipanti al nostro sondaggio era d’accordo
e il 35 per cento era in disaccordo. Nel nostro campione, erano ancora più numerosi
quelli che pensavano che l’ascesa dei robot e dell’intelligenza artificiale avrebbe
portato a una disoccupazione diffusa ed erano molti meno quelli che pensavano che
avrebbe creato ricchezza supplementare in misura sufficiente a compensare le persone
che sarebbero state danneggiate10.
9Refugees in Germany, Igm Forum, Booth School of Business, 2017; disponibile al seguente indirizzo: http://www.igmchicago.org/surveys/refugees-in-germany
(le risposte sono normalizzate per il numero di persone che hanno espresso un’opinione).
10Robots and Artificial Intelligence, Igm Forum, Booth School of Business, 2017; disponibile al seguente indirizzo: http://www.igmchicago.org/surveys/robots-and-artificial-intelligence.
Questa divergenza di vedute non è dovuta al fatto che gli economisti hanno sempre
un atteggiamento più favorevole del resto del mondo verso gli esiti delle politiche
liberiste. Un precedente studio aveva messo a confronto le risposte di un gruppo di
economisti e di un campione di mille americani comuni alle stesse venti domande11 e aveva scoperto che gli economisti erano (di gran lunga) più favorevoli a un aumento
delle tasse federali (il 97,4 per cento degli economisti contro il 66 per cento degli
americani comuni). Avevano anche molta più fiducia nelle misure varate dal governo
dopo la crisi del 2008 (salvataggi delle banche, stimoli di bilancio ecc.) rispetto
ai cittadini in generale. Per altro verso, il 67 per cento degli americani comuni,
ma solo il 39 per cento degli economisti di professione, concordava con l’idea che
gli amministratori delegati delle grandi aziende ricevevano compensi troppo elevati.
La scoperta fondamentale è che nel complesso l’economista accademico medio ragiona
in modo molto diverso dall’americano medio. Prendendo in esame tutte e venti le domande
si osserva un divario enorme, di 35 punti percentuali, fra il numero di economisti
che concordano con una certa affermazione e il numero di americani medi che fanno
altrettanto.
11 Paola Sapienza e Luigi Zingales, Economic Experts versus Average Americans, «American Economic Review», CIII, 3, 2013, pp. 636-642; disponibile al seguente
indirizzo: https://doi.org/10.1257/aer.103.3.636.
Un’altra cosa da osservare è che informare i partecipanti al sondaggio del parere
di economisti illustri sulle questioni prese in esame non influiva in alcun modo sulle
loro opinioni. Per tre domande dove l’opinione degli esperti differiva significativamente
da quella dei cittadini comuni, i ricercatori avevano adottato due formulazioni differenti:
per alcuni dei partecipanti, la domanda era preceduta dalla premessa «Quasi tutti
gli esperti concordano sul fatto che...», per gli altri c’era soltanto la domanda,
senza premessa. Questo fattore non ha influito in alcun modo sulle risposte. Per esempio,
alla domanda se il Nafta (l’accordo di libero scambio del Nordamerica) avesse accresciuto
il benessere dell’americano medio (a cui il 95 per cento degli economisti aveva risposto
sì), ha risposto di sì il 51 per cento di quelli che avevano letto la domanda con
la premessa e il 46 per cento di quelli che avevano letto la domanda senza la premessa.
Il massimo che si può dire è che influisce molto poco. Insomma, sembra che una grossa
parte dell’opinione pubblica non dia più retta agli economisti quando si parla di
economia.
Noi non pensiamo, nel modo più assoluto, che se gli economisti e i cittadini hanno
idee differenti siano sempre i primi ad avere ragione. Noi economisti spesso siamo
troppo avviluppati nei nostri modelli e nei nostri metodi e a volte non ricordiamo
più dove finisce la scienza e dove comincia l’ideologia. Rispondiamo a domande di
politica economica basandoci su ipotesi precostituite che per noi sono diventate una
seconda natura, perché sono gli elementi costitutivi dei nostri modelli, ma questo
non significa che siano sempre corretti. Tuttavia, abbiamo delle competenze utili
che nessun altro ha: il (modesto) obbiettivo di questo libro è condividere una parte
di queste competenze e riaprire un dialogo sui temi più pressanti e controversi della
nostra epoca.
Per farlo, dobbiamo capire cos’è che spinge la gente a diffidare di noi. Parte della
risposta è che c’è in giro tanta cattiva economia. Le persone che rappresentano la
categoria nel dibattito pubblico di solito non sono le stesse del campione dell’Igm
Booth. Quelli che si spacciano per economisti in televisione e sulla stampa – l’economista
capo della banca X o dell’azienda Y – sono, con importanti eccezioni, in primo luogo
dei portavoce degli interessi economici della loro azienda, gente che spesso si sente
libera di ignorare il peso dell’evidenza scientifica. Inoltre, hanno un’inclinazione,
abbastanza prevedibile, verso un ottimismo di mercato a tutti i costi, che è il tratto
che l’opinione pubblica associa agli economisti in generale.
Sfortunatamente, per l’aspetto (giacca e cravatta) e per il modo di parlare (un mucchio
di gergo settoriale), gli opinionisti televisivi sono quasi indistinguibili dagli
economisti accademici. La differenza più importante forse sta nel fatto che non si
fanno problemi a prendere posizioni e fare previsioni, e questo purtroppo li fa apparire
ancora più autorevoli. Ma le loro previsioni in realtà sono molto approssimative,
anche perché spesso fare previsioni è pressoché impossibile (ragione per cui la maggior
parte degli economisti accademici tende a tenersi alla larga dalla futurologia). Uno
dei compiti del Fondo monetario internazionale (Fmi) è pronosticare il tasso di crescita
dell’economia mondiale nel prossimo futuro. Senza grande successo, si potrebbe aggiungere,
nonostante il team di economisti esperti e qualificatissimi di cui dispone. La rivista
«The Economist» una volta è andata a prendere le previsioni del Fmi nel periodo 2000-2014
e ha calcolato quanto si erano discostate dalla media12. L’errore medio su una previsione a due anni (per esempio il tasso di crescita del
2014 previsto nel 2012) era di 2,8 punti percentuali. Un po’ meglio che se avessero
scelto un numero a caso fra il -2 per cento e il 10 per cento ogni anno, ma altrettanto
insoddisfacente che se avessero ipotizzato un tasso di crescita costante del 4 per
cento. Il nostro sospetto è che questo genere di cose contribuisca non poco al diffuso
scetticismo nei confronti della scienza economica.
12A Mean Feat, «The Economist», 9 gennaio 2016; disponibile al seguente indirizzo: https://www.economist.com/finance-and-economics/2016/01/09/a-mean-feat.
Un altro grande fattore che concorre a questo divario di fiducia è che gli economisti
accademici non si prendono quasi mai il disturbo di spiegare i ragionamenti spesso
complessi che stanno dietro alle loro conclusioni, più ricche di sfumature. Che metodo
hanno usato per passare al setaccio le tante possibili interpretazioni alternative
dei dati? Quali sono i puntini, spesso di ambiti diversi, che hanno dovuto collegare
per arrivare alla risposta più plausibile? Quanto è plausibile questa risposta? Vale
la pena usarla come guida per prendere misure concrete oppure è più opportuno aspettare
e vedere? La cultura mediatica di oggi non è naturalmente predisposta a lasciare spazio
a spiegazioni sottili e verbose. Entrambi gli autori di questo libro hanno dovuto
litigare con i presentatori televisivi per avere la possibilità di dire tutto quello
che avevano da dire (spesso solo per ritrovarselo tagliato in sede di montaggio),
perciò possiamo capire benissimo perché gli economisti accademici spesso siano restii
a prendersi la responsabilità di parlare al grande pubblico. Bisogna fare molti sforzi
per riuscire a farsi ascoltare e c’è sempre il rischio di fare la figura degli sciocchi
o di vedere le proprie parole, attentamente misurate, manipolate in modo da dargli
un significato ben diverso.
Ovviamente economisti che parlano al grande pubblico ci sono, ma di solito si tratta,
con importanti eccezioni, di quelli che hanno opinioni molto nette e poca pazienza
per misurarsi con gli studi migliori della ricerca moderna. Alcuni, troppo legati
a una qualche ortodossia per curarsi di qualunque dato che possa contraddirla, ripetono
come un mantra idee vecchie, anche se sono state confutate da tempo. Altri sono lì
solo per riversare il loro sdegno sulle teorie economiche dominanti, che a volte se
lo meritano: però spesso, così facendo, ignorano le ricerche economiche più avanzate.
La nostra sensazione è che in molti casi gli studi economici migliori siano quelli
che fanno meno rumore. Il mondo è un luogo complicato e incerto, tanto che la cosa
più preziosa che gli economisti hanno da offrire in molti casi non sono le loro conclusioni,
ma il percorso che hanno seguito per arrivarci, cioè i fatti che conoscono, il modo
in cui hanno interpretato questi fatti, i passaggi deduttivi che hanno applicato,
i motivi delle incertezze che rimangono. Tutto ciò è legato al fatto che gli economisti
non sono scienziati come lo sono i fisici, e spesso hanno pochissime certezze assolute
da offrire. Chiunque abbia guardato la sitcom televisiva The Big Bang Theory sa che i fisici guardano gli ingegneri dall’alto in basso: i fisici sono quelli che
fanno pensieri profondi, mentre gli ingegneri si gingillano con i materiali e cercano
di dare forma concreta a quei pensieri (o almeno è così che la faccenda viene presentata
nella serie). Se esistesse una serie televisiva che scherza sugli economisti, sospettiamo
che sarebbero parecchie posizioni al di sotto degli ingegneri, almeno di quegli ingegneri
che costruiscono razzi, perché a differenza degli ingegneri (o di quelli che si vedono
in The Big Bang Theory, quantomeno) noi non possiamo affidarci a un fisico per sapere che cosa serve esattamente
per consentire a un razzo di sfuggire all’attrazione gravitazionale terrestre. Noi
economisti siamo più simili a degli idraulici: risolviamo problemi usando una combinazione
di intuito con basi scientifiche, qualche supposizione agevolata dall’esperienza e
un bel po’ di tentativi ed errori.
Tutto ciò significa che gli economisti spesso si sbagliano. Ci sbaglieremo sicuramente
anche noi in questo libro, molte volte. Gli economisti sbagliano non solo le previsioni
sul tasso di crescita, che è quasi sempre un’impresa senza speranza, ma anche su questioni
di portata un po’ più ristretta, come il contributo che possono dare le tasse sulle
emissioni alla lotta contro i cambiamenti climatici, l’effetto che potrebbe avere
un forte aumento delle tasse sulle retribuzioni degli amministratori delegati o quali
conseguenze produrrebbe l’introduzione di un reddito di base universale sulla struttura
occupazionale. Ma gli economisti non sono gli unici che fanno errori. Tutti sbagliano.
Il pericolo non è sbagliare, ma infatuarsi delle proprie opinioni al punto da non
accettare che possano essere smentite dai fatti. Se vogliamo fare progressi, dobbiamo
costantemente tornare all’evidenza scientifica, riconoscere i nostri errori e andare
avanti.
Peraltro, la buona economia non manca certo, se la si vuole cercare. La buona economia
è quella che parte da fatti problematici, fa qualche supposizione basandosi sulle
cose che già conosciamo del comportamento umano e delle teorie che altrove hanno dimostrato
di funzionare, usa i dati per verificare queste supposizioni, affina (o modifica radicalmente)
la sua linea d’attacco basandosi sul nuovo insieme di fatti e alla fine, con un po’
di fortuna, arriva a una soluzione. Da questo punto di vista, il nostro lavoro assomiglia
molto alla ricerca medica. Il bellissimo libro di Siddhartha Mukherjee sulla lotta
contro il cancro, L’imperatore del male, racconta la storia di un mix di supposizioni ispirate, sperimentazioni accurate
e perfezionamenti a più riprese, prima che un nuovo farmaco arrivi sul mercato13. Il lavoro dell’economista assomiglia molto a questo: come succede in medicina, non
abbiamo mai la certezza di aver raggiunto la verità, semplicemente ci fidiamo di una
risposta abbastanza da essere disposti a usarla come guida per prendere misure concrete,
consapevoli che potremmo essere costretti a cambiare opinione in futuro. E sempre
come succede in medicina, il nostro lavoro non si ferma una volta che è stata fatta
la ricerca di base e l’idea di fondo ha preso forma, perché a quel punto l’idea deve
essere applicata nel mondo reale.
13 Siddhartha Mukherjee, The Emperor of All Maladies: A Biography of Cancer, Scribner, New York 2010 [trad. it., L’imperatore del male. Una biografia del cancro, Neri Pozza, Vicenza 2011].
Da un certo punto di vista, questo libro si può vedere come un rapporto dalle trincee
dove quella ricerca si svolge: che cosa hanno da dirci le migliori teorie economiche
del momento sulle grandi questioni con cui si misura la nostra società? Quello che
cercheremo di fare è descrivere il modo di concepire il mondo dei migliori economisti
dei nostri giorni: non soltanto le conclusioni a cui arrivano, ma anche il modo in
cui ci sono arrivati, cercando costantemente di separare i fatti dalle speranze, le
ipotesi ardite dai risultati concreti, le cose che auspichiamo dalle cose che sappiamo.
È importante avere come guida, in questo progetto, una concezione estesa di cosa desiderano
gli esseri umani e di cosa sia una vita degna di essere vissuta. Gli economisti hanno
la tendenza ad adottare una nozione di benessere spesso troppo ristretta, che coincide
più o meno con il reddito o i consumi materiali. Ma tutti noi abbiamo bisogno di molto
di più per vivere una vita appagante: il rispetto della comunità, il conforto della
famiglia e degli amici, la dignità, la spensieratezza, il piacere. Focalizzarsi unicamente
sul reddito non è soltanto una comoda scorciatoia, è una lente deformante che spesso
ha indotto le menti economiche più brillanti a percorrere strade sbagliate, le autorità
a prendere decisioni sbagliate e troppi di noi a essere ossessionati dalle cose sbagliate.
È questa lente deformante ad aver convinto tanti di noi che il mondo intero sia lì
in agguato, pronto a portarci via i nostri lavori ben pagati. È questa lente deformante
che ha condotto all’ossessione di riportare le nazioni occidentali a un qualche glorioso
passato di crescita economica sostenuta. È questa lente deformante che ci rende profondamente
diffidenti verso coloro che non hanno soldi, e al tempo stesso terrorizzati di ritrovarci
nei loro panni. Ed è questa lente deformante a farci apparire così difficile la scelta
tra sopravvivenza del pianeta e crescita economica.
Se vogliamo un dibattito di qualità, dobbiamo partire dal riconoscimento che gli esseri
umani hanno un profondo desiderio di dignità e contatto umano, e trattare questo desiderio
non come una distrazione, bensì come un modo migliore per comprendersi a vicenda e
liberarsi da contrapposizioni che appaiono irrisolvibili. Restituire alla dignità
umana il ruolo centrale che le compete – è la nostra tesi – mette in moto un ripensamento
profondo delle priorità economiche e del modo in cui le società si prendono cura dei
loro membri, soprattutto quando sono in condizioni di bisogno.
Detto questo, su ogni singolo tema che tratteremo nel libro, o magari su tutti i temi
che tratteremo, voi potreste giungere a una conclusione diversa da quella a cui giungiamo
noi. La nostra speranza non è di convincervi a concordare istintivamente con noi,
ma ad adottare almeno qualcuno dei nostri metodi e condividere un po’ delle nostre
speranze e paure: in questo modo, forse, alla fine avremo instaurato un vero dialogo.
2. Dalla bocca dello squalo
Le migrazioni sono un tema importante, tanto importante da condizionare la vita politica
in gran parte dell’Europa e negli Stati Uniti. Fra le orde immaginarie (ma elettoralmente
molto efficaci) di migranti messicani assassini evocate dal presidente Donald Trump
e la retorica xenofoba di Alternativa per la Germania, del Rassemblement National
in Francia e dei fautori della Brexit nel Regno Unito, per non parlare dei partiti
al potere in Italia, Ungheria e Slovacchia1, le migrazioni rappresentano probabilmente il tema politico di maggior impatto nei
paesi più ricchi del pianeta. Perfino gli esponenti dei partiti tradizionali europei
faticano a conciliare le tradizioni liberali che sono decisi a difendere con la minaccia
che vedono venire di là dal mare. È un tema meno evidente nei paesi in via di sviluppo,
ma gli scontri in Sudafrica intorno al problema dei profughi dallo Zimbabwe, la crisi
dei Rohingya in Bangladesh e la legge sulla cittadinanza promulgata nello Stato indiano
dell’Assam sono altrettanto spaventosi per le persone che ne sono vittime.
1 Nel frattempo la compagine di governo è cambiata, in Italia come in Slovacchia (N.d.T.).
Perché tutto questo panico? Nel 2017 la percentuale dei migranti internazionali sul
totale della popolazione mondiale era più o meno la stessa del 1960 o del 1990: il
3 per cento2. L’Unione Europea in media riceve ogni anno fra l’1,5 e i 2,5 milioni di migranti
extracomunitari dal resto del mondo. Due milioni e mezzo di persone equivale a meno
dello 0,5 per cento della popolazione dell’Unione. Sono principalmente migranti legali,
persone che arrivano perché hanno un’offerta di lavoro o per ricongiungersi con la
loro famiglia. Nel 2015 e nel 2016 c’è stato un afflusso di rifugiati fuori dalla
norma, ma nel 2018 il numero di richiedenti asilo nell’Unione Europea era sceso di
nuovo a 638.000, e solo 38 richieste su 100 venivano accolte3. Stiamo parlando di una persona ogni venticinquemila residenti. Tutto qui. Non certo
un’invasione.
2 Nazioni Unite, International Migration Report 2017 – Highlights, disponibile al seguente indirizzo: https://www.un.org/en/development/desa/population/migration/publications/migrationreport/docs/MigrationReport2017_Highlights.pdf
(ultimo accesso il 1° giugno 2017); Mathias Czaika e Hein de Haas, The Globalization of Migration: Has the World Become More Migratory?, «International Migration Review», XLVIII, 2, 2014, pp. 283-323.
3 Parlamento europeo, Statistiche su asilo e immigrazione, 18 luglio 2019; disponibile al seguente indirizzo: http://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/society/20170629STO
78630/statistiche-su-asilo-e-immigrazione (ultimo accesso il 21 giugno 2020).
L’allarmismo razzista, alimentato dalla paura di un mescolamento delle razze e dal
mito della purezza, non si cura dei fatti. Un’indagine condotta presso un campione
di 22.500 autoctoni in sei paesi dove l’immigrazione rappresenta una questione politica
di primo piano (Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Svezia) ha rivelato
l’esistenza di percezioni enormemente errate riguardo al numero e alla provenienza
degli immigrati4. Per esempio, in Italia, la percentuale effettiva degli immigrati sul totale della
popolazione è del 10 per cento, ma la percezione media è che sia il 26 per cento.
4 Alberto Alesina, Armando Miano e Stefanie Stantcheva, Immigration and Redistribution, National Bureau of Economics Research (Nber) Working Paper n. 24733, 2018.
I partecipanti al sondaggio sovrastimano drasticamente la quota di immigrati musulmani,
e anche la quota di immigrati provenienti da Medio Oriente e Nordafrica. Sono convinti
che gli immigrati siano meno istruiti, più poveri, più disoccupati e dipendenti dalle
elargizioni pubbliche di quanto non siano in realtà.
I politici gettano benzina sul fuoco di queste paure distorcendo i fatti. Durante
la campagna elettorale per le presidenziali francesi del 2017, Marine Le Pen ha affermato
più volte che il 99 per cento degli immigrati era composto da maschi adulti (in realtà
la percentuale era il 58 per cento) e che il 95 per cento dei migranti che si erano
stabiliti in Francia erano «a carico della nazione», perché non lavoravano (in realtà,
il 55 per cento lavorava)5.
5 Óscar Barrera Rodríguez, Sergej M. Gurijev, Émeric Henry e Ekaterina �uravskaja,
Facts, Alternative Facts, and Fact-Checking in Times of Post-Truth Politics, «Ssrn Electronic Journal»,2017; disponibile al seguente indirizzo: https://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3004631.
Due recenti esperimenti dimostrano che si tratta di una tattica elettorale vincente,
perfino in un mondo di fact-checking sistematico. In uno studio condotto negli Stati Uniti, i ricercatori hanno lavorato
con due serie di domande. Una puntava a sollecitare le opinioni dei partecipanti sull’immigrazione, l’altra la loro conoscenza effettiva dei numeri e delle caratteristiche del fenomeno6. Quelli che venivano interrogati prima sui dati reali in partenza (e perciò prima
di prendere coscienza della loro percezione distorta della questione) erano molto
più inclini a vedere negativamente l’immigrazione: quando venivano informati dei dati
reali la loro percezione dei fatti cambiava, ma non cambiavano le loro opinioni di
fondo sull’immigrazione. In Francia, un esperimento parallelo ha dato risultati analoghi:
le persone che venivano deliberatamente esposte alle false affermazioni di Marine
Le Pen dichiaravano più facilmente di essere intenzionate a votare per lei7. La cosa triste era che ribadivano questa volontà anche quando i ricercatori mostravano
loro che si trattava di tesi infondate: la verità non intaccava minimamente le loro
opinioni. Il semplice fatto di pensare all’immigrazione spinge le persone ad adottare
una visione più limitata, impermeabile ai fatti.
6 Alesina, Miano e Stantcheva, Immigration and Redistribution cit.
7 Rodríguez et al., Facts, Alternative Facts, and Fact-Checking cit.
C’è una ragione importante per questa noncuranza verso i dati reali, e si fonda su
un’argomentazione economica così apparentemente ovvia che molti non riescono a vedere
oltre, anche quando l’evidenza dimostra che è falsa. L’analisi economica dell’immigrazione
spesso si riduce infatti a un sillogismo seducente: il mondo è pieno di persone che
guadagnerebbero molto di più se riuscissero a trovare un modo per arrivare qui da
noi (dovunque sia questo «qui da noi»), dove le cose vanno chiaramente molto meglio;
pertanto, alla minima occasione, lasceranno il loro paese, qualunque esso sia, e verranno
nel nostro, e questo farà scendere i salari e peggiorerà la condizione della maggior
parte di noi che ci viviamo.
La caratteristica principale di questa argomentazione è che ricalca l’esposizione
classica della legge di domanda e offerta, così come viene insegnata alle superiori
durante le lezioni di economia. La gente vuole guadagnare di più e quindi andrà dove
i salari sono più alti (l’offerta di manodopera sale): quando la curva della domanda
di manodopera comincerà a scendere, l’aumento dell’offerta farà calare i salari per
tutti; i migranti magari ne beneficeranno, ma i lavoratori autoctoni ci rimetteranno.
È questo il sentimento che il presidente Trump cerca di intercettare quando ribadisce
che il paese è «al completo». Il ragionamento è talmente semplice che può entrare
sul retro di un tovagliolo, come mostrato nel grafico 2.1.
Grafico 2.1. «Economia del tovagliolo»: perché gli immigrati rendono inevitabilmente
più povero il resto della popolazione.
La logica è semplice, seducente e sbagliata. Prima di tutto, le differenze salariali
fra un paese e l’altro (o più in generale fra una località e l’altra) in realtà hanno
poco a che fare con le ragioni per cui la gente emigra o non emigra. Se da un lato
è evidente che molte persone sono disposte a tutto pur di andarsene dal posto in cui
si trovano, come vedremo, dall’altro lato l’enigma persistente è perché tantissime
altre non lasciano il posto in cui si trovano anche se potrebbero.
In secondo luogo, non c’è nessuna prova credibile del fatto che anche afflussi relativamente
importanti di migranti a bassa qualifica possano danneggiare la popolazione autoctona,
compresi i membri della popolazione autoctona più simili ai migranti sul piano delle
qualifiche professionali. Al contrario, le migrazioni apparentemente migliorano la
condizione della maggior parte delle persone, migranti e autoctoni. È un fenomeno
che ha molto a che fare con la natura peculiare del mercato del lavoro, che si confà
ben poco alla versione tradizionale del meccanismo della domanda e offerta.
Lasciare casa
La poetessa somalo-britannica Warsan Shire ha scritto:
Nessuno lascia casa a meno che
casa non sia la bocca di uno squalo
corri verso il confine solo
quando vedi tutta la città che corre via a sua volta
i tuoi vicini che corrono più in fretta di te
col respiro che gli sanguina in gola
il ragazzo con cui andavi a scuola
che ti stordiva di baci dietro il vecchio conservificio
8 Warsan Shire, Home, disponibile al seguente indirizzo: https://www.seekersguidance.org/articles/social-issues/home-warsan-shire/
(ultimo accesso il 5 giugno 2019).
Nelle parole della Shire c’è molta verità. I posti da cui la gente sembra voler fuggire
a tutti i costi, paesi come l’Iraq, la Siria, il Guatemala e perfino lo Yemen, non
sono i più poveri del mondo, tutt’altro. Il reddito pro capite in Iraq, anche tenendo
conto delle differenze nel costo della vita (quella che gli economisti chiamano parità di potere d’acquisto, o Ppp), è circa venti volte più alto di quello della Liberia, e almeno dieci volte
più alto di quello del Mozambico o della Sierra Leone. Nel 2016, nonostante un drammatico
calo del reddito, lo Yemen rimaneva tre volte più ricco della Liberia (non sono disponibili
dati per gli anni più recenti). Il Messico, il bersaglio preferito del presidente
Trump, è un paese a reddito medioalto, con un sistema di welfare molto elogiato e
largamente imitato.
Quelli che cercano di andarsene da questi posti probabilmente non sono persone costrette
a fare i conti con la miseria lacerante del cittadino medio della Liberia o del Mozambico.
La ragione per cui se ne vanno è il tracollo della normalità quotidiana, che ha reso
l’esistenza intollerabile: l’imprevedibilità e la violenza causate dalle guerre dei
narcos nel Nord del Messico, dalla raccapricciante repressione della giunta militare in
Guatemala e dalle guerre civili in Medio Oriente. Uno studio condotto in Nepal ha
riscontrato che neanche le annate di cattivo raccolto spingevano i nepalesi a lasciare
in massa il paese9. Anzi, negli anni di vacche magre il numero di persone che emigravano diminuiva,
perché erano di meno quelli che potevano permettersi il viaggio. Fu solo con la recrudescenza
dell’insurrezione maoista attiva da tempo nel paese, e lo scatenarsi della sua violenza,
che la gente cominciò a partire. Correvano via dalla bocca dello squalo. E quando
è così, è quasi impossibile fermare le persone, perché nella loro mente non c’è nessuna
casa a cui tornare.
9 Maheshwor Shrestha, Push and Pull: A Study of International Migration from Nepal, Policy Research Working Paper n. Wps 7965, World Bank Group, febbraio 2017; disponibile
al seguente indirizzo: http://documents.worldbank.org/curated/en/318581486560991532/Push-and-pull-a-study-of-international-migration-from-Nepal.
Naturalmente c’è anche l’inverso: il migrante ambizioso che sente il bisogno di andarsene
a tutti i costi. È Apu, il protagonista di Aparajito (L’invitto), seconda opera della meravigliosa trilogia cinematografica di Satyajit Ray incentrata
su questo personaggio, imprigionato fra la madre sola nel villaggio natale e le tante,
eccitanti possibilità offerte dalla città10. È l’immigrato cinese che fa due lavori, tira la cinghia e risparmia perché i suoi
figli un giorno possano andare a Harvard. Sappiamo tutti che individui del genere
esistono.
E poi ci sono quelli in mezzo, la stragrande maggioranza delle persone, che non deve
fare i conti con impulsi estremi, interni o esterni, a spostarsi altrove. Sono persone
che non sembrano smaniose di guadagnare qualche dollaro in più. Anche quando non c’è
nessun controllo al confine e nessun agente della polizia di frontiera da eludere,
rimangono dove sono, nelle campagne, per esempio, nonostante le enormi differenze
salariali che esistono all’interno dello stesso paese fra aree urbane e aree rurali11. A Delhi, un’indagine condotta fra gli abitanti delle baraccopoli, in molti casi
immigrati recenti originari del Bihar e dell’Uttar Pradesh, i due enormi Stati a est
di Delhi, ha scoperto che la famiglia media, una volta pagato l’affitto, viveva con
poco più di 2 dollari al giorno (a parità di potere d’acquisto)12. È molto di più rispetto alla cifra con cui vive il 30 per cento più povero della
popolazione del Bihar e dell’Uttar Pradesh, meno di 1 dollaro al giorno a parità di
potere d’acquisto. Nonostante questo, il resto dei poverissimi (e sono circa 100 milioni
di persone) non ha scelto di trasferirsi a Delhi o altrove per raddoppiare i propri
guadagni.
11 Usando dati relativi a 65 paesi, Alwyn Young ha scoperto che gli abitanti delle
aree urbane consumano il 52 per cento in più degli abitanti delle aree rurali. Alwyn
Young, Inequality, the Urban-Rural Gap, and Migration, «Quarterly Journal of Economics», CXVIII, 4, 2013, pp. 1727-1785.
12 Abhijit Banerjee, Nils Enevoldsen, Rohini Pande e Michael Walton, Information as an Incentive: Experimental Evidence from Delhi, saggio non pubblicato, Harvard, 2018; disponibile al seguente indirizzo: https://scholar.harvard.edu/files/rpande/files/delhivoter_shared-14.pdf
(ultimo accesso il 21 aprile 2019).
Non è solo nei paesi in via di sviluppo che la gente non si trasferisce altrove per
approfittare di condizioni economiche migliori. Secondo le stime, tra il 2010 e il
2015, all’apice della crisi economica che ha scosso il loro paese, i greci che sono
emigrati sono stati meno di 350.00013. Stiamo parlando tutt’al più del 3 per cento della popolazione, nonostante il tasso
di disoccupazione nel paese ellenico nel 2013 e nel 2014 fosse arrivato al 27 per
cento, e nonostante i greci, in quanto cittadini comunitari, potessero lavorare e
spostarsi liberamente all’interno dell’Unione Europea.
13 Lois Labrianidis e Manolis Pratsinakis, Greece’s New Emigration at Times of Crisis, Lse Hellenic Observatory GreeSE paper n. 99, 2016.
La lotteria dell’emigrazione
Ma forse non c’è nessun enigma: forse è solo che sovrastimiamo i benefici dell’emigrazione.
Un problema generale importante, quando si tratta di valutare i benefici dell’emigrazione,
è che di solito ci concentriamo soltanto sui salari delle persone che scelgono di
spostarsi, e non sulle numerose ragioni che le spingono a farlo e i numerosi fattori
che le mettono nelle condizioni di farlo. Chi emigra magari ha competenze speciali
o una capacità di resistenza fuori dal comune, e quindi avrebbe guadagnato di più
anche se fosse rimasto a casa. Gli immigrati fanno molti lavori che non richiedono
particolari competenze, ma spesso comportano mansioni dure e sfiancanti che necessitano
di grande capacità di resistenza e pazienza (pensate all’edilizia o alla raccolta
della frutta, i lavori che molti immigrati latinoamericani svolgono negli Stati Uniti).
Non tutti sono capaci di farlo giorno dopo giorno.
Non si possono, quindi, confrontare ingenuamente i guadagni dei migranti con i guadagni
delle persone che rimangono nel loro luogo di origine e concluderne, come fanno molti
sostenitori entusiasti delle migrazioni, che i benefici di emigrare sono necessariamente
enormi. È quello che gli economisti chiamano un problema di identificazione: per poter sostenere che una differenza nei salari sia causata dalla differenza di collocazione geografica e da nient’altro, dobbiamo stabilire
un collegamento certo fra causa ed effetto.
Un modo facile per farlo è studiare le lotterie dei visti. I vincitori e gli sconfitti,
in una lotteria, solitamente sono identici in tutto e per tutto tranne che per la
fortuna, e quindi la differenza di guadagni che risulta dall’essere estratti non può
essere dovuta ad altro che al cambio di collocazione geografica che l’estrazione agevola.
Confrontando vincitori e sconfitti della lotteria dei visti organizzata dalla Nuova
Zelanda per i candidati provenienti dalla minuscola isola di Tonga, nel Pacifico meridionale,
uno studio ha scoperto che nel giro di un anno dal trasferimento i vincitori avevano
più che triplicato il loro reddito14. All’altro estremo dello spettro dei guadagni, gli informatici indiani che avevano
avuto la possibilità di andare a lavorare negli Stati Uniti perché avevano vinto la
lotteria dei visti guadagnavano sei volte di più dei loro colleghi che erano rimasti
in India15.
14 John Gibson, David McKenzie, Halahingano Rohorua e Steven Stillman, The Long-term Impacts of International Migration: Evidence from a Lottery, «World Bank Economic Review», XXXII, 1, febbraio 2018, pp. 127-147.
15 Michael Clemens, Claudio Montenegro e Lant Pritchett, The Place Premium: Wage Differences for Identical Workers Across the U.S. Border, Center for Global Development Working Paper n. 148, 2009.
Bombe di lava
Il problema che pongono queste statistiche è anche ciò che le rende di facile interpretazione:
si basano su comparazioni fra persone che hanno scelto di partecipare alle lotterie per i visti. Ma le persone che hanno scelto di non partecipare possono
essere molto diverse. Magari hanno poco interesse a emigrare, per esempio perché non
hanno le competenze giuste. Esistono, peraltro, studi molto indicativi sulle persone
costrette a trasferirsi altrove per un puro caso.
Il 23 gennaio 1973 ci fu un’eruzione vulcanica nelle isole Westman, un prospero arcipelago
di pescatori al largo della costa islandese. I 5.200 abitanti furono evacuati nel
giro di quattro ore e ci fu solo un morto, ma l’eruzione andò avanti per cinque mesi
e la lava distrusse circa un terzo delle case. Le case distrutte erano quelle sul
versante orientale (direttamente sul percorso della colata di lava), più alcune altre
in diversi punti dell’isola, colpite in modo casuale da «bombe di lava». Costruire
una casa che resista alla lava è impossibile, perciò la distruzione era stata determinata
esclusivamente dalla posizione geografica e dalla cattiva sorte. Le case del versante
orientale apparentemente non avevano niente di particolare: avevano lo stesso valore
di mercato di quelle che erano rimaste illese e le persone che ci vivevano erano del
tutto simili alle altre. È quello che gli studiosi di scienze sociali chiamano un
esperimento naturale: la natura ha gettato i dadi e possiamo tranquillamente presumere che non vi fosse
nulla di diverso, in partenza, fra le persone che avevano avuto la casa distrutta
e quelle la cui casa era rimasta in piedi.
Ma una differenza importante c’è stata dopo. Quelli rimasti senza casa hanno ricevuto
una compensazione in denaro pari al valore della casa e del terreno, che potevano
usare per ricostruire, per comprare un’altra casa o per trasferirsi dove preferivano.
Il 42 per cento di quelli che avevano avuto la casa distrutta scelse di trasferirsi
(e anche il 27 per cento di quelli la cui casa era rimasta in piedi decise di andarsene
comunque)16. L’Islanda è un paese piccolo ma ben organizzato, e usando le dichiarazioni dei redditi
e altri documenti è possibile seguire le traiettorie economiche a lungo termine di
tutti gli abitanti originari delle isole Westman. La cosa straordinaria è che disponiamo
anche di dati genetici accurati, che consentono di ricollegare ogni discendente delle
persone che vissero l’eruzione ai suoi genitori.
16 Emi Nakamura, Jósef Sigurdsson e Jón Steinsson, The Gift of Moving: Intergenerational Consequences of a Mobility Shock, National Bureau of Economics Research (Nber) Working Paper n. 22392, 2017, rivisto
nel gennaio 2019; disponibile al seguente indirizzo: https://doi.org/10.3386/w22392.
Usando questi dati, i ricercatori hanno scoperto che per chiunque avesse meno di venticinque
anni all’epoca dell’eruzione, perdere la casa aveva determinato un grande guadagno economico17. Nel 2014 quelli che avevano subìto la distruzione della casa di famiglia guadagnavano
oltre 3.000 dollari l’anno in più di quelli la cui casa non era stata distrutta, anche
se non tutti si erano trasferiti altrove. L’effetto era particolarmente concentrato
sulle persone che erano giovani al momento dei fatti: la ragione, in parte, è che
queste persone avevano avuto maggiori probabilità di frequentare l’università. Apparentemente,
trasferirsi altrove aveva aumentato le probabilità di trovare un lavoro che erano
bravi a fare, invece di limitarsi a diventare pescatori, l’unica attività che svolgeva
la maggior parte degli abitanti delle isole Westman. E questo era molto più facile
per una persona giovane, che non aveva ancora investito anni della sua vita per imparare
a pescare. Comunque, perché ciò accadesse era stato necessario che le persone fossero
costrette ad andarsene (dalla munificenza aleatoria della lava); quelli la cui abitazione
era stata risparmiata dall’eruzione in generale continuarono, come molte generazioni
prima di loro, a pescare e tirare avanti.
Un esempio ancora più significativo di questo tipo di inerzia ci viene dalla Finlandia
negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale. Avendo
combattuto dalla parte dei tedeschi sconfitti, la Finlandia fu costretta a cedere
una parte sostanziale del suo territorio all’Unione Sovietica. L’intera popolazione
di quell’area, circa 430.000 persone, l’11 per cento del totale nazionale, dovette
essere evacuata e ricollocata nel resto del paese18.
18 Matti Sarvimäki, Roope Uusitalo e Markus Jäntti, Habit Formation and the Misallocation of Labor: Evidence from Forced Migrations, 2019, Social Science Research Network (Ssrn); disponibile al seguente indirizzo:
https://ssrn.com/abstract=3361356 o http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3361356.
Prima della guerra questi profughi erano meno urbanizzati del resto dei finlandesi
e più raramente impiegati nell’economia formale, ma per il resto erano molto simili.
Venticinque anni dopo, nonostante le cicatrici che quella partenza frettolosa e caotica
doveva aver lasciato in loro, erano più ricchi del resto della popolazione, principalmente
perché erano più mobili, più urbanizzati e con impieghi regolari. Essere costretti
ad andarsene, a quanto pare, li aveva spinti a rompere gli ormeggi e a essere più
intraprendenti.
Il fatto che ci sia bisogno di uno scenario catastrofico o di una guerra per spingere
le persone a gravitare verso una località dove i salari sono più alti è la dimostrazione
che gli incentivi economici, da soli, spesso non sono sufficienti a indurre la gente
a spostarsi.
Ma lo sanno?
Ovviamente, una possibilità è che le persone più povere siano semplicemente inconsapevoli
dell’opportunità di migliorare la loro situazione economica trasferendosi altrove.
Un interessante esperimento sul campo in Bangladesh mostra chiaramente che non è questo
l’unico motivo per cui rimangono dove sono.
Non c’è nessuna barriera legale all’emigrazione all’interno del Bangladesh. Ciononostante,
anche durante la stagione secca, comunemente chiamata monga («stagione della fame»), quando ci sono scarsissime opportunità di guadagnare denaro
nelle aree rurali, sono pochi quelli che emigrano nelle città, che offrono opportunità
di impiego a bassa qualifica nell’edilizia e nei trasporti, o anche nelle aree rurali
vicine, che magari hanno un ciclo colturale differente. Per capire perché e per incoraggiare
l’emigrazione stagionale, i ricercatori hanno deciso di sperimentare diversi modi
di incentivarla durante il monga a Rangpur, nel Nord del Bangladesh19. Alcuni abitanti dei villaggi sono stati scelti con criteri casuali da un’organizzazione
non governativa (Ong) per ricevere informazioni sui benefici dell’emigrazione (in
sostanza, quali erano i salari che si potevano guadagnare in città) o le stesse informazioni
più 11,50 dollari, in contanti o sotto forma di prestito (la cifra copriva grossomodo
il costo del viaggio fino in città e il vitto per un paio di giorni), ma solo se fossero emigrati.
19 Gharad Bryan, Shyamal Chowdhury e Ahmed Mushfiq Mobarak, Underinvestment in a Profitable Technology: The Case of Seasonal Migration in Bangladesh, «Econometrica», LXXXII, 5, 2014, pp. 1671-1748.
L’offerta incoraggiò circa un quarto (il 22 per cento) di tutte le famiglie che non
avevano già deciso di farlo a spedire uno dei loro membri a lavorare in città. La
maggior parte delle persone emigrate riuscì a trovare un impiego. In media, guadagnarono
circa 105 dollari in città, molto di più di quello che avrebbero guadagnato se fossero
rimaste a casa. Di quel denaro, spedirono o riportarono a casa per la loro famiglia
66 dollari. Il risultato fu che le famiglie che avevano mandato un migrante in più
consumarono mediamente ben il 50 per cento in più di calorie, passando dall’inedia
o quasi a un confortevole livello di consumi alimentari.
Ma perché i migranti avevano avuto bisogno della spintarella dell’Ong per decidere
di intraprendere il viaggio? Il fatto che fossero ridotti quasi alla fame non offriva
una motivazione sufficiente?
In questo caso, è evidente che l’informazione non rappresentava la limitazione principale.
Quando l’Ong aveva fornito a un gruppo di persone scelte a caso informazioni sulla
disponibilità di lavoro (ma nessun incentivo), l’effetto era stato nullo. Inoltre,
fra le persone che avevano ricevuto il supporto finanziario e avevano scelto di emigrare,
solo la metà circa aveva fatto ritorno in città durante il monga successivo, nonostante avessero sperimentato personalmente che era possibile trovare
lavoro e guadagnare. Almeno per queste persone, non poteva essere lo scetticismo sulle
opportunità di lavoro a trattenerle.
In altre parole, benché emigrare, volontariamente o meno, sia economicamente vantaggioso,
è difficile prendere sul serio l’idea che la maggior parte delle persone stia solo
aspettando un’occasione per mollare tutto e andarsene in un paese più ricco. Considerando
quanto è ampio il guadagno economico, i migranti sono molti meno di quel che ci si
aspetterebbe. Evidentemente c’è qualcos’altro che li trattiene, e su questo enigma
torneremo più avanti. Prima di arrivare a questo, però, è utile capire come funziona
il mercato del lavoro per i migranti, e in particolare se i guadagni che i migranti
realizzano vanno a scapito degli autoctoni, come molti sembrano ritenere.
La marea dell’immigrazione solleva davvero tutte le barche?
Questa domanda è oggetto di un acceso dibattito tra gli economisti di professione,
ma complessivamente i dati sembrano indicare che le impennate di immigrazione, anche
significative, hanno un impatto negativo molto limitato sui salari o sulle prospettive
occupazionali della popolazione di cui gli immigrati entrano a far parte.
Il dibattito prosegue soprattutto perché, di solito, non è facile distinguere. I paesi
impongono limiti all’immigrazione, e in particolare sono meno inclini a far entrare
gli immigrati quando l’economia va male. I migranti, inoltre, «votano con i piedi»
e la loro tendenza naturale è andare dove ci sono le opzioni migliori. Per una combinazione
di queste due ragioni, se si confrontano su un grafico i salari dei non migranti nelle
città contro la quota di migranti, si osserva una linea nettamente ascendente: più
migranti ci sono, più alti sono i salari. Una buona notizia per chi è favorevole all’immigrazione,
ma forse del tutto spuria.
Per scoprire il reale impatto dell’immigrazione sui salari dei lavoratori autoctoni,
dobbiamo andare a cercare variazioni dei flussi migratori che non siano una reazione
diretta ai salari pagati in una certa città. E anche questo potrebbe non essere sufficiente,
perché pure i residenti e le imprese attualmente esistenti votano con i piedi. Potrebbe
darsi, per esempio, che l’afflusso di migranti induce i lavoratori autoctoni a lasciare
la città, in numero tale che i salari per quelli che rimangono restano stabili. Se
andassimo a guardare soltanto i salari dei lavoratori autoctoni che hanno scelto di
rimanere nelle città dove si sono insediati i migranti, perderemmo di vista completamente
le sofferenze di quelli che hanno deciso di andarsene. È possibile anche che la nuova
popolazione di migranti attiri imprese in una città sottraendole ad altre, e in questo
caso rischieremmo di non tenere conto del danno subìto dai lavoratori di quelle altre
città.
Un brillante tentativo di aggirare alcuni di questi problemi è lo studio di David
Card sull’esodo di Mariel20. Tra aprile e settembre del 1980 125.000 cubani, per la maggior parte con un livello
di istruzione basso o inesistente, arrivarono a Miami dopo che Fidel Castro, inaspettatamente,
aveva tenuto un discorso in cui li autorizzava ad andarsene, se lo desideravano. La
reazione fu immediata: il discorso fu pronunciato il 20 aprile e prima della fine
del mese la gente aveva già cominciato a partire. Molti di quelli che si imbarcarono
per gli Stati Uniti si stabilirono in via permanente a Miami, andando a ingrossare
la forza lavoro della metropoli della Florida del 7 per cento.
20 David Card, The Impact of the Mariel Boatlift on the Miami Labor Market, «Industrial and Labor Relations Review», XLIII, 2, gennaio 1990, pp. 245-257.
Che cosa successe ai salari? Per scoprirlo, Card adottò l’approccio che viene chiamato
«differenza nelle differenze». Confrontò l’evoluzione dei salari e del tasso di occupazione
dei residenti di Miami prima e dopo l’arrivo dei migranti con gli stessi dati relativi
ai residenti di altre quattro città «simili» degli Stati Uniti (Atlanta, Houston,
Los Angeles e Tampa). L’idea era vedere se la crescita dei salari e dell’occupazione
per tutti quelli che vivevano già a Miami nel momento in cui arrivarono i marielitos era stata inferiore alla crescita dei salari e dell’occupazione per i residenti con
le stesse caratteristiche di quelle altre quattro città.
Card non trovò nessuna differenza, né immediatamente dopo l’arrivo degli immigrati
né a distanza di alcuni anni: i salari degli autoctoni non furono toccati dall’arrivo
dei marielitos. Anche quando andò a guardare nello specifico i salari degli immigrati cubani che
erano arrivati prima di quell’ondata, che probabilmente erano più simili ai nuovi
arrivati e quindi più a rischio di subire l’impatto negativo del nuovo afflusso di
immigrati, non riscontrò nessuna variazione.
Questo studio rappresentò un importante passo avanti negli sforzi per fornire una
risposta attendibile ai dubbi sull’impatto dell’immigrazione. Miami non era stata
scelta dai migranti per le opportunità lavorative che offriva, ma semplicemente perché
era il punto di sbarco più vicino per i cubani. Si trattava di un esodo inaspettato,
e lavoratori e aziende, di conseguenza, non avevano avuto la possibilità di reagire,
almeno nell’immediato (i lavoratori trasferendosi altrove e le aziende insediandosi
in città). Lo studio di Card ebbe una grande eco, sia per il suo approccio che per
le sue conclusioni: fu il primo a dimostrare che il modello domanda-offerta non era
necessariamente applicabile all’immigrazione.
Lo studio, sicuramente per questo motivo, fu anche oggetto di un esteso dibattito,
con tutta una serie di confutazioni e controconfutazioni. Nessun altro studio empirico
di economia ha probabilmente generato così tante polemiche e così tanta passione.
Un suo contestatore storico è George Borjas, acceso sostenitore della chiusura delle
frontiere per i migranti poco qualificati. Borjas rianalizzò l’episodio di Mariel
includendo nella comparazione un insieme più ampio di città e concentrandosi specificamente
sui maschi non ispanici senza diploma di scuola superiore, sostenendo che si trattava
del gruppo più colpito21: all’interno di questo campione, scoprì che a Miami, dopo l’arrivo dei marielitos, i salari avevano cominciato a calare drasticamente rispetto alle altre città usate
per il confronto. Ma una successiva revisione dello studio ha rovesciato questi nuovi
risultati includendo anche i dati relativi agli ispanici senza diploma di scuola superiore
(che erano la categoria più ovvia con cui confrontare i migranti cubani, ma che Borjas,
per qualche ragione, aveva omesso di prendere in considerazione) e alle donne (anche
queste omesse da Borjas per ragioni misteriose)22. Inoltre, gli studi continuano a non trovare nessuna evidenza di effetti sui salari
o sull’occupazione quando si confronta Miami con un diverso insieme di città dove
le tendenze in termini di salari e occupazione erano molto simili a quelle della metropoli
della Florida prima dell’esodo23. Borjas, tuttavia, continua a non essere convinto e il dibattito sull’esodo di Mariel
va avanti24.
21 George J. Borjas, The Wage Impact of the Marielitos: A Reappraisal, «Industrial and Labor Relations Review», LXX, 5, ottobre 2017, pp. 1077-1110.
22 Giovanni Peri e Vasil Jasenov, The Labor Market Effects of a Refugee Wave: Synthetic Control Method Meets the Mariel
Boatlift, «Journal of Human Resources», LIV, 2, gennaio 2018, pp. 267-309.
24 George J. Borjas, Still More on Mariel: The Role of Race, National Bureau of Economics Research (Nber) Working Paper n. 23504, 2017.
Se non sapete bene quali conclusioni trarre da tutto ciò, non siete i soli. Per dirla
senza mezzi termini, non aiuta il fatto che nessuno, su entrambi i versanti, cambi
mai idea, e che le opinioni sembrino strettamente allineate all’orientamento politico.
In un senso o nell’altro, sembra irragionevole far dipendere il futuro delle politiche
migratorie da un episodio avvenuto trent’anni fa in una sola città.
Fortunatamente, ispirati dal lavoro di Card, molti altri studiosi hanno cercato di
individuare episodi simili, in cui un gruppo di migranti o rifugiati è stato mandato
in un certo posto con un preavviso limitato e nessun controllo sulla propria destinazione.
C’è uno studio che prende in esame il rimpatrio in Francia degli algerini di origine
europea in seguito all’indipendenza dell’Algeria, nel 196225. Un altro studio ha preso in esame l’impatto dell’immigrazione di massa in Israele
di ebrei dall’Unione Sovietica dopo che quest’ultima aveva rimosso le restrizioni
all’emigrazione nel 1990, che provocò un incremento della popolazione israeliana del
12 per cento nell’arco di quattro anni26. Un altro ancora analizzava l’impatto del grande afflusso di immigrati europei negli
Stati Uniti all’epoca della grande migrazione degli anni 1910-193027. In tutti questi casi, i ricercatori hanno riscontrato un impatto negativo molto
limitato sulla popolazione locale. Anzi, in alcuni casi gli impatti sono stati positivi.
Per esempio, gli emigranti europei negli Stati Uniti hanno prodotto un incremento
dell’occupazione complessiva tra la popolazione autoctona, accresciuto le probabilità
che gli autoctoni diventassero capomastri o dirigenti e incrementato la produzione
industriale.
25 Jennifer Hunt, The Impact of the 1962 Repatriates from Algeria on the French Labor Market, «Industrial and Labor Relations Review», XLV, 3, aprile 1992, pp. 556-572.
26 Rachel M. Friedberg, The Impact of Mass Migration on the Israeli Labor Market, «Quarterly Journal of Economics», CXVI, 4, 2001, pp. 1373-1408.
27 Marco Tabellini, Gifts of the Immigrants, Woes of the Natives: Lessons from the Age of Mass Migration, Hbs Working Paper n. 19-005, 2018.
Abbiamo dati simili anche riguardo agli effetti di afflussi più recenti di rifugiati
di ogni parte del mondo sulla popolazione autoctona in Europa occidentale. Uno studio
particolarmente interessante è quello che riguarda la Danimarca28. La Danimarca è un paese straordinario sotto molti punti di vista, e uno di questi
è che conserva dati dettagliati su ogni suo abitante. Storicamente, i rifugiati venivano
mandati in diverse città, senza tener conto delle loro preferenze o delle probabilità
di trovare un lavoro. L’unica cosa che contava era la disponibilità di case popolari
e la capacità dell’amministrazione locale di facilitare il loro insediamento. Tra
il 1994 e il 1998 ci fu un grande afflusso di immigrati dai paesi più vari, come Bosnia,
Afghanistan, Somalia, Iraq, Iran, Vietnam, Sri Lanka e Libano, e questi immigrati
finirono sparpagliati, più o meno a caso, in tutta la Danimarca. Quando la politica
del collocamento amministrativo venne abbandonata, nel 1998, i migranti il più delle
volte andarono dove già stavano altri della loro etnia, quindi i posti dove erano
capitati, più o meno per puro caso, i primi immigrati, per esempio, dall’Iraq, ora
diventavano la destinazione privilegiata dei nuovi immigrati dall’Iraq. Il risultato
è che alcuni posti in Danimarca si sono trovati ad avere molti più migranti di altri,
per nessun’altra ragione se non il fatto che in un certo momento, fra il 1994 e il
1998, avevano spazio disponibile per accogliere profughi.
28 Mette Foged e Giovanni Peri, Immigrants’ Effect on Native Workers: New Analysis on Longitudinal Data, «American Economic Journal: Applied Economics», VIII, 2, 2016, pp. 1-34.
Questo studio è arrivato alle stesse conclusioni degli studi storici: confrontando
l’evoluzione dei salari e dell’occupazione degli autoctoni con minor livello di istruzione
nelle città soggette a questo afflusso casuale di migranti con quelli delle altre
città, non ha trovato nessuna evidenza di impatti negativi.
Ognuno di questi studi sembra indicare che gli immigrati a bassa qualifica generalmente
non danneggiano i salari e le possibilità di impiego degli autoctoni. Ma il grado
di fervore retorico nell’attuale dibattito politico, supportato o meno dai fatti,
rende difficile vedere al di là delle opinioni delle persone coinvolte nel dibattito.
Dove si può trovare, allora, una voce calma e metodica? I lettori interessati alla
delicata arte della costruzione del consenso all’interno della professione economica
possono andare a guardare a pagina 267 del rapporto (gratuito) sull’impatto dell’immigrazione
curato dall’Accademia nazionale delle scienze degli Stati Uniti, l’organismo più rispettato
del mondo accademico americano29. Di quando in quando, l’Accademia nazionale delle scienze raduna gruppi di esperti
per fare il punto sul consenso scientifico riguardo a un certo tema. Il gruppo che
ha stilato il rapporto sull’immigrazione comprendeva sia convinti sostenitori dell’immigrazione
sia scettici (come George Borjas). Hanno dovuto tenere dentro opinioni di tutti i
tipi e le frasi spesso sono formulate in modo prolisso e verboso, ma la conclusione
a cui giungono è inequivoca (quanto può esserlo la conclusione di un gruppo di economisti):
29 Accademie nazionali delle scienze, dell’ingegneria e della medicina, The Economic and Fiscal Consequences of Immigration, National Academies Press, Washington 2017; disponibile al seguente indirizzo: https://doi.org/10.17226/23550.
La ricerca empirica negli ultimi decenni indica che i risultati rimangono in generale
in linea con quelli del rapporto del Consiglio nazionale di ricerca The New Americans (1997), nel senso che l’impatto dell’immigrazione sui salari degli autoctoni, se
misurato in un arco di oltre 10 anni, nel complesso è molto limitato.
Che cos’hanno di così speciale gli immigrati?
Perché la classica teoria della domanda e offerta (più ce n’è di una certa cosa, più
basso sarà il suo prezzo) non si applica all’immigrazione? È importante andare a fondo
della questione, perché anche se è chiaramente vero che i salari dei lavoratori a
bassa qualifica non sono influenzati dall’immigrazione, finché non sapremo perché ci rimarrà sempre il dubbio che vi sia qualche stranezza nelle circostanze o nei
dati.
Scopriamo che l’approccio di base della domanda-offerta nasconde sotto il tappeto
diversi fattori rilevanti. Per cominciare, l’afflusso di un nuovo gruppo di lavoratori
normalmente sposta a destra la curva della domanda, e questo contribuisce ad annullare
l’effetto della curva discendente. I nuovi arrivati spendono soldi: vanno nei ristoranti,
vanno a farsi tagliare i capelli, vanno a fare compere. Questo crea posti di lavoro,
e soprattutto posti di lavoro per altre persone a bassa qualifica. Come illustrato
nel grafico 2.2, questa cosa tendenzialmente fa crescere i salari dei lavoratori a
bassa qualifica e di conseguenza compensa lo spostamento dell’offerta di lavoro, lasciando
invariati i salari e il tasso di disoccupazione.
Grafico 2.2. L’«economia del tovagliolo» rivisitata: perché un maggior numero di immigrati
non sempre provoca un calo dei salari.
È dimostrato, infatti, che se si chiude il canale della domanda l’immigrazione può
effettivamente avere l’effetto negativo «atteso» sui lavoratori autoctoni. Per un
breve periodo di tempo i lavoratori cechi ebbero la possibilità di lavorare oltre
confine, in Germania. Nel momento in cui questo flusso toccò il suo punto massimo,
nelle cittadine tedesche di confine fino al 10 per cento della forza lavoro era costituito
da pendolari cechi. I salari dei lavoratori autoctoni non furono quasi toccati, ma
ci fu un pesante calo dei loro livelli occupazionali, perché, a differenza di tutti
gli altri episodi che abbiamo discusso finora, i cechi tornavano a casa loro per spendere
quello che avevano guadagnato, eliminando quindi dall’equazione gli effetti indiretti
sulla domanda di manodopera in Germania. Gli immigrati possono non produrre crescita
per la loro nuova comunità se non spendono lì i loro guadagni: se i soldi vengono
riportati nella loro patria di origine, la comunità ospitante perde i benefici economici
dell’immigrazione30 e ci ritroviamo di nuovo nel caso del grafico 2.1, con una domanda di manodopera
in calo senza un aumento parallelo della domanda di manodopera come compensazione.
30 Christian Dustmann, Uta Schönberg e Jan Stuhler, Labor Supply Shocks, Native Wages, and the Adjustment of Local Employment, «Quarterly Journal of Economics», CXXXII, 1, 2017, pp. 435-483.
Un secondo motivo per cui l’immigrazione di lavoratori a bassa qualifica potrebbe
spingere in su la domanda di manodopera è che rallenta il processo di meccanizzazione.
La promessa di un’offerta affidabile di lavoratori a basso salario riduce la convenienza
di adottare tecnologie che consentono di risparmiare sulla manodopera. Nel dicembre
del 1964 i braceros, i braccianti messicani immigrati, furono cacciati dalla California proprio perché
si sosteneva che facessero scendere i salari dei californiani autoctoni. La loro partenza
non portò nessun vantaggio agli autoctoni: salari e livelli occupazionali non salirono31. La ragione è che non appena i braceros furono rimandati in Messico, le aziende agricole nelle zone che facevano largo affidamento
su di loro fecero due cose. La prima fu meccanizzare la produzione. Per i pomodori,
per esempio, macchine raccoglitrici capaci di raddoppiare la produttività per lavoratore
esistevano già dagli anni Cinquanta, ma la loro adozione proseguiva molto a rilento.
In California, la percentuale di diffusione di queste macchine passò dallo 0 per cento
nel 1964, quando i braceros andarono via, al 100 per cento nel 1967, mentre in Ohio, dove i braceros non c’erano, nello stesso periodo il tasso di diffusione di queste macchine non registrò
nessuna variazione. La seconda cosa che fecero le aziende fu abbandonare le colture
che non si potevano meccanizzare, con il risultato che la California, almeno temporaneamente,
smise di produrre ghiottonerie come gli asparagi, le fragole fresche, la lattuga,
il sedano e i cetriolini.
31 Michael A. Clemens, Ethan G. Lewis e Hannah M. Postel, Immigration Restrictions as Active Labor Market Policy: Evidence from the Mexican
Bracero Exclusion, «American Economic Review», CVIII, 6, 2018, pp. 1468-1487.
Un terzo punto, strettamente collegato, è che i datori di lavoro possono decidere
di riorganizzare la produzione per impiegare in modo efficiente i nuovi lavoratori,
e questo può creare nuovi ruoli per la popolazione autoctona a bassa qualifica. Nel
caso danese, che abbiamo discusso qui sopra, i lavoratori autoctoni a bassa qualifica
alla fine beneficiarono dell’afflusso di migranti, in parte perché diede loro la possibilità
di cambiare lavoro32. Nei settori dove c’erano più migranti, aumentò il numero di lavoratori autoctoni
a bassa qualifica che passarono da lavori manuali a lavori non manuali e cambiarono
datore di lavoro. In questo modo, si spostarono anche su mansioni più complesse e
che richiedevano maggiori doti di comunicazione e contenuto tecnico: questo è coerente
con il fatto che gli immigrati non parlavano quasi una parola di danese quando arrivarono,
e quindi non potevano fare concorrenza ai danesi per queste mansioni. Lo stesso progresso
occupazionale avvenne anche durante la grande migrazione europea verso gli Stati Uniti,
tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.
32 Foged e Peri, Immigrants’ Effect on Native Workers cit.
Più in generale, tutto questo indica che i lavoratori autoctoni a bassa qualifica
e gli immigrati non sono necessariamente in competizione diretta tra loro: possono
svolgere mansioni differenti, con gli immigrati che si specializzano in quelle mansioni
che richiedono meno comunicazione e gli autoctoni in quelle che invece la richiedono.
La disponibilità di immigrati in realtà può incoraggiare le aziende ad assumere più
lavoratori: gli immigrati eseguono le mansioni più semplici e gli autoctoni passano
a quelle complementari e più remunerative.
Il quarto punto è che i migranti risultano complementari invece che concorrenti rispetto
alla manodopera autoctona anche per il fatto che sono disposti a svolgere mansioni
che gli autoctoni sono riluttanti a svolgere: potare l’erba, cucinare gli hamburger,
prendersi cura dei bambini piccoli o delle persone malate. Perciò, quando ci sono
più migranti, il prezzo di questi servizi tende a scendere e questo aiuta i lavoratori
autoctoni e consente loro di fare altri lavori33. Le donne altamente qualificate, in particolare, hanno più probabilità di lavorare
fuori casa quando ci sono molti immigrati34. L’ingresso di donne altamente qualificate nel mercato del lavoro rafforza a sua
volta la domanda di manodopera a bassa qualifica (accudimento dei bambini, preparazione
di pasti, pulizie) nelle loro abitazioni o nelle aziende che queste donne gestiscono
o dirigono.
33 Patricia Cortés, The Effect of Low-Skilled Immigration on US Prices: Evidence from Cpi Data, «Journal of Political Economy», CXVI, 3, 2008, pp. 381-422.
34 Patricia Cortés e José Tessada, Low-Skilled Immigration and the Labor Supply of Highly Skilled Women, «American Economic Journal: Applied Economics», III, 3, luglio 2011, pp. 88-123.
Gli effetti prodotti dai migranti dipendono in modo cruciale anche dall’identità dei
migranti stessi: se a trasferirsi sono quelli più intraprendenti, possono mettere
su attività che creano posti di lavoro per gli autoctoni; se invece sono i meno qualificati,
possono andare a ingrossare la massa indistinta con cui i lavoratori autoctoni a bassa
qualifica devono competere.
L’identità dei migranti normalmente dipende dagli ostacoli che devono superare. Quando
il presidente Trump ha paragonato gli immigrati da shithole countries, «paesi di merda», a quelli buoni provenienti da posti come la Norvegia, con ogni
probabilità non sapeva che molto tempo fa gli immigrati norvegesi facevano parte delle
«masse accalcate» di cui parlava Emma Lazarus35. C’è addirittura un caso di studio relativo proprio agli emigranti norvegesi negli
Stati Uniti all’epoca della migrazione di massa, tra la fine del XIX e l’inizio del
XX secolo36. All’epoca, non c’era nessun ostacolo all’emigrazione al di là del prezzo del passaggio
in nave. Lo studio confrontò le famiglie dei migranti con quelle dove nessuno era
emigrato e scoprì che i migranti provenivano normalmente dalle famiglie più povere:
i loro padri erano notevolmente più poveri della media. Insomma, per una di quelle
graziose ironie che tanto deliziano gli storici (e gli economisti), i migranti norvegesi
erano esattamente il tipo di persone che Trump istintivamente avrebbe preferito tenere
fuori. All’epoca, sarebbero stati loro, ai suoi occhi, gli immigrati da «paesi di
merda».
35 Emma Lazarus, The New Colossus, in Ead., Emma Lazarus: Selected Poems, a cura di John Hollander, Library of America, New York 2005, p. 58.
36 Ran Abramitzky, Leah Platt Boustan e Katherine Eriksson, Europe’s Tired, Poor, Huddled Masses: Self-Selection and Economic Outcomes in the
Age of Mass Migration, «American Economic Review», CII, 5, 2012, pp. 1832-1856.
Al contrario, quelli che oggi emigrano dai paesi poveri devono necessariamente avere
i soldi per pagarsi il costo del viaggio e avere la determinazione (o il livello di
istruzione) per superare gli ostacoli di un sistema di controllo dell’immigrazione
solitamente sbilanciato a loro sfavore. Per questa ragione, molti di loro sono dotati
di talenti fuori dal comune (competenze, ambizione, pazienza e forza d’animo) che
li aiutano a diventare creatori di posti di lavoro o ad allevare figli che diventeranno
creatori di posti di lavoro. Un rapporto del Center for American Entrepreneurship
ha scoperto che nel 2017 il 43 per cento delle 500 imprese statunitensi ai primi posti
per ricavi (la lista Fortune 500) era stato fondato in tutto o in parte da immigrati o figli di immigrati. Non solo:
è stato fondato da immigrati il 52 per cento delle prime 25 aziende, il 57 per cento
delle prime 35 e 9 marchi sui 13 più quotati37. Henry Ford era figlio di un immigrato irlandese. Il padre biologico di Steve Jobs
era siriano, Sergej Brin è nato in Russia; Jeff Bezos prende il suo nome dal patrigno,
l’immigrato cubano Mike Bezos.
37 Center for American Entrepreneurship, Immigrant Founders of the 2017 Fortune 500, 2017; disponibile al seguente indirizzo: http://startupsusa.org/fortune500.
E anche fra quelli che non sono così speciali in partenza, il fatto di essere un immigrato
in un luogo straniero, senza i legami sociali che rendono la vita più ricca ma limitano
anche la possibilità di perseguire risolutamente la propria carriera, può offrire
la libertà di sperimentare qualcosa di nuovo e diverso. Abhijit conosce molti uomini
bengalesi di classe media che prima di andarsene da casa, come lui, non si erano mai
lavati i piatti da soli, ma ritrovandosi a corto di soldi e con tempo in abbondanza
in qualche città inglese o americana hanno finito per andare a sparecchiare i tavoli
in un ristorante locale e hanno scoperto che non gli dispiaceva fare qualcosa di più
pratico dei lavori da colletti bianchi che si erano immaginati di fare. Forse è successo
il contrario per quei giovani islandesi destinati a un futuro di pescatori che, catapultati
in un posto dov’era molto più normale andare all’università, hanno deciso che forse,
dopo tutto, non era un’idea così malvagia38.
38 Nakamura, Sigurdsson e Steinsson, The Gift of Moving cit.
Insomma, uno dei problemi principali dell’analisi domanda-offerta applicata all’immigrazione
è che un afflusso di migranti accresce la domanda di lavoro oltre ad accrescere l’offerta
di lavoratori. È uno dei motivi per cui i salari non calano quando ci sono più migranti.
Un problema più di fondo sta nella natura stessa del mercato del lavoro: la dinamica
della domanda-offerta non descrive adeguatamente il suo effettivo funzionamento.
Cocomeri e lavoratori
Se girate per Dacca, Delhi o Dakar nelle prime ore del mattino, potrebbe capitarvi
di vedere gruppi di persone, soprattutto uomini, accovacciati sui marciapiedi vicino
ai grandi incroci. Sono persone in cerca di lavoro, che aspettano di essere reclutate
da qualcuno che ha bisogno di braccia, soprattutto nell’edilizia.
Per uno studioso di scienze sociali, la cosa che colpisce, tuttavia, è quanto siano
rari questi mercati del lavoro fisico. Considerando che ci sono quasi venti milioni
di persone nell’area metropolitana di Delhi, verrebbe spontaneo pensare che ogni angolo
di strada abbia un assembramento del genere. Invece, bisogna cercare bene per trovarli.
Anche i cartelli che pubblicizzano le offerte di lavoro sono relativamente rari a
Delhi o a Dakar. Ci sono moltissimi annunci su siti web e portali per la ricerca di
lavoro, ma nella maggior parte dei casi sono cose alquanto fuori portata per il pastore
di capre medio. Per fare un paragone, a Boston la metropolitana è piena di annunci
di opportunità lavorative, che però invitano gli aspiranti lavoratori a risolvere
qualche rompicapo apparentemente impossibile per dimostrare la loro intelligenza.
Insomma, cercano dei dipendenti, ma non vogliono facilitargli troppo il compito. È
una cosa che riflette un dato di fondo importantissimo a proposito dei mercati del
lavoro.
Assumere delle persone è diverso, per esempio, dal comprare cocomeri in un mercato
all’ingrosso, per almeno due ragioni. Una è che il rapporto con un lavoratore dura
molto più a lungo dell’acquisto di un cocomero: se il cocomero che hai comprato non
ti piace, la settimana seguente puoi cambiare fornitore. Ma anche in quei posti dove
le leggi non rendono difficile licenziare un lavoratore, il licenziamento nella migliore
delle ipotesi è un evento poco piacevole, e potenzialmente pericoloso se il dipendente
scontento si arrabbia. La maggior parte delle imprese, pertanto, non si limita ad
assumere chiunque sia disposto a lavorare per loro. Si preoccupano se il lavoratore
arriverà al lavoro in orario, se le sue prestazioni saranno all’altezza, se litigherà
con i colleghi, se insulterà un cliente importante o romperà una macchina costosa.
In secondo luogo, la qualità di un lavoratore è più difficile da giudicare di quella
di un cocomero (che i venditori di cocomeri professionisti apparentemente sanno valutare
molto bene)39. Nonostante quello che sosteneva Karl Marx, il lavoro non è una merce come un’altra40.
39 Jie Bai, Melons as Lemons: Asymmetric Information, Consumer Learning and Quality Provision, Working Paper, 2018; disponibile al seguente indirizzo: https://drive.google.com/file/d/0B52sohAPtnAWYVhBYm11cDBrSmM/view
(ultimo accesso il 19 giugno 2019).
40 «Per trasformare il denaro in capitale il possessore di denaro deve trovare sul
mercato delle merci il lavoratore libero; libero nel duplice senso che disponga della
propria forza lavorativa come propria merce, nella sua qualità di libera persona,
e che, d’altra parte, non abbia da vendere altre merci, che sia privo ed esente, libero
di tutte le cose necessarie per la realizzazione della sua forza-lavoro». Karl Marx,
Il capitale, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 186.
Le aziende, insomma, fanno un po’ di sforzi per sapere chi stanno assumendo. Nel caso
dei lavoratori più retribuiti, questo significa che devono spendere tempo e denaro
in colloqui, esami, referenze e così via. È una procedura costosa sia per le aziende
che per i lavoratori, e sembra essere universale. Uno studio ha scoperto che in Etiopia
la semplice candidatura per un lavoro impiegatizio di medio livello richiedeva diversi
giorni di tempo e numerosi viaggi. Ogni candidatura costava all’aspirante lavoratore
un decimo del salario mensile che avrebbe guadagnato e le probabilità che la domanda
portasse a un’assunzione erano molto basse, che era una delle ragioni per cui si presentavano
in pochi41. Per questo motivo, nel caso dei lavoratori meno retribuiti, le aziende spesso saltano
la fase dei colloqui e si affidano alla raccomandazione di qualcuno di cui si fidano.
Sono relativamente poche le aziende che si limitano ad assumere quelli che semplicemente
bussano alla porta per chiedere un lavoro, perfino se dicono di essere disposti ad accettare un salario più basso, in palese contraddizione con il classico approccio della domanda-offerta. Ma per
il datore di lavoro è troppo costoso mettersi in una posizione in cui potrebbe trovarsi
nella necessità di sbarazzarsi di un lavoratore. Per fare un esempio eloquente, sempre
in Etiopia, dei ricercatori che cercavano aziende disposte a scegliere in modo casuale
le persone da assumere hanno dovuto interpellare trecento imprese per poterne trovare
cinque che fossero disposte a partecipare all’esperimento42. Si trattava di lavori per cui non erano necessarie competenze specifiche, ma le
aziende volevano comunque conservare un certo controllo su chi assumevano. I risultati
di altri studi condotti nel paese africano indicano che il 56 per cento delle aziende
attribuisce importanza all’esperienza lavorativa anche per i lavori manuali43, e chiedere le referenze di un altro datore di lavoro è la norma44.
41 Girum Abebe, Stefano Caria e Esteban Ortiz-Ospina, The Selection of Talent: Experimental and Structural Evidence from Ethiopia, Working Paper, 2018.
42 Christopher Blattman e Stefan Dercon, The Impacts of Industrial and Entrepreneurial Work on Income and Health: Experimental
Evidence from Ethiopia, «American Economic Journal: Applied Economics», X, 3, luglio 2018, pp. 1-38.
43 Girum Abebe, Stefano Caria, Marcel Fafchamps, Paolo Falco, Simon Franklin e Simon
Quinn, Anonymity or Distance? Job Search and Labour Market Exclusion in a Growing African
City, Center for Study of African Economics (Csae) Working Paper n. Wps/2016-10-2, 2018.
44 Stefano Caria, Choosing Connections. Experimental Evidence from a Link-Formation Experiment in Urban
Ethiopia, Working Paper, 2015; Pieter Serneels, The Nature of Unemployment Among Young Men in Urban Ethiopia, «Review of Development Economics», XI, 1, 2007, pp. 170-186.
Tutto questo ha diverse conseguenze importanti. Per prima cosa, i lavoratori esistenti
sono molto più al riparo dalla concorrenza dei nuovi arrivati di quanto farebbe pensare
un modello di domanda-offerta puro. Il loro datore di lavoro attuale li conosce e
si fida di loro: il fatto di lavorare già nell’azienda rappresenta un vantaggio enorme.
Dal punto di vista di un migrante, questa è una cattiva notizia. A peggiorare le cose,
c’è una seconda conseguenza. Pensate alle armi che ha a disposizione un datore di
lavoro per punire un lavoratore che non si impegna abbastanza: nel peggiore dei casi,
lo può licenziare. Ma il licenziamento è una punizione adeguata solo se il lavoro
è retribuito abbastanza perché il lavoratore voglia effettivamente tenerselo. Come
sottolineò molti anni fa il futuro vincitore del premio Nobel Joseph Stiglitz, alle
aziende non conviene pagare i loro lavoratori il minimo che i lavoratori sono disposti
ad accettare, proprio per evitare di ritrovarsi nella posizione sintetizzata da quella
vecchia battuta di epoca sovietica: «Loro fingono di pagarci e noi fingiamo di lavorare».
Questa logica dice che il salario che l’azienda deve pagare per convincere i lavoratori
a impegnarsi nel lavoro di regola dev’essere abbastanza alto da garantire che il licenziamento
rappresenti effettivamente un danno. È quello che gli economisti chiamano salario-efficienza. Il risultato è che la differenza salariale fra quello che le aziende pagano ai loro
lavoratori esistenti e quello che dovrebbero pagare a un nuovo arrivato non è necessariamente
molto grande, perché pagare un nuovo arrivato troppo poco comporta dei rischi che
non possono permettersi di correre45.
45 Carl Shapiro e Joseph E. Stiglitz, Equilibrium Unemployment as a Worker Discipline Device, «American Economic Review», LXXIV, 3, 1984, pp. 433-444.
Questo riduce ancora di più l’incentivo ad assumere un aspirante migrante. Senza contare
che i datori di lavoro non gradiscono nemmeno avere differenze salariali troppo marcate
nei loro stabilimenti, per paura di deprimere il morale. I dati indicano che i lavoratori
non tollerano la disuguaglianza all’interno di un’azienda neanche quando è collegata
alla produttività, almeno se il legame tra stipendio e produttività non è immediatamente
ovvio e trasparente46. E se i lavoratori sono scontenti, difficilmente il luogo di lavoro sarà produttivo.
Questo contribuisce a spiegare perché i lavoratori autoctoni non vengono rapidamente
rimpiazzati da immigrati meno costosi.
46 Emily Breza, Supreet Kaur e Yogita Shamdasani, The Morale Effects of Pay Inequality, «Quarterly Journal of Economics», CXXXIII, 2, 2018, pp. 611-663.
Questa analisi combacia con un’altra scoperta dello studio sull’emigrazione ceca che
abbiamo citato prima: le perdite occupazionali per gli autoctoni non erano effettivamente
perdite, bensì minori guadagni (rispetto alle regioni della Germania dove i cechi
non erano emigrati)47. Le aziende tedesche non sostituirono i loro dipendenti con gli immigrati cechi:
quelli già impiegati in Germania avevano ancora il vantaggio della familiarità. Quello
che successe fu che invece di assumere nuovi lavoratori autoctoni che non conoscevano,
le aziende tedesche in alcuni casi scelsero di assumere cechi che erano altrettanto
sconosciuti.
47 Dustmann, Schönberg e Stuhler, Labor Supply Shocks cit.
La teoria per cui gli immigrati hanno poche probabilità di riuscire ad aggiudicarsi
i lavori che già svolgono gli autoctoni, anche quando si offrono di farli per un salario
più basso, spiega in modo più convincente perché gli immigrati spesso finiscano per
fare lavori che gli autoctoni non vogliono fare, o trasferirsi in città dove nessuno
vuole andare. Insomma, non portano via il lavoro a nessuno: se non ci fosse nessun
immigrato disposto a farli, quei lavori rimarrebbero scoperti.
Gli immigrati qualificati
Finora abbiamo parlato dell’impatto degli immigrati non qualificati sui lavoratori
autoctoni. Ma anche le persone che non vedono di buon occhio l’immigrazione di lavoratori
non qualificati solitamente guardano con favore all’immigrazione di lavoratori qualificati.
Molti degli argomenti che abbiamo usato per spiegare perché i migranti a bassa qualifica
non fanno concorrenza ai lavoratori autoctoni a bassa qualifica non si applicano nel
caso dei lavoratori qualificati. Uno dei motivi è che normalmente questi lavoratori
sono pagati molto di più del salario minimo. Non è indispensabile offrire loro un
salario-efficienza, perché fanno lavori eccitanti e avere la possibilità di farli
e farli bene costituisce già una ricompensa. Pertanto, paradossalmente, un immigrato
qualificato ha più possibilità di fare concorrenza ai lavoratori autoctoni di pari
qualifica, facendo scendere i loro salari. Un altro aspetto è che nel caso dei lavoratori
qualificati il datore di lavoro, in proporzione, fa più attenzione al bagaglio esatto
di competenze della persona che assume che alla sua personalità o affidabilità. Un
ospedale che deve assumere un infermiere, per esempio, andrà a guardare prima di tutto
se il candidato è in possesso dei requisiti di legge per il lavoro, in particolare
se ha sostenuto e superato l’esame di abilitazione. Se c’è a disposizione un infermiere
straniero con la certificazione adatta che accetta un salario più basso, l’ospedale
non ha molte ragioni per non assumerlo. Inoltre, nessuno assume lavoratori di questo
tipo senza una serie di colloqui ed esami, e questo mette i lavoratori sconosciuti
al datore di lavoro sullo stesso piano di quelli che già conosce, direttamente o indirettamente.
Non stupisce quindi che uno studio condotto negli Stati Uniti abbia riscontrato che
per ogni infermiere straniero abilitato e qualificato impiegato in una città, ci siano
fra uno e due infermieri autoctoni in meno48. Una delle ragioni è che gli studenti autoctoni, di fronte alla concorrenza di infermieri
che sono nati e hanno studiato all’estero, scelgono di non partecipare all’esame di
abilitazione nel loro Stato.
48 Patricia Cortés e Jessica Pan, Foreign Nurse Importation and Native Nurse Displacement, «Journal of Health Economics», 37, 2014, pp. 164-180.
Insomma, nonostante l’ampio supporto di cui gode, anche da parte di persone come il
presidente Trump, l’immigrazione di lavoratori qualificati non ha soltanto effetti
positivi dal punto di vista dell’impatto sulla popolazione autoctona: aiuta gli autoctoni
a bassa qualifica, che possono contare su servizi più economici (la maggior parte
dei dottori che lavora negli angoli più poveri degli Stati Uniti è costituita da immigrati
provenienti da paesi in via di sviluppo), ma al prezzo di un peggioramento delle prospettive
occupazionali della popolazione autoctona con competenze simili (infermieri, medici,
ingegneri e insegnanti universitari).
Quale invasione?
I miti sull’immigrazione si stanno sgretolando. Non c’è nessuna evidenza che l’immigrazione
nei paesi ricchi di lavoratori a bassa qualifica faccia scendere i salari e l’occupazione
per gli autoctoni; e non è vero nemmeno che il mercato del lavoro è come quello della
frutta: qui le leggi della domanda e offerta non si applicano. Tuttavia, c’è un’altra
ragione per cui l’immigrazione è così esplosiva politicamente, ed è l’idea che i numeri
di aspiranti immigrati siano enormi, che ci sia un’invasione di estranei, un’orda
di stranieri, una cacofonia di lingue e usanze aliene in attesa di riversarsi sulle
nostre immacolate frontiere monoculturali.
Ma, come abbiamo visto, non c’è nessuna evidenza dell’esistenza di orde di persone
che aspettano solo l’occasione giusta per calare sulle rive degli Stati Uniti (o del
Regno Unito, o della Francia) e che devono essere tenute lontane con la forza (o con
un muro). Il fatto è che la maggior parte delle persone, a meno che un disastro non
le spinga a partire, preferisce rimanere a casa propria. Semplicemente, non bussano
alla nostra porta: preferiscono il loro paese. A volte non hanno desiderio neppure
di spostarsi fino al capoluogo della loro regione. Gli abitanti dei paesi ricchi trovano
questo fatto talmente controintuitivo che rifiutano di crederci, anche quando sono
messi di fronte ai dati reali. Come si spiega?
Senza contatti
Ci sono molti motivi per cui la gente non si sposta. Tutte le cose che rendono difficile
per i nuovi immigrati competere con i residenti di vecchia data nel mercato del lavoro
li scoraggiano dal trasferirsi. Per dirne una, come abbiamo visto, per un immigrato
non è facile trovare un lavoro decente. L’unica eccezione è quando il datore di lavoro
è un parente o un amico, o un amico di un amico, o almeno una persona della stessa
etnia, qualcuno che conosce o come minimo capisce il migrante. Per questo motivo,
i migranti tendono ad andare in posti dove dispongono di una rete di contatti: trovare
un lavoro in questi casi è più facile e possono contare su qualcuno che li aiuta a
cadere in piedi. Naturalmente, il fatto che le prospettive occupazionali dei migranti
provenienti da uno stesso luogo siano correlate nel tempo può avere tante spiegazioni
diverse: per esempio, se un villaggio produce bravi idraulici, sia le generazioni
di migranti recenti che quelle precedenti troveranno lavoro come idraulici. Ma la
forza di attrazione dei legami di parentela è superiore. Kaivan Munshi, professore
dell’Università di Cambridge e forse non a caso membro della piccola e fortemente
coesa comunità di indiani zoroastriani noti anche come parsi, ha dimostrato che i
migranti messicani cercano esplicitamente persone che potrebbero conoscere49.
49 Kaivan Munshi, Networks in the Modern Economy: Mexican Migrants in the U.S. Labor Market, «Quarterly Journal of Economics», CXVIII, 2, 2003, pp. 549-599.
Munshi ha osservato che a spingere le persone a lasciare il Messico erano i disastri
(la siccità), a prescindere dalle opportunità lavorative disponibili negli Stati Uniti.
Quando in un certo villaggio c’era un periodo di siccità, un gruppo di persone partiva
alla ricerca di altre opportunità. Molti finivano negli Stati Uniti, con il risultato
che un emigrante dello stesso villaggio, in seguito, poteva contare su contatti oltrefrontiera
che avevano già un lavoro stabile e potevano aiutare il nuovo arrivato a trovarne
uno. Munshi sosteneva che se si mettono a confronto due villaggi messicani che hanno
avuto le stesse condizioni atmosferiche quest’anno, ma uno dei due alcuni anni fa ha avuto una siccità (che ha spinto alcuni abitanti a emigrare) mentre l’altro no, sarà più facile trovare lavoro (e anche trovare un lavoro migliore) per un abitante
del villaggio che in passato ha subìto un periodo di siccità: la sua previsione era
che nel paese di destinazione ci sarebbero stati più migranti da quel villaggio, migranti
con un lavoro e un lavoro pagato meglio. Ed è esattamente quello che è emerso dai
dati. Le reti di contatti contano.
Lo stesso vale per l’insediamento dei profughi: hanno più probabilità di trovare lavoro
quelli che vengono mandati in un posto dove ci sono molti profughi dello stesso paese
arrivati prima di loro50. Questi profughi di più vecchia data solitamente non conoscono i loro nuovi concittadini,
ma si sentono comunque in dovere di aiutarli.
50 Lori Beaman, Social Networks and the Dynamics of Labour Market Outcomes: Evidence from Refugees
Resettled in the U.S., «Review of Economic Studies», LXXIX, 1, 2012, pp. 128-161.
I contatti sono ovviamente utili per chi ce li ha, ma che succede se non li hai? Chi
non ce li ha è chiaramente svantaggiato: infatti, la presenza di alcune persone che
possono contare su raccomandazioni può danneggiare le opportunità di tutti gli altri.
Un datore di lavoro abituato ad assumere lavoratori raccomandati da qualcuno probabilmente
sarà diffidente verso chiunque arrivi senza. Sapendo questo, tutti quelli che possono
sperare di ottenere una raccomandazione preferiscono aspettare di averla in mano (magari
spunterà fuori un contatto con un potenziale datore di lavoro, magari un amico metterà
su un’attività), e solo quelli che sanno che nessuno li raccomanderà mai (forse perché
effettivamente non sono dei lavoratori validi) andranno a bussare in giro per trovare
un lavoro. Ma a quel punto il datore di lavoro avrebbe ragione a rifiutarsi di prenderli
in considerazione.
Il mercato in questa situazione si sgretola. Nel 1970 George Akerlof, un altro futuro premio Nobel ma all’epoca semplicemente
uno studioso fresco di dottorato, scrisse un saggio, The Market for ‘Lemons’ (il mercato dei bidoni), in cui sosteneva che il mercato delle auto usate poteva
anche chiudere i battenti, perché i venditori sono incentivati a dare via le loro
macchine peggiori. Ciò innesca quel genere di ragionamento circolare che abbiamo visto
nel caso dei nuovi arrivati sul mercato del lavoro: più gli acquirenti diventano diffidenti
nei confronti delle macchine usate disponibili sul mercato, meno saranno disposti
a pagare per comprarle51. Il problema è che meno saranno disposti a pagare, più i proprietari di auto usate
di qualità preferiranno tenersele (o venderle ad amici che conoscono e si fidano di
loro). Soltanto quelli che sanno che la loro macchina sta per cadere a pezzi saranno
disposti a venderla al miglior offerente. Questo processo per cui finiscono sul mercato
solo le macchine peggiori o i lavoratori peggiori è chiamato selezione avversa52.
51 George Akerlof, The Market for ‘Lemons’: Quality Uncertainty and the Market Mechanism, «Quarterly Journal of Economics», LXXXIV, 3, 1970, pp. 488-500.
52 I redattori e i revisori del saggio di Akerlof lo trovarono di difficile comprensione.
In sostanza, il tipo di ragionamento circolare che spiega lo sgretolamento del mercato
necessita di un’adeguata esposizione matematica per garantire che sia inconfutabile,
e nel 1970 questo tipo di argomentazione matematica era poco familiare alla maggior
parte degli economisti. Ci volle un po’, quindi, prima che una rivista si avventurasse
a pubblicarlo. Una volta pubblicato, però, il saggio di Akerlof divenne istantaneamente
un classico e resta ancora oggi uno degli articoli scientifici più influenti di tutti
i tempi. Il tipo di matematica che usava, che è un’applicazione della branca della
matematica applicata chiamata «teoria dei giochi», ora viene insegnato nei corsi universitari
di economia.
I contatti teoricamente aiutano le persone, ma il fatto che qualcuno possa accedervi
e altri no rischia di inceppare un mercato che funzionerebbe ottimamente se nessuno
avesse contatti. In quel caso, tutti avrebbero le stesse possibilità. Nel momento
in cui una parte delle persone possiede contatti e conoscenze, il mercato rischia
di sgretolarsi, con la conseguenza che alcune persone diventano inoccupabili.
Le comodità di casa
Abhijit una volta chiese a un campione di immigrati che vivevano nelle baraccopoli
di Delhi che cosa apprezzassero del fatto di vivere in città53. Erano molte le cose che apprezzavano: c’erano più occasioni per garantire ai loro
figli una buona istruzione, l’assistenza sanitaria era migliore, trovare un lavoro
era più facile. L’unica cosa che non gradivano era l’ambiente. Non c’è da stupirsi,
considerando che Delhi è una delle città più inquinate del mondo54. Alla domanda su quali fossero i problemi ambientali del posto in cui vivevano che
avrebbero voluto venissero risolti per primi, il 69 per cento menzionò i canali di
scarico e le fognature, mentre il 54 per cento si lamentò della raccolta dei rifiuti.
I canali di scarico intasati, le fognature assenti e i cumuli di spazzatura sono spesso
gli elementi che danno alle baraccopoli indiane (e di altri paesi) il loro caratteristico
odore fra l’acre e il putrescente.
53 Banerjee, Enevoldsen, Pande e Walton, Information as an Incentive cit.
54 AirVisual, World most polluted cities 2019, 2019; disponibile al seguente indirizzo: https://www.airvisual.com/world-most-polluted-cities
(ultimo accesso il 21 aprile 2019).
Per ovvie ragioni, molti abitanti delle baraccopoli esitano a far venire le loro famiglie
a vivere con loro. Al contrario, quando la vita nello slum diventa insopportabile, come succede inevitabilmente piuttosto in fretta, se ne tornano
a casa. Nel Rajasthan rurale, di regola l’emigrante che ha lasciato il suo villaggio
per andare a guadagnare soldi in città torna dopo un mese55. Su dieci che emigrano, solo uno resiste più di tre mesi. Questo significa che i
migranti tendono a restare vicini al loro villaggio natale, e questo probabilmente
limita il tipo di lavori che possono ottenere e il tipo di competenze che possono
acquisire.
55 Abhijit Banerjee ed Esther Duflo, The Economic Lives of the Poor, «Journal of Economic Perspectives», XXI, 1, 2007, pp. 141-168.
Ma perché devono per forza vivere nelle baraccopoli, o peggio? Perché non affittano
qualcosa di un pochino meglio da qualche altra parte? Spesso, anche se possono permetterselo,
non ne hanno la possibilità. In molti paesi in via di sviluppo la scala di qualità
dell’offerta abitativa in molti casi presenta diversi gradini mancanti: l’opzione
immediatamente sopra alla baraccopoli magari è un bell’appartamentino, che per loro
è assolutamente fuori portata.
C’è una ragione per questo: la maggior parte delle città del terzo mondo non dispone
delle infrastrutture necessarie per offrire servizi ai propri abitanti. Secondo un
recente rapporto, l’India da sola necessita di 4.500 miliardi di dollari americani
in investimenti infrastrutturali tra il 2016 e il 2040, mentre il Kenya ha un fabbisogno
di 223 miliardi e il Messico di 1.100 miliardi56. Questo significa che nella maggioranza delle città i quartieri, relativamente poco
estesi, che possono contare infrastrutture di qualità decorosa sono sempre ricercatissimi
e i terreni lì hanno prezzi astronomicamente elevati. Alcune delle proprietà immobiliari
più costose del mondo, per esempio, si trovano in India. A corto di investimenti,
il resto della città si sviluppa in modo caotico, con i poveri che spesso si insediano
abusivamente in qualsiasi terreno rimasto libero, senza curarsi se abbia allacciamenti
fognari o condutture idriche. Alla disperata ricerca di un posto dove vivere, ma preoccupati
di poter essere cacciati da un giorno all’altro perché il terreno non è loro, costruiscono
abitazioni improvvisate che spiccano come cicatrici nel panorama urbano. Sono le famose
baraccopoli del terzo mondo.
56 Global Infrastructure Hub, Global Infrastructure Outlook, Oxford Economics, 2017.
A peggiorare le cose, come argomenta Edward Glaeser nel suo meraviglioso libro Il trionfo della città, c’è il fatto che gli urbanisti sono restii a costruire quartieri di palazzi alti
e densamente popolati per la classe media e puntano invece a realizzare tante «città
giardino»57. L’India, per esempio, impone limiti draconiani all’altezza degli edifici, molto
più rigidi di quelli che esistono a Parigi, New York o Singapore. Queste restrizioni
si traducono in città sconfinate e lunghi tragitti casa-lavoro nella maggior parte
dei centri urbani indiani. Lo stesso problema si manifesta anche in Cina e in molti
altri paesi, pur se in forma meno estrema58.
57 Edward Glaeser, Triumph of the City: How Our Greatest Invention Makes Us Richer, Smarter, Greener,
Healthier, and Happier, Macmillan, London 2011 [trad. it., Il trionfo della città. Come la nostra più grande invenzione ci rende ricchi e felici, Bompiani, Milano 2013].
58 Jan K. Brueckner, Shihe Fu, Yizhen Gu e Junfu Zhang, Measuring the Stringency of Land Use Regulation: The Case of China’s Building Height
Limits, «Review of Economics and Statistics», XCIX, 4, 2017, pp. 663-677.
Questo insieme di scelte politiche sbagliate costringe l’aspirante emigrante a basso
reddito a dover fare una serie di scelte poco invidiabili. Può andare ad ammassarsi
in una baraccopoli (se è fortunato), perdere ore intere ogni giorno per andare da
casa al lavoro o rassegnarsi alla miseria quotidiana di dormire sotto un ponte, sul
pavimento dell’edificio dove lavora, nel suo risciò o sotto il suo camion, o sul marciapiede,
protetto magari dalla tenda di un negozio. Se tutto questo non fosse sufficientemente
scoraggiante, per le ragioni che abbiamo già discusso gli emigranti a bassa qualifica
sanno che, almeno all’inizio, i lavori che possono sperare di ottenere sono quelli
che nessun altro vuole fare. Se ti ritrovi catapultato da qualche parte e non hai
altra scelta li puoi anche accettare, ma è difficile entusiasmarsi all’idea di abbandonare
la famiglia e gli amici e andare dall’altra parte del mondo per dormire sotto un ponte,
pulire i pavimenti o sparecchiare i tavoli. Sono solo gli emigranti con la capacità
di pensare oltre gli ostacoli e le sofferenze dell’immediato e immaginare un costante
percorso da aiuto-cameriere a proprietario di una catena di ristoranti che normalmente
decidono di affrontare questa prospettiva.
L’attrattiva di casa propria va oltre le comodità materiali. Le persone povere spesso
conducono vite molto vulnerabili. I loro redditi sono solitamente volatili e la loro
salute precaria, cosa che rende molto utile poter chiamare in aiuto altri quando serve.
Più contatti hai, meno vulnerabile sei se dovesse capitarti qualcosa di brutto. Puoi
avere una rete di contatti anche nel posto in cui ti trasferisci, ma probabilmente
è più profonda e solida nel posto in cui sei cresciuto: se te ne vai, rischi (e rischia
la tua famiglia) di perdere accesso a quella rete. Il risultato è che solo i più disperati,
o quelli molto benestanti che possono permettersi di correre il rischio, decidono
di andare via.
Le comodità e i contatti giocano lo stesso ruolo limitante anche per quelli che vogliono
emigrare all’estero, ma in misura molto maggiore: se partono, spesso partono da soli,
abbandonando tutto ciò che gli è caro o familiare per molti anni a venire59.
59 Abhijit Banerjee ed Esther Duflo, «Barefoot Hedge-Fund Managers», cap. 6 di Poor Economics, Public Affairs, New York 2011 [trad. it., L’economia dei poveri. Capire la vera natura della povertà per combatterla, Feltrinelli, Milano 2011;il capitolo in italiano si intitola «Gestori di hedge fund, ma a piedi nudi»].
Legami familiari
La natura della vita nelle comunità tradizionali può rappresentare un altro freno
importante all’emigrazione. L’economista caraibico Arthur Lewis, uno dei pionieri
nel campo dell’economia dello sviluppo, insignito del premio Nobel nel 1979, in un
famoso saggio pubblicato nel 1954 fece la seguente, semplice osservazione60. Supponiamo che i lavori in città siano pagati 100 dollari la settimana. Nel villaggio
non ci sono possibilità di impiego, ma se lavori nella fattoria di famiglia avrai
la tua parte del reddito della fattoria: è 500 dollari la settimana, ma visto che
siete in quattro fa 125 dollari a testa. Se te ne vai, i tuoi fratelli non divideranno
più il reddito della fattoria con te. Perché dovresti andartene, considerando che
le ore di lavoro sono le stesse e il lavoro è altrettanto sgradevole? L’intuizione
di Lewis fu che questa argomentazione sta in piedi a prescindere se il tuo lavoro
nella fattoria sia necessario oppure no. Supponiamo che il reddito prodotto dalla
fattoria sia sempre di 500 dollari, sia che tu ci lavori sia che non ci lavori, ma
che andando a lavorare in città potresti aggiungere ai guadagni complessivi della
famiglia 100 dollari. Non lo fai perché per te non ci sarebbe nessun vantaggio: tu
ti ritroveresti con 100 dollari e i tuoi fratelli potrebbero dividersi in tre i 500
dollari della fattoria. Naturalmente oggi non è detto che l’azienda di famiglia sia
una fattoria: magari a trattenerti a casa è un servizio di taxi gestito da tutti i
fratelli.
60 W. Arthur Lewis, Economic Development with Unlimited Supplies of Labour, «Manchester School», XXII, 2, 1954, pp. 139-191.
Quello che voleva sottolineare Lewis era che tutti nella famiglia se la passerebbero
meglio se, per esempio, potessero prometterti 50 dollari del reddito prodotto dalla
fattoria in cambio del fatto di andare a lavorare fuori: così il tuo totale salirebbe
a 150 e anche i tuoi tre fratelli potrebbero avere 150 dollari a testa. Ma forse non
possono: forse promesse del genere vengono facilmente dimenticate. Una volta partito,
potrebbero negare che tu abbia mai fatto parte dell’attività di famiglia. Così tu
rimani, per far valere i tuoi diritti. E il risultato, secondo Lewis, è che la velocità
dell’integrazione della forza lavoro rurale nel più produttivo settore urbano, non
importa se in patria o all’estero, è troppo lenta. Nello scenario dipinto da Lewis,
di migrazione ce n’è troppo poca.
Il punto più generale, qui, è che le connessioni di rete, di cui la famiglia è un
esempio specifico, sono pensate per risolvere problemi specifici, ma ciò non significa
che favoriscano il bene sociale generale. Per esempio, dei genitori che temono di
essere abbandonati da vecchi possono decidere, strategicamente, di investire meno
nell’istruzione dei loro figli per assicurarsi che non abbiano la possibilità di trasferirsi
in città. Nello Stato indiano dell’Haryana, non troppo distante da Delhi, i ricercatori
hanno lavorato insieme ad aziende che cercavano lavoratori per mansioni amministrative
fornendo informazioni agli abitanti dei villaggi su queste opportunità di impiego61. Per quei lavori erano necessarie due cose: trasferirsi in città e avere un diploma
di scuola superiore. Per le ragazze, la risposta dei genitori alle campagne informative
è stata indiscutibilmente vantaggiosa: rispetto alle loro coetanee di villaggi che
non erano stati coinvolti nella campagna informativa, quelle dei villaggi del campione
hanno ricevuto una migliore istruzione, si sono sposate più tardi e, cosa forse più
importante, erano più alte e meglio nutrite62. Per i maschi, invece, non c’è stato nessun incremento medio del livello di istruzione:
i ragazzi che la famiglia intendeva far trasferire altrove per guadagnare meglio hanno
beneficiato dell’intervento, più o meno come le ragazze, ma quelli i cui genitori
volevano che rimanessero a casa per prendersi cura di loro hanno finito per ricevere
meno istruzione. In pratica, i genitori hanno scelto di mettere i loro figli in condizioni
di inferiorità rispetto agli altri per poterli tenere a casa con loro.
61 Robert Jensen e Nolan H. Miller, Keepin’ ’Em Down on the Farm: Migration and Strategic Investment in Children’s Schooling, National Bureau of Economics Research (Nber) Working Paper n. 23122, 2017.
62 Robert Jensen, Do Labor Market Opportunities Affect Young Women’s Work and Family Decisions? Experimental
Evidence from India, «Quarterly Journal of Economics», CXXVII, 2, 2012, pp. 753-792.
L’insonne di Kathmandu
Nell’esperimento in cui erano stati offerti agli abitanti di alcuni villaggi 11,50
dollari per andare a esplorare il mercato del lavoro in una delle grandi città del
Bangladesh, molti dei partecipanti avevano sperimentato un miglioramento tale della
loro situazione che avrebbero dovuto essere felici di pagare di tasca propria per
poter avere quell’opportunità63. Altri, però, quelli che non avevano trovato un lavoro ed erano tornati indietro
a mani vuote, avrebbero finito per rimetterci se si fossero dovuti pagare il viaggio
con i loro soldi. La maggior parte delle persone non ama il rischio, soprattutto quelle
che sono vicine ai livelli di sussistenza, perché qualunque perdita potrebbe spingerle
nell’inedia. È per questo che così tante persone preferiscono non provarci?
63 Bryan, Chowdhury e Mobarak, Underinvestment in a Profitable Technology cit.
Il problema di questa spiegazione è che un’altra opzione per i potenziali migranti
sarebbe quella di mettere da parte 11,50 dollari prima di fare il viaggio. Poi, se
non riuscissero a trovare un lavoro, potrebbero tornare a casa e non starebbero peggio
che se non avessero risparmiato e provato, ed è quello che fa la maggior parte di
loro. Inoltre, i dati sembrano indicare che risparmiano per altre cose, e 11,50 dollari
sono ampiamente alla loro portata. E allora perché non lo fanno? Una possibile ragione
è che sovrastimano i rischi. È quello che evidenzia uno studio condotto in Nepal.
Oggi, più di un quinto della popolazione maschile in età lavorativa del Nepal ha trascorso
almeno un periodo di tempo all’estero, principalmente per lavoro. La maggior parte
lavora in Malaysia, Qatar, Arabia Saudita o Emirati Arabi Uniti. Di regola, partono
per un paio d’anni, con un contratto di assunzione legato a un datore di lavoro specifico.
È un contesto in cui si potrebbe immaginare che i migranti siano ottimamente informati
sui potenziali costi e benefici dell’emigrazione, visto che c’è bisogno di un’offerta
di lavoro per ottenere un visto. Eppure i funzionari del governo nepalese che abbiamo
incontrato temevano che i migranti non sapessero in cosa si stavano andando a mettere.
Hanno aspettative esagerate sui guadagni che possono realizzare, ci hanno raccontato,
e non hanno la più pallida idea di quanto possano essere pesanti le condizioni di
vita all’estero. Maheshwor Shrestha, un nostro studente di dottorato nepalese, ha
deciso di cercare di capire se questi funzionari avevano ragione64. Si è piazzato con una piccola squadra di ricercatori nell’ufficio passaporti a Kathmandu,
dove gli aspiranti emigranti si recano per richiedere il documento valido per l’espatrio,
e ha intervistato più di tremila di questi lavoratori, sottoponendo loro domande dettagliate
su quanto pensavano che sarebbero stati pagati, in quale paese volevano emigrare e
quali pensavano che fossero le condizioni di vita all’estero.
64 Maheshwor Shrestha, Get Rich or Die Tryin’: Perceived Earnings, Perceived Mortality Rate, and the Value
of a Statistical Life of Potential Work-Migrants from Nepal, World Bank Policy Research Working Paper n. 7945, 2017.
Maheshwor ha scoperto che questi aspiranti emigranti erano effettivamente troppo ottimisti
sulle loro prospettive di guadagno. Nello specifico, sovrastimavano le loro potenzialità
di guadagno di circa il 25 per cento, e questo poteva essere dovuto a tante ragioni
diverse, per esempio la possibilità che i reclutatori che gli avevano proposto il
lavoro gli avessero raccontato delle frottole. Ma dove si sbagliavano davvero di tanto
era quando sovrastimavano le possibilità di morire mentre erano all’estero: il tipico
candidato all’emigrazione pensava che su mille migranti, nell’arco di due anni, circa
10 tornassero a casa dentro a una bara, mentre in realtà sono soltanto 1,3.
Maheshwor ha quindi fornito a una parte dei potenziali emigranti nepalesi informazioni
sui salari effettivi nel paese di destinazione o sui rischi reali di morire (o entrambe
le cose). Confrontando le decisioni migratorie di quelli che aveva informato e di
quelli che non aveva informato (semplicemente perché la sua procedura randomizzata
non li aveva selezionati), ha riscontrato con evidenza l’utilità di queste informazioni:
quelli che avevano ricevuto informazioni sui salari avevano ridotto le loro aspettative,
mentre quelli che avevano ricevuto informazioni sui tassi reali di mortalità avevano
a loro volta rivisto al ribasso le loro stime. I migranti informati avevano anche
modificato i propri piani sulla base delle notizie ricevute: quando li aveva ricontattati,
alcune settimane dopo, all’interno del gruppo di quelli che avevano ricevuto le informazioni
sui salari era maggiore la percentuale di chi aveva scelto di rimanere in Nepal, mentre
all’interno del gruppo di quelli che avevano ricevuto le informazioni sulla mortalità,
al contrario, era maggiore la percentuale di quelli che avevano deciso di partire.
Inoltre, dal momento che la disinformazione sulla mortalità era molto più grave della
disinformazione sui salari, tra quelli che avevano ricevuto entrambe le informazioni
era maggiore la percentuale di chi aveva scelto di partire. Insomma, in media, contrariamente
a quello che pensavano i funzionari del governo nepalese, la disinformazione spingeva
i migranti a restare a casa.
Perché gli aspiranti emigranti nepalesi sovrastimavano in modo sistematico il rischio
di morire? Maheshwor offre una risposta, mostrando come un unico caso di emigrante
morto avesse avuto l’effetto di ridurre significativamente i flussi migratori da quella
parte del Nepal (un’area ristretta) da cui proveniva verso il paese dove era avvenuto
il decesso65. Evidentemente i potenziali emigranti prestano attenzione alle informazioni locali.
Il problema, apparentemente, è che quando i mezzi di informazione riportano la notizia
della morte di uno o più migranti provenienti da una certa regione, non accompagnano
la notizia con il numero totale di lavoratori emigrati da lì. I lavoratori, quindi,
non hanno idea se si tratta di un morto su cento o di un morto su mille, e in assenza
di questo dato tendono a reagire in modo sproporzionato.
65 Maheshwor Shrestha, Death Scares: How Potential Work-Migrants Infer Mortality Rates from Migrant Deaths, World Bank Policy Research Working Paper n. 7946, 2017.
Se la gente non aveva le informazioni giuste in Nepal, con i suoi tanti organismi
pubblici, i suoi enormi flussi di lavoratori in entrata e in uscita e un governo sinceramente
preoccupato del benessere dei suoi emigranti, si può solo immaginare quanta confusione
possa esserci fra la maggior parte dei migranti potenziali in altri paesi. La confusione
naturalmente può operare in entrambi i sensi, o scoraggiando l’emigrazione, come in
Nepal, o incoraggiandola se la gente è eccessivamente ottimista. Perché, allora, la
gente è sistematicamente prevenuta contro l’idea di emigrare?
Rischio contro incertezza
Forse l’esagerata percezione del rischio di mortalità degli aspiranti emigranti intervistati
da Maheshwor va letta come metafora di un senso generale di cattivi presagi. Emigrare,
d’altronde, significa lasciare ciò che è familiare per abbracciare l’ignoto, e l’ignoto
non è semplicemente una lista di possibili esiti diversi con associata una certa probabilità,
come amano descriverlo gli economisti. In realtà, nella scienza economica esiste una
lunga tradizione, che risale come minimo a Frank Knight, che distingue tra il rischio
quantificabile (50 per cento di probabilità che succeda questo, 50 per cento che succeda
quello) e il resto, ciò che Donald Rumsfeld definì, memorabilmente, «le incognite
ignote»66 e gli economisti knightiani chiamano incertezza67.
66 Donald Rumsfeld, Known and Unknown: A Memoir, Sentinel, New York 2012.
67 Frank Knight, Risk, Uncertainty, and Profit, Hart, Schaffner and Marx, Boston 1921 [trad. it., Rischio, incertezza e profitto, La Nuova Italia, Firenze 1960].
Frank Knight era convinto che gli esseri umani reagiscono in modo molto diverso al
rischio e all’incertezza. La maggior parte delle persone non ama avere a che fare
con le incognite ignote e fa di tutto per evitare di dover prendere decisioni quando
non conosce i contorni esatti del problema.
Dal punto di vista degli aspiranti emigranti nel Bangladesh rurale, la città (e ovviamente
qualunque paese straniero) è un pantano di incertezze. Oltre a non sapere come saranno
valutate dal mercato le loro competenze specifiche, devono preoccuparsi anche di dove
andare a trovare i potenziali datori di lavoro, se incontreranno concorrenza per i
servizi che rendono o se verranno sfruttati da un singolo datore di lavoro, il tipo
di referenze di cui avranno bisogno, quanto tempo impiegheranno per trovare un impiego,
come sopravvivranno fino a quel momento, dove vivranno e così via. Hanno poca o nessuna
esperienza per potersi orientare: le probabilità devono calcolarsele da soli. Non
c’è da stupirsi, quindi, che molti potenziali migranti esitino.
Come in uno specchio
Emigrare significa fare un tuffo nell’ignoto e questo può rendere le persone particolarmente
riluttanti a farlo, anche se in teoria potrebbero risparmiare abbastanza da coprire
le varie contingenze finanziarie implicate. Più che un’impresa rischiosa, è un’impresa
incerta. Oltre a questo, è largamente dimostrato dalla ricerca scientifica che la
gente ha una particolare repulsione verso gli errori che commette autonomamente. Il
mondo è gravido di incertezze, e su molte di queste incertezze le persone non hanno
nessun controllo. Questi capricci del destino procurano infelicità, ma probabilmente
non così tanta quanto quella che deriva dal compiere attivamente una scelta che va
a finire male, esclusivamente per effetto della cattiva sorte, facendoli sentire peggio
che se non avessero fatto nulla. Lo status quo, il risultato di lasciare le cose come
stanno, svolge la funzione di un parametro di riferimento naturale. Qualunque perdita
rispetto a questo parametro di riferimento è particolarmente dolorosa. Daniel Kahneman
e Amos Tversky, due psicologi che hanno avuto un’influenza incredibile sulla scienza
economica (Kahneman ha vinto il premio Nobel per l’economia nel 2002 e probabilmente
lo avrebbe vinto anche Tversky, se non fosse morto prematuramente), hanno chiamato
questo concetto avversione alle perdite.
Dopo i loro primi studi, una vasta letteratura scientifica ha dimostrato che questa
avversione alle perdite esiste effettivamente ed è in grado di spiegare molti comportamenti
apparentemente strani. Per esempio, la maggior parte delle persone paga premi elevatissimi
sulla propria assicurazione per la casa pur di avere una franchigia bassa68: lo fa per evitare quel doloroso momento in cui, dopo qualche incidente che ha danneggiato
la propria abitazione, si trova a dover sborsare di tasca propria una somma elevata
(la franchigia alta); in confronto, il fatto di dover pagare molto di più adesso (per
avere la franchigia bassa) è indolore, perché non scoprirà mai se è stato un errore.
La stessa logica spiega perché compratori creduloni finiscano spesso per sottoscrivere
«estensioni di garanzia» scandalosamente care. In sostanza, l’avversione alle perdite
ci spinge a preoccuparci in maniera esagerata per qualsiasi rischio, anche piccolo,
che sia conseguenza di una nostra scelta attiva. Emigrare, a meno che non lo stiano
facendo tutti, è una di queste scelte attive, e una scelta non da poco: è facile capire
perché molti siano restii a provarci.
68 Justin Sydnor, (Over)insuring Modest Risks, «American Economic Journal: Applied Economics», II, 4, 2010, pp. 177-199.
Infine, quando un emigrante non ha successo, lo prende come un fallimento personale.
Ha sentito troppe storie di emigranti che ce l’hanno fatta, raccontate con ammirazione,
per non provare la sensazione che un fallimento rivelerebbe qualcosa su di lui, a
se stesso o addirittura a tutto il mondo. Nel 1952 il nonno di Esther, Albert Granjon,
un veterinario che dirigeva un mattatoio a Le Mans, in Francia, prese sua moglie e
quattro bambini piccoli e li fece trasferire tutti in Argentina, che all’epoca significava
fare un viaggio di settimane via mare. Era ispirato da un desiderio di avventura e
aveva il progetto un po’ vago di creare una società insieme ad alcuni conoscenti per
allevare bestiame. Il progetto naufragò dopo neanche un anno dall’arrivo. Le condizioni
di vita nella fattoria erano più dure di quello che aveva immaginato e litigò con
i suoi soci d’affari, che gli rimproveravano di non aver portato abbastanza soldi
per finanziare l’impresa. La giovane famiglia si ritrovò in mezzo al nulla in un paese
sconosciuto, senza nessun reddito. Tornare in Francia sarebbe stato relativamente
facile, a quel punto. Erano gli anni del boom economico del dopoguerra e il nonno
di Esther avrebbe potuto trovare facilmente un lavoro. Aveva due fratelli con una
buona situazione economica, che avrebbero potuto pagargli il viaggio di ritorno. Eppure
scelse di non tornare. Sua moglie Évelynne disse a Esther, molti anni dopo, che tornare
a casa a mani vuote, supplicando i fratelli perché gli pagassero il biglietto di ritorno,
avrebbe voluto dire perdere la faccia, e non lo poteva accettare. Perciò la famiglia
strinse i denti e visse per oltre due anni in una miseria drammatica, resa ancora
più insopportabile da un infondato sentimento di superiorità nei confronti della popolazione
autoctona. I bambini avevano il divieto di parlare spagnolo a casa. Violaine, la madre
di Esther, completò tutti i suoi studi attraverso un corso di francese per corrispondenza
(non andò mai in una scuola argentina) e passava il suo tempo libero a fare le faccende
di casa, tappando i buchi nei sandali di tela che portavano i bambini. La situazione
finanziaria della famiglia migliorò soltanto quando Albert alla fine ottenne un lavoro
come direttore di una fattoria sperimentale per l’Institut Mérieux, una casa farmaceutica
francese. Rimasero in Argentina per più di dieci anni prima di trasferirsi in Perù,
in Colombia e in Senegal. Albert tornò in Francia quando la sua salute cominciò a
deteriorarsi (anche se era ancora piuttosto giovane), ma a quel punto la sua traiettoria
professionale poteva essere plausibilmente descritta come un’avventura di successo.
Tuttavia, quella vita così spossante doveva aver lasciato un segno, perché morì poco
dopo il suo ritorno.
La paura del fallimento è un importante disincentivo a imbarcarsi in un’avventura
rischiosa. Molte persone preferiscono non provarci proprio. D’altronde, quasi tutti
teniamo a preservare un’immagine di noi come individui intelligenti, laboriosi, moralmente
onesti, un po’ perché è semplicemente spiacevole dover ammettere che in realtà siamo
stupidi, pigri e privi di scrupoli, ma anche perché conservare una buona opinione
di noi stessi ci dà la spinta a impegnarci di fronte a tutto quello che la vita ci
tira addosso.
E se è importante aggrapparsi a una certa immagine che abbiamo di noi, allora è importante
anche coltivarla. Lo facciamo espressamente quando filtriamo le informazioni negative.
Un’altra opzione è quella di evitare semplicemente di intraprendere azioni che possano,
anche in uno scenario remoto, avere ripercussioni negative su di noi. Se attraverso
la strada per evitare di passare accanto a un mendicante, non dovrò rivelare a me
stesso che sono poco generoso. Un bravo studente può decidere di non studiare per
un esame per avere pronta una scusa che preservi la sua percezione di essere intelligente,
nel caso l’esame vada male. Un aspirante emigrante che decide di starsene a casa può
sempre mantenere viva la finzione che se fosse partito avrebbe avuto successo69.
69 Torneremo sul tema di queste convinzioni motivate nel capitolo 4. Per un riferimento,
cfr. Roland Bénabou e Jean Tirole, Mindful Economics: The Production, Consumption, and Value of Beliefs, «Journal of Economic Perspectives», XXX, 3, 2016, pp. 141-164.
Ci vuole capacità di sognare (Albert, il nonno di Esther, stava cercando l’avventura,
non stava fuggendo da una situazione spiacevole) o un’esagerata fiducia in se stessi
per superare questa tendenza a tenersi aggrappati allo status quo. Forse è questa
la ragione per cui i migranti, almeno quelli che non sono spinti a partire dalla disperazione,
di solito non sono le persone più ricche o meglio istruite, ma quelle che hanno una
determinazione particolare: ed è per questo che si trovano fra loro molti imprenditori
di successo.
Dopo Tocqueville
Gli americani, si presume, rappresentano l’eccezione a questa regola. La maggior parte
di loro è disposta a prendersi rischi e a trasferirsi altrove per andare incontro
alle opportunità, o almeno questo è sempre stato il mito. Alexis de Tocqueville era
un aristocratico francese del XIX secolo che vedeva l’America come un modello di quello
che poteva essere una società libera. Per lui, l’irrequietezza delle persone era una
delle cose che rendevano speciale il Nuovo Mondo: la gente si spostava continuamente,
cambiando sia occupazione che settore di attività. Tocqueville attribuiva questa irrequietezza
all’effetto combinato della mancanza di una struttura di classe ereditaria e del costante
desiderio di accumulazione70. Tutti potevano provare a diventare ricchi, e quindi era loro dovere seguire le opportunità
ovunque si trovassero.
70 Alexis de Tocqueville, Democracy in America, Saunders and Otley, London 1835-1840 [ed. orig., De la démocratie en Amérique, Gosselin, Paris 1835-1840; trad. it., La democrazia in America, Rizzoli, Milano 2003].
Gli americani credono ancora in questo sogno, anche se in realtà l’eredità, nelle
fortune degli statunitensi di oggi, gioca un ruolo più importante che in Europa71. E questo forse ha a che fare con il declino dell’irrequietezza americana. Infatti,
nello stesso momento in cui hanno cominciato a diventare meno tolleranti verso l’immigrazione
da altri paesi, gli americani hanno cominciato anche a diventare meno mobili: negli
anni Cinquanta ogni anno il 7 per cento della popolazione si trasferiva in un’altra
contea; nel 2018 questa percentuale era inferiore al 4 per cento. Il declino è cominciato
nel 1990 e ha avuto un’accelerazione a metà degli anni Duemila72. C’è un cambiamento sorprendente anche negli schemi di emigrazione interna73: fino a metà degli anni Ottanta gli Stati ricchi all’interno degli Stati Uniti avevano
tassi di crescita della popolazione molto più sostenuti. Dopo il 1990 questa correlazione
è svanita: mediamente, gli Stati ricchi hanno smesso di attirare popolazione. I lavoratori
altamente qualificati continuano a spostarsi dagli Stati poveri a quelli ricchi, ma
i lavoratori scarsamente qualificati, ormai, quando si spostano lo fanno più facilmente
nella direzione opposta. Queste due tendenze hanno creato, dagli anni Novanta in poi,
un mercato del lavoro sempre più segregato per livello di competenze: le aree costiere
attirano sempre più lavoratori istruiti, mentre quelli meno istruiti sembrano concentrarsi
nell’entroterra, soprattutto nelle vecchie città industriali dell’Est come Detroit,
Cleveland e Pittsburgh. Questo fattore ha contribuito alla divergenza di guadagni,
stile di vita e tendenze elettorali e a un sentimento di frattura, con alcune regioni
degli Stati Uniti che rimangono indietro mentre altre vanno avanti.
71 Alberto Alesina, Stefanie Stantcheva ed Edoardo Teso, Intergenerational Mobility and Preferences for Redistribution, «American Economic Review», CVIII, 2, 2018, pp. 521-554; disponibile al seguente
indirizzo: https://doi.org/10.1257/aer.20162015.
72 Benjamin Austin, Edward Glaeser e Lawrence H. Summers, Saving the Heartland: Place-Based Policies in 21st Century America, bozze per la conferenza dei Brookings Papers on Economic Activity, 2018; disponibile
al seguente indirizzo: https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2018/03/3_austinetal.pdf
(ultimo accesso il 19 giugno 2019).
73 Peter Ganong e Daniel Shoag, Why Has Regional Income Convergence in the U.S. Declined?, «Journal of Urban Economics», CII, 2017, pp. 76-90.
La capacità di attrazione di Palo Alto in California o Cambridge in Massachusetts
per i lavoratori con alto livello d’istruzione dell’industria del software o delle
biotecnologie non è sorprendente: in quelle città i salari sono più alti, per i lavoratori
di questo tipo, e ci sono più probabilità di trovare gli amici e i comfort che piacciono
a loro74.
74 Enrico Moretti, The New Geography of Jobs, Houghton Mifflin Harcourt, Boston 2012 [trad. it., La nuova geografia del lavoro, Mondadori, Milano 2013].
Ma perché i lavoratori meno istruiti non li seguono? Dopo tutto, gli avvocati hanno
bisogno di giardinieri, cuochi e baristi. La concentrazione di lavoratori istruiti
dovrebbe creare una domanda di lavoratori non istruiti e incoraggiarli a spostarsi.
E stiamo parlando degli Stati Uniti, dove, a differenza del Bangladesh, quasi tutti
possono permettersi il biglietto del pullman per attraversare lo Stato o addirittura
il paese. Le informazioni sono molto migliori e tutti sanno quali sono le città che
tirano economicamente.
Una delle risposte è che il guadagno salariale che deriva dal vivere in una città
in boom economico per i lavoratori a bassa qualifica, che hanno al massimo un diploma
di scuola superiore, è più basso che per i lavoratori altamente qualificati75. Ma questa può essere solo una parte della spiegazione, perché la differenza nei
salari esiste comunque anche per loro: secondo siti internet specializzati nei confronti
salariali, un barista di Starbucks guadagna circa 12 dollari l’ora a Boston e 9 a
Boise, nell’Idaho76. Non è una forbice ampia quanto quella dei lavoratori altamente qualificati, ma è
comunque una differenza significativa (senza contare che stando a Boston possono tirarsela).
75 Ganong e Shoag, Why Has Regional Income Convergence in the U.S. Declined? cit.
76Starbucks, Indeed.com; disponibile al seguente indirizzo: https://www.indeed.com/q-Starbucks-l-Boston,-MA-jobs.html
(ultimo accesso il 21 aprile 2019); Starbucks, Indeed.com, disponibile al seguente indirizzo: https://www.indeed.com/jobs?q=Starbucks&l=Boisepercent2C+ID
(ultimo accesso il 21 aprile 2019).
Il problema è che proprio a causa del crescente numero di lavoratori altamente qualificati
i costi delle case sono schizzati alle stelle a Palo Alto, a Cambridge e in altri
posti simili. Un avvocato e un inserviente guadagnerebbero tutti e due molto di più
a New York che nel profondo Sud, anche se il differenziale sarebbe maggiore per l’avvocato
(45 per cento) che per l’inserviente (32 per cento). Ma il costo dell’alloggio a New
York rappresenta soltanto il 21 per cento del salario di un avvocato, mentre pesa
per il 52 per cento sullo stipendio di un inserviente. Il risultato è che il salario
reale, dopo aver sottratto il costo della vita, per l’avvocato è molto più alto a
New York che nel profondo Sud (il 37 per cento), mentre per l’inserviente è vero addirittura
il contrario, visto che nel profondo Sud guadagnerebbe il 6 per cento in più. Insomma,
per l’inserviente, trasferirsi a New York non ha senso77.
77 Questo esempio è stato elaborato da Ganong e Shoag in Ganong e Shoag, Why Has Regional Income Convergence in the U.S. Declined? cit.
Il Mission District, a San Francisco, è diventato un simbolo di questo fenomeno. Fino
alla fine degli anni Novanta era un quartiere operaio abitato prevalentemente da ispanici
di recente immigrazione, ma la sua posizione lo rendeva allettante per i giovani lavoratori
del settore tecnologico. Gli affitti medi per gli appartamenti con una camera da letto
hanno cominciato a salire esponenzialmente, passando da 1.900 dollari nel 2011 a 2.675
dollari nel 2013 e 3.250 nel 201478. Oggi l’affitto medio di un appartamento nel Mission District è completamente inaccessibile
per un lavoratore che guadagna il salario minimo79. Il «progetto per lo sradicamento degli yuppie da Mission», un tentativo disperato
di cacciare i lavoratori dell’high-tech dal quartiere vandalizzando le loro automobili, ha attirato grande attenzione sul
problema della gentrificazione del Mission District, ma era una battaglia senza speranza80.
78The San Francisco Rent Explosion: Part II, «Priceonomics», disponibile al seguente indirizzo: https://priceonomics.com/the-san-francisco-rent-explosion-part-ii/
(ultimo accesso il 4 giugno 2019).
79 Secondo il sito RentCafé, l’affitto medio nel Mission District è di 3.728 dollari
per 73,5 metri quadri. San Francisco, CA Rental Market Trends, «RentCafé»; disponibile al seguente indirizzo: https://www.rentcafe.com/average-rent-market-trends/us/ca/san-francisco/
(ultimo accesso il 4 giugno 2019).
80 Mary Curtius, New Money Driving Out Working-Class San Franciscans, «Los Angeles Times», 21 giugno 1999; disponibile al seguente indirizzo: https://www.latimes.com/archives/la-xpm-1999-jun-21-mn-48707-story.html
(ultimo accesso il 4 giugno 2019).
Ovviamente, si potrebbero costruire più case intorno alle città in espansione economica,
ma per questo ci vuole tempo. Inoltre, molte delle città più antiche negli Stati Uniti
hanno regolamenti urbanistici che rendono difficile costruire in verticale o incrementare
la densità abitativa. Gli edifici non possono essere troppo diversi da quelli già
esistenti, i lotti immobiliari devono avere una dimensione minima e così via. Questo
rende più difficile operare una transizione verso quartieri ad alta densità abitativa
quando la domanda di alloggi cresce. Come nei paesi in via di sviluppo, questo fatto
mette il nuovo migrante di fronte a scelte molto difficili: andare a vivere lontano
dal luogo di lavoro o vivere vicino ma pagando un occhio della testa81.
Negli Stati Uniti, la crescita recentemente si è concentrata in quei luoghi dove esistono
istituzioni universitarie di alto livello, e di solito sono anche le città più vecchie,
con un patrimonio immobiliare costoso e difficile da espandere. In molti casi si tratta
anche di città più «europee», che nella maggior parte dei casi hanno maggiori incentivi
a preservare il loro patrimonio storico contro le forze della cementificazione, e
quindi hanno regolamenti urbanistici restrittivi e affitti alti. Questo potrebbe essere
uno dei motivi per cui l’americano medio non si trasferisce dove c’è la crescita.
Se un lavoratore perde il posto perché la sua regione è colpita da una recessione
e contempla l’idea di trasferirsi a cercare lavoro altrove, il problema del costo
degli immobili diventa un ostacolo ancora più grande. Fintanto che ha una casa di
proprietà, anche se il valore di rivendita è molto basso, almeno può usarla per viverci.
E se non ha una casa di proprietà, comunque beneficerà del calo degli affitti provocato
dalla crisi dell’economia locale più di un lavoratore altamente qualificato, visto
che per il lavoratore poco qualificato l’alloggio pesa maggiormente nel bilancio familiare82. Il tracollo del mercato immobiliare locale che normalmente si accompagna a una recessione
tende quindi, con un effetto perverso, a scoraggiare i poveri dal trasferirsi altrove.
82 Atif Mian e Amir Sufi sviluppano queste argomentazioni nel loro libro House of Debt: How They (and You) Caused the Great Recession, and How We Can Prevent
It from Happening Again, University of Chicago Press, Chicago 2014 [trad. it., La casa del debito. Alle origini della Grande recessione, Il Saggiatore, Milano 2015] e in molti articoli, per esempio Atif Mian, Kamalesh
Rao e Amir Sufi, Household Balance Sheets, Consumption, and the Economic Slump, «Quarterly Journal of Economics», CVIII, 4, 2013, pp. 1687-1726.
Ci sono altre ragioni per restarsene a casa propria anche se le opportunità scarseggiano
o sono meno allettanti che in altri posti: gli asili nido, per esempio, negli Stati
Uniti sono costosi, a causa dell’effetto combinato di una normativa rigida e della
mancanza di sussidi pubblici. Per chi ha un reddito basso, acquistare servizi per
l’infanzia a prezzi di mercato spesso è fuori discussione: l’unica risorsa sono i
nonni o, in mancanza dei nonni, altri parenti o amici. E a meno che non riusciate
a convincerli a trasferirsi anche loro, l’idea di spostarsi da un’altra parte non
viene neanche presa in considerazione. Non era un problema particolarmente rilevante
quando la maggior parte delle donne non lavorava e poteva occuparsi dei bambini, ma
nel mondo di oggi può rappresentare un fattore decisivo.
Inoltre, non è detto che il posto di lavoro duri. Chi dovesse essere licenziato, verrebbe
sfrattato, e poi sarebbe difficile trovare un altro posto senza avere un indirizzo
di residenza83. In frangenti del genere, la famiglia offre anche una rete di sicurezza, sia finanziaria
che emotiva: i giovani che perdono il lavoro possono tornare a vivere a casa dei genitori.
Fra gli uomini disoccupati in età lavorativa primaria, il 67 per cento vive a casa
dei genitori o di un parente stretto (un dato in crescita rispetto al 46 per cento
del 2000)84. È facile capire perché un individuo possa essere riluttante a lasciarsi alle spalle
questa comodità e questa sicurezza per trasferirsi in un’altra città.
83 Matthew Desmond, Evicted: Poverty and Profit in the American City, Crown, New York 2016 [trad. it., Sfrattati. Miseria e profitti nelle città americane, La Nave di Teseo, Milano 2018].
84 Mark Aguiar, Mark Bils, Kerwin Kofi Charles e Erik Hurst, Leisure Luxuries and the Labor Supply of Young Men, National Bureau of Economics Research (Nber) Working Paper n. 23552, 2017.
Per una persona che perde il lavoro, per esempio, nel settore dell’industria manifatturiera,
dopo aver passato gran parte della propria carriera a lavorare nella sua città natale
per un unico datore di lavoro, tutto questo è aggravato dal trauma di dover ricominciare
da capo. Invece di passare da un impiego confortevole a una tranquilla pensione, come
succedeva spesso ai loro padri, viene chiesto loro di resettare le loro aspettative,
trasferirsi in una città dove nessuno li conosce e cominciare partendo dal fondo facendo
un lavoro che non avrebbero mai immaginato di dover fare. Non c’è da stupirsi che
preferiscano rimanere dove sono.
Il Comeback Cities Tour
Se per le persone è difficile lasciare le aree in difficoltà economica, perché non
sono i posti di lavoro a venire da loro? Le aziende potrebbero sicuramente trarre
vantaggio dall’ampia disponibilità di manodopera e dal minor costo dei salari e degli
affitti nelle contee dove altre aziende hanno chiuso i battenti. È un’idea che gira:
nel dicembre del 2017 Steven Case, il miliardario cofondatore di Aol, e James David
Vance, l’autore di Elegia americana, un elogio funebre dell’America profonda, hanno creato il fondo di investimenti Rise
of the Rest, che è finanziato da alcuni dei miliardari più famosi d’America (da Jeff
Bezos a Eric Schmidt) e ha come obbiettivo di investire in Stati tradizionalmente
trascurati dagli investitori tecnologici. Un tour in pullman (il Comeback Cities Tour)
ha portato un gruppo di investitori della Silicon Valley in posti come Youngstown
e Akron nell’Ohio, Detroit e Flint nel Michigan e South Bend nell’Indiana. I promotori
dell’iniziativa hanno sottolineato fin da subito che non si trattava di un fondo a
impatto sociale, ma di un’impresa a scopo di lucro. Sulle pagine del «New York Times»,
in un articolo sul tour85 e in un altro sul fondo stesso86, molti investitori della Silicon Valley hanno messo l’accento sulla congestione,
l’autoreferenzialità e l’alto costo della vita dell’area della baia di San Francisco,
e delle grandi opportunità che offre l’«America profonda».
85 Kevin Roose, Silicon Valley Is Over, Says Silicon Valley, «New York Times», 4 marzo 2018.
86 Andrew Ross Sorkin, From Bezos to Walton, Big Investors Back Fund for ‘Flyover’ Start-Ups, «New York Times», 4 dicembre 2017.
Al di là delle chiacchiere, però, ci sono buoni motivi per essere scettici. Il fondo
è dotato di appena 150 milioni di dollari, pochi spiccioli per le possibilità dei
suoi finanziatori. Bezos ha sostenuto l’iniziativa, ma non tanto da inserire Detroit
nella lista ristretta delle città prese in considerazione per creare il secondo quartier
generale di Amazon. La speranza, evidentemente, era di creare una certa eccitazione
intorno al progetto, far partire qualche impresa e fare un po’ di battage pubblicitario
intorno ai primi investitori per incoraggiarne altri. Aveva funzionato per Harlem,
perché non dovrebbe funzionare per Akron? Peccato che Harlem faccia parte di Manhattan,
dove i terreni scarseggiano e gli stimoli e le attrattive abbondano. Il rilancio di
Harlem era inevitabile, prima o poi sarebbe successo. Siamo meno ottimisti riguardo
ad Akron (o South Bend o Detroit). È difficile, per queste città, offrire il tipo
di attrattive che la maggior parte dei giovani benestanti ricerca oggigiorno: bei
ristoranti, bar eleganti e caffè dove poter consumare espressi costosissimi serviti
da baristi filosofi. In altre parole, siamo di fronte al problema dell’uovo e della
gallina: i giovani lavoratori con alto livello di istruzione non sono disposti a venire
in questi posti se non esistono questi servizi, ma questi servizi possono prosperare
solo se c’è un numero sufficiente di lavoratori del genere in circolazione.
La verità è che le aziende, in quasi tutti i settori, tendono a concentrarsi in uno
stesso luogo. Immaginiamo di tirare delle freccette a caso su una mappa degli Stati
Uniti: i buchi lasciati dalle freccette saranno distribuiti più o meno equamente su
tutta la cartina. Invece, la mappa reale di un qualunque settore appare molto diversa,
come se qualcuno avesse tirato tutte le freccette nello stesso punto87. La causa, probabilmente, ha a che fare con la reputazione, almeno in parte: i compratori
potrebbero guardare con diffidenza a un’azienda di software che sorge in mezzo ai
campi di granturco. E sarebbe anche difficile reclutare lavoratori se ogni volta che
c’è bisogno di un nuovo dipendente toccasse convincere qualcuno a trasferirsi all’altro
capo del paese, invece di limitarsi a portarlo via all’azienda vicina. Ci sono anche
ragioni normative: i regolamenti urbanistici spesso cercano di concentrare le industrie
inquinanti in un unico posto e i ristoranti e i bar in un altro. Infine, le persone
che lavorano in uno stesso settore in molti casi hanno preferenze simili (quelli dell’high-tech amano i caffè, i finanzieri adorano fare sfoggio della loro ricchezza comprando costose
bottiglie di vino) e la concentrazione rende più facile offrire i servizi che amano.
87 Glenn Ellison e Edward Glaeser, Geographic Concentration in U.S. Manufacturing Industries: A Dartboard Approach, «Journal of Political Economy», CV, 5, 1997, pp. 889-927.
La concentrazione ha una sua logica per tutte queste ragioni, ma comporta anche che
è molto più difficile cominciare dal basso e crescere. Se siete l’unica azienda di
biotecnologie nei monti Appalachi, per voi sarà inevitabilmente complicato. Noi ci
auguriamo che il Comeback Cities Tour abbia successo, ma non siamo ottimisti (e non
corriamo a comprare casa a Detroit).
Eisenhower e Stalin
La vera crisi migratoria non è rappresentata da un eccesso di migrazioni fra un paese
e l’altro. Nella maggior parte dei casi, l’immigrazione non comporta nessun costo
economico per la popolazione autoctona e porta dei benefici evidenti per i migranti.
Il vero problema è che le persone spesso non sono in grado o non sono disposte a trasferirsi
altrove, sia all’interno che all’esterno del loro paese natale, per trarre vantaggio
dalle opportunità economiche. Questo significa che un governo lungimirante dovrebbe
ricompensare le persone che si trasferiscono, e magari addirittura penalizzare quelle
che si rifiutano di farlo?
Può sembrare una tesi peculiare, considerando che il dibattito sull’emigrazione in
questo momento verte soprattutto sui modi per limitarla, ma negli anni Cinquanta i
governi di Stati Uniti, Canada, Cina, Sudafrica e Unione Sovietica si impegnavano
tutti con entusiasmo in politiche di spostamento più o meno forzato delle persone.
Queste politiche spesso rispondevano a scopi politici non dichiarati ma brutali (per
esempio la soppressione di gruppi etnici turbolenti), ma solitamente si ammantavano
del linguaggio della modernizzazione, che metteva in risalto i limiti dei tradizionali
assetti economici. I programmi di modernizzazione nei paesi in via di sviluppo spesso
si sono ispirati a questi esempi.
Nel terzo mondo c’è anche una lunga tradizione di governi che usano le politiche dei
prezzi e le misure fiscali per favorire il settore urbano a scapito delle campagne.
Negli anni Settanta, in Africa, molti paesi crearono i cosiddetti comitati per la
commercializzazione dei prodotti agricoli. Era un nome beffardo, visto che lo scopo
di molti di questi organismi era impedire la commercializzazione dei prodotti agricoli, in modo da consentire all’organismo
stesso di acquistare il raccolto ai prezzi più bassi, stabilizzando i prezzi per gli
abitanti delle città. Altri paesi, come l’India e la Cina, vietarono l’esportazione
dei prodotti agricoli per mantenere i prezzi ai livelli desiderati dai consumatori
urbani. Un effetto collaterale di queste politiche fu che l’agricoltura diventò un’attività
poco redditizia, e le persone furono incoraggiate ad abbandonare le campagne. Naturalmente,
queste misure danneggiarono i più poveri, i piccoli coltivatori e i braccianti senza
terra, che a volte non avevano i soldi per trasferirsi altrove.
Questa triste storia non deve farci perdere di vista la logica economica che sta alla
base delle misure per incoraggiare l’emigrazione. La mobilità (interna e internazionale)
è un canale fondamentale per allineare il tenore di vita nelle diverse regioni e paesi
e per assorbire gli alti e bassi economici delle varie regioni. Se i lavoratori si
spostano, potranno approfittare delle nuove opportunità e lasciare le aree colpite
da avversità economiche: è così che un’economia riesce ad assorbire le crisi e adattarsi
alle trasformazioni strutturali.
Per quelli fra noi (inclusa la maggior parte degli economisti) che vivono già nei
paesi più ricchi e nelle città di maggior successo, sembra talmente ovvio che dove
stiamo noi le cose vanno meglio che diamo per scontato che tutti gli altri vogliano
venirci. Per gli economisti, la forza di attrazione dei posti di successo in generale
è un fenomeno positivo. Per gli abitanti delle città nei paesi in via di sviluppo
o per i residenti dei paesi ricchi, d’altra parte, l’idea che tutto il mondo voglia
venire da loro è una prospettiva che atterrisce: si immaginano masse di persone che
vengono a contendergli le scarse risorse di cui dispongono, dai posti di lavoro alle
case popolari, fino ai parcheggi per le auto. Questo timore di fondo, che i migranti
possano provocare una riduzione dei salari e delle prospettive occupazionali per gli
autoctoni, è infondato, ma la paura del sovraffollamento, specie nelle città disordinate
del terzo mondo, non è del tutto ingiustificato.
Il timore di essere sopraffatti è all’origine anche delle inquietudini sull’assimilazione.
Se arrivano troppe persone con una cultura differente (dai cugini di campagna che
si trasferiscono nelle città indiane ai messicani che si stabiliscono negli Stati
Uniti), verranno assimilate oppure trasformeranno la cultura del luogo di destinazione?
Oppure si assimileranno a tal punto che la loro cultura scomparirà, lasciandoci tutti
con un insipido aroma di uniformità globalizzata? Un’utopia di spostamenti perfetti
e istantanei in risposta a qualsiasi differenza di opportunità economica rischierebbe
di trasformarsi in una distopia.
Comunque, questa utopia/distopia per il momento è lontanissima. Le persone che faticano
a sbarcare il lunario nel posto in cui vivono non sono irresistibilmente attratte
dalle città e dalle regioni in boom economico e spesso preferiscono rimanere dove
sono.
Tutto questo fa pensare che incoraggiare l’emigrazione, sia interna che esterna, dovrebbe
essere effettivamente una priorità, ma che il modo giusto per farlo non è costringere
le persone o distorcere gli incentivi economici, come è stato fatto in passato, ma
rimuovere alcuni degli ostacoli principali.
Snellire l’intero processo e comunicarlo in modo più efficace, in modo che i lavoratori
abbiano una comprensione molto migliore dei costi e dei benefici dell’emigrazione,
sarebbe d’aiuto. Anche rendere più facile per i migranti e le loro famiglie spedire
e farsi spedire denaro aiuterebbe a rendere i migranti meno isolati. Considerando
il timore spropositato che hanno di fallire, offrire ai migranti un certo grado di
protezione dal fallimento potrebbe essere un’opzione: quando si è fatta questa prova
in Bangladesh, gli effetti sono stati quasi altrettanto rilevanti dell’offerta del
biglietto del pullman88.
88 Bryan, Chowdhury e Mobarak, Underinvestment in a Profitable Technology cit.
Ma il modo migliore per aiutare (e quindi forse incoraggiare) i migranti e al tempo
stesso rendere gli autoctoni più accoglienti probabilmente è facilitare la loro integrazione.
Offrire assistenza abitativa (sovvenzioni per pagare l’affitto?), servizi di incontro
fra domanda e offerta di lavoro prima dell’emigrazione, sussidi per gli asili nido
e così via permetterebbe a chiunque arriva di trovare rapidamente il suo posto nella
società. Questo discorso vale sia per la mobilità interna che per quella internazionale.
In questo modo, i potenziali migranti che tentennano sarebbero più inclini a tentare
l’avventura e potrebbero diventare più rapidamente parte del tessuto esistente della
comunità che li ospita. Oggi siamo praticamente nella situazione opposta: fatta eccezione
per gli sforzi di alcune organizzazioni per aiutare i rifugiati, non viene fatto nulla
per facilitare l’adattamento delle persone. I migranti internazionali devono affrontare
una vera e propria corsa a ostacoli per guadagnarsi il diritto di lavorare legalmente.
I migranti interni non han