Prefazione
Questo volume si apre descrivendo come i nazisti divisero comunità, famiglie e individui.
Negli anni Trenta i tedeschi respinsero e al tempo stesso strattonarono il nazionalsocialismo.
Molti di loro disprezzavano i nazisti, ma fecero dei compromessi strada facendo. Eppure
la maggioranza si identificava con il Terzo Reich e riteneva che i nazisti avessero
sanato le ferite della storia tedesca. Alla fine della guerra per i tedeschi fu molto
difficile fare i conti con il desiderio politico con cui inizialmente avevano guardato
ai nazisti e con la successiva sensazione di esserne stati traditi, o valutare la
parte che ciascuno di loro aveva svolto, insieme ai propri connazionali, nel costruire
la comunità razziale e nel sostenere la guerra e il genocidio, o ancora riconoscere
le finalità sostanzialmente rivoluzionarie del nazionalsocialismo. I dibattiti e le
analisi del dopoguerra hanno tormentato per decenni le famiglie tedesche da una generazione
all’altra, come so per esperienza diretta, visto che i miei genitori erano nati nella
Berlino di Weimar. Queste conversazioni fanno ormai parte della storia, e occorre
riconoscere gli sforzi per analizzare il proprio passato che i tedeschi di ogni estrazione
sociale ed età hanno, in fin dei conti, compiuto. Si tratta di un’opera difficile,
ammirevole e addirittura esemplare.
Dati i legami della mia famiglia con la Germania questo libro è stato in divenire
per parecchi decenni. Il lavoro di ricerca e di stesura degli ultimi anni si è onorato
del sostegno dell’Università di Costanza e del Center for Advanced Study e del Research
Board dell’Università dell’Illinois. Ringrazio il mio ex studente Jim Wrzosek per
l’aiuto che mi ha dato nelle ricerche. Sono grato anche per le critiche ricevute dal
German Colloquium dell’Illinois, per le approfondite letture di Jeff Hayton, Joe Perry
e Jonathan Huener e per l’impegno profuso nell’inverno del 2007 dalla classe di Jonathan
(presso l’Università del Vermont), e in particolare da Katherine Rendall e Jessica-Lyn
Wagar. Un grazie anche ai miei valorosi studenti, Annamarie Stone, Erin Blaze e Jesse
Glim, per aver discusso la bozza di un capitolo di fronte al loro insegnante a Urbana.
Anche mia moglie, Karen Hewitt, ha letto il manoscritto fornendo utili commenti. La
Harvard University Press ha coinvolto lettori eccellenti e ha fornito un’assistenza
redazionale di grande esperienza. Nel complesso sono molti i debiti intellettuali
che ho contratto, da Chicago a Filadelfia, da Tel Aviv a Berkeley e a Berlino. Vorrei
perciò dedicare questo libro a coloro che negli ultimi quarant’anni sono stati i miei
indispensabili maestri: Ruth Marx, Anne Wheeler, Earl Bell, Thomas Childers e Gerald
Feldman.
Abbreviazioni utilizzate nelle note
BAB: Bundesarchiv Berlin
NARA: National Archives and Record Administration, College Park, Md.
RG: Record Group
USSBS: U.S. Strategic Bombing Survey
Introduzione
Nel 1940 ebbe molto successo in Germania un libro che dava una descrizione molto precisa
delle fasi iniziali dell’Olocausto. Esso analizzava le spietate violenze contro i
civili e le dinamiche psicologiche tra coloro che le commettevano. La vicenda era
ambientata all’inizio della guerra. Le autorità hanno messo sotto sorveglianza i quartieri,
assegnando ai cittadini documenti di riconoscimento contrassegnati da colori (rosso,
rosa e bianco) per classificarne l’affidabilità politica. Quando una chiesa brucia
i soldati arrivano e radunano sulla piazza del mercato uomini, donne e bambini per
spedirli a est. Gli ultimi beni dei deportati vengono confiscati. I soldati chiudono
i civili in capannoni, minacciando di darli alle fiamme. A un certo punto si trovano
a discutere se sia morale uccidere le donne, e uno di loro rifiuta decisamente di
farlo. Fucilano i bambini con la giustificazione che «tra dieci anni saranno uomini».
Successivamente «liquidano» chi si attarda in fondo alla colonna. I prigionieri impauriti
si avvertono sussurrando: «Toglietevi gli occhiali!». Il comandante infatti intende
«distruggere tutta la nostra classe intellettuale» ed eliminerà chiunque porti gli
occhiali. Quando due colonne di deportati si incrociano, uno di costoro osserva: «Ecco
che aspetto abbiamo [...] anche se purtroppo nessun altro ci può vedere»; è evidente
che l’opinione pubblica mondiale ignora la triste sorte dei deportati. Il libro descriveva
in dettaglio i maltrattamenti, le percosse e le altre violenze deliberatamente inflitte
ai prigionieri da membri di altri gruppi etnici.
Nel suo reportage in forma narrativa, Der Tod in Polen (Morte in Polonia), Edwin Erich Dwinger anticipava molti elementi dell’assassinio
sistematico di civili ebrei da parte degli Einsatzkommandos – unità mobili di sterminio agli ordini delle Ss – avvenuto a partire dall’estate
del 1941, dopo l’invasione tedesca dell’Unione sovietica. Inoltre, Dwinger prendeva
in esame alcune caratteristiche specifiche dell’occupazione tedesca della Polonia,
tra cui l’incarcerazione e l’eliminazione degli intellettuali. Eppure, il tema del
libro non era costituito dagli assassini compiuti dai tedeschi, ma dalle deportazioni
e dai massacri compiuti da reparti militari o paramilitari polacchi ai danni dei gruppi
di lingua tedesca. Sebbene il resoconto delle atrocità polacche commesse a Bydgoszcz
(Bromberg in tedesco) durante e dopo la «domenica di sangue» del 3 settembre 1939
(due giorni dopo l’invasione della Polonia) fosse pressoché inventato, Dwinger descriveva
la guerra moderna come un’attività tipicamente orientata al genocidio, il cui principale
bersaglio era costituito dai civili. Uno dei tedeschi liberati dalla Wehrmacht faceva
alcune considerazioni sul destino che attendeva la Polonia: «Persino se le sue città
fossero totalmente distrutte, se la sua classe intellettuale cadesse in battaglia
o se un terzo dei suoi abitanti perisse sotto il diluvio di proiettili, nessuna di
queste conseguenze della guerra mi apparirebbe ingiusta». In realtà, prima ancora
che i lettori aprissero il libro di Dwinger l’invasione della Polonia da parte della
Germania e le forze d’occupazione di quest’ultima avevano realizzato gran parte di
questo programma.
A un primo livello, Der Tod in Polen offriva una giustificazione per la distruzione della nazione polacca, trasformando
delle specifiche atrocità in una condizione generale di guerra. Il resoconto di Dwinger
divenne uno dei testi principali utilizzati nei seminari e negli incontri organizzati
dal corpo militare scelto del nazismo, le Schutzstaffel o Ss, per i reparti da inviare in Polonia e in Unione sovietica. In un seminario
del 1940, nei punti di discussione sul libro era scritto: «Dietro questi crimini non
c’era semplicemente la plebe; ad essi hanno partecipato anche gli intellettuali polacchi,
con l’acquiescenza dei rappresentanti della Chiesa. Chi è, dunque, il vero colpevole?
L’Inghilterra (gli ebrei). A est qualsiasi misura presa dai tedeschi, per quanto severa,
è giustificata. Occorre dura disciplina del pensiero e del sentimento!»1. Lo spostamento del bersaglio dagli intellettuali polacchi agli «ebrei» annunciava
l’escalation della guerra tedesca contro i paesi e la gente d’Europa. Poiché di fatto
i tedeschi si calarono quasi perfettamente nel ruolo spietato che Dwinger attribuiva
ai polacchi, Der Tod in Polen appare come una sorta di manuale di istruzioni. Dwinger aveva riflettuto attentamente
sulla dinamica dell’uccisione dei civili. Da questo punto di vista egli aveva scritto
un libro molto utile agli invasori tedeschi.
Tuttavia, Der Tod in Polen sviluppava anche con cura una fantasia nella quale i tedeschi immaginavano se stessi
come vittime degli stessi crimini che avrebbero poi commesso contro polacchi, russi
ed ebrei. È importante tener presente il contesto specificamente tedesco del libro.
Dwinger, pur avendo ottenuto il suo primo successo con i «diari» in cui aveva descritto
le esperienze da lui fatte nella guerra civile nella Russia degli anni 1918-1921,
non riutilizzò alcun materiale precedente. Egli negava anzi che le atrocità avessero
origine comunista o bolscevica. Tra i tedeschi descritti in Der Tod in Polen vi è un personaggio che somiglia allo stesso Dwinger: un «vecchio siberiano» che
stabiliva una distinzione tra le deportazioni cui aveva assistito nella guerra civile
russa e le persecuzioni da lui commesse vent’anni dopo in Polonia: gli eserciti russi
che si scontravano avevano «fucilato migliaia di persone, ma ne avevano lasciate morire
decine di migliaia. L’accento è sulla parola ‘lasciate’. Le epidemie... questa è la
grande differenza». Il vecchio ricordava che il «commissario ebreo» dei bolscevichi
aveva ordinato di fasciare il «bianco» ferito che era stato catturato: «Avete mai
sentito un polacco dire qualcosa di simile?»2.
Poiché nel 1940 il Patto di non aggressione nazista-sovietico era ancora valido, il
punto è non tanto il fatto che Dwinger assolvesse deliberatamente i comunisti, ma
che ciò gli servisse a creare un soggetto specificamente anti-tedesco. Der Tod in Polen ripercorreva una versione nazionalsocialista della storia dopo la Prima guerra mondiale.
I nazisti ritenevano che la Germania fosse mortalmente minacciata da un gruppo di
pericoli militari e geopolitici: la Polonia, il Trattato di Versailles, che aveva
ridisegnato i confini della Germania a vantaggio della Polonia, ma anche i conflitti
politici e sociali e la degenerazione razziale emersi nel 1918 con l’imprevista sconfitta
della Germania. Il nazionalsocialismo riteneva che la sua missione storica fosse quella
di rianimare la Germania come patto di razza, rendendo permanenti la solidarietà nazionalista
del 1914 ed evitando una nuova «pugnalata alla schiena» come quella del 1918.
I nazisti guardavano alla vita politica come perenne lotta tra i popoli, nei termini
di un crudo darwinismo sociale. Fu questa la premessa della guerra di conquista e
di saccheggio che essi combatterono in tutta l’Europa dal 1939 al 1945. Ma il concetto
di vita come lotta non coglie pienamente il modo drastico in cui i nazionalsocialisti
concepivano il mondo circostante. Il pericolo cui si trovavano di fronte i tedeschi
all’interno e all’esterno dei confini del Terzo Reich era gravissimo, come dimostrava Der Tod in Polen, e andava collocato in uno specifico contesto storico. I nazisti erano ossessionati
dalla sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale e dalla conseguente «Rivoluzione
di Novembre» del 1918. Pur avendo costruito uno Stato militarizzato su basi razziali
che appariva pressoché invincibile ai suoi avversari, i nazisti paventarono ripetutamente
la fine della Germania ad opera dei polacchi, dei bolscevichi, degli ebrei e di altri
nemici. La propaganda nazista era zeppa di numeri sui tedeschi minacciati di sterilizzazione,
sterminati e inceneriti3. Questa visione della storia in termini di accerchiamento, che i nazisti condividevano
con molti tedeschi, aiuta a spiegare le fantasie naziste di violenza estrema. I nazionalsocialisti
avevano smosso completamente il terreno sul quale stavano.
Nel Terzo Reich, dunque, vita e morte erano strettamente intrecciate. Il modo in cui
i nazisti promossero il loro ideale di vita tedesca era inestricabilmente legato alla
quasi-morte sperimentata dalla Germania nel 1918. I nazisti attuarono ai danni dei
loro avversari lo stesso annientamento che ritenevano incombesse sui tedeschi. La
violenza dei nazisti fu così eccessiva, e il loro senso di libertà rispetto alle convenzioni
morali così completo, che qualsiasi tentativo di spiegazione si smarrisce. Ma questo
contesto di funesti presagi per la Germania aiuta a comprendere la mentalità degli
autori di quei crimini. Invadendo nel 1941 l’Unione sovietica i nazisti intrapresero
una guerra che corrispondeva quasi perfettamente alle loro idee assolute. Essa poneva
la questione di vita o di morte, di sopravvivenza o di annientamento della nazione,
nei termini più radicali possibili. Tuttavia, il diabolico rapporto tra controllo
e rischio durò tutti i dodici anni di esistenza del Terzo Reich. L’attività politica
poggiava su una estrema fiducia e al tempo stesso su una enorme vulnerabilità: entrambi
gli stati d’animo coesistevano, producendo una costante radicalizzazione delle politiche
naziste. Il senso del possibile era avvolto in un’idea di necessità. Questa combinazione
sprigionò enormi energie, e milioni di tedeschi parteciparono alla vita pubblica per
rinnovare, proteggere e conservare la nazione. Allo stesso tempo il senso di urgenza
dei nazisti rendeva ancor più micidiali le loro direttive, in quanto essi ritenevano
che l’unico modo per assicurare la conservazione delle vite «degne» consistesse nel
distruggere quelle che consideravano «indegne», comprese le vite di coloro che erano
geneticamente «inadeguati», degli «asociali» e degli ebrei. Nelle pagine seguenti
si analizzano l’aspirazione dei nazisti a rigenerare la vita nazionale tedesca e la
convinzione parallela che a tal fine essi dovessero distruggere la vita su scala sempre
maggiore.
Adolf Hitler e i seguaci del nazismo scatenarono, incrementarono e combatterono a
oltranza, fino all’amara fine nel maggio del 1945, una brutale guerra mondiale. Il
nazionalsocialismo promise ai tedeschi un’esistenza sicura e prospera e cercò di mantenere
tale promessa devastando altri paesi e condannando a morte altre persone. Furono quaranta
milioni coloro che persero la vita in Europa in conseguenza della Seconda guerra mondiale:
quasi il 10 per cento della popolazione del continente. Più di metà delle vittime
furono civili, soprattutto in Europa orientale. Tra costoro vi furono sei milioni
di ebrei: circa due terzi degli ebrei che vivevano in Europa nel 1940. Queste cifre
sono abissi quasi insondabili, ma indicano come l’impero tedesco allargato che i nazisti
stavano creando si basasse sull’intenzione di trasformare con la violenza «paesi e
popoli» in «spazi e razze»4. Il nazionalsocialismo fu tanto micidiale non perché moderno o efficiente o burocratico,
ma perché riteneva di essere la specifica soluzione della storia tedesca, il modo
in cui un popolo in pericolo cercava di rendersi invincibile5.
In quanto progetto di rinnovamento sociale e di conquista imperiale, il nazionalsocialismo
pose al popolo tedesco richieste eccezionali. Non si trattò semplicemente di tasse
o di servizio militare. Il nazismo intendeva stimolare i tedeschi ad agire come unità
etnica cosciente di sé. Esso si impegnò a modificare il modo in cui i tedeschi si
guardavano reciprocamente, affinché riconoscessero nella comunità nazionale di cui
facevano parte un soggetto attivo della storia mondiale. Ed effettivamente uno scopo
del libro di Dwinger era quello di affermare il primato dei destini etnici, evidenziando
il rischio mortale cui i polacchi avevano esposto i tedeschi. Per molti versi, il
successo politico del nazismo si basava sulla capacità di ciascun tedesco di vedere
il mondo attraverso le lenti del cameratismo razziale e della lotta alle altre razze.
Pertanto, un altro intento di questo libro è quello di esplorare in che modo i tedeschi
si identificarono nel nuovo ordine razziale nazionalsocialista e collaborarono con
esso. In altri termini: fino a che punto i tedeschi, negli anni 1933-1945, divennero
nazisti?
La natura del rapporto tra i due nomi collettivi, «tedeschi» e «nazisti», è una questione
storiografica molto dibattuta, ma cruciale. A lungo gli storici hanno usato quei termini
per denotare gradi di mutua esclusione, anziché forme di equivalenza. Sebbene l’esistenza
di un nucleo di fanatici fedelissimi del nazismo non sia mai stata posta in discussione,
gli studi storici hanno sottolineato il carattere superficiale del sostegno politico
di cui i nazisti avevano goduto nelle elezioni dell’era di Weimar e l’insincerità
delle loro affermazioni sulla Volksgemeinschaft (la «comunità del popolo») dopo il 1933. Gli studiosi hanno concluso che alcuni gruppi
sociali di fondamentale importanza, come gli operai e i contadini, e persino una parte
delle classi medie, mostrarono scarso entusiasmo per il nuovo regime. Pur riconoscendo
la popolarità di Hitler, hanno sostenuto che sia il partito nazionalsocialista sia
molte delle sue politiche sociali ed economiche erano privi di una legittimazione
di base6. Secondo questa visione, i nazisti sarebbero stati simili a predatori, e la maggioranza
dei tedeschi sarebbe stata opportunista in senso politico e debole dal punto di vista
morale, ma, almeno in linea di massima, non sarebbe stata ideologicamente complice.
Modelli politici come il totalitarismo, che non ha mai catturato l’interesse degli
storici, sono arrivati, da una diversa direzione, a conclusioni analoghe. Le indagini
più recenti sulla società tedesca all’epoca del nazismo, e in particolare le «storie
di vita quotidiana», hanno mostrato che forme di collaborazione più attiva, ma in
ogni caso limitata, con il nazismo si verificavano quando i cittadini negoziavano
con le autorità vantaggi, risorse e spazi più ampi7. Anche in quest’ottica i nazisti appaiono sorprendentemente autonomi rispetto al
popolo tedesco: mentre i cittadini comuni si preoccupavano della propria esistenza,
i capi perseguivano piani di guerra e di conquista.
Negli ultimi vent’anni, nell’ambito della «svolta culturale» negli studi del comportamento
umano, gli storici hanno riconsiderato l’interscambio ideologico tra «tedeschi» e
«nazisti», sottolineandone le comuni inclinazioni culturali e politiche di matrice
ottocentesca, l’automobilitazione dei gruppi professionali, soprattutto nell’area
delle scienze biomediche, e la legittimazione di fondo della «comunità del popolo»
e dei suoi precetti razziali8. Recenti indagini hanno anche guardato in modo più attento ai modi in cui il nazismo
fu attivamente costruito dal basso. La partecipazione di ampi settori della società
tedesca al progetto nazista creò una serie di relazioni di complicità. In certa misura,
questo spostamento del dibattito equivale a vedere il bicchiere mezzo pieno anziché
mezzo vuoto. I limiti reali del successo nazista non devono oscurare la drammatica
trasformazione politica avvenuta sotto la loro supervisione, o la rapidità con cui
essi ottennero il riallineamento delle fedeltà. Tuttavia, pochi studiosi hanno accettato
la radicale affermazione secondo cui la maggior parte dei tedeschi aveva in comune
con i capi nazisti un consenso antisemita inteso in termini «di sterminio» e secondo
cui il nazismo non avrebbe fatto altro che avere il coraggio di mettere in pratica
idee precedentemente concepite9.
La mia tesi propende per la seconda linea di interpretazione, ma il mio scopo non
è semplicemente sostenere che i nazisti fossero più numerosi, e i tedeschi più vicini
al nazionalsocialismo, di quanto non si sia pensato. Occorre analizzare anche i diversi
punti di vista, di desiderio, fascino e sgomento con cui i tedeschi affrontarono la
rivoluzione nazista. In quanto vasto progetto di rinnovamento politico, sociale e
razziale, il nazionalsocialismo offriva al popolo tedesco diverse modalità di partecipazione.
I tedeschi guardarono alle politiche naziste con paura, opportunismo e carrierismo
e con diversi gradi di convinzione ideologica. E l’elenco potrebbe allungarsi ulteriormente
per includere la pigrizia, l’indifferenza e l’ignoranza. Tutte queste motivazioni
vanno tenute presenti. Tuttavia, il nazionalsocialismo esercitò sui cittadini forti
pressioni affinché si convertissero, riconoscessero la credibilità della «comunità
del popolo» e si riconoscessero reciprocamente come «camerati di razza». I nazisti
progettarono contesti istituzionali per produrre questa conversione, e in particolare
i campi comunitari, per i quali passarono milioni di tedeschi. Ciò implicava una riflessione
degli individui, ciascuno per proprio conto, su tutta la questione del diventare – diventare nazionalsocialisti, camerati o tedeschi con mentalità razziale, rimanere
fedeli al vecchio o entrare a far parte del nuovo. Ognuno si trovò alle prese con
domande sull’importanza di allinearsi, sull’opportunità di stare al gioco e sulla
responsabilità dell’individuo nei confronti della collettività. In tal modo le meticolose
distinzioni degli studiosi a proposito delle motivazioni furono oggetto di riflessione
critica anche nella Germania nazista. Si discuteva molto sulla moralità delle direttive
contro gli ebrei, sull’eutanasia e sulla conduzione della guerra. Gli esiti di questo
esame variavano da persona a persona, ma era il processo a conferire ad essi una inflessione ideologica. Ciò che i tedeschi arrivarono a condividere
nel Terzo Reich fu proprio questa lotta.
Inoltre, le tremende condizioni economiche alla fine della Repubblica di Weimar, quando
sei milioni di persone non riuscivano a trovare lavoro né ad assicurarsi un futuro,
e l’umiliazione della sconfitta militare e del Trattato di Versailles, che nell’immaginazione
popolare sembrava ricollegarsi a tutta una serie di periodiche catastrofi nazionali
– dalla Grande Inflazione del 1922-1923 alla Grande Depressione del 1930-1933 –, rendevano
i tedeschi più disponibili all’idea di convertirsi a una serie di nuove idee e di
accettare la possibilità che i nuovi inizi richiedessero il ricorso alla violenza.
Anche prima del 1933 il lessico catastrofico sugli inizi e le fini aveva proposto
insistentemente le alternative di nuove scelte. Già in precedenza più di un terzo
degli elettori tedeschi aveva votato per i nazionalsocialisti, e altri avevano partecipato
a varie insurrezioni nazionaliste contro la Repubblica di Weimar. Milioni di individui
erano aperti alle idee di una rigenerazione nazionale.
Lettere e diari forniscono indicazioni preziose sullo sforzo di accettazione del nazionalsocialismo
da parte dei tedeschi. Non sono forse rappresentativi ma sono sicuramente eloquenti.
Ho usato ampiamente questo tipo di fonti poiché esse colgono qualcosa delle conversazioni
che avvenivano tra tedeschi. Rivelano le paure, i desideri e le riserve dei contemporanei,
e mostrano in che modo questi adattassero alla vita quotidiana le parole e le idee
nazionalsocialiste. Il genere del diario corrispondeva anche all’opera autobiografica
incoraggiata dagli stessi nazisti nei campi comunitari che essi crearono in tutta
la Germania. La rivoluzione nazionalsocialista accentuò l’autoanalisi. Tenere un diario
in privato o scrivere una lettera poteva rafforzare la posizione liberale di un individuo
o fornire giustificazione e conferma a idee naziste10. Utilizzando concetti politici, chi scriveva un diario o una lettera trasferiva quegli
stessi concetti nel campo del possibile. Karl Dürkefälden descrisse i modi in cui
gli operai socialdemocratici della città di Peine, in Bassa Sassonia, spiegavano a
se stessi il loro «allineamento» al nazismo. Il diario di Lore Walb discusse il significato
dell’essere «camerati». Le pagine autobiografiche del 1940 di Elisabeth Brasch soppesarono
i pro e i contro dell’esperienza del Reichsarbeitsdienst, il Servizio del lavoro. Nelle sue lettere Elisabeth Gebensleben tentò di fornire
alla figlia incredula una giustificazione per la persecuzione degli ebrei tedeschi.
Suo figlio cercò di mettere d’accordo le proprie convinzioni nazionalsocialiste con
l’amore per una «ebrea di sangue misto» o Mischling (come si chiamava chi aveva uno o due nonni di origini ebraiche). Nelle sue annotazioni
di diario Erich Ebermayer tentò di dar senso alla propria gioia per l’Anschluss dell’Austria. Il diario di Franz Göll registrò la sua profonda impressione di fronte
al trittico di Otto Dix, Der Krieg, esposto a Berlino nell’ambito della mostra sull’«Arte degenerata». Bastava la presenza
su uno scaffale del libro di Erich Maria Remarque Nulla di nuovo sul fronte occidentale per innescare discussioni infinite sulla natura della guerra. Le lettere dal fronte
documentavano le necessità poste dalla guerra totale, compreso l’ordine di sparare
a civili innocenti. Verso la fine della guerra Lieselotte G., autrice di un diario,
fece grandi sforzi per mettere a tacere le sue riserve nei confronti di Hitler. I
testi autobiografici rivelano opinioni diverse e sfumate, e mostrano in che modo l’opera
di riflessione chiamasse costantemente in causa opinioni contrapposte. I diari hanno
registrato lo sforzo della conversione.
Le discussioni sulla guerra e sulla pace condotte dai tedeschi sono particolarmente
interessanti in quanto avvenivano sullo stesso terreno ideologico degli ideologi nazisti,
pur senza necessariamente arrivare alle stesse loro conclusioni. Tra gli amici e all’interno
delle famiglie c’erano grandi divergenze di vedute sul libro di Remarque, il che giustifica
sia il sospetto che il suo resoconto realistico, nonostante la messa al bando di un
autore «pacifista» da parte dei nazisti, fosse ancora ritenuto rilevante, sia il desiderio
di attribuire un qualche significato di riscatto alla guerra conclusasi con la sconfitta
della Germania. Le celebrazioni deliranti ogni volta che si abbatteva una delle clausole
del Trattato di Versailles – Saar, Wehrmacht, Austria, Sudeti – non tolgono l’avversione
pubblica nei confronti di un altro conflitto europeo. Durante la Seconda guerra mondiale
i tedeschi desiderarono disperatamente che la guerra finisse al più presto, ma al
tempo stesso combatterono per evitare quella che essi immaginavano sarebbe stata una
catastrofe nazionale devastante come quella del novembre 1918. È sorprendente fino
a che punto lo spettro del 1918 ricorresse nelle conversazioni, soprattutto dopo il
1943 e dopo la sconfitta dei tedeschi a Stalingrado. Tuttavia, questa ossessione per
il 1918 era il prodotto della storia nazista, non il prolungato effetto dell’originaria
esperienza traumatica. Uno dei grandi successi dei nazisti fu la standardizzazione
della leggenda della «pugnalata alla schiena»11.
Basta un’occhiata alla sala d’attesa di uno studio dentistico di Dresda a confermare
la confusione di idee che regnava sulla storia tedesca: «sotto l’immagine di Hitler
che è d’obbligo, nella libreria le opere complete di Heine, Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, matricola dell’associazione studentesca, diverse storie della guerra
mondiale e di un particolare reggimento di fanteria». Victor Klemperer, che registrò
questa scena nel suo diario, traeva la seguente conclusione riguardo al medico: «certamente
non è un nazi». Ma forse l’accomodamento era più dinamico di quanto indicato da Klemperer,
la foto di Hitler era meno inevitabile e le storie della guerra mondiale colpivano
non meno del romanzo di Remarque12. Oppure si prenda il caso del romanziere Heinrich Böll. Arruolato come soldato nella
Wehrmacht a ventidue anni, fu contrario all’eutanasia, ma anche lui preferì a Remarque
un autore nazionalista come Ernst Jünger e, pur odiando i nazisti per aver fatto di
lui un assassino, sperò nella vittoria della Germania. Novembre 1918, Versailles,
il riarmo tedesco, le guerre di Hitler e la prospettiva di vittoria o sconfitta delineavano
una sorta di Sonderweg, una «via speciale» della sofferenza nazionale che dal 1933 al 1945 fu in cima ai
pensieri di milioni di tedeschi. Le risposte che essi trovarono non sempre erano coerenti
con il nazionalsocialismo, ma le domande che ponevano indicano fino a che punto essi
identificassero la propria vita con il destino e gli sforzi collettivi della nazione.
Questa identificazione dava alle affermazioni dei nazisti sulla comunità del popolo
un notevole grado di legittimazione.
Nei commenti sul 1933 i tedeschi notavano spesso la violenza dei nazisti, l’arresto
degli oppositori politici e la creazione di campi di concentramento. Questi ultimi,
tuttavia, erano presentati come elementi nuovi ma in qualche modo lontani: diari e
lettere generalmente non descrivevano un’atmosfera paurosa. Essi non hanno lasciato
dietro di sé i segni di una società terrorizzata. E sebbene i diari citino Hitler,
si ricordino del suo compleanno il 20 aprile e spesso lo chiamino «il Führer», quest’ultimo
per le persone che vivevano nel Führerstaat non era, come si potrebbe pensare, la figura centrale. Sulla scena politica comparivano
nella maggior parte dei diari le attività locali del partito nazionalsocialista e
delle sue organizzazioni ausiliarie, le Sa, le Ss, le organizzazioni femminili, la
Gioventù hitleriana e il Servizio del lavoro. Il principale punto di riferimento non
era il carisma di Hitler, ma il progetto nazista; i principi-guida non erano le parole
di Hitler, ma le idee naziste.
Colpisce anche un’altra cosa: la radio era costantemente accesa. I suoni e le luci
della «rivoluzione nazionale» trascinavano sia i simpatizzanti che gli scettici. I
media mettevano in scena ciò cui tanti tedeschi disperatamente anelavano: le prove
della rigenerazione politica nazionale. Le cronache contemporanee indicano che i tedeschi
generalmente si ponevano verso il loro prossimo come persone pronte a mobilitarsi,
a prendere in considerazione posizioni naziste o ad avvicinarsi ad esse, e somiglianti
talvolta ai personaggi imbronciati di un romanzo di Irmgard Keun, che spegnevano la
radio quando parlava Göring «perché ho sempre la sensazione di essere rimproverato»13. I diari mostrano non solo le modalità di funzionamento delle pressioni sociali (il
nazismo, gli ebrei e la guerra erano tra i temi di conversazione più frequenti), ma
registrano anche l’attrazione esercitata dal nazionalsocialismo e dal suo attivismo
sociale tra gli amici e i parenti dei diaristi. Molti di coloro che tenevano un diario
si ritirarono dai precetti della vita pubblica, in una sorta di «emigrazione interna»,
ma continuarono a coltivare le narrazioni delle tribolazioni vissute dalla Germania
dopo il 1918. Questi testi autobiografici, insieme ad altri documenti, confermano
che durante il Terzo Reich i tedeschi erano soggetti consapevoli e capaci di riflettere
su se stessi non meno che nella Repubblica di Weimar. Il nazionalsocialismo per riuscire
nei suoi intenti non si servì della seduzione, della paralisi o dell’ipnosi. Per milioni
di persone esso era a volte sconcertante, a volte sensato. In realtà, «la disponibilità
della maggior parte delle persone [...] a discutere delle proprie esperienze politiche»
colpiva i visitatori del Terzo Reich14.
Gli ebrei tedeschi finirono per guardare a tutto ciò dall’esterno, e per molti versi
in modo più acuto. Anch’essi si sforzarono di comprendere la natura del nazismo e
i motivi della sua forza d’attrazione sui tedeschi. Il diario di Victor Klemperer,
ebreo tedesco convertitosi al protestantesimo fin dalla gioventù e docente di letteratura
francese al Politecnico di Dresda fino al 1935, quando i nazisti lo costrinsero a
lasciare l’insegnamento a cinquantaquattro anni di età, documenta dettagliatamente
i cambiamenti nei suoi giudizi sui nazisti. Pur convincendosi sempre più che il nazismo
poggiasse su una vasta base di consenso popolare, egli continuò a prestare attenzione,
più della maggior parte dei diaristi non ebrei, ai piccoli gesti e alle sfumature
verbali che segnalavano come i tedeschi non fossero totalmente ammaliati dal nazismo.
Se nei diari di Klemperer c’è un motivo unificante, esso risiede nel suo sforzo incessante
per collocarsi in una posizione in cui dopo la caduta del nazismo sarebbe stato possibile
riconciliarsi con la Germania. Klemperer riconobbe la forza d’attrazione delle idee
naziste, ma sottolineò gli elementi di paura, conformismo e scetticismo.
Durante la guerra Klemperer a un certo punto comprese che la Germania nazista sarebbe
stata sconfitta, ma come altri cronisti ebrei in tutta Europa non era certo che gli
ebrei riuscissero a sopravvivere fino alla liberazione. Per gli ebrei la comprensione
degli scopi di guerra del nazismo e dell’Olocausto fu inevitabilmente molto più completa
che per la maggior parte dei tedeschi. Tuttavia, la guerra per gli ebrei europei si
rivelò una trappola. Molti dei loro diari s’interrompono all’improvviso durante il
conflitto, testimoniando con il silenzio la deportazione e la morte dell’autore. I
tedeschi non ebrei avevano invece un numero maggiore di opzioni. Essi potevano persino
prepararsi psicologicamente alla fine della guerra e alla caduta del nazismo. Riflettendo
sul bombardamento di Amburgo del 1943, in cui perse la maggior parte dei suoi averi,
lo scrittore Hans Erich Nossack rifiutava di autocommiserarsi: «da compatire» erano
piuttosto «coloro che si trovano ancora sul ciglio dell’abisso e dubitano di poterlo
superare, poiché pensano ancora come si doveva pensare quando ci si trovava dall’altra
parte, schiacciati tra ieri e domani». Se il resto della Germania era ancora legato
al futuro del Terzo Reich, Nossack occupava un altro «presente», o forse era sgusciato
oltre i «confini del tempo»15. E tuttavia nell’ultimo anno di guerra milioni di tedeschi, chi prima e chi poi,
superarono effettivamente l’abisso di cui parlava Nossack, ponendo fine al loro investimento
emotivo nel regime nazista, nella comunità del popolo e nella vittoria tedesca. Questo
cambiamento in molti casi fu vissuto come umiliazione, poiché implicava l’annullamento
di molti anni di sforzi ed energie investiti nel progetto nazista. Dopo il 1945, una
combinazione di vergogna e cinismo rese molto più difficile ricostruire, attraverso
i ricordi postbellici, i percorsi di conversione politica che più di ogni altra cosa
avevano condotto i tedeschi alla catastrofe della guerra.
Il termine «abisso» utilizzato da Nossack illustra bene il modo in cui molti tedeschi
finirono per rimuovere la consapevolezza della guerra e dell’Olocausto. Mentre Klemperer,
che selezionava le parole con molta cautela, accumulava sapere critico, Nossack dissolveva
ciò cui aveva assistito in una irresistibile catastrofe naturale che lo lasciava a
mani vuote. La scelta, come egli stesso riconobbe, era tra «confessare e dimenticare,
senza terze possibilità»16. L’analisi dei diari e delle lettere mi consente di dare all’indagine un ulteriore
obiettivo: analizzare ciò che i tedeschi sapevano della campagna di genocidio ai danni
degli ebrei e ciò che tedeschi ed ebrei avrebbero potuto sapere e comprendere degli
eventi che oggi indichiamo con il termine Olocausto. L’approssimarsi della fine della
guerra produsse nei tedeschi un senso di inutilità, di impotenza e persino di vittimismo.
Molti tedeschi hanno descritto la sconfitta del 1945 come «crollo» totale della loro
esistenza nazionale. Ci vollero diversi decenni prima che dall’immaginario dell’«abisso»
emergesse una comprensione più precisa dell’articolazione dello Stato razziale nazista,
dell’Olocausto e della partecipazione attiva degli individui al nazionalsocialismo.
Per molti versi, il concitato esito finale della Seconda guerra mondiale, dalla Normandia
a Berlino, lasciò in ombra la ricerca sull’Olocausto. Ma in ogni caso la figura solitaria
di Nossack, saltato dall’altra parte dell’«abisso», era profondamente diversa dalle
vittime immaginarie di Dwinger, poiché Nossack non guardava più alla storia tedesca,
come aveva fatto Dwinger, per riscattare la perdita. La prospettiva di Nossack rendeva
molto più facile formulare giudizi critici sulla storia tedesca.
Immagini come «abisso» o «crollo» sono ingannevoli. Esse indicano quanto sia difficile
scrivere dell’Olocausto o comprenderlo, e dar conto dell’accumularsi di azioni individuali
che condussero allo sterminio di massa. Il nazionalsocialismo ha inferto un terribile
colpo al pensiero occidentale; nemmeno un pensatore radicale come Friedrich Nietzsche
avrebbe potuto immaginare l’Olocausto. Le informazioni sulla guerra condotta dai nazisti
contro gli ebrei erano note e venivano raccolte, ma non era facile trasformarle in
consapevolezza del genocidio. In effetti l’intero fenomeno del nazismo è una sfida
di fondo alla possibilità di spiegarlo, cosa che le categorie sociali e politiche
convenzionali non sembrano in grado di fare in modo adeguato. L’analisi dei rapporti
di classe, dei contesti sociali e delle privazioni materiali non riescono a superare
questo limite. La dittatura e il terrore non spiegano l’entusiasmo pubblico o lo sforzo
di conversione individuale. Gli stessi nazisti sostenevano che il loro movimento si
distingueva proprio in quanto il nazionalsocialismo affondava le sue radici nel pensiero
razziale collettivo. Mentre Karl Marx affermava che l’essere (Sein) influenzava la coscienza (Bewusstsein), i nazisti presupponevano che si potesse rovesciare tale principio, che la coscienza
determinasse l’essere17. In altri termini, una visione del mondo poteva aprire la prospettiva di un mondo.
Nella misura in cui i nazisti ridefinirono il mondo e riuscirono ad avviare il popolo
tedesco sulla strada che indicavano, gli studiosi devono prendere sul serio l’ideologia
nazionalsocialista e i suoi concetti di comunità, nazione e razza. È importante sapere
in che modo i tedeschi di allora si confrontarono con il nuovo lessico e il senso
che gli diedero. Ne deriva un’idea inquietante: i tentativi di comprendere il nazionalsocialismo
sono necessariamente invischiati nelle stesse premesse politiche e categorie linguistiche
del nazionalsocialismo. I nazisti fanno paura perché hanno ampliato la nozione di
ciò che è politicamente e moralmente possibile nel mondo moderno.
La mia argomentazione si basa su una interpretazione preesistente, secondo cui il
nazionalsocialismo si sviluppò a partire da una dinamica della politica tedesca iniziata
nel 1914 e secondo cui la guerra e la rivoluzione mobilitarono il popolo tedesco in
progetti di rinascita della nazione18. Questi progetti accrebbero, all’inizio della Repubblica di Weimar, le fortune dei
socialdemocratici e delle altre forze repubblicane, ma favorirono anche la levata
di scudi ultranazionalista contro i paesi che avevano sconfitto la Germania nella
Prima guerra mondiale e contro le vecchie élite monarchiche che non erano riuscite
a vincere la guerra. L’aspirazione a un nuovo ordine dominò l’orizzonte politico di
Weimar e in ultima analisi favorì i nazionalsocialisti, che combinarono populismo,
razzismo e nazionalismo in una forma di mobilitazione giovanilistica. Le emergenze
politiche ed economiche alla fine della Repubblica di Weimar rafforzarono l’idea che
solo un nuovo corso potesse riabilitare la Germania. Tra il 1930, quando iniziò la
Grande Depressione, e il 1933, quando giunse al potere il Partito nazionalsocialista
dei lavoratori tedeschi, la maggioranza degli elettori che cambiarono schieramento
passò dalla parte dei nazisti, che a luglio del 1932 raggiunsero il 37 per cento dei
voti, o dei comunisti, che a novembre del 1932, nelle ultime libere elezioni, con
il 17 per cento dei voti arrivarono quasi a superare i socialdemocratici. Questa ascesa
parallela preparò la scena per il brutale attacco lanciato dai nazisti, dopo l’ascesa
di Hitler al potere il 30 gennaio 1933, contro i comunisti e contro le altre forze
marxiste. Il senso di crisi e di urgenza implicava la necessità per i nazisti di mantenere
le promesse elettorali di «pane e lavoro». I nazisti mossero i primi passi per affrontare
i tremendi problemi politici ed economici della Germania attaccando in maniera violenta
i loro avversari politici. Ma è importante ricordare che essi avevano accumulato un
considerevole capitale politico. I loro successi travolgenti all’inizio degli anni
Trenta erano stati favoriti dalla capacità di attrarre elettori di tutti i gruppi
sociali, compresi i cattolici e gli operai dell’industria. Milioni di tedeschi videro
nella presa di potere nazista del 1933 una «rivoluzione nazionale» che segnava una
cesura fondamentale della storia tedesca, incoraggiando i simpatizzanti e paralizzando
gli oppositori. Grazie al costante miglioramento del mercato del lavoro nel 1933 e
1934, l’ideale nazionalsocialista della comunità del popolo arrivò a godere di ampia
legittimazione.
Dopo il 1933 un numero sempre maggiore di tedeschi prese parte al progetto nazista
di rinnovamento nazionale su base razziale. I nazionalsocialisti collegarono molto
efficacemente le sventure individuali dei tedeschi negli anni di Weimar a quelle della
nazione, che secondo loro era stata ridotta a malpartito da numerosi nemici interni
ed esterni: ebrei, comunisti, Alleati. Questo collegamento dava credibilità all’idea
di nazione come unità organica in pericolo, il cui ripristino avrebbe migliorato la
vita degli individui di tutte le posizioni sociali. Sempre più tedeschi arrivarono
a credere che solo l’unità nazionale garantisse la pace sociale e la stabilità economica.
Come risultato, le realtà sociali e politiche furono sempre più interpretate attraverso
le lenti della comunità anziché della classe. Man mano che la propaganda e l’attivismo
sociale dei nazisti, ispirati all’ideale della comunità del popolo, delegittimavano
l’orgoglio di status e di nascita, la gente avvertiva una maggiore sensazione di uguaglianza.
L’eguaglianza sociale restava incompleta, ma la semplice necessità dell’assistenza
sociale e del restante lavoro di ricostruzione bastò a rafforzare l’idea secondo cui
la vita nazionale poteva essere, e sarebbe stata, ricreata.
Tuttavia, il processo di rinnovamento fu condizionato a ogni passo dall’emergenza.
I nazisti non credettero mai che fosse possibile condurre la Germania fino a un porto
sicuro; dal loro punto di vista, la vita collettiva era sempre minacciata sia dall’interno
che dall’esterno. Questo senso di azzardo ebbe l’effetto di accelerare la mobilitazione
continua della società. Esso contribuisce a spiegare la dinamica inesorabile, distruttiva
e, in ultima analisi, autodistruttiva della Germania nazista. Il concetto nazionalsocialista
di razza drammatizzava ognuno degli elementi dell’equazione del rinnovamento nazionale.
I pericoli, una volta definiti in chiave razziale, apparivano più spaventosi, le soluzioni
diventavano più drastiche e la mobilitazione richiesta sempre più ampia e destinata
a sfociare nella guerra. Per i nazisti la razza agì come forza di moltiplicazione
esponenziale.
Nel primo capitolo, Rianimare la nazione, vengono analizzati sia la forza d’attrazione della comunità del popolo che i modi
in cui le immagini deformanti dell’acclamazione nazionale ebbero un effetto fuorviante
e al tempo stesso attraente. All’ambizione dei nazisti di ricomporre la nazione come
patto di razza e allo sforzo dei tedeschi per adattarsi alla nuova identità razziale
è dedicato il secondo capitolo, Ripulire la razza. Qui l’analisi si trasferisce nel tempo congiuntivo della politica, si sofferma sullo
sforzo di creare una nuova etica coerente con il cameratismo razziale, di aderire
ai nuovi standard egualitari, di emarginare la vita «indegna» e di attaccare il benessere
e gli interessi degli ebrei tedeschi. La realizzazione più completa del nazionalsocialismo
ebbe luogo durante la guerra, che i nazisti consideravano uno stato permanente dell’esistenza,
necessario per l’espansione e la sopravvivenza della razza tedesca. Il terzo capitolo,
L’impero della distruzione, prende in esame sia il nuovo ordine imperiale che i nazisti iniziarono a creare
nei territori conquistati in Polonia e nell’Unione sovietica, sia la dinamica di distruzione
incondizionata che condusse all’Olocausto. Date queste finalità, la vita dei tedeschi
significava morte per altri. Il quarto capitolo, Intima consapevolezza, analizza la percezione della guerra, dell’Olocausto e della prospettiva della sconfitta
della Germania nazista da parte dei tedeschi e degli ebrei. Il capitolo si sofferma
su questioni di comprensibilità e di interpretazione, chiedendosi che cosa pensavano
di vedere le vittime. Si esaminano anche i modi in cui la colpevole consapevolezza
del crimine tedesco si intrecciò alla paura di un crollo totale.
L’analisi dello sforzo dei tedeschi per diventare nazisti riveste un ruolo centrale
nell’ambito della mia tesi. Per questo prendo in esame la forza d’attrazione delle
idee nazionalsocialiste – il desiderio, ma anche la difficoltà di accettare gli standard
di comportamento nazisti – e la misura in cui durante il Terzo Reich i tedeschi fecero
scelte politiche intenzionali, consapevoli e informate. La moralità delle scelte fu
anzi un tema-chiave nella vita intellettuale dei cittadini. Lo scopo dei nazisti era
quello di creare tra i tedeschi una nuova coscienza nazionale e razziale, rendendoli
così consapevoli, e complici, dei nuovi progetti razziali. Questa ardita, letale e
autodistruttiva collaborazione in nome di una nuova Germania rivitalizzata è il tema
dei capitoli che seguono.
«Heil Hitler!»
Nel settembre del 1938, mentre la crisi dei Sudeti si surriscaldava per le pretese
di Hitler sui territori di lingua tedesca della Cecoslovacchia, Victor ed Eva Klemperer,
andando in auto da Dresda a Lipsia, si fermarono in un locale «per i viaggiatori di
lungo percorso», con «le gigantesche vetture davanti al ristorante, le gigantesche
ed economiche porzioni all’interno». Mentre entravano nel locale, la radio iniziava
a trasmettere i discorsi del raduno del partito nazista a Norimberga: «Fanfara, urla
di giubilo, poi il discorso di Göring, sulla straordinaria ascesa, il benessere, la
pace, la felicità dei lavoratori in Germania [...]. Ma la cosa più interessante è
stata», annotava Klemperer, «il comportamento degli avventori, che andavano e venivano,
accolti e accomiatati da un ‘Heil Hitler’. Nessuno ascoltava i discorsi. Io stesso
riuscivo a capire solo a fatica; perché c’era della gente che giocava a carte e batteva
rumorosamente la carta sul tavolo e teneva una conversazione chiassosa. All’altro
tavolo erano più tranquilli: uno scriveva una cartolina, l’altro prendeva appunti
sull’agenda, e uno leggeva il giornale. La padrona del ristorante e la cameriera parlavano
tra loro o con i giocatori. Davvero non un solo individuo tra quelle dozzine di persone
si è preoccupato anche per un solo secondo di ascoltare la radio, avrebbe potuto benissimo
essere spenta o trasmettere un fox-trot». «Il comportamento degli avventori» – questo
è il tema di fondo che Klemperer cercava di analizzare attraverso l’osservazione della
vita quotidiana. Egli era costantemente alla ricerca di quella che chiamava la vox populi per trarne indizi sul consenso popolare a favore di Hitler e dei nazisti, ma nessuna
voce era mai definitiva. «[...] qual è la realtà, che cosa sta accadendo?», si chiedeva
Klemperer a proposito del Terzo Reich1.
Da allora, gli studiosi si sono andati ponendo sempre la stessa domanda. Con la pubblicazione,
nel 1995, dei diari di Victor Klemperer gli storici hanno a disposizione uno dei più
dettagliati resoconti di prima mano sulla vita nella Germania nazista; eppure, come
Klemperer, non sono sicuri di come leggere i fatti. Che cos’è più significativo: l’automatico
Heil Hitler dei camionisti o il loro disinteresse verso la radio? Klemperer descriveva i suoni
e le luci nuovi del Terzo Reich, ma non era sicuro che i riti avessero realmente cambiato
l’atteggiamento dei tedeschi. La scena nel locale per camionisti coglie perfettamente
i due volti del dibattito sul nazionalsocialismo. Da una parte, gli storici sottolineano
come i tedeschi non ebrei accettassero il nazismo quale condizione normale della vita
quotidiana o addirittura celebrassero il nuovo ordine. Dall’altra parte, sottolineano
come i tedeschi badassero soprattutto ai fatti propri, facendo attenzione a immischiarsi
il meno possibile nell’apparato del partito nazista.
Vale la pena di esaminare più da vicino le interazioni quotidiane e il modo in cui
esse si modificarono negli anni successivi alla presa del potere da parte di Hitler
nel gennaio 1933. Pochi mesi dopo, non esisteva persona che non avesse alzato il braccio
destro in qualche occasione esclamando Heil Hitler! I più lo facevano anzi varie volte al giorno. Si potevano ancora sentire gli altri
saluti – il Moin di Amburgo, il guten Tag di Berlino, il Grüss Gott della Baviera –, ma Heil Hitler! penetrò così capillarmente nel lessico dei cittadini che la caduta del nazismo nel
1945 fu spesso ricordata come il momento dopo il quale «non dovemmo più dire Heil Hitler!». Il suo uso fu reso obbligatorio nelle comunicazioni ufficiali redatte da funzionari
pubblici già nel luglio del 1933. A scuola gli insegnanti entravano in classe salutando
gli studenti con Heil Hitler!; lo stesso facevano i controllori sui treni della Deutsche Reichsbahn quando passavano
a controllare i biglietti e gli impiegati delle poste agli sportelli. Lo stesso Klemperer
nell’estate del 1933 era sorpreso, nella sua università, di vedere «negli uffici [...]
sempre gli impiegati salutarsi tra loro con la mano alzata». Erika Mann, figlia del
romanziere Thomas Mann, stimò che i bambini usassero il saluto Heil Hitler! cinquanta, o forse centocinquanta volte al giorno, e comunque «infinitamente più
spesso dei saluti neutri di un tempo». Ma che cosa ci dicono il saluto, il braccio
alzato e il riferimento accidentale al Führer, a proposito del rapporto tra tedeschi e nazisti durante il Terzo Reich? Fino a che
punto i tedeschi erano veramente nazisti?2
Che il saluto di Hitler fosse obbligatorio per i dipendenti pubblici conferma il potere
dittatoriale del regime. Dopo la guerra molti dichiararono di aver usato il saluto
Heil Hitler! perché costretti o per paura. Specialmente nei primi mesi del nuovo regime i fedelissimi
nazisti chiesero subito che il saluto fosse usato in pubblico da tutti i cittadini.
Nell’estate del 1933 i turisti che visitavano le principali mete di Weimar videro
cartelli nei negozi, nei ristoranti e negli alberghi in cui si leggeva l’«incoraggiante
comando: ‘I tedeschi si salutano con Heil Hitler!’». Nell’ottobre del 1933 il «saluto tedesco» divenne obbligatorio nel teatro di Lipsia
in cui lavorava Erich Ebermayer. «Chi può fare a meno di stare al gioco?», confidava
al suo diario l’oppositore del nazismo; «al lavoro Heil Hitler! è ormai diventato il mio saluto». Se i tedeschi si salutavano sempre più spesso con
Heil Hitler! diventava sempre più difficile non rispondere allo stesso modo. Questa dinamica rende
difficile stabilire se tanti si fossero convertiti, o fossero semplicemente conformisti.
È anche chiaro che tanti tedeschi non si adeguarono affatto. Alcuni hanno ricordato
che a volte attraversavano la strada per evitare di salutare qualcuno, o riducevano
le pubbliche manifestazioni di fedeltà a «mormorii e cenni impercettibili». Nelle
regioni prevalentemente cattoliche della Germania meridionale o nei quartieri socialdemocratici
e comunisti il saluto hitleriano si udiva più raramente. I Testimoni di Geova lo rifiutarono
apertamente. «Sapete qual è il nuovo saluto?», chiedeva qualcuno pochi mesi dopo l’ascesa
al potere di Hitler: «il dito indice davanti alle labbra»3.
E tuttavia, per ogni persona che avvertiva la pressione a conformarsi ce n’era un’altra
che esercitava quella pressione e insisteva in favore di quel saluto. Con Heil Hitler! il partito mirava a ricomporre il corpo dei tedeschi; l’arco disegnato dalla mano
destra sollevata fino a formare un angolo di fronte al corpo amplificava vistosamente
la rivendicazione fisica dello spazio pubblico da parte dei nazisti. Il gesto assertivo
era accompagnato da una dichiarazione politica priva di ambiguità. Diversamente dal
buongiorno, dal guten Tag che mirava a una riconciliazione tra conoscenti senza ulteriori specificazioni, l’esortativo
Heil Hitler! era un tentativo assertivo di creare e sancire una unità politica. Heil Hitler! esprimeva il desiderio di tanti tedeschi di far parte della comunità nazionale e
di prendere parte al rinnovamento del paese. Tra questi senza dubbio c’erano gli infermieri
e le infermiere che un amico di Klemperer vide nell’aprile del 1933 raccolti «intorno
all’altoparlante» nella sala di ritrovo dell’ospedale. «Quando sentono cantare la
Canzone di Horst Wessel (tutte le sere, e anche altre volte) si alzano e sollevano il braccio per il saluto
nazista»4.
Heil Hitler! poteva essereutilizzato anche per rivendicare un riconoscimento sociale, in quanto sostituiva nell’uso
quotidiano saluti più deferenti. Quando il postino salutava i vicini con un ostentato
Heil Hitler! segnalava che era un Volksgenosse, un compagno del popolo e un loro pari. Allo stesso modo, il capo che all’ingresso
della mensa di fabbrica accoglieva gli operai in precedenza esclusi non cancellava
le differenze sociali, ma riconosceva i nuovi diritti di cui godevano i suoi dipendenti.
Persino nello spazio privato della casa amici e familiari si salutavano con Heil Hitler!, indicando fino a che punto i fedelissimi volessero riconoscere il posto assunto
nella loro vita personale dalla rivoluzione nazionale di Hitler. Con quell’aggressivo
movimento del braccio verso l’alto e in avanti, Heil Hitler! occupava un nuovo spazio sociale e politico e lo rendeva disponibile al movimento
nazista. Esso abilitava i cittadini ad assumere una nuova identità politica e razziale,
a dimostrare il loro consenso verso la «rivoluzione nazionale» e a escludere gli ebrei
dalle interazioni sociali quotidiane. Mettere le parole Heil Hitler! solamente in bocca ai fanatici significa ignorare che i tedeschi si adeguarono più
o meno volontariamente all’ideale unitario della comunità del popolo.
Poiché il saluto era rivolto a Hitler, esso pone la questione del ruolo del Führer
nel creare consenso politico. La fedeltà a Hitler rafforzava il regime in modi critici,
ma limitava anche ciò che gli attivisti di partito potevano ottenere, poiché l’appoggio
a Hitler non implicava necessariamente un appoggio alle politiche naziste. In altri
termini, Heil Hitler! poteva senz’altro celare differenze tra i tedeschi e dare copertura a chi non era
in sintonia con il nazismo. Ma erano proprio coloro che consideravano Heil Hitler! nient’altro che un normale saluto servendosene per nascondere i propri dubbi a trasformarlo
in un luogo comune. Essi accrescevano il senso di acclamazione. A un osservatore esterno
pareva che tutti stessero diventando nazisti: impressione che aumentava la spinta
a conformarsi. Eppure chi era dentro non sapeva mai con certezza se l’appoggio al
regime fosse autentico o dubbio; non era chiaro il limite tra quelli che ci credevano
davvero e gli opportunisti. Per gli ebrei, tuttavia, la distinzione tra nazisti apparenti
e reali non faceva grande differenza, poiché essi, diversamente dagli altri tedeschi,
non avevano la possibilità di unirsi agli altri per salvare le apparenze; impossibilitati
a «essere ammessi» nel Terzo Reich, davano ancor più nell’occhio.
Moltissimi elementi portano a pensare che, una volta svanito l’iniziale periodo di
mobilitazione rivoluzionaria, l’uso del saluto Heil Hitler! si ridimensionasse. A Berlino in particolare, a metà degli anni Trenta i visitatori
si dicevano sorpresi di non udire spesso il «saluto tedesco». A Monaco «hanno smesso
di dire Heil Hitler!», affermava nel 1940 il corrispondente radio della Cbs William Shirer5. Se questo cambiamento indicasse un affievolirsi del consenso per i nazisti, o semplicemente
il ritorno a convenzioni più rilassate, è difficile da stabilire con certezza. Nel
settembre del 1941, durante il terzo mese della guerra contro l’Unione sovietica,
Klemperer riferì che a Dresda sempre più spesso ci si diceva «buon giorno» o «buona
sera». Per rendersene conto da solo, si mise a contare «quant’è la gente che nei negozi
dice: ‘Heil Hitler’ e quanta quella che dice: ‘buon giorno’». Risultato: «Pare che
i ‘buon giorno’ stanno aumentando. Dal panettiere Zscheischler cinque donne hanno
detto ‘buon giorno’ e due ‘Heil Hitler’. Alto. Dal pizzicagnolo hanno detto tutte
‘Heil Hitler’». «Io chi vedo e chi sento?», continuò a chiedersi Klemperer. Tuttavia,
quando la sconfitta della Germania divenne pressoché certa, l’equilibrio si spostò
decisamente a favore del «buon giorno». Nel febbraio del 1944 Franz Göll, che lavorava
in una tipografia di Berlino, confidò: «ormai il saluto Heil Hitler si sente raramente», oppure «ci si scherza su» dicendo heilt Hitler («curate Hitler»). «In casa» quel saluto era «addirittura disapprovato», proseguiva
Göll, ricordando così, indirettamente, che un tempo i suoi amici e familiari lo avevano
usato6.
Il tema Heil Hitler! illustra sia gli aspetti coercitivi che quelli autoassertivi della rivoluzione nazionale
del gennaio del 1933. Esso solleva la questione del carattere illusorio dell’acclamazione:
poiché tutti usavano salutare con Heil Hitler!, ciò non era più un indicatore affidabile di consenso per il regime. Ma gran parte
del potere del nazismo si basava su un’apparente unanimità che travolgeva i non seguaci
e li spingeva a riconsiderare le loro riserve. Ogni volta che si salutava con il braccio
alzato, l’effetto era quello di affievolire in qualche misura le ambigue relazioni
di vicinato e di contribuire alla costruzione del nuovo patto razziale nazionalsocialista.
Quando in una via di Berlino aumentava il numero delle persone che tornavano a dire
«buona sera» significava forse che le simpatie per il nazismo erano diminuite? Anche
gli storici, come Klemperer, stanno ancora contando gli Heil Hitler! fuori della panetteria Zscheischler di Dresda e continuano a chiedersi che cosa significasse
se i clienti dicevano «buonasera».
Fino a che punto i tedeschi appoggiarono i nazisti?
Pochi anni prima che i Klemperer si fermassero al locale per camionisti in Sassonia,
un giovane sociologo della Columbia University giunse a Berlino. Verso la fine di
giugno 1934 Theodore Abel prese alloggio in una pensione, uscì a fare una passeggiata
nell’animata zona di Potsdamer Platz e si fermò a bere qualcosa nel gigantesco centro
Haus Vaterland, con il suo vasto assortimento di ristoranti a tema. Anche Abel si
preoccupò di contare le persone che salutavano con Heil Hitler!, cosa che a suo dire accadeva «solo nei luoghi ufficiali», mentre nei «contatti quotidiani»
prevalevano «buongiorno» e «arrivederci»7. Abel era venuto a Berlino per lanciare un grande progetto di indagine sui nazisti,
che presentava un aspetto interessante. A differenza della maggior parte dei sociologi,
che campionano il gruppo oggetto di studio e lo analizzano per età, generazione e
classe sociale al fine di spiegare il comportamento politico in funzione della provenienza
sociale, Abel intendeva chiedere direttamente agli iscritti al partito il motivo per
cui erano diventati nazisti. Era il metodo dei case studies, introdotto dalla Chicago School of Sociology. L’approccio che egli intendeva adottare
consisteva nel chiedere ai «combattenti della prima ora», iscritti fin dagli anni
Venti al partito, di scrivere la propria autobiografia; a tal fine Abel doveva rivolgersi
al partito nazista.
Inizialmente il Ministero della Propaganda, cui Abel si era rivolto, rimase sulle
sue. Come Abel scrisse nel suo diario, «temevano che non rendessi giustizia agli aspetti
imponderabili e alla dichiarazione di fede, e che usassi solo il materiale fattuale».
Ma Abel assicurò che «era proprio per arrivare agli elementi imponderabili che avevo
concepito l’idea delle autobiografie». In altri termini egli voleva esplorare il fenomeno
nazista sulla base di testimonianze individuali, anziché ridurlo a statistiche generali.
Il partito allora bandì un concorso attraverso il quale raccolse centinaia di dichiarazioni
autobiografiche che furono messe a disposizione di Abel. Dall’indagine scaturì nel
1938 un volume, Why Hitler Came to Power, che presentava sei autobiografie approfondite. L’indagine rimane uno dei più efficaci
tentativi di analizzare le motivazioni politiche dei nazisti. Nelle sue conclusioni
Abel riconosceva l’importanza dei fattori sociali ed economici, ma sottolineava soprattutto
l’ideologia: il ruolo dell’esperienza della guerra, lo choc della sconfitta e la determinazione
a ringiovanire le strutture politiche della Germania. Per arrivare al nazismo non
c’erano sessanta milioni di vie8.
È mia intenzione adattare il metodo di Abel e presentare tre biografie basate su diari
e lettere, al fine di illustrare più dettagliatamente in che modo Heil Hitler! e «buonasera» convivessero nel Terzo Reich. La vita dei Gebensleben a Braunschweig,
nella Germania settentrionale, dei Dürkefälden nella vicina Peine e di Erich Ebermayer
a Lipsia rivela alcune modalità con cui i tedeschi, negli anni successivi alla presa
del potere, presero le distanze dal nazismo o si accostarono ad esso. Lo straordinario
diario di Victor Klemperer faceva delle ipotesi sul modo in cui i suoi conoscenti
non ebrei vedevano i nazisti. Inizialmente egli pensò che il regime facesse affidamento
sulla paura e sull’opportunismo; in seguito, pur senza abbandonare completamente tale
idea, Klemperer prese in considerazione affinità ideologiche e culturali di fondo.
Egli sostenne che il regime faceva sentire «gli ariani» a casa propria – l’espressione
usata da Klemperer era unter uns, «tra noi». Le lettere e i diari qui presentati offrono occasioni per analizzare
le idee di Klemperer e il modo in cui i tedeschi negli anni Trenta misero in gioco
se stessi, i loro rapporti con gli ebrei e il futuro del Terzo Reich.
Elisabeth Gebensleben, vivace moglie quarantanovenne del vice sindaco di Braunschweig,
era un’ardente sostenitrice nazista. Sia lei che i suoi figli appoggiavano da oltre un decennio l’«oppo-
sizione nazionale» alla Repubblica di Weimar. Come milioni di altri tedeschi, nel
1930 la Gebensleben e il marito avevano abbandonato il Partito tedesco nazional-popolare
(Dnvp), di orientamento monarchico, per sostenere i nazionalsocialisti. Elisabeth
descrive se stessa come il tipo di persona che quando prende in mano il giornale va
a leggere «prima le pagine della politica, poi il resto». Le sue lettere traboccano
di osservazioni politiche, e quelle a sua figlia Irmgard (o Immo), trasferitasi in
Olanda dopo le nozze, sono particolarmente dettagliate. Elisabeth ad esempio cercò
di evocare in qualche modo l’eccitazione del 30 gennaio 1933: «lunedì mattina» la
domestica dei Gebensleben «ha esclamato improvvisamente: ‘stanno issando un sacco
di bandiere di Hitler’». Frieda poteva vederle dalla finestra della sua stanza. «Subito
dopo è arrivato tuo padre, con l’edizione straordinaria del giornale. La sua faccia
era spalancata in un unico grande sorriso, e anch’io ho sorriso»: «finalmente, finalmente»,
«eccoci alla meta» dopo anni di «lotta». Per Elisabeth il momento storico era particolarmente
significativo: «un uomo semplice che aveva combattuto in trincea ha preso il posto
che fu di Bismarck». Era convinta che Hitler offrisse alla Germania la riconciliazione
sociale e politica9.
Agli occhi di una battagliera nazionalista come Elisabeth, il 30 gennaio coronava
anni di lavoro politico, ripudiando il tradimento rivoluzionario del 1918 in nome
dell’unità patriottica del 1914. Ciononostante, Elisabeth era preoccupata per le «battaglie
che verranno ora» e si chiedeva persino se Hitler non fosse arrivato «troppo tardi»
per sconfiggere i comunisti. In realtà i decreti presidenziali diedero al nuovo governo
poteri di polizia senza precedenti, specialmente dopo l’incendio del Reichstag della
notte del 27 febbraio 1933; in tutta la Germania la polizia e le truppe d’assalto
naziste (le Sa) arrestarono attivisti socialdemocratici e comunisti e chiusero giornali
e uffici sindacali. «A qualcuno l’azione inflessibile del governo nazionalista potrebbe
apparire strana», commentò Elisabeth dopo le elezioni del 5 marzo da cui la coalizione
nazista emerse vittoriosa, «ma prima dobbiamo fare una pulizia sistematica». Per essere
più precisi, «devono scomparire i comunisti e anche i marxisti» (termine con cui si
indicavano i socialdemocratici, l’unica forza politica tedesca fedele alla costituzione
repubblicana). Molto sospettosa verso i «comunisti che improvvisamente si trasformano
in nazionalsocialisti», Elisabeth rifiutava l’ingresso nella «comunità del popolo»
degli ex oppositori, che chiedeva di mettere «sotto osservazione per tre anni nei
campi di concentramento». Dato questo terrore, era poco sorprendente che la «Rivoluzione
da destra» mostrasse «più ordine e disciplina» della «Rivoluzione da sinistra» del
novembre 191810.
Con il graduale rafforzamento dei nazisti, le divisioni politiche divennero meno evidenti,
e si credette di intravedere l’unità della nazione, ancorché risciacquata nel terrore.
Le grandi celebrazioni della primavera del 1933 furono delle rivelazioni: la Giornata
di Potsdam, che il 21 marzo rappresentò l’alleanza tra Hitler e Hindenburg in coincidenza
con la sessione inaugurale del nuovo Reichstag; il compleanno di Hitler, il 20 aprile;
e infine il Primo Maggio, elevato a festa nazionale in onore dei lavoratori e simbolo
della loro integrazione nello Stato. Ovunque Elisabeth vedeva «entusiasmo nazionale»,
una «felicità delirante» e «la più profonda gratitudine». «Possibile che un solo uomo sia stato capace di tirar fuori tutto ciò, di rinsaldare un popolo diviso e impoverito?»11. Nonostante l’importanza di Hitler, l’attenzione di Elisabeth si concentrava sugli
aspetti esteriori dell’unità del popolo, sugli urrà, le marce, le bandiere con la
svastica e sui programmi radio in cui sembrava di udire un’unica voce collettiva.
A Elisabeth interessava, più che Hitler, il nazionalsocialismo.
Dall’Olanda, dove iniziavano ad arrivare profughi ebrei dalla Germania, Immo chiedeva
notizie della «vile e orribile campagna contro gli ebrei». Non era la prima volta
che Elisabeth era costretta a riflettere sulla violenza nazista. Il brutale trattamento
riservato al sindaco socialdemocratico di Braunschweig era da lei attribuito agli
«eccessi» che ogni movimento porta con sé (sebbene dopo il fortissimo aumento degli
attacchi alla sinistra seguito alle elezioni del marzo 1933 il figlio di Elisabeth
ammettesse che le «macchie nere» erano «numerosissime»). Il fatto che a Braunschweig
fossero stati danneggiati solo «negozi ebrei», scriveva Elisabeth, «ti potrebbe portare
a concludere che la colpa è stata dei nazisti», ma lei sapeva com’erano andate le
cose in realtà: a spaccare le vetrine erano stati dei «ragazzini ottusi». Tuttavia,
il boicottaggio delle ditte ebraiche, organizzato ufficialmente il 1° aprile 1933,
meritava una risposta più articolata. Elisabeth iniziava ammettendo che esisteva un
contrasto tra la «felicità» per gli eventi storici universali che si stavano svolgendo in Germania e la «simpatia»
per «il destino individuale». Ma subito dopo si concentrava sulla giustificazione del boicottaggio: per rispondere
alla «campagna diffamatoria» proveniente dall’estero «la Germania usa le armi che
ha». In altri termini, le vittime vere erano i tedeschi. Il successivo passaggio era
facilmente prevedibile, poiché spesso dalle considerazioni sulle sofferenze degli
ebrei si passava al tema delle sofferenze dei tedeschi: «Versailles» aveva sottratto
ai tedeschi «opportunità di vita», e ora i tedeschi reagivano nell’interesse dei «propri
figli» e «in modo assolutamente comprensibile». Il ragionamento di Elisabeth era viziato,
ma la sua posizione era che gli ebrei dovessero risarcire nel 1933 ciò che gli Alleati
avevano portato via nel 1919, ridimensionando la propria presenza nelle professioni
alla propria presenza sul totale della popolazione, «ossia all’uno per cento». Inoltre,
spiegava, «gli ebrei vogliono comandare, non servire». La prova: «avete mai sentito
parlare di una domestica o lavandaia ebrea?» (Elisabeth riportava qui un’osservazione
di Frieda, che le pareva il segno della effettiva possibilità che datori di lavoro
e dipendenti «ariani» facessero causa comune contro gli ebrei). La retorica della
lettera segnalava lo sforzo da compiere per diventare nazisti. Elisabeth si confrontava
con il terrore nazista, ma dopo un attimo di esitazione respingeva i fatti come casuali,
oppure li giustificava in nome della sofferenza tedesca. «Stasera parla Hitler», concludeva:
«devo assolutamente ascoltarlo» alla radio12.
I Gebensleben avrebbero avuto ancora modo di riflettere sulla propria identità di
sostenitori del nazismo e sul rapporto con gli ebrei. Elisabeth si gettò a capofitto
nel volontariato per l’organizzazione delle donne nazionalsocialiste, mentre suo figlio
Eberhard entrò a far parte delle Sa. Egli partecipò a vari campi d’addestramento,
prima come combattente paramilitare, poi come avvocato nel Ministero dell’Economia;
una nipote di Elisabeth divenne esponente di punta dell’Unione delle giovani tedesche
(Bund deutscher Mädel, Bdm). Corsi di leadership, campi d’addestramento, servizio paramilitare: questo
era il nuovo ritmo di vita per gli ambiziosi professionisti del Terzo Reich. Un guardaroba
sempre più nutrito di uniformi, distintivi, attestati e foto-ricordo documentava la
loro progressiva ascesa lungo la scala gerarchica. Durante la guerra, tuttavia, la
carriera di Eberhard fu messa a repentaglio dal suo innamoramento per Herta Euling,
una pianista che aveva tre anni più di lui e una nonna ebrea. Se i due giovani si
fossero sposati Eberhard sarebbe stato costretto a uscire dal partito nazionalsocialista,
che nel febbraio del 1944 respinse il suo appello e iniziò persino una indagine per
decidere se la sua iscrizione fosse ancora «accettabile». Il dilemma di Eberhard sulle
priorità nel Terzo Reich – fedeltà o amore, carriera o ideologia – fu discusso apertamente
e a lungo. La sua famiglia si oppose al matrimonio, ma conservò la sua opinione positiva
su Herta13. Eberhard era chiaramente un nazista convinto; uno dei suoi migliori amici ruppe
con lui proprio per questo. Tuttavia, egli giunse a rendersi conto che era possibile
guardare al Terzo Reich anche da altri punti di vista: per esempio da quello di Herta.
Come ufficiale tedesco, inoltre si trovò a guardare a se stesso attraverso gli occhi
dei civili olandesi anche quando, nel 1941, Immo gli fece promettere che venendo a
trovarla non avrebbe mai indossato l’uniforme degli occupanti tedeschi né avrebbe
mai parlato tedesco in pubblico. Le discussioni tra il fedele seguace del nazismo
e la sua fidanzata «di sangue misto» (di cui si sono completamente perdute le tracce)
o tra l’ufficiale della Wehrmacht e i suoi parenti olandesi non ebbero un esito definitivo.
Eberhard Gebensleben fu ucciso in Belgio nel settembre del 1944.
La famiglia di Elisabeth si identificava con il nazismo e partecipò alla costruzione
della comunità nazionalsocialista. Al contrario, Karl Dürkefälden si oppose al regime
per tutta la durata del Terzo Reich. Nato nel 1902, figlio di un capomastro di fabbrica,
iniziò a tenere un diario a trent’anni, quando si ritrovò disoccupato e, appena sposato,
costretto ad abitare con la moglie Gerda nella casa dei propri genitori a Peine. Le
sue annotazioni consideravano da vicino i temi del giorno, documentando così le lotte
operaie alla fine della Repubblica di Weimar e analizzando, dal 1933 in poi, le motivazioni
dei conoscenti che erano entrati a far parte del movimento nazista o che si erano
quanto meno riconciliati con il nuovo governo. Successivamente mise insieme notizie
locali sui pogrom del novembre 1938 contro gli ebrei tedeschi. Durante la Seconda
guerra mondiale raccolse con cura testimonianze oculari sul brutale trattamento dei
prigionieri di guerra russi spediti nella sua regione come lavoratori schiavi e sull’uccisione
di ebrei nei territori sovietici occupati dalla Germania. Karl descrisse accuratamente
il quartiere operaio in cui viveva, evidenziando l’esistenza di divisioni politiche
tra destra e sinistra che a Peine non erano meno profonde rispetto a Braunschweig,
che si trovava a soli 25 chilometri di distanza. Ma Dürkefälden riuscì a narrare una
storia cui Elisabeth Gebensleben non aveva accesso: quella dei modi in cui le conversioni
dalla classe operaia contribuirono a creare il nazionalsocialismo.
Mentre Elisabeth considerava gli eventi del gennaio del 1933 una trionfale «Rivoluzione
da destra», Karl descrisse gli stessi con il termine più vago di Umwälzung, un rivolgimento improvviso e inatteso, nel quale molti dei suoi conoscenti compirono
una rapida Umstellung, adattandosi e convertendosi al nazismo. La natura della conversione fu diversa di
famiglia in famiglia. Karl fu sorpreso dalla rapidità con cui suo padre, sua madre
e sua sorella Emma si trasformarono in entusiastici sostenitori del nazismo. I tre
andarono persino alla taverna di Kaune per ascoltare in diretta radio le celebrazioni
del 21 marzo a Potsdam. Quando Karl fece notare che i nazisti della zona avevano arrestato
alcuni giovani operai e occupato una sede dei sindacati, suo padre replicò in dialetto:
Ordnung mot sein, «ci vuole ordine». Secondo il padre di Karl «i nazisti non avrebbero fatto danno».
Nel frattempo Karl e Gerda andarono a visitare i genitori di lei, che vivevano vicino
Hannover: «naturalmente abbiamo parlato anche della situazione politica. Non hanno
cambiato opinione». Nemmeno il cognato di Karl, Walter Kassler, si era «adattato».
Ma tra le righe si capiva che molti altri conoscenti di Karl si erano convertiti.
Per esempio Hans Kinne, marito di un’amica della moglie di Karl, «è diventato nazista
per ragioni di lavoro, per salvare le apparenze». Il barbiere di Peine faceva parte
delle Sa, ma secondo Karl solo «per motivi di lavoro». Il fatto che egli aggiungesse
in un secondo tempo all’annotazione le parole «non tanto» fa pensare che inizialmente
Karl avesse difficoltà a credere che tante persone si fossero convertite per ragioni
diverse dall’opportunismo. Solo in seguito gli apparve chiaro che la convinzione aveva
avuto anch’essa una parte importante. L’Umstellung dipendeva anche da come le persone vedevano il futuro. Un altro amico di famiglia,
Hermann Aue, «(molto a sinistra)», pensava che i nazisti sarebbero scomparsi entro
un anno, e per questo tendeva a restare fedele ai socialdemocratici. Ma diversi comunisti
che si diceva fossero entrati in un gruppo locale delle Sa sospettavano che i nazisti
rimanessero in circolazione per un bel po’. Come disse uno di loro, «quando sei con
i lupi devi correre nel branco»14.
Karl ha lasciato un quadro impressionante delle celebrazioni del Primo Maggio a Peine.
Egli descrisse le bandiere, le marce, i canti, i discorsi che rendevano onore agli
operai tedeschi e lodavano Hitler. Il coro Waldesgrün assicurò il consueto intrattenimento
ma, notava Karl, aveva già reciso i legami con la federazione dei cori operai di orientamento
socialista. Quasi tutti sembravano travolti dall’eccitazione. Le strade erano piene.
Karl e Gerda, tuttavia, rimasero affacciati a guardare «dalla finestra della cucina»:
«non volevamo unirci alle urla di saluto a Adolf Hitler. E non volevo togliermi il
cappello mentre intonavano la Canzone di Horst Wessel». Karl si trovava dentro casa sua e guardava fuori, ma politicamente era lui a guardare
dentro dal di fuori; quella che vedeva era una comunità sempre più nazificata, in
cui il comportamento di Karl non passava inosservato e in cui chi faceva parte del
club modificava il proprio comportamento. Ciò cui Karl resisteva mentre stava alla
finestra con sua moglie era la pressione ad assumere un comportamento almeno apparentemente
conformista. Del grande discorso tenuto da Hitler il Primo Maggio aveva capito questo:
Hei hatte sagt, wer non ganz un gar nich wolle, vor dän in Deutschland keine Raum («ha detto che per chi proprio non vuole non c’è posto in Germania»). «Nessuno potrà
restarsene neutrale», aggiunse suo padre, che in questo caso parlava non come entusiasta
del nazismo che chiamava Karl a unirsi a tutti gli altri, ma come abitante di un piccolo
centro che avvertiva il figlio dei pericoli che avrebbe corso se non l’avesse fatto15.
Con il termine Umstellung Karl indicava le modalità adottate dai cittadini di Peine per adeguarsi. Alla vigilia
del compleanno di Hitler il padre di Karl incollò una cartolina con la foto del Führer
sul vetro della cucina; pochi mesi dopo tornò a casa con un ritratto incorniciato
di Hitler che gli era costato un marco e cinquanta: una spesa considerevole per una
famiglia allargata che viveva di un solo reddito. Inoltre il fratello di Karl, Willi,
si era iscritto alle Sa e aveva improvvisamente riscoperto i propri diari e lettere
della guerra; egli stava ricostruendosi un’autobiografia patriottica. L’unica preoccupazione
era la prospettiva di una nuova guerra: argomento frequente nelle famiglie tedesche
dopo il 1933. Una domenica i Dürkefälden conobbero il nuovo ragazzo di Emma, che ricordò
di essere rimasto temporaneamente cieco quando fu colpito alla testa durante la Prima
guerra mondiale: «egli non vuole mai più trovarsi in guerra», riferiva Karl, «ne ha
abbastanza». Infine nel febbraio del 1934, in occasione di una nuova riunione familiare
per il compleanno di Gerda, il suocero di Karl ammise di essersi «rappacificato» con
il «nuovo corso». La fabbrica di Hannover andava a gonfie vele, gli operai anziani
erano stati riassunti e le vacanze, un tempo riservate esclusivamente agli alti dirigenti,
erano state estese agli operai comuni come Friedrich Kassler. Karl e Gerda erano rimasti
soli16.
Nel caso di Erich Ebermayer, che all’epoca della presa di potere di Hitler aveva trentadue
anni e faceva lo sceneggiatore, le stesse divisioni che emergevano tra i Dürkefälden
a tavola convivevano nella stessa persona. Il 30 gennaio 1933 egli aveva ascoltato
alla radio le celebrazioni berlinesi in compagnia di Klaus Mann, figlio del romanziere:
«marce, marce... e poi la Canzone di Horst Wessel... ora ordini secchi, rullar di tamburi, gente che canta fragorosamente»; Ebermayer
confidava amaramente al proprio diario: «siamo sconfitti, nettamente sconfitti». E
come Karl Dürkefälden, Erich avvertiva la forza immensa dei nazisti, che sembravano
travolgere lungo il cammino ogni cosa. «Per le strade non si vede altro che ‘ragazze
Bdm’ e giovani hitleriani. Gli adolescenti non camminano più: marciano». «Ovunque
gli amici si schierano dalla parte di Hitler». Vivere nella Germania nazista significava
per Ebermayer «trovarsi sempre più soli». Tuttavia, per poter essere un «cronista
di questo tempo» egli ascoltava regolarmente i discorsi di Hitler alla radio. Durante
il raduno del partito a Norimberga, nel settembre del 1935, accese la radio per vedere
che «diavolerie hanno messo su questi signori». In quel caso si trattò delle Leggi
di Norimberga, che sancirono una distinzione giuridica tra cittadini tedeschi e non-cittadini
ebrei: «la caccia a persone innocenti si moltiplica per mille», fu il suo sfogo; «si
semina un odio un milione di volte maggiore»17. Erich Ebermayer non era nazista.
E tuttavia egli fece qualcosa che era molto coerente con le idee naziste. Attratto
dalla campagna, dove aveva trascorso l’adolescenza, finì per acquistare una casa in
un villaggio bavarese. Già una volta, nell’aprile del 1934, era tornato a Landrak,
la sua città natale, sui monti dello Harz, per assistere al tradizionale falò del
Sabato Santo: «Stiamo in giardino [...] guardando in alto le fiamme che divorano la
legna [...] Il respiro fresco dei campi, nell’aria l’odore di legno dei falò nelle
fattorie [...] Ragazzi e ragazze lassù saltano e ballano attorno al fuoco. Cantilene,
grida, risate risuonano per la valle». Di qui l’osservazione che «la Guerra, la Rivoluzione,
l’Inflazione, il Sistema, il Terzo Reich hanno lasciato assolutamente intatte queste
antiche usanze»18. Nella cronologia immaginata da Erich Ebermayer è interessante notare l’uso del termine
nazista «Sistema» per indicare la Repubblica di Weimar. In ogni caso, Erich non era solo, e in effetti si sentiva decisamente a casa. Il suo mondo non era cambiato.
Questo senso di ritorno a casa poneva Erich sullo stesso registro emotivo di milioni
di simpatizzanti nazisti. Egli era anche in sintonia con la coreografia del nazionalsocialismo.
Durante la Giornata di Potsdam, mentre i Gebensleben si riunivano per ascoltare la
radio e i Dürkefälden erano a tavola da Kaune, gli Ebermayer si convincevano che «nemmeno
noi possiamo escluderci». Nel momento in cui scendeva a prendere nel seminterrato
«la vecchia bandiera bianca, rossa e nera dell’epoca della guerra mondiale» e la issava,
riponendo la bandiera nera, rossa e oro della Repubblica, «buona, vituperata, tradita,
mai abbastanza amata», Erich riconosceva l’inizio di una nuova era. Egli andò al piano
di sopra per ascoltare le celebrazioni insieme a suo padre, «profondamente commosso»,
e a sua madre, che aveva «le lacrime agli occhi». Il giorno prima Erich aveva riportato
la notizia della costruzione di «grandi campi» a Dachau e Oranienburg. Eppure, il
desiderio di far parte dell’unità nazionale era tanto forte da spingere persino un
antinazista a entrare nella nuova comunità politica. Nel marzo del 1938, in occasione
dell’Anschluss dell’Austria, Erich pianse per la gioia. «Sarebbe follia», scrisse, «non volerla solo perché è stata realizzata da Hitler»19. Nei momenti cruciali Erich si abbandonò deliberatamente all’abbraccio della comunità
nazionale, a differenza di Karl Dürkenfälden che se ne tenne fuori. Erich descrisse
più volte la Germania come una nazione tornata in se stessa. Odiava i nazisti, ma
amava il Terzo Reich.
Che cosa ci dicono queste annotazioni riguardo al modo in cui i tedeschi vedevano
i nazisti? La questione del nazismo creava divisioni nette tra vicini (come a Peine),
all’interno di una famiglia (come nel caso dei Dürkenfälden) e persino degli individui
(come nel caso di Erich Ebermayer). Il diario di Karl Dürkefälden è particolarmente
istruttivo, poiché rivela come le riunioni familiari generassero continue conversazioni
sulla natura del regime, sulla condotta individuale e sul pericolo di guerra. Durante
il Terzo Reich nelle famiglie si svolgevano animate discussioni sulla previsione
secondo cui «Hitler significa guerra», sulla scusa secondo cui «non si può fare una
frittata senza rompere le uova» o sulla opportunità di «rendere onore al merito».
Questi dibattiti confermano che i tedeschi reagirono in modo contraddittorio al nazismo.
Nell’ambiente dei Dürkefälden si capiva bene chi sosteneva i nazisti, chi «si adattava»
e chi rifiutava di togliersi il cappello quando intonavano la Canzone di Horst Wessel. I conoscenti di Karl, anzi, tendevano decisamente a riflettere sul loro processo
di conversione e sulle sue qualificazioni, come fanno pensare sia il commento di Karl
sulla neutralità, sia la testimonianza di suo suocero sulla pacificazione. Inoltre,
le posizioni personali cambiarono nel corso dell’esperienza del Terzo Reich: mentre
un numero sempre maggiore di tedeschi si adeguavano ai nazisti, come fece Friedrich
Kassler, alcuni se ne allontanarono sempre più, come Emma, sorella di Karl, che arrivò
a diffidare di Hitler. L’ambivalenza arrivava persino a livello individuale, come
mostra l’esempio di Erich Ebermayer. Persino un membro delle Sa come Eberhard Gebensleben
riconobbe l’eccesso di violenza del nazismo, e quando si innamorò di Herta arrivò
a mettere in discussione la propria fede politica. La stessa Immo ci ricorda che il
semplice fatto di trasferirsi in Olanda poteva cambiare drasticamente il punto di
vista. Le ambiguità di convinzione politica vanno sempre tenute presenti. È difficile
perciò stabilire distinzioni nette tra «i nazisti» e «i tedeschi». Quando si pensa
ai «nazisti», si dovrebbero ricordare i casi di Herta Euling e di Elisabeth Gebensleben,
mentre nel definire gli altri «tedeschi» sarebbe bene non dimenticare Erich Ebermayer
e Karl Dürkefälden.
Tutto il gran parlare di nazisti rivelava anche qualcos’altro: gli sforzi dei tedeschi
per sostenere le proprie posizioni e giustificare le proprie azioni. Milioni di persone
acquisirono un nuovo lessico, si iscrissero alle organizzazioni naziste e si impegnarono
a diventare nazisti migliori. Ciò che riportano diari e lettere non è semplicemente
l’alto numero di conversioni di amici e parenti, ma lo sforzo individuale per diventare
nazisti. Nell’aprile del 1933, ad esempio, Elisabeth Gebensleben sentì il bisogno
di dare una spiegazione per il boicottaggio nazista delle imprese ebraiche, sebbene
fino allora nella sua corrispondenza non fossero emersi aspetti collegati agli ebrei.
Questo lavoro ideologico non era sempre facile o ben accetto, e le nuove identità
naziste rimanevano incomplete, ma la maggioranza dei tedeschi cercò, in un modo o
nell’altro, di convertirsi. Il vasto sforzo fatto dalla popolazione per adattarsi
– al coordinamento della vita pubblica nel 1933, alle nuove norme razziali sugli ebrei
durante gli anni Trenta e alle esigenze della guerra totale dopo il 1941 – rafforzò
e radicalizzò costantemente il regime nazista. Eppure, nonostante ciò la conversione
era un processo in divenire e costellato di dubbi, più che una meta unica e precisa.
I tedeschi si convertivano al nazionalsocialismo per paura e per salvare le apparenze.
Tutti i diari parlano di campi di concentramento, di arresti e di altre forme di violenza.
Inoltre, la pressione a conformarsi alle aspettative dei nazisti, come aveva previsto
il padre di Karl, non venne meno. I tedeschi si convertivano anche, come Friedrich
Kassler, perché persuasi che il nazismo rappresentasse un «nuovo corso» che in fin
dei conti offriva delle opportunità e cui i cittadini erano costretti a adattarsi.
Inoltre, moltissime persone diffidavano dei nazisti, non ne comprendevano i precetti
razziali e ne disapprovavano l’ostilità verso le chiese, ma approvavano, nonostante
tutto, la «rivoluzione nazionale» del gennaio 1933 e la riconciliazione politica che
essa sembrò produrre. In qualche modo anche Erich Ebermayer rientra in questa categoria.
Infine, i tedeschi si convertivano perché realmente attratti dalla visione sociale
e politica del nazionalsocialismo, e in particolare dalla promessa di creare una comunità
del popolo. Come i Dürkefälden e i Gebensleben, la maggior parte dei tedeschi arrivò
a credere che il nazionalsocialismo avesse guarito la storia tedesca. Esso parve loro
offrire una versione nuova e migliore della vita nazionale. La maggioranza dei tedeschi
preferiva il futuro nazionalsocialista al presente di Weimar. Questa maggioranza non
aderiva perfettamente alla politica nazista, e certamente non era d’accordo con la
deportazione e l’uccisione degli ebrei tedeschi. Ma milioni di tedeschi consumarono
avidamente le immagini dell’unità nazionale. Essi identificarono le proprie prospettive
di vita migliore e più ricca con le fortune del nuovo ordine; la felicità privata
parve intrecciarsi strettamente al benessere pubblico del Terzo Reich. Fino alla fine
della guerra, e oltre, ci si identificò più con il programma complessivo del nazionalsocialismo
che con Hitler20.
Per gli storici l’affermazione secondo cui la maggioranza dei tedeschi desiderava il nazismo è fonte di disagio. Essi si sono detti giustamente scettici sulla possibilità
di fare affermazioni generali su tipi diversi di persone. Come confermano le lettere
e i diari, i tedeschi guardavano spesso con apprensione alle politiche naziste. E
non sempre, nell’andare dietro al partito o nell’iscriversi alle sue organizzazioni
ausiliarie lo facevano per convinzione. Le dichiarazioni dei nazisti sulla nuova comunità
del popolo continuavano a essere negate da diversi fattori di attrito sociale. I nazisti
non distrussero le fedeltà storiche ed emotive dei tedeschi verso i tradizionali valori
conservatori, verso la socialdemocrazia o verso le comunità religiose. Ne sono testimonianza
Karl Dürkefälden ed Erich Ebermayer. Queste precisazioni sono importanti, ma rischiano
di non tenere nel giusto conto il sorprendente successo dei nazisti nell’attrarre
convertiti da tutti gli schieramenti politici e nell’individuare e creare il desiderio
di rinnovamento della vita tedesca. La novità che fornì al Terzo Reich legittimità
ed energia fu l’esperienza della conversione, che lasciò isolate persone come Dürkefälden
ed Ebermayer. Ed è questa esperienza che necessita di una spiegazione.
La «comunità del popolo»
La popolarità durevole dei nazisti si basava sull’idea della Volksgemeinschaft. Questa idea non era nazista e non era percepita come una forzatura o una stranezza.
Al contrario, era ascritto a credito dei nazisti l’aver realizzato finalmente quella
solidarietà nazionale cui i tedeschi avevano tanto a lungo anelato. Questo è un punto
importante, poiché molte delle conquiste della «rivoluzione nazionale» del 1933 furono
apprezzate da cittadini che non si identificavano necessariamente con il nazionalsocialismo.
La legittimazione di Hitler e del suo regime poggiava su un’ampia base di simpatie.
La rivoluzione nazionale veniva prima dei nazisti, sebbene questi ultimi fossero il
mezzo indispensabile alla sua realizzazione.
A partire dalla Prima guerra mondiale la «comunità del popolo» aveva simboleggiato
la riconciliazione tra i tedeschi, per molto tempo divisi tra classi, regioni e confessioni.
Già le «Giornate di Agosto» del 1914, durante le quali migliaia di tedeschi si erano
radunati nelle strade per sostenere la causa della nazione in guerra, avevano rivelato
lo straordinario investimento emotivo nella promessa di unità nazionale. Naturalmente
«il 1914» era stato un’immagine costruita più che una realtà vissuta, e la politica
tedesca non si era fusa in un’armonia collettiva. E tuttavia l’idea di solidarietà
nazionale ebbe grande risonanza poiché pareva offrire maggiore uguaglianza sociale.
Essa indicava una via per integrare i lavoratori nella vita nazionale, per spezzare
la mentalità di casta delle classi medie tedesche e per neutralizzare le pretese di
superiorità delle élite. Affinché quell’idea avesse forza d’attrazione era essenziale
che assumesse carattere democratico o populista. La comunità del popolo costituiva
anche una dichiarazione di forza collettiva. Essa stava a indicare la «pacificazione
della fortezza», che durante la Prima guerra mondiale consentì ai tedeschi di mobilitarsi
contro i nemici esterni. Questo aspetto marziale acquistò maggiore importanza dopo
la sconfitta della Germania nel 1918. La catastrofe della resa imprevista, le «frontiere
insanguinate» del riassetto postbellico definito a Versailles e l’immenso caos dell’inflazione
all’inizio degli anni Venti furono esperienze collettive che contribuirono a rendere
visibili le sofferenze della nazione. Durante gli anni di Weimar il concetto di Volksgemeinschaft fu usato per indicare la condizione di assedio comune ai tedeschi, e al tempo stesso
l’unità politica necessaria al rinnovamento nazionale. Di conseguenza, la «comunità
del popolo» ebbe sempre una drammatica implicazione di accerchiamento.
I nazisti condussero il concetto di comunità del popolo al suo esito più radicale.
Fecero leva sui dati di fatto delle sofferenze tedesche, e al tempo stesso rinnovarono
una prospettiva di grandezza futura della Germania. Insisterono in modo martellante
sui nemici interni ed esterni – ebrei, profittatori di guerra, marxisti, potenze alleate
–, accusandoli di ostacolare la rigenerazione nazionale. Il nazionalsocialismo offrì
una visione completa del rinnovamento che per molti tedeschi era attraente, accompagnandola
allo spauracchio della disgregazione nazionale. Dal punto di vista nazista il 1914
era il rinnovamento e la vita, mentre il 1918 era il pericolo incombente sui tedeschi
della rivoluzione, del caos e in ultima analisi della morte.
Su questa contrapposizione tra 1914 e 1918 si strutturò il pensiero politico tedesco
fino al 1945. I nazisti elaborarono una visione del mondo sostanzialmente imperniata
sull’accerchiamento, secondo cui la lotta era l’unica garanzia di conservazione della
vita; la lotta era anzi un segnale di vita. In una prospettiva così drastica la comunità
del popolo era inevitabilmente minacciata e implicitamente violenta. Lo stato di emergenza
permanente decretato dai nazionalsocialisti aiuta a spiegare il loro enorme sforzo
per ricostruire il corpo collettivo e la soddisfazione che i loro seguaci traevano
dalle immagini di unità e solidarietà. Esso aiuta a spiegare anche l’accettazione
dell’esclusione violenta come parte del processo di ricostruzione. Gli ingredienti
di base della visione del mondo nazista, tra cui il grande timore di una disgregazione
totale della vita nazionale, la determinazione a scongiurare il caos del 1918 e il
calcolo morale secondo cui per conservare la vita poteva essere necessario distruggerla,
erano molto diffusi nel Terzo Reich. Questi presupposti non furono mai gli unici ingredienti
della miscela, ma erano ampiamente utilizzati e discussi dai tedeschi nel momento
in cui questi riflettevano sulle politiche del nazismo e sul proprio comportamento.
Tuttavia, soltanto i nazisti irriducibili seguirono fino all’esito doloroso del 1945
la logica della vita come violenza.
Nell’idea di solidarietà nazionale si esprimevano i desideri di milioni di tedeschi
che deploravano la Rivoluzione di Novembre e diffidavano della Repubblica di Weimar
per il potere che dava ai socialdemocratici. Quell’idea all’inizio degli anni Trenta
era attraente anche per i cittadini spaventati dall’insicurezza economica e dall’instabilità
politica. A molti sostenitori della Repubblica, e soprattutto a molti dei sei milioni
di tedeschi privi da mesi o da anni di qualsiasi prospettiva di lavoro, la comunità
del popolo offriva un tentativo di risposta all’amara domanda posta nel 1933 dal romanziere
Hans Fallada: «E adesso, pover’uomo?». Le parole semplici e definitive pronunciate
da un amico di Karl Dürkefälden, disoccupato e convertito al nazismo, furono: «Si
doveva pur fare qualcosa». Parole ripetute, durante l’inverno e la primavera del 1933,
da migliaia di operai, e che lo stesso Karl, pur essendo socialista, comprendeva:
«anche questo è vero», annotò sul proprio diario, tra parentesi21. Innumerevoli tedeschi identificarono la propria povertà con le disgrazie della Germania
e sperarono che una leadership forte a Berlino risollevasse le loro sorti. Resta il
fatto, però, che in libere elezioni i nazisti non raccolsero mai più voti della somma
di quelli raccolti da socialdemocratici e comunisti. Il nazismo penetrò significativamente
tra gli operai, e poteva contare su simpatie nell’elettorato di altri partiti. Ma
il repulisti politico che prometteva aveva bisogno di distruggere la forza dei socialisti.
La sera del 30 gennaio 1933 centinaia di migliaia di cittadini si radunarono attorno
agli iscritti al partito in uniforme che sfilavano sotto la porta di Brandeburgo a
Berlino per celebrare la vittoria nazista e si unirono agli heil, agli evviva, agli urrà e ai cori di Deutschland über Alles e dell’inno del partito, la Canzone di Horst Wessel. Si affermò che la folla era stata vasta come nel 1871, quando i tedeschi si erano
radunati per festeggiare l’unificazione del paese. L’ambasciatore francese André François-Poncet
così descrisse la scena cui assisté dalle finestre dell’ambasciata in Pariser Platz:
«E da questi uomini in camicia bruna e stivali, disciplinati e inquadrati, che con
voci cadenzate cantano a gola spiegata inni marziali, si sprigiona un entusiasmo,
un dinamismo straordinario. Gli spettatori che fanno ala si sentono prendere da un
delirio contagioso: gettano a loro volta altissime, prolungate acclamazioni [...]».
«Le colonne sfilarono per ore», ha ricordato Melita Maschmann, presente con i genitori
e il fratello alla porta di Brandeburgo: «Ero presa da un ardente desiderio di far
parte di queste persone che ponevano una questione di vita e di morte». La stessa
Maschmann era attratta dalla «tendenza socialista» del movimento nazista, dall’idea
della comunità del popolo, che essa contrapponeva alle obiezioni conservatrici dei
genitori. Eppure anche questi ultimi erano lì tra gli spettatori – nazionalisti tedeschi,
più che nazisti, recatisi in centro per assistere allo storico evento, così come si
erano mescolati alle folle patriottiche riversatesi in strada nel 1925 per festeggiare
la partenza degli inglesi da Colonia e nel 1928 per celebrare l’ottantesimo compleanno
del presidente Paul von Hindenburg. Per i Maschmann, i Gebensleben e milioni di altre
persone, il trionfo dei nazisti era l’apice di una sollevazione nazionalista che si
preparava da anni. Di conseguenza, il 30 gennaio 1933 non fu mai proprietà esclusiva
del nazismo. Scene simili di conquista delle piazze pubbliche da parte dei nazisti
e dei loro simpatizzanti, si verificarono in tutta la Germania. Nessuno poté ignorare
la vastità dell’adunata nazionale del 193322.
Eppure il giorno prima, al Lustgarten, a una certa distanza dall’antico palazzo degli
Hohenzollern, si era svolta un’enorme adunata socialdemocratica. E una settimana prima
i comunisti si erano raccolti davanti alla Karl-Liebknecht Haus, la sede del partito,
in Bülowplatz. Gli osservatori non avevano motivo per pensare che i nazisti rappresentassero
tutta la nazione. Nei giorni seguenti i socialisti risposero alla vittoria nazista
con contromanifestazioni in tutta la Germania. Ma il loro numero si assottigliò rapidamente.
La grande presenza della polizia, che tendeva a simpatizzare con i nazionalsocialisti,
ridusse la mobilità degli oppositori, mentre i teppisti irrompevano nelle sedi dell’Spd
e dei sindacati e i funzionari nazisti mettevano al bando i giornali socialisti. Inoltre,
l’ondata di violenza contro la sinistra fu ufficialmente sancita dai decreti d’emergenza
che consentivano di incarcerare prima del processo i cittadini sospettati di costituire
una minaccia per la pace. Dopo l’incendio del Reichstag del 27 febbraio, grazie ai
poteri di emergenza vasti e senza precedenti accordati dal presidente Hindenburg al
nuovo governo al fine di proteggere «il popolo e lo Stato», i nazisti furono in condizione
di attaccare massicciamente i comunisti. Dopo le elezioni nazionali del 5 marzo 1933
il terrore si estese ulteriormente. A seguito della vittoria di misura riportata dai
nazisti (che insieme ai loro alleati tedesco-nazionali avevano ottenuto il 52 per
cento), le Sa lanciarono violente offensive contro socialdemocratici, comunisti ed
ebrei, compresi gli eletti. Migliaia di oppositori furono rinchiusi in improvvisate
prigioni e dovettero subire percosse e umiliazioni. Tra il 1933 e il 1934 oltre 100.000
tedeschi passarono per Dachau, Oranienburg e altri campi di concentramento.
Il terrore fu la vendetta sulla sinistra dopo anni di scontri nelle strade, e il risarcimento
per il 1918. Ma la furia della violenza era riconducibile anche al fatto che i nazisti
riconoscevano solo Volkskameraden, «camerati del popolo», e Volksfeinde, «nemici del popolo» che essi sottoposero a crudeltà deliberate e raffinate con «arbitraria
violazione di norme»23. Niente illustra meglio la nuova ordinarietà della violenza nazista che una serie
di foto costruite, pubblicate nel settimanale dell’Nsdap, l’«Illustrierter Beobachter».
Esse ritraevano dei bambini intenti a giocare a una variante di «guardie e ladri»:
«Le Sa attaccano la Karl-Liebknecht Haus». Negli scatti essi si fingevano detenuti
o guardie in finti campi di concentramento. In questa mobilitazione immaginaria i
criminali si trasformavano in vittime con sembianze di bambini, come avevano sempre
sostenuto di essere. La creazione, nel marzo del 1933, del primo campo di concentramento,
accompagnata dalla grancassa dei media, e il rapido ingresso della sigla Kz (Konzentrationslager) nel discorso quotidiano non lasciarono dubbi nel pubblico sul fatto che i nazisti
riconoscessero solo amici o nemici; come ben comprese il padre di Karl Dürkefälden,
non esisteva un campo neutro. Questa consapevolezza teneva in riga gli amici se non
volevano essere considerati nemici, ma funzionava anche all’inverso, rassicurandoli
con il fatto che nei campi c’erano solo i nemici. La violenza contro i presunti nemici
del popolo rimase un elemento costitutivo della politica tedesca fino alla fine del
Terzo Reich; l’arresto dei socialisti proseguì per tutta l’estate del 1933 e preannunciò
gli attacchi nazisti agli «asociali»: ebrei, zingari e altri nemici della razza, accusati
di ostacolare uno sviluppo sano della Volksgemeinschaft. Non sempre si poteva scegliere se stare dentro o fuori della comunità del popolo,
e spesso era questione di vita o di morte.
Gli oppositori dei nazisti furono paralizzati anche dalle coreografie dell’acclamazione
nazionale, che attirarono nello spettacolo un numero sempre maggiore di persone e
lasciarono gli scettici sempre più isolati. Il sostegno di cui godevano i nazisti
era reale, ma essi fecero di tutto per dare l’impressione di una unanimità quasi completa.
Come i suoni e le luci di Heil Hitler!, queste immagini di unità tendevano ad autenticarsi da sole: creando l’illusione
dell’inevitabilità conquistavano altre persone. Inoltre, in quanto attraenti di per
sé, esse divenivano reali. Il nuovo ministro degli Interni Wilhelm Frick fin dalla
sera del 30 gennaio impose ai riluttanti direttori delle stazioni radio regionali
la trasmissione in diretta in tutto il paese del Volksjubel, dell’esultanza popolare a Berlino. Nel programma un gruppo accuratamente selezionato
di iscritti al partito diede voce alle reazioni dei «cittadini comuni» di ogni condizione
sociale, che esprimevano il loro consenso verso Hitler24. Questa messa in scena dello spettacolo dell’«uomo della strada» si sarebbe ripetuta
in continuazione. Essa serviva a creare una voce unitaria tedesca da restituire alla
nazione come eco mediatica dei suoi stessi desideri.
Lo spettacolo dell’unità nazionale fece sui tedeschi grande impressione. A Braunschweig,
Peine e Lipsia, gli estensori dei diari e delle lettere dedicarono molta attenzione
alle celebrazioni della Giornata di Potsdam e del Primo Maggio. Sia i convinti sostenitori
del nazismo come i Gebensleben che gli scettici come Ebermayer finirono per essere
trascinati dal trambusto.
Il 21 marzo 1933 la Giornata di Potsdam fu celebrata nella stessa chiesa in cui era
sepolto Federico il Grande – la Garnisonkirche di Potsdam –, ponendo Hitler in sintonia
con le venerate tradizioni prussiane, con la dinastia Hohenzollern, con la fondazione
del Reich tedesco poco più di sessant’anni prima e con gli eroici sacrifici della
Grande guerra impersonati dall’«eroe di Tannenberg»: il presidente Paul von Hindenburg,
cui non più di un anno prima Hitler si era contrapposto vigorosamente nelle elezioni
presidenziali. Migliaia di cartoline postali mostrarono Hitler e Hindenburg che si
davano la mano, suggellando così l’unione tra Germania vecchia e nuova. L’accostamento
tra il fasto delle musiche militari e delle campane a stormo e l’intima scena della
Garnisonkirche assicurarono l’effetto del programma trasmesso alla radio. Il significato
della Giornata di Potsdam consisté nell’offrire al consumo della nazione le immagini
dell’unità nazionale. L’aumento del numero di apparecchi radio negli anni 1933 e 1934
aiuta a comprendere quanto fosse grande il desiderio di prender parte allo spettacolo
nazista, ma la loro scarsa diffusione nelle aree rurali indica i limiti della mobilitazione.
Due giorni dopo la Giornata di Potsdam i nazisti ottennero l’approvazione del Decreto
dei pieni poteri. Tale atto definì il quadro legale della dittatura e fu approvato
da tutti i partiti salvo il socialdemocratico (i deputati comunisti erano stati messi
al bando).
L’abbinamento tra Hindenburg e Hitler, fortemente divisi nelle campagne presidenziali
del 1932, colpì molto nazionalisti e conservatori, ma aveva ben poco da offrire ai
socialisti. Il principale stratega di Hitler, Joseph Goebbels, appena nominato ministro
per l’Educazione popolare e la Propaganda comprese che i nazisti erano rimasti fermi
alla convenzionale iconografia nazionalista e non avevano offerto un’idea irresistibile
di quella che sarebbe stata la nuova Germania. Pochi giorni dopo la cerimonia di Potsdam,
Hitler accettò il suggerimento di Goebbels, dichiarando festa nazionale (retribuita)
il Primo Maggio (che nel 1933 cadeva di lunedì) e organizzando per quella data una
elaborata celebrazione in onore dei lavoratori tedeschi. Era dal 1880 che i socialisti
di tutto il mondo celebravano quel giorno la festa dei lavoratori, eppure in Germania
non si era mai riusciti a ottenere il riconoscimento ufficiale offerto ora dai nazisti.
Le speranze di unità nazionale erano talmente forti che i sindacati tedeschi accolsero
positivamente il gesto nazista e raccomandarono ai loro iscritti di prendere parte
alle celebrazioni. Mentre negli anni precedenti i lavoratori avevano svolto il ruolo
di decisi oppositori del sistema, non di suoi beneficiari potenziali, dando vita a
grandi manifestazioni pubbliche, il Primo Maggio del 1933 fu celebrato in modo molto
diverso. Ma lo stupefacente spettacolo mediatico dei discorsi e delle celebrazioni
del Primo Maggio contrastò nettamente anche con gli avvenimenti del giorno successivo,
quando le Sa sospesero l’attività dei sindacati socialisti e ne chiusero le sedi,
trasferendole al Fronte del lavoro tedesco, parte integrante dell’apparato nazionalsocialista.
Questa drammatica successione di eventi si presentava come una combinazione, tipicamente
nazista, di parole allettanti e di azioni vessatorie.
Quale effetto durevole ebbe il Primo Maggio del 1933? I nazisti sapevano bene che
senza il consenso degli operai non avrebbero potuto allontanare lo spettro del 1918,
né fare della Germania una potenza economica e militare. I tentativi compiuti dal
nazionalsocialismo per conquistare i lavoratori furono il test definitivo di credibilità
della comunità del popolo. Il padre di Karl Dürkefälden era già entrato a farne parte,
mentre Karl ne rimase sempre fuori, ma tra i due ci furono milioni di operai che arrivarono
solo gradualmente ad accettare i nazisti. Tuttavia, la maggior parte degli operai
finì per rendere merito al nazismo per il ritorno alla stabilità economica, e molti
di loro si consideravano Volksgenossen. Il 1° maggio 1933 essi ebbero per la prima volta la visione della comunità del popolo:
«Da allora lo Stato nazionalsocialista poggiò su solide basi», ricordò Goebbels dieci
anni dopo25.
Goebbels diede consigli su come celebrare la festa: «Decorate le case e le strade
della vostra città e villaggi con ghirlande e bandiere del Reich! Il gagliardetto
della rinascita nazionale garrirà da ogni automobile e camion! Non ci dovrà essere
in tutta la Germania un solo treno o tram che non sia abbellito da decorazioni floreali!
Le bandiere del Reich saranno issate sulle fabbriche e sugli uffici! Ogni bambino
porterà una bandiera bianca, rossa e nera o una svastica!». Il fine era trasmettere
il messaggio secondo cui «la Germania rende onore al Lavoro»26. Tuttavia, il Primo Maggio non fu un giorno di vacanza da trascorrere come si voleva.
A molti manifestanti – ivi compreso a Hannover Friedrich Kassler – furono date istruzioni
di radunarsi sul posto di lavoro e di marciare in formazione verso il luogo del corteo.
Tuttavia, le attese del regime sulla partecipazione di tedeschi di ogni ceto sociale
compensavano anche le intenzioni di porre fine all’ostilità tra operai e borghesi.
Il Primo Maggio fu un’esaltata celebrazione del nazionalismo tedesco in cui il ruolo
principale toccò agli operai tedeschi. Per tutto il giorno, mentre i berlinesi si
recavano sul luogo della sfilata a Tempelhof, la radio trasmise canzoni di «minatori,
contadini e soldati», una «sinfonia del lavoro» e interviste a persone comuni accortamente
selezionate: un lavoratore del porto di Amburgo, un bracciante agricolo della Prussia
orientale, un operaio metallurgico della Saar (occupata dalla Francia), un minatore
della Ruhr e un vignaiolo della Mosella. Furono loro gli anelli scelti per formare
la grande catena dell’esistenza tedesca. Alle tre e cinque del pomeriggio i «bardi
dei lavoratori» iniziarono a leggere brani delle proprie opere, riproducendo la voce
«autentica» dell’«uomo della strada» e offrendo al nazionalismo tedesco un gradevole
tono colloquiale. Più tardi, alle sei e venti, il saggista Eugen Diesel, figlio del
celebre ingegnere, profuse parole affascinanti per descrivere il paesaggio creato
dalla mano umana, fatto di linee elettriche, di fabbriche e di campi, che attestava
la vitalità del Terzo Reich. Nel frattempo, Tempelhof veniva sorvolata da squadriglie
aeree. Uno dei piloti era il popolarissimo Ernst Udet, ospite abituale delle feste
socialdemocratiche. Durante il pomeriggio, per un’ora, il nuovo Zeppelin transoceanico
sorvolò la città nell’ambito di una trasvolata di ventisei ore sulla Germania. L’esibizione
aerea fu particolarmente apprezzata dai lavoratori come dimostrazione delle abilità
meccaniche degli operai tedeschi nell’ambito di un più ampio sfoggio di potenza nazionale.
Ancora prima delle otto, quando Hitler iniziò a parlare, la coreografia del Primo
Maggio aveva creato un legame tra gli operai e la nazione, tra gli addetti alle macchine
e i sogni dell’età delle macchine, tra la maestria tecnica e il talento del paese27. Saltando ripetutamente dagli eventi che si svolgevano a Tempelhof ai collegamenti
con lo Zeppelin, dai «canti di minatori, contadini e soldati» turingi o franconi alle
interviste che allargavano la prospettiva fino agli avamposti più remoti del Reich,
la radio creò un unico spazio uditivo in tutta la Germania. Il Primo Maggio si concluse
poco prima di mezzanotte con uno spettacolo pirotecnico. Il quotidiano «Berliner Morgenpost»,
già di sinistra, parlò entusiasticamente della «più grande manifestazione di tutti
i tempi»28.
La maggioranza dei partecipanti non badò molto alle parole di Hitler, ma il suo discorso
rivela il modo in cui i nazisti cercarono di prendere il posto dei socialdemocratici.
Hitler si rivolse ripetutamente agli operai come patrioti che avevano costruito la
forza industriale della Germania e prestato onorevolmente servizio in guerra, ma che
avevano sofferto ingiustamente per colpa delle ortodossie economiche liberali. Egli
utilizzò una retorica di comprensione e compassione verso il punto di vista della
classe operaia. Con i suoi riferimenti alla Prima guerra mondiale il Führer scoprì
il luogo storico nel quale i nazisti potevano avere una base in comune con i lavoratori:
poche settimane dopo, Willi Dürkefälden cercò di recuperare il proprio diario di guerra.
Hitler faceva capire che la Germania stava tornando ai lavoratori e agli ideali della
Volksgemeinschaft del tempo di guerra. Egli intendeva risolvere nel futuro le divisioni di classe riconoscendone
la base sociale del passato. In tal senso la socialdemocrazia appariva, più che forza
di opposizione al nazionalsocialismo, il residuo di un’epoca passata, sopravvissuto
ma ormai inutile29.
Negli anni successivi i nazisti furono attenti a sintonizzarsi con i lavoratori sul
piano simbolico. Hitler si iscrisse alle liste elettorali nel seggio operaio di Siemensstadt,
a Berlino, ed ebbe grande successo propagandistico il 10 novembre 1933, quando la
radio trasmise in tutto il paese il suo saluto dal capannone della fabbrica Siemens.
Si dovette forse al consenso riscosso in tal modo da Hitler se Goebbels ebbe l’idea
di piazzare nelle fabbriche tedesche alcuni esponenti di primo piano del regime. Almeno
due di loro si calarono in questa parte: il propagandista Wolfgang Diewerge lavorò
per due mesi alla Daimler-Benz, vicino Stoccarda, e Eugen Hadamovsky, direttore dei
programmi radio, lavorò per un certo tempo in una fabbrica di gomma vicino Hannover,
scrivendo persino un libro sulla sua esperienza come «lavoratore ausiliario numero
50.000» (Hilfsarbeiter Nr. 50.000)30. Inoltre Goebbels cercò di reclutare alcune celebrità proletarie. L’attore Heinrich
George, facilmente riconoscibile per la corporatura tozza e per l’accento berlinese,
era stato vicino alla sinistra e aveva recitato nel 1931 nel film Berlin Alexanderplatz; tuttavia mise il suo ascendente al servizio dei nazionalsocialisti, comparendo in
film importanti come Süss l’ebreo e Kolberg,e facendosi riprendere in innumerevoli cinegiornali. Per i nazisti si trattò di una
preda di enorme valore.
Ciò che rese la comunità del popolo sempre più convincente fu l’infaticabile attivismo
di migliaia di persone mobilitate per intervenire nel corpo della nazione. Nel suo
diario Karl Dürkefälden parlava dei nuovi ritmi della vita quotidiana. Alle sue annotazioni
di marzo e aprile 1933 sulle catture e i maltrattamenti delle truppe d’assalto naziste
nei confronti di socialdemocratici e comunisti seguirono, nei mesi di giugno e luglio,
notizie di conoscenti che entravano a far parte delle organizzazioni naziste e partecipavano
alle loro attività: «Nessuno vuole più essere comunista». Più o meno spontaneamente,
i cittadini di Peine preparavano panini o facevano collette per le Sa e per la Croce
Rossa, andavano alle feste delle Sa e si iscrivevano all’organizzazione femminile
nazista o alla Gioventù hitleriana. Gli ottimi risultati della raccolta di fondi consentivano
ai meno abbienti, come i Dürkefälden, di partecipare più intensamente alla vita pubblica:
essi potevano consumare gratuitamente pasti o spuntini alle feste e non dovevano pagare
il biglietto per assistere a eventi sportivi. Nel settembre del 1933 la sorella di
Karl acquistò un biglietto a prezzo scontato per recarsi all’adunata del partito a
Norimberga. Ma in questo adeguarsi era anche evidente la pressione. Ad agosto il suocero
di Dürkefälden fu costretto a uscire ogni sera per una settimana e a partecipare a
vari raduni se non voleva perdere il piccolo appezzamento di terreno che egli coltivava
a orto. Analogamente, i funzionari del club sportivo cui era iscritto Walter Kassler
invitarono gli iscritti a frequentare più assiduamente gli incontri, a partecipare
maggiormente alle esercitazioni militari e a «comportarsi bene» inneggiando la Canzone di Horst Wessel31.
Quello che registrava Dürkefälden era lo straordinario processo di coordinamento con
cui i nazisti infiltrarono l’apparato politico e la vivace vita sociale e culturale
informale delle città tedesche, grandi e piccole. La Gleichschaltung colpì in modo particolarmente duro la vita associativa della classe operaia. Le società
ginniche, le squadre di calcio e le associazioni ciclistiche «rosse» scomparvero semplicemente.
Un milione di praticanti socialdemocratici e comunisti fu costretto ad abbandonare
campi sportivi e palestre. I cori operai avevano maggiori possibilità di sopravvivere,
a condizione di riformulare gli statuti associativi per escludere gli attivisti socialdemocratici
dalle posizioni direttive. A Hannover-Linden, ad esempio, nel giugno del 1933 gli
operai metallurgici che formavano il Coro Teutonia votarono a favore dello scioglimento
del circolo, che risaliva al 1877, e tornarono poi sulla decisione accettando di unirsi
alla Federazione di canto della Bassa Sassonia (Niedersächsische Sängerbund). Nella
stessa città, invece, un’altra associazione, Symphonia, rifiutò il compromesso e il
coro si sciolse per dodici anni32.
I nazionalsocialisti attaccavano la «cultura alternativa» socialista di matrice operaia
allo scopo di sottoporla alla Gleichschaltung, ma cercavano anche di superare l’idea stessa di «alternativa» che era alla base
delle divisioni sociali tipiche delle comunità locali. La maggior parte dei piccoli
centri non erano come Goslar, dove esistevano due compagnie di volontari antincendio,
una operaia e una borghese; ma quasi ovunque la comunità locale era strutturata tra
organizzazioni socialiste e nazionaliste. In città era normale che esistessero due
club ginnici, due squadre di calcio, due circoli di nuoto: uno alleato con la sinistra
e l’altro con la destra. Durante gli anni di Weimar le associazioni di veterani in
divisa – il Reichsbanner repubblicano e lo Stahlhelm nazionalista – confermarono tenacemente
la divisione politica di fondo delle comunità in due opposte fazioni. Era questo mondo
variopinto e separato che i nazisti miravano a coordinare in nome dell’unità nazionale.
Come annotava nel diario Karl Dürkefälden, essi facevano affidamento sia sulla forza
dall’alto che sull’accettazione volontaria e a volte entusiastica dal basso. La Giornata
di Potsdam e il Primo Maggio indicavano che il desiderio di partecipare a rituali
di rinnovamento nazionale era sufficientemente forte tra i tedeschi. Inoltre, l’impressione
che la Germania si stesse raccogliendo dietro ai nazisti si autorafforzava. Sempre
più numerosi erano coloro che si adattavano al «nuovo corso» vedendo che altri avevano
fatto lo stesso. Con sorpresa di Hitler, di Goebbels e di altri fautori della rivoluzione
nazionale, «tutto va più velocemente di quanto avessimo osato sperare»33.
A soli tre mesi dalle elezioni di marzo, l’ambasciatore francese François-Poncet descriveva
ciò che i nazisti avevano «distrutto, disperso, disciolto, assorbito, prosciugato.
Uno dopo l’altro i comunisti, gli ebrei, i socialdemocratici, i sindacati, lo Stahlhelm,
i nazionalisti tedeschi, i veterani del Kyffhäuser, i cattolici bavaresi e di tutto
il Reich e le chiese protestanti si sono dovuti sottomettere alla loro legge [dei
nazisti]. [Hitler] concentra nelle proprie mani tutti i poteri di polizia. Una censura
inflessibile ha completamente addomesticato la stampa [...] Le città sono amministrate
da sindaci e consiglieri provenienti dal suo movimento. Governi e parlamenti locali
sono nelle mani dei membri del partito. La burocrazia è stata epurata. I partiti politici
sono scomparsi. [...] Egli non doveva far altro che assestare un colpo e far crollare
la struttura della politica tedesca come un castello di carte»34. In queste parole la distruzione della democrazia tedesca è riepilogata accuratamente,
ma mancano l’entusiasmo e l’energia che si accompagnarono all’affermazione del nuovo
ordine. La Gleichschaltung fu un processo di dissoluzione, ma anche di associazione.
I cittadini affluirono nell’immenso campo d’azione che era stato spalancato dall’impegno
dei nazisti a rifare la Germania e a migliorare la vita. Con una «retorica di soluzione
muscolare dei problemi», i nazisti definirono un’agenda per ripulire le fabbriche
e le strade, i polmoni dai tumori e i ritrovi fumosi, e per eliminare gli indesiderati
della razza, «asociali» ed ebrei. «La gente guardò al nazismo come a un vasto e radicale
intervento chirurgico o di pulizia» e considerò «il movimento come fonte di ringiovanimento»
della vita pubblica. Detlev Peukert ha parlato di Machbarkeitswahn, dell’inebriante senso del possibile, tipicamente moderno, impersonato dal nazionalsocialismo
orientato al futuro. La medicalizzazione della politica attirò nel servizio statale
migliaia di nuovi professionisti come infermieri, insegnanti, gestori di servizi sanitari.
Nuovi uffici sanitari pubblici furono aperti a macchia d’olio per le città e le campagne,
facendo leva sulle conquiste assistenziali della Repubblica. I tedeschi razzialmente
degni ma impoveriti ricevettero l’aiuto di milioni di volontari, attraverso l’organizzazione
assistenziale del partito, la Nationalsozialistische Volkswohlfahrt (Nsv), la maggiore
organizzazione civile del Terzo Reich. E otto milioni di persone si iscrissero al
Reichsluftschutzbund, l’Unione per la difesa aerea35.
Particolarmente interessante è il modo in cui queste organizzazioni ausiliarie assegnarono
ai tedeschi ruoli semiufficiali nella raccolta di donazioni, nella distribuzione di
carbone o nella protezione antiaerea. Il volontariato dell’era nazista collocò migliaia
e migliaia di tedeschi in posizioni di responsabilità minore, da cui essi vigilavano
su una frazione della comunità del popolo. Le Sa, la Gioventù hitleriana e il Fronte
del lavoro funzionavano allo stesso modo, sforzandosi di far emergere una nuova generazione
di leader di estrazione trasversale rispetto alle classi sociali; il modello esemplare
per Hitler era il reclutamento dei sacerdoti nella Chiesa cattolica. Per sviluppare
le capacità dei leader si organizzavano appositi seminari, corsi serali e campi d’addestramento.
Molti degli estensori di diari e autobiografie citati in questo libro si trovarono
in simili posizioni: Lore Walb, Melita Maschmann e lo stesso Karl Dürkefälden, che
nella sua fabbrica di utensili meccanici prestò servizio come vice responsabile della
difesa aerea. E nel settembre del 1933 apprendiamo dei preparativi di Eberhard Gebensleben
in partenza per un «campo sportivo militare» a Zossen, vicino Berlino. «Puoi immaginare»,
scrisse sua madre a Immo, «quello che è successo a casa tua fino a tarda sera. Tutti
i bagagli da preparare, molti dei quali espressamente richiesti [...] poi la telefonata
al medico [...] e finalmente abbiamo finito di preparare il bagaglio e stamattina
alle sette e un quarto è partito con le sue pesanti borse»36. Durante il Terzo Reich vi furono milioni di queste partenze eccitate e frenetiche.
Questa febbrile attività somigliava a una guerra in tempo di pace. I cittadini, pur
trovando (comprensibilmente) gravose le continue richieste di tempo e denaro, accettarono
gradualmente le nuove prassi – e il gran numero di norme, consigli e divieti che comportavano
– come modalità ottimale di gestione della vita collettiva. E si aspettavano che i
loro conoscenti facessero altrettanto. Manufatti come maschere antigas, passaporti
«ariani» e distintivi della Winterhilfe (il Soccorso invernale) rappresentavano per
i membri della comunità del popolo nuovi standard di collaborazione, di addestramento
e di competenza.
Un’occhiata all’atrio di un caseggiato operaio a Berlino nell’estate del 1939 mostra
tutte le tecniche che i cittadini tedeschi dovevano padroneggiare nel gestire la propria
vita. A guidarci è lo scrittore Heinrich Hauser:
Il vostro sguardo sarà catturato da una serie di manifesti colorati vicino all’entrata.
Il primo è un appello a contribuire al fondo «Madre e figlio», e il secondo al Winterhilfswerk. Un terzo è un invito del Partito a partecipare a una conferenza o a una proiezione
cinematografica antisemita [...] Un quarto manifesto, di colore rosso sgargiante,
pone una domanda urgente: «Camerata, hai acquistato la maschera antigas?». Un quinto
ammonisce a non gettare via la stagnola, i tu
...