Edizione: 2018, III rist. 2019 Pagine: 232 Collana: i Robinson / Letture Serie: Storie di questo mondo ISBN carta: 9788858133347 ISBN digitale: 9788858135112 Argomenti: Attualità culturale e di costume, Narrazioni contemporanee
«Guardate questa bambina. Questa bambina sono io. Ho un buffo cappello di lana colorato, lo so perché c’è un’altra foto a colori che me lo dice. Sto con M. Deve essere il 1977. Sono felice. La città per me è ancora una soltanto. Nessun muro la divide in due. Per ora. Dopo non sarà mai più così.» Decine di migliaia di tossicodipendenti, una ‘generazione scomparsa’ su cui si è steso un velo di oblio. Un libro di storia, un memoir che squarcia un muro di silenzio e lo fa partendo dal punto di vista più difficile e doloroso: quello personale. Quando arrestano mio padre per spaccio di eroina ho 15 anni, frequento il ginnasio, nell’unico liceo classico di Grosseto. Un liceo di provincia, frequentato dai figli dei professionisti della città. Quando lo arrestano io non dico niente a scuola. Non trovo le parole per farlo, non credo di averle neanche cercate, è qualcosa che accade, e basta. Quando le cose accadono a me io non so come raccontarle. Per questo faccio la storica, racconto le cose che accadono agli altri, eppure questa di mio padre voglio raccontarla, così inizio a parlarne con gli altri, ma solo all’università, quando mi sento ormai protetta dalla distanza, ne parlo e ne parlo, e una giovane storica senza immaginazione si domanda se sono matta ad andare a dire in giro che mio padre si è fatto di eroina. Perché questa è una cosa che non si racconta. Non è neanche un fatto degno di storia. È una piccola storia ignobile.
Vanessa Roghiè storica e autrice di programmi di storia per Rai Tre. Bodini Fellow presso l’Italian Academy della Columbia University (2020-2021), è una ricercatrice indipendente. Per Laterza ha pubblicato La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole (2017), Piccola città. Una storia comune di eroina (2018), Lezioni di Fantastica. Storia di Gianni Rodari (2020) e Il passero coraggioso. Cipì, Mario Lodi e la scuola democratica (2022).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
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«Ci sono persone per le quali il passato è la sola dimensione del reale.
Per queste persone vivere significa essenzialmente aggiornare il proprio passato;
di tale aggiornamento esse hanno coscienza discontinua, apparendo loro talvolta come conservazione, talvolta
invece come perdita. È in simili momenti di lutto che queste persone, inorridite dal dilapidante cangiare della vita, chiedono soccorso alla letteratura».
Michele Mari, Filologia dell’anfibio, 2009.
«Son malato d’infanzia e di ricordi».
Angelo Branduardi, Confessioni di un malandrino, 1975.
ma soprattutto
«Io vengo da una piccola città che andrò tra poco a cantare».
Francesco Guccini, Piccola città, 1972.
Prologo
«Voglio che, mentre mi leggete, sappiate esattamente chi sono e dove sono e che cosa ho in mente».
Joan Didion, The White Album, 1979.
Quando ero bambina, su un muro in casa di mio padre c’era un disegno. Raffigurava
degli struzzi di profilo, al tramonto. Le loro sagome emergevano da una scritta che
io imparavo a memoria pur non comprendendola: «La piccola città non aveva mai scherzato
con i suoi abitanti, così come non scherzerà mai. E le ore racchiudevano il magico
contenuto della noia, della incapacità».
La piccola città era Grosseto e gli struzzi i suoi abitanti. Così pensavo allora.
O forse no. Forse gli struzzi erano mio padre e i suoi amici che avevano scritto e
disegnato su quel muro. L’incapacità era la loro. E la sabbia era l’eroina. Ma ero
bambina, non sapevo niente dell’incapacità, dell’eroina e preferivo pensare che gli
struzzi fossero gli altri, non mio padre.
Certo, che la piccola città fosse Grosseto non c’era alcun dubbio. Grosseto, al centro
della Maremma, alla periferia del Mondo: Kansas City, come l’aveva definita Luciano
Bianciardi, ma allora non sapevo nemmeno questo.
Questa è dunque la storia della piccola città, dei suoi struzzi e di una bambina.
Ma è anche la storia di tante piccole città, trasformate dal boom economico, devastate
dall’eroina, di struzzi che hanno lasciato che il tempo scorresse finché tutte le
bambine sono diventate donne e i bambini uomini, e che ancora, con alcuni aspetti
della loro storia non hanno mai fatto i conti.
Io, per quanto mi riguarda, provo a farli così.
Uno
«Bene, se mi dici che ci trovi anche dei fiori in questa storia, sono tuoi».
Francesco De Gregori, Bene, 1974.
Guardate questa bambina. Questa bambina sono io.
Ho la piuma in testa e delle foglie in mano. È il 5 settembre del 1976 e Democrazia
proletaria festeggia anche sul Monte Amiata le elezioni politiche del 20 giugno, dove
ha preso l’1,5 per cento. Sei deputati. In effetti da festeggiare c’è poco. Ma io
queste cose non le so e per me, in quel momento, è una festa. Come quando babbo ha
dipinto di rosso la porta della sede del Pdup di Grosseto, e a me questo nome, Pdup,
mi sembra che rimbalzi.
Il Pdup rappresenta davvero poche persone mentre il Pci ha preso quasi il 35 per cento
dei voti. Ma per me il Pdup è la Politica. Si chiama così. Ha la lettera maiuscola
e la porta rossa, e poi la fanno mio padre e i suoi amici, che mi piacciono, perché
mi raccontano la Favola di Mao Tse-tung.
La Politica la fanno i maschi, questo lo so, mentre mamma e le sue amiche fanno il
Femminismo, che, forse, mi piace pure di più della Politica, perché si canta.
Oltre la Politica e il Femminismo c’è mia nonna che è il Mondo. Per mia nonna il Femminismo
non esiste, la politica non ha la maiuscola, e si chiama solo Pci, perché ha avuto
un fratello senatore, e ancora mi parla di quella volta nel 1946 quando l’hanno portata
a una manifestazione a Roma, per festeggiare la Repubblica, dove avrebbe dovuto parlare
e suo fratello non le ha fatto aprire bocca. Ma per lei è un bel ricordo.
Poi c’è la Città, che è Grosseto, ma per me è un perimetro che parte dal ponte della
ferrovia e arriva a via Orcagna dove c’è «la terra», nonna la chiama così: campi coltivati
dove si va in bicicletta dopo scuola per accudire i conigli e le galline, le rose,
e c’è la cantina, con le botti e un odore di vino buono.
Così, riassumendo, negli anni Settanta, per me bambina, le Cose che Esistono sono
il Femminismo, la Politica, il Mondo e la Città. «Linus», in bagno, da leggere. Mentre
ancora non ci sono i cartoni animati giapponesi e soprattutto ancora non c’è l’Eroina
che cambierà di lì a poco il Mondo, il Femminismo e la Politica. Ma soprattutto la
Città.
Voci
La ricostruzione della nostra cittadina è avvenuta rapidamente. Già nel ’46, nel ’47,
le tracce della guerra erano state cancellate. Solo davanti alla stazione è rimasto
fino a poco tempo fa uno spiazzo polveroso o fangoso, a seconda della stagione: a
malapena ci si era preoccupati di ricoprire le buche prodotte dalle bombe. La «Pro Loco» tempestava l’amministrazione comunale e l’amministrazione provinciale di comunicati
di protesta: nelle pagine locali dei quotidiani comparivano di continuo lettere aperte
denuncianti lo sconcio; il redattore di una delle pagine locali dedicò all’argomento
una intera serie di articoli, firmando con lo pseudonimo di Cives.
Veniva messo soprattutto in rilievo che è la prima impressione quella che conta; e
che impressioni potevano mai avere il viaggiatore che appena uscito di stazione si
trovava davanti quella distesa di polvere, fango e di erbacce? Finalmente i voti di
coloro che hanno a cuore gli interessi locali e il buon nome della città sono stati
esauditi. Si è provveduto a «sistemare» piazza della stazione, e la «sistemazione» è stata, qual era prevedibile, un anello di asfalto intorno a un giardinetto. Il
giardinetto conta sei spicchi di aiuole, altrettanti vialetti inghiaiati e, proprio
nel mezzo, una minuscola fontana. Tutte le piazze della stazione dei piccoli centri
sono così, la mentalità termale dei localisti impone dovunque giardinetti, aiuole,
vialetti, fontanine, oleandri e panchine rustiche.
Montecatini Terme è il modello di tutte le «Pro Loco» d’Italia.
C. Cassola, I localisti, in «Il Mondo», V, 6 (208), 7 febbraio 1953, p. 12.
Due
«L’anno di fondazione? Ma era il 1944, né più né meno».
Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, 1957.
Chiunque arrivi a Grosseto in treno si trova di fronte all’immagine di una città come
tante. La piazza antistante alla stazione, oggi rifatta, conserva la statua del buttero
maremmano. Gli edifici degli anni Trenta ne segnano il limite meridionale e portano
alle antiche mura, fino al centro storico.
Ma quello non è l’inizio della città. È solo un modo per renderla moderna, anonima,
un’altra Montecatini Terme.
Mentre Grosseto la stazione dovrebbe metterla davanti al Diversivo, in modo che una
volta fuori il viaggiatore, ma anche chi ci è nato, rimanesse a bocca aperta di fronte
a un’opera tanto imponente. Scrive Simone Giusti:
Il Diversivo è un canale, ma non si deve credere che sia stato costruito semplicemente
per incanalare l’acqua. Il Diversivo è nato per trasportare la terra, e l’acqua non
è che il ‘mezzo di trasporto’ in cui la terra viaggia. L’ingegnere Alfredo Baccarini,
uno dei protagonisti di questo processo secolare di bonifica, ha calcolato che dal
1830, anno della sua costruzione, fino al 1871 il canale ha trasportato 116 milioni
di metri cubi di detriti provenienti dal fiume Ombrone, andando a depositarli sul
fondo delle zone allagate. Un enorme spostamento di terra: questo è lo scopo per cui
il canale è stato progettato, scavato e mantenuto. Prendere la terra che il fiume
conduce dalle colline senesi fino al mare e deviarla in mezzo alla palude, fin dentro
dei bacini di raccolta (i recinti o casse di colmata), aspettare che si depositi sul
fondo, far uscire l’acqua chiara da dei canali posti a valle del bacino e farla scolare
fino al mare ecco il senso di tutta l’operazione1.
Così Grosseto inizia da lì. Da questa storia epica, di morti e lavoro, e malaria e
terra strappata al mare. E inizia negli anni della guerra perché è negli anni della
guerra che un fratello di mia nonna Isolina, Astolfo Moretti, si fa cogliere a parlar
male del duce da qualche parte a Foiano della Chiana.
La leggenda privata della famiglia vuole che l’allora podestà d’Arezzo, amico del
Moretti vecchio, Archimede, detto Fogliarina, lo convochi e gli dica che va bene tutto,
va bene pure un figlio antifascista ma certe cose sarebbe meglio non andare a dirle
in giro. Ma visto che lui e il Fogliarina sono amici, visto che il Fogliarina lo porta
sempre a caccia dove passano le lepri, e le ghiandaie, visto che i cani del Fogliarina
sono i migliori, allora si può fare che, invece del confino per Astolfo, i Moretti
potrebbero andare in Maremma, che non è proprio il confino, anche se c’è la malaria,
e i poderi che nessuno vuole, neanche nella piana, andare a Ribolla per esempio, in
alto, dove le zanzare non arrivano, ma ci sono le miniere, e nessuno vuole fare il
contadino perché in miniera si guadagna di più, e ti danno pure la casa e lo spaccio,
che vuol dire il negozio dove comprare con gli stessi soldi del padrone i generi alimentari.
L’Italia è in guerra. È il 1941.
E così baracca e burattini e in un amen tutti a Ribolla, che poi tutti significa Archimede
Moretti, Assunta Corradeschi e sette figli, sei maschi e una femmina.
«M’hanno portato in Maremma, a fare la fine della Pia», ripeterà Assunta per tutta
la vita: eco di un Dante patrimonio contadino nella Toscana ottocentesca per cui la
Pia de’ Tolomei la conosce pure una donna analfabeta «fecemi Siena disfecemi Maremma».
La femmina si chiama Isolina, è nata il 21 settembre del 1925.
Da bambina ha giocato scalza nell’aia del podere, ha rincorso le galline, ha guardato
le oche, a sei anni è andata a scuola senza scarpe, perché ne ha solo un paio buone
e vanno conservate. Si è nascosta dietro la siepe, ha guardato la maestra, le compagne
ben vestite, si è messa le scarpe, è entrata in classe, umiliata perché contadina,
ha lasciato la scuola alla fine della seconda elementare, allontanata perché donna
e «cosa serve farla studiare». L’hanno mandata ad Arezzo, da una parente benestante
e senza figli a farle compagnia ma è scappata per tornare a casa da sua madre, Assunta,
dai suoi fratelli, alla terra.
Quando arriva in Maremma non ha ancora le mestruazioni; è magra, e lunga, e la chiamano
«Giuncamatta», perché va a cavallo senza sella, «Così ti sverginerai», le dice Assunta,
e «Giudizio», le ripete sempre, quando con il fratello Antonio tira i sassi al treno
che passa dalla Badia al Pino.
Tutto cancellato: la nuova Isolina entra in scena nel 1941. Ribolla fa schifo, perché
lì ci sono gli impiegati e Isolina è figlia di contadini, e i contadini puzzano di
terra. Isolina è un maschiaccio e lì ci sono tutte le signorine che vanno al dopolavoro
della Montecatini. Il 25 aprile del 1945 Isolina va al cinema, c’è un ragazzo che
le piace, un impiegato, neanche le rivolge uno sguardo, sta lì con una signorina benvestita.
Il 25 aprile del 1945 per Isolina è il giorno della liberazione dall’amore.
Perché poi, dopo, si sposa.
Marino Roghi raccoglie la torba con il padre nel bosco sempre uguale che ricopre le
colline. «È tutta così la Maremma – cammini, cammini, non incontri nessuno e non arrivi
mai in nessun posto» scrive Carlo Cassola. Bisogna conoscerlo però il bosco, saperle
distinguere le piante: «Con la parola forteto i boscaioli indicano la macchia sotto
i venti anni, che d’ordinario non supera i sette otto metri d’altezza. La qualità
forte è rappresentata dall’albatro, dal leccio, dalla quercia e dal cerro; la qualità
debole dal carpino, dal frassino, dall’ornello. La qualità forte, come dice il nome,
fornisce un carbone migliore. Il pino lo si comincia a tagliare sui venticinque-trenta
anni, quando è alto otto-dieci-quindici metri, e serve per legname e tavolame da miniera»2.
Bisogna imparare i colori, il nero dei lecci, il bianco dei frassini, il verde dei
pini. La terra rossa.
Marino Roghi queste cose le sa ma per Isolina non contano perché Marino non parla,
sta spesso zitto, non ricorda le veglie contadine, non recita Dante a mente come Archimede,
non chiamerà i figli Astolfo, Isette, Ruggero, omaggio a quell’Ariosto immaginato
che per secoli è passato di bocca in bocca e di casa in casa e di focolare in focolare,
attraverso I Reali di Francia. Marino sembra non avere sogni. O così pensa Isolina. Marino Roghi vince Isolina
a carte e la porta a Grosseto. O così lei mi ha sempre raccontato. Senza amarlo.
Isolina non vuole Marino, odia i Roghi, gretti e ignoranti, odia la miseria di Grosseto
dei primi anni dopo la guerra, vorrebbe tornare a Ribolla dalla mamma quando la suocera
la umilia e la fa piangere perché non sa fare niente, non sa fare la pasta, il pane,
non sa cucire, non sa pulire la casa.
Da Marino e Isolina nasce Mauro: è il 26 febbraio 1949. Poi verranno altri due figli.
Dalla torba all’edilizia il passo è breve negli anni della ricostruzione, e poi in
un decennio il boom i cantieri la speculazione edilizia i soldi e i figli: soprattutto
Mauro, nato nella miseria, ora può avere tutto, e ripagare, almeno Isolina, di tanto
dolore.
Luigi Alonzo e Maria Vannucci arrivano a Grosseto nel 1956. Vengono dall’Abruzzo,
portano con loro Irma, che ha appena tre anni, e nella traversata prende la broncopolmonite
mentre Maria è di nuovo incinta. Vengono perché la gelata ha ammazzato tutte le piante:
chiedetelo agli emigranti abruzzesi, molisani, quando hanno mollato, quando hanno
pensato «non ce la faremo qui». Nel 1956. Tanti vanno in Belgio, uomini per carbone,
tanti a Roma, a popolare i nuovi quartieri lungo la via Tiburtina.
Alcuni si spingono in Maremma. Luigi ha una sorella, Assunta: vende verdure in piazza
del Sale nel capoluogo maremmano. Io la ricordo piccola e grinzosa, vestita di nero,
a popolare «il caleidoscopico mondo del mercato in una città aperta al vento e ai
forestieri».
Irma la racconta così: «Un latifondista abruzzese sposato in Toscana cercava operai
per la sua azienda e le prime a partire furono due zie. Zia Assunta sposata con Fuschi
Silvio e Annunziata (detta Nunziatina) nubile affogata in una pozza d’acqua forse
dopo un malore. Prendeva dei ‘calmanti’, come li chiamavano allora. Il mio babbo e
la mia mamma le seguirono dopo qualche anno. La loro fu una storia d’amore. Da quando
avevano 14 anni e il mio babbo la considerava già la sua fidanzata contro il parere
del mio nonno Luigi (anche lui) che la voleva maritare con un emigrante in Belgio
(suo compagno di miniera). La zia Assunta era solo piccola, aveva le grinze dell’età
e non si vestiva di nero. Portava sempre dei grembiuli a quadretti grigi e blu sopra
strati di maglioni (marroni direi). Il mercato lo faceva tutti i giorni alzandosi
alle 4 di ogni mattina per tutta la sua vita, tirando da sola un carretto carico di
verdure e frutta dalla troniera vicino alle carceri fino al mercato di piazza del
Sale; io, bambina, l’accompagnavo ogni tanto. Era come una formichina che portava
un carico cento volte più grande della sua figura».
C’è una pagina, bellissima, di Luciano Bianciardi che colma l’assenza delle memorie
di chi riempiva di voci e colori e fatica quegli anni, una pagina del Lavoro culturale, omaggio alla piccola città, dove scrive:
da ogni dove, allora, erano accorse folle di gente a quella nuovissima mecca: mercanti
neri dal meridione, carichi di valige d’olio, affaristi del nord, decisi a fondare
nuove industrie in una zona di così sicuro sviluppo, meretrici, lustrascarpe, girovaghi,
cantanti di storie, venditori ambulanti di pettinini e di lacci da scarpe, indovini
della fortuna col pappagallo e la fisarmonica, e poi, via via, tutti gli altri: gli
impiegati del catasto, i questurini, gli agenti delle assicurazioni, gli artigiani,
le maestre di scuola e i preti; insomma tutta la popolazione stanziale della città,
alla quale si aggiungevano quei sei o settecento commercianti di grano, di olio e
di bestiame che dalla montagna e dai poderi del piano affluivano al centro il giovedì
e bloccavano il traffico del corso proprio a mezzogiorno, immobili anche sotto il
sole d’agosto, con le loro giacche di velluto e le brache di fustagno, il cappello
ben calcato in testa, la cupola ammaccata da un pugno generoso3.
Grosseto come una città di frontiera, amministrata dal Partito comunista e dal Partito
socialista fin dalla Liberazione. Scorre nelle vene dei suoi abitanti qualcosa di
grandioso: saranno i confini intangibili per la vastità della Maremma, lo sguardo
che fa fatica a posarsi tanto è lo spazio.
Il primo sindaco di Grosseto dopo la guerra si chiama Lio Lenzi, «comunista, un nobile
artigiano livornese che allora campava in una sua botteguccia di vetraio e fu poi
il primo sindaco democratico della mia città, con grave ira dei ‘galantuomini’, che
han fatto l’impossibile per rovinarlo e ci son riusciti: oggi non ha più nemmeno la
botteguccia di vetraio»4. Lenzi viene sospeso insieme a tutta la sua amministrazione perché nel 1949 vengono
ritrovate delle armi in alcuni uffici comunali, vecchia roba, ma questo basta al prefetto
per commissariare il Comune. E al ministro Scelba per nominare Grosseto in un dibattito
parlamentare5.
Poi viene Renato Pollini, che governa la città dal 1951 al 1970.
L’anima profonda è mazziniana e anticlericale, lo è da sempre, «tradizioni patriottiche
costellate delle glorie garibaldine di Calamartina e Talamone»6, la vicinanza a Roma, l’influsso, fino agli anni del fascismo, di una massoneria
democratica e radicale al punto che il collegio di Grosseto è scelto, fra tanti, nelle
elezioni del 1876 per presentare un candidato nominato direttamente dalla massoneria,
Luigi Castellazzo, con l’endorsement di Giosuè Carducci e Aurelio Saffi7.
«La provincia di Grosseto era divisa in due collegi elettorali: Grosseto, comprendente
la parte settentrionale, e quindi le zone minerarie di Massa, Montieri e Roccastrada;
e Scansano, comprendente anche la zona dell’Amiata. Nel collegio di Grosseto prevalevano
i repubblicani, nel collegio di Scansano i conservatori. Le elezioni politiche del
’97 videro per la prima volta la presentazione di una candidatura socialista nel collegio
di Grosseto: una ‘Unione elettorale socialista’ (non esisteva ancora una Federazione
del Partito socialista) presentò Andrea Costa che raccolse 250 voti, contro i 2.000
del repubblicano Ettore Socci, che fu rieletto. Sempre per impulso socialista, ebbe
inizio il movimento sindacale (i repubblicani si erano limitati a incoraggiare la
cooperazione, e cioè il formarsi di Società Operaie e di Fratellanze Artigiane): nel
’96 si costituì la Camera del Lavoro di Massa e l’anno seguente addirittura la Camera
Provinciale del Lavoro a Grosseto, che però non fu in grado di funzionare e si sciolse»8. Ma il movimento socialista non scompare, anzi, nel gennaio del 1921, dopo la scissione
di Livorno, in provincia di Grosseto il sessanta per cento circa degl’iscritti abbandona
il vecchio partito per costituire il Partito comunista. Il fascismo lo portano gli agrari, e non è che le cose siano tanto cambiate neanche
oggi.
«La sezione grossetana fu fondata in casa di un agrario, che era anche uno degli esponenti
del Partito liberale. I primi fascisti furono i dipendenti degli agrari (uomini di
fattoria, contabili, autisti). La città cominciò a dar segni di effervescenza. Si
ebbero dei tafferugli, qualche fascista venne picchiato. Il 27, avendo i fascisti
inscenato addirittura un corteo, ci fu una vivace reazione, e uno dei fascisti, il
capitano Petri, restò ferito. Allora due dipendenti della fattoria Ricasoli vennero
inviati a Siena a chiedere rinforzi. Ottenuti questi rinforzi, la mattina del 28 nuclei
fascisti fecero un’incursione in città, bastonando varie persone e uccidendo l’operaio
Savelli, che lavorava alla costruzione di una scuola e dall’alto gettava mattoni sugli
assalitori»9.
Il fascismo lo vogliono i proprietari terrieri, quelli che vivono sul latifondo, e
poi la nobiltà, quella che anima con i suoi cavalli le corse dell’Ippodromo del Casalone:
«quattro giornate di corse, solo per cavalli mezzosangue», scrive Geno Pampaloni,
in un ricordo d’infanzia maremmana10. Quella che mette i soldi nel dopoguerra per costruire case, e chiama operai affidabili
da regioni democristiane come l’Abruzzo, che già di edili comunisti in Maremma ce
ne sono pure troppi.
Nel 1956 a Grosseto, da Luigi e Maria, nasce anche Gisella.
Luigi lavora nell’edilizia, Maria fa la cuoca, la lavandaia all’Hotel Bastiani. L’artrite
reumatoide le deforma le mani, mani d’oro, mani che sanno fare cucinare lavare cucire
stirare, raccogliere la nepitella per le lumache, tirare su queste due figlie.
Luigi passa da cantiere a cantiere tutta la vita, un tumore ai polmoni per il troppo
fumo e la calce respirata a costruire palazzi della città che cresce e si allarga
e viene su.
Le costruzioni sono il primo motivo di vanto della città come sottolinea il deputato
comunista Raffaello Bellucci nel 1949: «Ella sa che la ricostruzione ha avuto un impulso
notevole a Grosseto e che quivi il numero dei vani abitabili è oggi superiore a quello
di prima della guerra. Si è ricostruito quello che si era distrutto e in più si è
ancora costruito, essendo Grosseto una città in grande sviluppo. Sono stati ripristinati
e migliorati tutti i servizi, e nel 1948 sono stati fatti per conto del comune 50
milioni di lavori con l’impiego di migliaia di giornate lavorative. A mezzo di mutui
e anche col concorso dello Stato sono stati finanziati lavori in corso per 529 milioni,
oltre a 72 milioni per opere straordinarie stanziati nel bilancio del 1949»11. Luigi fa il manovale, Marino è diventato imprenditore. Luigi nel tempo libero suona
l’organetto, Marino nel tempo libero sta al bar a giocare a carte. Al caffè Parioli.
Al bar Libia.
Il resto della storia è prevedibile. Almeno fino a un certo punto, perché Grosseto
è una piccola città, come Latina, come Bergamo. E il destino della provincia appare
ovunque lo stesso.
«Grosseto è una città di pianura. La luce marina, chiara e perlacea, non trova ostacoli
d’ombra, spazia nel cielo aperto fino ai confini dell’orizzonte». È una città che
respira «nostalgie indefinite e fuggenti. La sua vita non ha scenari drammatici su
cui proiettarsi o figure rilevate dai contrasti del chiaroscuro. Non può trarre da
sé l’impeto di immagini decise, aggettanti, ma piuttosto una tonalità eguale, appena
mossa da vibrazioni sottili e inquiete. Soltanto per disavvertenza Gabriele D’Annunzio
non l’ha inclusa tra le Città del silenzio»12.
O forse per la paura di lasciarci le penne, dato che nell’anno della pubblicazione
del libro dannunziano, il 1903, Grosseto è ancora soggetta a periodiche crisi malariche,
con il padule alle porte e le distribuzioni di chinino. Che continua a essere indispensabile
fino agli anni Cinquanta. Altro che città del silenzio.
«Grosseto ingrossa, Batignano fa la fossa, Paganico sotterra l’ossa».
Voci
Eroina si chiama così perché è un medicamento eroico radicale, contro i dolori, più
attivo della morfina. Si dice che abbia un potere antidolorifico e anche tossico,
da sei a dieci volte più della morfina, ma che possegga altresì una capacità di dare
all’onirismo, allo stordimento tossico prodotto dalla droga, una certa tinta erotica.
Sarà, non sarà, fatto è che l’assuefazione indotta dall’uso dell’eroina è più rapida.
La drogomania si insedia assai più velocemente, più sradicabilmente e porta assai
più presto che non la morfina l’individuo che ne è affetto alla perdita della personalità,
del rispetto per sé stesso, al manicomio.
Ed a questo punto vorrei accennare all’attendibilità o meno di certe statistiche quando
si dice che i ricoverati in certi istituti specializzati per tossicomania sono 60,
70, 90 all’anno: tali statistiche sono inficiate da qualche riserva; è mai possibile
che la causa mortis per l’individuo tossicomane appartenente a famiglia blasonata
per esempio, debba esser proprio contenuta nelle dure espressioni di morfinomania,
eroinomania? Quanti eufemismi possono essere adoperati in quella sede dichiarativa
della causa mortis! Ricordo che il povero professar Mingazzini dedicò tre memorabili
lezioni a questo argomento: nel lontano 1922 calcolava che i drogomani fossero allora
circa mille a Roma.
Leggo oggi in un settimanale che va per la maggiore, che raccoglie e interpreta, seppure
a sua moda, tra le notizie importanti anche i pettegolezzi della Capitale, come si
parli a Roma di 2.500 schedati.
Il giornale è «La Settimana Incom», l’articolo è di Ugo Zatterin.
Senatore Giuseppe Alberti (Psi), Interpellanza parlamentare del 23 marzo 1954, in
Atti parlamentari, p. 3581.
Tre
«Mio padre ha una storia comune, condivisa dalla sua generazione».
Francesco De Gregori, Le storie di ieri, 1975.
Il primo dibattito pubblico sugli stupefacenti dell’Italia repubblicana risale al
1954, e si svolge in vista del rinnovo di una legge ritenuta ormai superata, quella
del 1923.
Vado a rileggermi la discussione di quei giorni, in Parlamento, sui giornali perché
voglio capire come si è parlato di droghe nell’Italia del dopoguerra, mi sembra un
punto di partenza possibile di questa ricerca, non ho chiaro ancora cosa sto cercando
ma so che non posso prescindere da una ricostruzione storica di come si è arrivati
a definire la figura del drogato. Ma prima di farlo ho bisogno di tracciare una breve
storia delle sostanze stupefacenti, una linea del tempo minima per aggrapparmi a delle
date.
La diacetilmorfina (o eroina) ha una storia abbastanza recente: è stata messa in commercio
per la prima volta dalla Bayer nel 1898. Ottenuta riscaldando una miscela di morfina
e acido acetico, viene venduta in Italia come farmaco che «non provoca dipendenza»
fino al 1923, anno nel quale viene resa illegale dalla legge n. 396, Provvedimenti per la repressione dell’abusivo commercio di sostanze velenose aventi
azione stupefacente.
Fino a quel momento la principale emergenza italiana in fatto di dipendenze è stata
quella dell’alcool diventato una patologia sociale nei primi decenni del Novecento:
fonte ne sono i numerosi ricoveri manicomiali per «frenosi alcolica». L’alcolista
viene rinchiuso. Stigma della miseria, l’alcolismo diventa la malattia della classe
operaia. Morfina e cocaina, invece, iniziano a diffondersi in Italia durante la Grande
guerra. Tuttavia questa epidemia «non è sorta nelle trincee, ma si è iniziata alla
periferia, nei grandi centri, ove i bagordi e il piacere dilagavano», scrive il neuropsichiatra
Ferdinando Cazzamalli nel 1919, mentre Antonio Gramsci sostiene che «l’uso della cocaina
è indice del progresso borghese: il capitalismo si evolve. Costituisce categorie di
persone completamente irresponsabili, senza preoccupazioni per il domani, senza fastidi
e scrupoli (1918)»1. In questo clima viene promulgata la legge del 1923 che, seguita dal Testo unico
di Pubblica Sicurezza, vede nel drogato (per alcool o stupefacenti) un soggetto pericoloso
paragonabile ai malati di mente e come tale internabile, se non in manicomio, almeno
in carcere2. Ai medici l’obbligo di denunciare chi si rivolge loro.
L’eroina inizia a diffondersi in modo clandestino, soprattutto negli Stati Uniti dove
negli anni Trenta è già fonte di interventi articolati da parte dello Stato: nel 1935
a Lexington, in Kentucky, apre il primo centro di ricerca e riabilitazione (disintossicazione)
dalle tossicodipendenze3. Solo dopo la seconda guerra mondiale, con Marsiglia che diventa la capitale europea
della raffinazione della morfina, una specialità al pari del «torrone di Montélimar
o le bêtises di Cambrai»4, il nuovo preparato inizia a diffondersi anche nei centri italiani.
L’Italia diventa anzi la «portaerei della droga», una sorta di piattaforma al centro
del Mediterraneo, poiché le tratte commerciali vedono l’oppio partire dalla Turchia
e arrivare in Francia per la raffinazione, passando proprio dalla nostra penisola.
Uno snodo fondamentale per lo spaccio ma non ancora per il consumo.
L’Acis, l’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità, vieta dal luglio 1951 di produrre
eroina nei laboratori chimici italiani. Si vuole stroncare alla base il traffico che
passa dalla penisola gestito dalla mafia italo americana. Invece, proprio per la sua
posizione geografica, l’Italia rimane il più importante punto di snodo europeo. C’è
l’eroina prodotta dalle industrie chimiche per fini farmaceutici che sfugge ai controlli,
poi c’è quella che arriva già pronta all’uso dalla Svizzera, oppure dalla Germania.
«Ma le quantità massicce provengono sempre dalle misteriose vie dello Oriente», racconta
un’inchiesta del 19545. L’oppio grezzo giunge a Trieste, a Genova, a Napoli diretto in Francia dove esistono
laboratori clandestini che lo trasformano in morfina ed eroina. Soddisfatte le richieste
del mercato nero francese, che alimenta quasi tutti i tossicomani d’Europa, buona
parte dell’eroina ritorna in Italia da dove, per le vie del cielo e del mare, raggiunge
gli Stati Uniti. «Scaltrezza perversa. E non si tratta di piccole quantità; il problema
è così grosso che all’ambasciata di Roma è stato inviato uno ‘special agent’ del ‘Bureau
of Narcotics’ il quale, con poteri eccezionali e mezzi imponenti, ha il compito di
tagliare alle radici il contrabbando degli stupefacenti in Europa»6. Lo «special agent» si chiama Charles Siragusa e, in tre anni di indagini, impone
la chiusura di due laboratori clandestini in Francia e fa sequestrare quasi 500 chili
di eroina in Italia. Questo è quanto riporta la stampa che rileva comunque come «le
brillanti azioni delle varie polizie mondiali non impediscono al traffico di stupefacenti
di prosperare»7.
Di Charles Siragusa parla anche il farmacologo Paolo Nencini nel suo La minaccia stupefacente quando ricostruisce le rotte del narcotraffico in Italia nel secondo dopoguerra8. Nencini sottolinea come quello di Siragusa debba essere stato un lavoro fondamentale
di mappatura dei rapporti fra mafia e narcotraffico, se ancora nel 1975, la Relazione
Zuccalà redatta in seno alla Commissione di inchiesta sulla mafia fa riferimento a quanto scoperto dallo «special agent» americano9.
I giornali dei primi anni Cinquanta alternano la cronaca e le inchieste riferite ai
traffici internazionali alla riflessione su un argomento che ancora risulta esotico
per il grande pubblico: per esempio i termini di «stupefacente» e di «narcotico» sono
usati spesso in maniera interscambiabile. Per questo si sottolinea come non sia la
qualità particolare d’un prodotto chimico quanto i concetti di assuefazione o di tossicomania
a dover essere ritenuti importanti. «L’assuefazione è l’adattamento lento e progressivo
dell’organismo ad una sostanza tossica; la tossicomania, uno stato d’intossicazione
periodica o permanente prodotto dall’uso di una droga, tale da provocarne il bisogno
e da generare la dipendenza psicofisiologica da essa». Due definizioni spesso complementari
che riguardano sostanze «assai diverse e di ineguale tossicità, generalmente analgesiche,
le quali hanno in comune la proprietà di modificare l’eccitabilità della corteccia
cerebrale, e, quindi, i rapporti dell’apparato psicomotore con il mondo esterno. Alcune
placano il dolore fisico, altre procurano il sonno o l’oblio, altre ancora sono inebrianti
o ‘euforiche’; altre ancora, infine, producono allucinazioni o sogni che, integrandosi
nel campo della coscienza, suscitano una sensazione di pienezza e di forza». Fumare,
prendere troppi caffè, fare uso costante di sonniferi: tutto questo può essere considerato
tossicomania. «Talvolta, la tossicomania è una sorta di lusso, ed i suoi adepti usano
i tossici senza divenirne gli schiavi: tali gli oppiomani occasionali dell’Estremo
Oriente». Ma «i tossicomani inveterati sono soprattutto dei nevropatici o degli psicopatici,
più o meno fobici o ansiosi, per i quali la droga rappresenta una risposta all’angoscia,
la liberazione da un dolore, la facile evasione dal dramma della loro vita, ma non
tarda a diventare un bisogno tenace, profondo, esigente»10.
I giornalisti si interrogano anche sulla diffusione allarmante della tossicomania
«terapeutica»: quella contratta in seguito a una cura medica. Un legame originale
che ritorna periodicamente a mettere in evidenza le responsabilità delle industrie
farmaceutiche nella diffusione di nuovi (e vecchi) tipi di tossicodipendenza: il caso
Oxycontin, un oppioide sintetico che dagli anni Novanta ha fatto riesplodere il consumo
di eroina nella middle class statunitense, è da questo punto di vista emblematico
e al centro di numerose inchieste giornalistiche ormai da anni11. Ma ci tornerò a tempo debito.
Le droghe più conosciute negli anni Cinquanta, dunque, sono oltre ai barbiturici l’oppio
e i suoi derivati, specialmente la morfina: l’analgesico perfetto, perché sopprime
la percezione cerebrale del dolore. La cocaina, anche grazie al celebre e censuratissimo
romanzo della spia fascista Pitigrilli (al secolo Dino Segre)12 è letterariamente connotata come droga del vizio (e così la consacra anche il film
Roma città aperta nel 1945)13. Poi ci sono i funghi messicani allucinogeni «che godono la fama di procurare la
seconda vista. A essi possiamo aggiungere le solanacee e i loro alcaloidi, le sostanze
inebrianti come l’etere, il cloralio e il cloroformio. Meno nota è la crescente importanza
degli stupefacenti sintetici. I primi che furono scoperti meritano a stento tale qualifica
perché sono assai vicini agli stupefacenti naturali dai quali derivano: tale l’eroina,
che è un alcaloide derivato dalla morfina. Ma, dal 1945, noi disponiamo di droghe
stupefacenti fabbricate interamente dai chimici»14.
Vengono sintetizzati centinaia di composti che sono solo i primi di una lista pressoché
illimitata, di difficile collocazione e che prima di essere considerati pericolosi
vengono, per periodi più o meno lunghi, testati sul pubblico: «quindici di essi (quasi
altrettanti cioè degli stupefacenti naturali d’uso comune) sono già in commercio.
Si tratta di un progresso notevole, ma che arreca almeno altrettanti motivi d’inquietudine
che di soddisfazione. Invero, per il fatto di essere sintetiche, tali sostanze non
sono meno ‘tossicomanogeniche’; e non si sa se si possa nutrire la speranza di crearne
che siano attive, ma non producano l’assuefazione»15. E, poiché la loro fabbricazione è relativamente facile e il loro numero può essere
grandissimo, si comprenderà che il controllo su di esse è estremamente arduo e non
permette di prevedere se saranno pericolose o no. La sola prova efficace può essere
fornita dall’uso abituale da parte dei tossicomani; ma per ottenerla ci vogliono parecchi
anni e parecchi tossicomani da usare come cavie.
«Rammentiamoci il caso dell’eroina che, al momento della sua scoperta, venne giudicata
incapace di provocare l’assuefazione e che si è rivelata poi come il più pericoloso
degli stupefacenti!», ammonisce ancora l’articolo de «La Stampa» nel 195416.
Esiste, dunque, un doppio mercato, quello legale delle ricette mediche e quello illegale
che assorbe 1.500 tonnellate annuali su una produzione mondiale di 2.000 tonnellate.
Facciamo riferimento ancora all’articolo della «Stampa» del 5 gennaio 1954 che riporta
un’inchiesta di André Lemaire per «Le Monde»:
Di tale traffico, si conoscono approssimativamente i centri d’origine e di fabbricazione,
i metodi di trasporto e di dissimulazione, gli itinerari e i fattori che incidono
sui prezzi. Gli stupefacenti sintetici ne restano per ora esclusi. Ma è dimostrato
che tutti i casi di tossicomania cui essi hanno dato origine hanno avuto come punto
di partenza una prescrizione medica. Un’inchiesta recente compiuta nella regione parigina
ha provato che, su 768 casi avutisi dopo il ’45, più di un terzo erano di origine
terapeutica. E il trentotto per cento di questi casi concernevano pazienti le cui
malattie non esigevano, a rigore, la prescrizione di stupefacenti. Segno che i medici,
più che altro per incompetenza, prescrivono con soverchia facilità, oppio, morfina
o dolosal. Ma il problema degli stupefacenti trascende la sorte degli sventurati soggetti
al loro giogo. La scoperta degli stupefacenti sintetici ne ha messo in luce nuovi
aspetti che si possono illustrare formulando i seguenti quesiti. Gli stupefacenti
sintetici sostituiranno tutti quelli naturali in tutte le loro applicazioni terapeutiche?
In quale misura possono interessare la difesa nazionale? È possibile sperare nella
scoperta di analgesici attivi, ma incapaci di produrre la assuefazione? Vedremo passare
sul piano della produzione industriale la sintesi della morfina una risposta all’angoscia
già attuata nei laboratori chimici? Quali ne saranno le conseguenze per i paesi produttori
di oppio? Alcuni di questi problemi troveranno risposta in un prossimo avvenire, tranne
forse quello del controllo, il quale si paleserà sempre più difficile. Accontentiamoci
per ora di esprimere il desiderio che i medici accordino agli stupefacenti sintetici
tutta l’attenzione desiderabile. Bisogna che essi non sottovalutino la funzione che
spetta loro nella prevenzione delle tossicomanie: basterà che ricordino che tutti
gli stupefacenti, naturali o sintetici, possono essere pericolosi e che, di conseguenza,
vanno prescritti solo a ragion veduta17.
L’eroina nel 1954 è definita una droga «dura», un aggettivo che, in questo ambito,
non si usa più. Quali siano le droghe morbide e le droghe dure lo stabilisce la legge,
la 1041 promulgata il 22 ottobre del 195418. Una legge che cerca di limitare la diffusione, disciplina la produzione, stila un
elenco delle sostanze stupefacenti. Secondo la 1041, ad esempio, le anfetamine sono
pressoché innocue, mentre eroina e hashish condividono lo stesso livello di pericolosità.
Sembra un trattato merceologico e, a leggerla, non si ha alcuna idea del mondo che
intende regolare.
Bisogna arrivare all’articolo 21 per incontrare la figura del «drogato»: «il pretore,
su richiesta dell’autorità di pubblica sicurezza o di qualsiasi altro interessato
e previo accertamento medico, ordina il ricovero in casa di salute o di cura o in
ospedali psichiatrici, perché sia sottoposto alla cura disintossicante, di chi, a
causa di grave alterazione psichica per abituale abuso di stupefacenti, si rende comunque
pericoloso a sé e agli altri o riesce di pubblico scandalo»19. Ma il drogato non è quello che diventerà, per la coscienza comune, negli anni a
venire: un giovane, un capellone, un predestinato, il figlio dei fiori. E allora chi
è?
Nei mesi che precedono l’approvazione della legge, la stampa italiana mette a fuoco
l’identikit del «drogato» grazie a due casi di cronaca: il 1954 è l’anno del processo
per l’omicidio di Wilma Montesi, ma soprattutto, meno noto oggi ma molto seguito allora,
del processo a Carlo Migliardi.
Wilma Montesi, scomparsa da casa il 9 aprile del 1953, viene ritrovata cadavere dopo
due giorni, sulla spiaggia di Torvaianica. La questura dirama un comunicato ripreso
dalla stampa: un malore durante un pediluvio e la ragazza è morta affogata. Per questo
non ha indosso le scarpe, il reggicalze, la gonna, ma solo una leggera sottoveste.
I giornali appaiono come i veri protagonisti del caso. Prima rilanciando senza riserve
la tesi del pediluvio fatale. Poi insinuando dubbi. Il primo a farlo è «Paese Sera»
che titola: «La polizia ha scelto la versione della disgrazia. Molti punti oscuri».
Un caso archiviato in fretta, i lettori lasciati senza un colpevole.
Intanto si avvicinano le elezioni politiche. Il clima si fa incandescente quando a
sorpresa si torna a parlare del delitto di Torvaianica. Vengono coinvolte personalità
vicine al governo democristiano. Si dice che la ragazza sia morta in seguito a un
festino in casa del marchese Ugo Montagna, che organizza serate nella tenuta di Capocotta,
non lontano da dove è stato ritrovato il cadavere di Wilma. C’è chi parla di uso di
stupefacenti.
Gli italiani seguono con passione un caso che mostra il lato oscuro di un mondo politico
finora rappresentato solo nella sua veste ufficiale: un «potere morbido», come l’ha
definito Giorgio Bocca una volta che l’ho intervistato sul caso Montesi, che rasenta
il vizio e i peccati, cavandosela sempre20. La «droga» è prerogativa di questo mondo.
Poi c’è il caso di Carlo Migliardi, direttore tecnico della Società farmaceutica Schiapparelli
di Torino, che viene accusato di aver sottratto, per anni, eroina. Nel 1952 l’Interpol
segnala alla guardia di finanza che «ingenti quantitativi di eroina, sequestrati in
Francia, in Germania ed anche negli Stati Uniti, risulterebbero di provenienza italiana»21. L’eroina viene prodotta dalle industrie farmaceutiche, quindi è da queste che devono
partire le indagini. A Milano, a Bologna, a Napoli, a Genova e a Torino vengono distaccati
vari ufficiali «specialisti» della polizia tributaria. Si controllano i dati di produzione
e il commercio di eroina (diacetilmorfina), di dionina (etilmorfina) e di codeina,
tutti derivati dell’oppio. È lo Stato che vende l’oppio alle società farmaceutiche:
da questo viene ricavata la morfina che, a sua volta, è la base da cui si ottengono
eroina, dionina e codeina.
«Inutile dire che le quantità ottenute nei vari procedimenti di lavorazione sono accertabili
con la massima esattezza. I funzionari, dopo aver constatato che tali percentuali
erano in misura notevolmente più bassa del dovuto, verificarono i residui (chiamati
nel linguaggio tecnico ‘acque madri’) che le ditte debbono tenere sigillati in damigiane
a disposizione delle autorità. Ne nacque un colpo di scena: i controlli stabilirono
che le damigiane erano quasi tutte vuote. Fu facile agli indagatori di stabilire con
calcoli precisi che dalla società Schiapparelli negli ultimi cinque anni erano spariti,
o meglio erano stati sottratti, 350 chili di eroina e di altri sottoprodotti similari.
Al prezzo di listino il valore complessivo era di 105 milioni, ma al mercato di contrabbando
gli stupefacenti acquistavano un valore che toccava i 505 milioni di lire. Subito
la polizia tributaria e la direzione della Schiapparelli si ponevano la domanda: a
chi la responsabilità dei colossali ammanchi»22.
Si sospetta subito Carlo Migliardi, direttore tecnico della Schiapparelli appunto,
e professore di chimica biologica all’Università di Torino. La Schiapparelli si costituisce
parte civile, Migliardi si dichiara innocente, poi fugge23. Il processo verrà celebrato nel 1955, passerà in appello e in cassazione: l’imputato
si dichiarerà sempre innocente ma la condanna sarà confermata in ogni grado di giudizio24.
A partire da questo caso giudiziario «La Stampa», quotidiano torinese, pubblica una
serie di articoli molto interessanti su come la gente comune vede i drogati: «generalmente
l’uomo della strada che per sua fortuna non ha esperienze del genere collega la parola
stupefacenti al pensiero di crapule riservate a gaudenti in possesso di molto denaro.
In realtà la parola stupefacenti va collegata ad una piaga sociale che ogni anno miete
migliaia di vittime: come la tubercolosi, il cancro ed altre malattie. Con questa
differenza: per il cancro e la tubercolosi si hanno statistiche esatte, per la tossicomania,
invece, manca qualsiasi dato preciso in base al quale giudicare la gravità del male»25.
«Ma, per fortuna», prosegue l’anonimo giornalista, Torino non è una ‘metropoli tentacolare’.
«Vi sono ristrette cerchie di uomini corrotti o di sventurati irretiti nel vizio,
e vi è chi specula su di essi». Di tanto in tanto la polizia riesce a identificare
uno spacciatore, ma quasi sempre si tratta di una pedina di scarso valore nell’organizzazione
assai vasta che sembra regolare tutto il commercio clandestino degli alcaloidi. «Talvolta
il Tribunale, a proposito di qualche causa per interdizione o per sottrazione dei
figli dalla paterna potestà, chiede perizie tecniche all’Istituto di medicina legale.
L’identificazione del morfinomane è assai semplice poiché egli generalmente si pratica
da solo le iniezioni, in uno stato di frenesia, attraverso gli stessi abiti. L’ago
così infettato provoca inevitabilmente degli ascessi che costituiscono un indizio
sicuro. Il morfinomane spesso cade nel vizio in conseguenza di una malattia per la
quale ha fatto abuso di analgesici»26.
Ma, va avanti l’inchiesta della «Stampa»,
non mancano naturalmente i casi di coloro che cercano nello stupefacente «le evasioni»
o l’eccitazione a piaceri tumultuosi. In realtà la droga porta ad un decadimento fisico
assai rapido, che non risparmia alcuna delle normali attività fisiologiche. Sia detto
di sfuggita che, contrariamente a quanto si crede, la cocaina è assai poco usata;
essa è un alcaloide derivato dall’oppio come la morfina. La cocaina, che furoreggiò
nell’altro dopoguerra in certe cerchie di cultura blasé viene mescolata a sostanze
inerti ed aspirata attraverso il naso. Le narici dei cocainomani sono spesso arrossate
poiché il tossico allo stato puro è un corrosivo tale da provocare la necrosi dei
tessuti. Sotto il profilo sociale il male provocato dalla tossicomania è immenso.
Ogni anno migliaia e migliaia di individui annullano nel vizio la loro personalità
fisica, intellettuale e morale. Essi gradatamente divengono incapaci di controllarsi.
Non hanno più la fermezza per svolgere una normale attività. Desiderano soltanto la
droga a qualsiasi prezzo e con qualsiasi mezzo27.
Il drogato è un vizioso, benestante, che, come scrive Indro Montanelli sul «Corriere
della Sera», «la droga, la serata a Capocotta, il dono dell’appartamento e della fuori
serie al personaggio influente» li usa per condurre una vita non ai margini della
società, ma «comoda e collusa con il cuore del potere»28.
La droga è L’ottava piaga del secolo, così, ancora una volta il «Corriere» intitola un’inchiesta del maggio del 1954 sul
«traffico e sul vizio delle droghe». Tre domande vengono rivolte a degli esperti:
esiste o non esiste la piaga sociale degli stupefacenti? Il problema è più grave ora
o lo è stato maggiormente nel passato? Quali mezzi risultano più idonei per stroncare
il traffico e combattere il vizio?
Il sindaco di Milano, il socialdemocratico Virgilio Ferrari, interpreta perfettamente
lo spirito dei tempi affermando che «Il ‘vizioso’ vittima della droga e incapace ormai
di liberarsi, dovrebbe essere considerato dalla società come un incapace, sì da impedirgli
almeno di recare danno al prossimo». La sospensione dei diritti civili è l’unica soluzione,
un provvedimento analogo a quello applicato ai malati di mente. Sia il questore di
Milano, Daniele Bordieri, sia il presidente dell’ordine dei farmacisti e quello dell’ordine
dei medici concordano sulla necessità di inasprire le pene per i consumatori che sono
il prodotto di un generale «rilassamento dei costumi»29.
Allo scrittore Dino Buzzati è affidato il compito di tratteggiare il ritratto del
drogato, il «morfinomane». Un racconto che vale la pena riportare per intero perché
mette a fuoco un tipo umano destinato presto a scomparire:
A una certa ora della notte, quando le strade si vuotano, cadono con tetro schianto
le saracinesche del Bar Universal e l’ultimo tram, stanchissimo, scompare laggiù in
fondo fuggendo a letto, a questo punto, usciti chissà come dalle tenebre, i morfinomani
convergono alle farmacie notturne che rilucono, candide di neon, così come d’estate
i pelosi farfalloni alla lampada dimenticata sulla terrazza della villa. Per tutto
il giorno essi hanno meditato per escogitare un pretesto nuovo e convincente. Appena
entrati, chi si contorce simulando atroci coliche, chi, le guance ripiegate di lacrime,
descrive gli spasimi della vecchia madre martirizzata da una nevralgia al trigemino,
chi allude alle strazianti pene del suo cane (specificando razza, colore, età, bravure
e nome proprio) colpito da convulsioni misteriose, chi estrae problematiche ricette
di medici residenti in lontani capoluoghi di provincia, tutti recitano la loro parte
con una esattezza di particolari, una verosimiglianza e una passione che in teatro
porterebbero il pubblico al delirio. Ma i farmacisti della notte hanno occhi infallibili.
Non occorre che ascoltino le circostanziate storie, né che decifrino sui volti i segni
tipici della segreta brama: basta che attraverso il vetro intravedano la mano che
sta per spingere la porta e hanno già indovinato. Per cortesia ascoltano, commiserano,
si mostrano buoni e comprensivi, poi scuotono il capo lentamente: «Niente da fare
mio signore». Così gli sciagurati, di farmacia in farmacia, percorrono in lungo e
in largo la sterminata notte della città, finché l’alba li sorprende, rabbiosi esausti
e inappagati. Ne esiste però uno molto furbo. Si tratta di un signore ormai anziano,
dal fare riservato, vestito un po’ alla vecchia che potrebbe essere indifferentemente
un duca, un notaio o un magistrato. Esperto della vita, egli disprezza come ingenua,
vana e umiliante la tecnica usata dai colleghi. Lui sa che nulla, in questi casi,
è più nocivo della fretta e dell’orgasmo. Lui domina il peccaminoso desiderio pensando
che il godimento riuscirà proporzionale alla lunghezza dell’attesa. Lui possiede la
rara virtù della pazienza, lavora a scoppio ritardato, non presume di smantellare
con quattro stolte chiacchiere l’esperimentata diffidenza degli speziali addetti alle
ore piccole. Agisce sia di giorno sia di notte. Entra nella farmacia chiedendo le
medicine più innocenti: un infuso di rabarbaro, le pasticche per la tosse, un cerotto,
una blanda purga, uno specifico per il raffreddore. E ne frequenta una cinquantina
almeno. È assiduo, è dignitoso, è indifferente. Ormai lo conoscono di vista, lo chiamano
«commendatore», lo trattano come un cliente di riguardo. Quando si deciderà a sfruttare
il prestigio a poco a poco guadagnato? Quando verrà la gran giornata? Quando entrerà
successivamente nelle cinquanta farmacie a chiedere, come per uno strano caso, la
vagheggiata scatola di fiale? Quando, insomma, raccoglierà il bottino? Quando rincaserà
con la busta da avvocato gonfia di stupefacenti di ogni genere per la formidabile
orgia solitaria? Mai. Egli prepara il terreno già da anni e continuerà per molto tempo
ancora, allo scopo di perfezionare la sua reputazione adamantina. Illuso. Fin dal
primo giorno, fin dalla prima farmacia, fin dalla prima sillaba uscitagli di bocca,
il dottore in camice dietro al banco l’ha identificato. «Ecco uno di quelli» ha diagnosticato,
senza un’ombra di dubbio dentro di sé. E così hanno fatto i suoi colleghi. Ora i cinquanta
farmacisti, con una certa ansia maligna, lo aspettano al varco. Già pregustano il
momento quando l’incensurabile signore, con l’aria più distratta e innocente, domanderà
la scatola di fiale. E loro, sorridendo comprensivi, scuoteranno il capo lentamente.
Intanto la dimora dell’astuto morfinomane è invasa da medicinali d’ogni specie. Armadi,
credenze, cassettoni, tavoli, canterani e mensole sono zeppi di scatolette di flaconi,
di clisteri, di siringhe, di termometri, di pappagalli, padelle e cinti erniari. Non
esiste al mondo malattia che qui non troverebbe il suo conforto. Tranne la sua30.
È «La Stampa» a spostare l’attenzione sui «giovani» come specifica categoria sociologica
a rischio: «Sono degli psicopatici, dei nevropatici affetti da una angoscia tutta
letteraria che per un istante trovano nella droga l’appagamento di desideri altrimenti
irrealizzabili. Queste schiere di disancorati morali, i ‘teen years boys & girls’,
gli adolescenti, come li chiamano in America, rappresentano il vero pericolo per la
società. Appartengono di solito a famiglie benestanti e sono i più assidui clienti
degli spacciatori che dal mercato nero degli stupefacenti traggono guadagni favolosi»31.
Nel 1954 un grammo di eroina in farmacia costa ottocento lire; ma al mercato nero
raggiunge le quattromila lire. La cocaina può arrivare anche a novemila lire al grammo.
«I facili guadagni inducono persone che per posizione sociale ed economica dovrebbero
apparire inattaccabili a cercare i contatti con gli spacciatori. I casi più clamorosi
di questi ultimi anni in Italia sono stati quelli del prof. Carlo Migliardi, direttore
della Schiapparelli, e del dott. Egidio Calascibetta, direttore della SACE di Milano,
entrambi ancora in attesa di giudizio, ma i proprietari e direttori di laboratori
farmaceutici italiani e stranieri che hanno alimentato il mercato nero con eroina
prodotta legalmente sono numerosi. Con moduli di scarico abilmente falsificati hanno
potuto vendere tonnellate di stupefacenti»32.
Nella rete di questi individui «senza scrupoli» non cadono soltanto i «viziosi» ma
anche le brave ragazze di famiglia umile, le povere giovani «ignare della vita», come
Wilma Montesi, che le incarna tutte. O l’ignota figlia della «mamma di Avellino»,
«la quale viveva credendo che la ragazza fosse a Roma a lavorare e a studiare. Bisogna
pensare a tutte le mamme di Avellino, tutte le mamme di provincia che vedono un giorno
partire la figliola per cercar lavoro in città seguendole con trepido pensiero, fra
i tanti pericoli ai quali le sanno esposte, e che sono i pericoli stessi della vita,
siano almeno fiduciose che qualcuno le difende dal più terribile, dalla droga che
assale, spesso inavvertita e quasi per caso, le sue vittime, le prende, per gettarle,
per sempre vinte, miserabili e sfatte, facile preda alla banda in agguato dei farabutti
e dei mezzani»33.
La droga, come era stato l’alcool a fine Ottocento, viene considerata il «più formidabile
dei veleni sociali», ma quando colpisce la borghesia è «frutto di una società di massonerie,
di ingiustizie, di omertà e di bustarelle»34. Quando invece colpisce i poveri è l’inevitabile conseguenza di una vita degradata
(non c’è nessuna nobiltà nella miseria dei viziosi, dice la legge). Si tratta, come
scrive lo psichiatra Piero Cipriano in una sua riflessione sulla storia culturale
della devianza in Italia, di «risposte semplici, come quella di Kurt Schneider, che
rifacendosi a Cesare Lombroso stabiliva, con formula tautologica, che le personalità
psicopatiche sono quelle che a causa della loro abnormità, soffrono e fanno soffrire
la società»35 e per questo vanno isolate.
Nel 1958, a 4 anni dalla legge, Riccardo Mannerini compone il poema Eroina, che poi verrà messo in musica dall’amico Fabrizio De André nel Cantico dei drogati.
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