Haji, 65 anni, padre di Mushtaq, miliziano Isis, campo profughi di Hamam al Alil, primavera 2017

Tentavano i nostri bambini, i nostri ragazzi, dicevano loro come uccidere i Rawafed¹, usavano la religione come strumento. Giocano con la mente dei ragazzi come potrebbero giocare con la mia, come potrebbero giocare con la mente di un vecchio. Un giorno mio figlio è tornato a casa e mi ha detto: “Seguo Daesh”. Aveva undici anni.

¹ Per Isis i rinnegati, coloro che rifiutano la vera religione. Il termine è usato in modo dispregiativo dai musulmani sunniti, che si riferiscono così agli sciiti perché gli sciiti non riconoscono Abu Bakr, Umar e Uthman come legittimi successori di Maometto e ritengono Ali il primo successore.

Sono andato da quelle persone e li ho implorati di non portarmelo via. La sera stessa mio figlio è arrivato a casa gridando: “Se provi a ribellarti un’altra volta veniamo qui e ti tagliamo la lingua con le nostre mani”.

“Tagliamo”, intendeva lui e gli altri di Isis. Mi diceva: “Stai zitto o ti tagliamo la lingua”. Aveva undici anni.

Io sono analfabeta. Mia moglie è analfabeta. Tutti i miei sette figli lo sono, lo era anche Mushtaq, il più piccolo.

Mushtaq non è mai andato nelle loro scuole, lui non sapeva nemmeno leggere, figurarsi fare di conto. L’hanno subito trasformato in un soldato, era braccia da combattimento, solo questo.

Sapevo chi reclutava i ragazzini qui a Hamam al Alil, allora ho fatto un ultimo tentativo. Sono andato da questo ragazzo e mi sono inginocchiato: “Ragazzo, lascia stare Mushtaq, non farlo unire al gruppo, te lo chiedo da padre”. Lui mi ha risposto: “Infedele, vergognati e vattene”.

Il giorno dopo hanno bruciato la mia macchina. Mushtaq è arrivato a casa con un fucile e con la canna del fucile mi ha picchiato sulla testa. Mi diceva: “Se ti permetti ancora di metterti in mezzo ti ammazzo”.

Sua madre gridava, gli diceva: “Mushtaq fallo per me, fallo per tua madre, non andare”. Lui l’ha picchiata fino a romperle il braccio. Poi se n’è andato, e non l’abbiamo più visto.

Non ricordo nemmeno che mese fosse, sono analfabeta e vecchio. Metà della gente di qui ha figli che si sono uniti a Isis, ragazzini come Mushtaq partiti da Hamam al Alil per seguire questi criminali. Bambini, come lui.

Tante voci sono arrivate alle nostre orecchie in questi anni, qualcuno diceva che in due anni Mushtaq fosse diventato uno dei responsabili della polizia di zona, che girasse armato ai check point, altri raccontano che picchiasse gli anziani. Che picchiasse la gente come me.

Mia moglie ha sentito dire che sia morto cinque mesi fa, colpito da una bomba, ma non so. Non so più nulla di lui. Ora avrebbe quattordici anni, se fosse vivo.

Non ho paura che sia morto, perché dovrei avere paura? È la strada che ha scelto. Ci ha lasciato solo guai, purtroppo nemmeno la sua morte risolverebbe questi guai.

Hanno saccheggiato la nostra casa, rubato tutti i mobili, ci hanno portato via tutto.

Siamo genitori di un soldato di Isis; l’esercito entra in qualsiasi momento, distrugge, minaccia, un giorno sono entrati e ci hanno preso persino la farina, non abbiamo nemmeno più la farina per fare un tozzo di pane.

Divento pazzo, io non ho niente a che fare con Isis e pago le conseguenze perché mio figlio, un ragazzino analfabeta, è stato reclutato, è diventato un soldato e ha scelto di uccidere e morire in nome di Isis. Sia maledetto.

I nostri vicini non ci parlano, mia moglie non può uscire nemmeno per elemosinare un tozzo di pane, ci dicono che dobbiamo andare via con le buone, altrimenti ci manderanno via con la forza. Io divento pazzo.

Perciò se mi chiedi se sono preoccupato, se mi domando se Mushtaq sia morto, se sia vero che un jet da combattimento l’ha ucciso, ti dico che non mi importa. E se mi portassero il suo corpo qui, domani, non lo vorrei indietro.

Porti ciascuno la sua colpa

È marzo. A Mosul è già molto caldo. Karwan guida. Rodi, seduto accanto a lui, lo invita a seguire la regola del gruppo: philosophy of the wrong side, la filosofia del lato sbagliato, dice. Gli suggerisce di superare a sinistra code interminabili di macchine in attesa ai check point. Il primo check point è dei peshmerga; poi, in sequenza, quello dell’esercito iracheno, della Federal Police, la Polizia Federale, e della Golden Division, le truppe speciali. Ogni check point è una scommessa, passarlo o non passarlo dipende dai permessi e dagli umori. Tutto è regolato da una generale arbitrarietà, gli umori dei soldati, la corruzione endemica, le alleanze variabili tra le forze in campo, e le conoscenze familiari. Ogni check point richiede la pazienza di aspettare qualche minuto di intrattenimento: Alt, passaporti, italiani? Totti! Giuventus! Quando va bene è il calcio, quando va meno bene è: Italiani? Berlusconi! E così via, per cinque sei sette check point. Ogni giorno.

A Rodi non piace aspettare, non gli piace neppure l’umorismo dei soldati, soprattutto non gli piace il braccio di ferro con i vertici dell’esercito ai posti di blocco. Ogni volta la stessa litania: chi siete? dove andate? avete le autorizzazioni? Salvo poi scoprire che ogni giorno serve un foglio in più, che un imprecisato ufficio media ha disposto poche ore prima che è necessaria un’altra firma, che bisogna avere un permesso per entrare, uno per attraversare e uno per uscire da Mosul. “Philosophy of the wrong side”, ripete Rodi a Karwan.

Sulla carta Karwan è un autista e Rodi un traduttore. Nei fatti Karwan, curdo iracheno dalle mille vite, e Rodi, giovane medico siriano che ai tempi della guerra a Mosul abitava a Erbil, per nove mesi sono diventati una famiglia con cui abbiamo scandito i tempi della guerra. Il tempo di condividere le brandine di una base militare provvisoria al fronte, di spartire i pasti coi soldati, di mettere via le macchine fotografiche e aiutare qualcuno; o le ore necessarie ad ascoltare una storia, la durata di una stretta di mano, o l’intervallo in cui si accoglie un dolore. Il tempo – la maggioranza del tempo – il lunghissimo tempo delle attese.

È in una di queste attese che ho scoperto che Karwan è più giovane di me sebbene sembri aver vissuto una vita lunga il doppio della mia, e che negli anni Novanta, da ragazzino, è scappato dall’Iraq clandestinamente e senza un soldo. Voleva andare a Londra, una vita migliore. Si spiega così il suo inglese perfetto.

Abbiamo spartito le ciotole di riso scotto nelle stanze buie delle basi militari, perché i generatori di corrente erano spenti e si mangiava con la luce della batteria dei cellulari, finché duravano, ore di strada e silenzi lunghissimi, la paura negli edifici al fronte in cui l’Isis aveva lasciato cavi attaccati a ordigni esplosivi.

E a ogni passo guardarci e chiederci: andiamo avanti?

Nonostante questo ci sono voluti mesi per arrivare a un pezzo così importante della sua vita, e sapere che a diciassette anni Karwan ha provato nove volte a imbarcarsi in un traghetto con altri iracheni, nascosti, clandestini come lui. Era il 1999, l’Europa non aveva così tanti muri, ma i desideri di chi fuggiva erano sempre gli stessi.

“I was so crazy”, ero così pazzo, ha detto sorridendo, mentre sorseggiava dell’ayran². È arrivato a Londra nel 2000 e ha vissuto lì per sette anni. Lavorava come operaio in una officina meccanica, poi un giorno sua madre lo ha chiamato chiedendogli di tornare: “Tuo padre è malato, torna, devi vederlo almeno una volta ancora vivo”. Karwan ha raccolto le sue cose, le poche centinaia di sterline risparmiate per comprare un’automobile e ha preso il primo biglietto per Baghdad. Da lì un pullman l’ha riportato a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, casa sua. Ha visto morire suo padre, si è sposato con sua cugina e ha avuto due figli. A Londra non è più tornato.

² L’ayran è una bevanda a base di yogurt, acqua e sale.

Rodi invece è nato e cresciuto in Rojava, in una famiglia numerosa. In Siria si è iscritto a medicina e nel 2014 ha deciso di finire i suoi studi in Iraq. È esile, ha un viso spigoloso, occhi scuri e intensi. Nei mesi della guerra, da novembre a luglio, le sue tempie si sono sfumate di bianco. Ha un’aria da bravo ragazzo, d’estate indossa spesso camicie a scacchi rosse o blu; d’inverno tanti maglioni, uno sopra l’altro. Una leggera balbuzie ingentilisce i suoi modi risoluti. Rodi ottiene sempre quello che vuole; è un traduttore puntuale e raffinato. Chiedere alle persone di parlare di sé, chiedere il permesso di entrare nella loro vita è un passaggio cruciale di questo lavoro, scavare una terra fertile senza alterarne l’equilibrio; e vuol dire talvolta scegliere di non fare domande.

Un giorno siamo arrivati in anticipo a un appuntamento, ci siamo fermati in un chiosco appena riaperto dopo la guerra per bere un tè. Si è avvicinato un uomo, carnagione scurissima, viso scavato, di circa cinquant’anni. Aveva bisogno di un passaggio verso casa, ed è venuto con noi.

Rodi mi ha guardato e ha detto: “Quest’uomo non è sempre stato così magro, si vede. Voglio capire la radice del suo dolore”. Il tempo di girare l’angolo e Kassam, questo era il suo nome, ha estratto la sua carta di identità dalla tasca destra e una fotografia. Un giovane sorridente, occhi scurissimi, capelli leggermente mossi e una maglia rossa. Era suo figlio. “Me l’hanno ammazzato sulla porta di casa”.

Kassam ha pianto a lungo, in auto con quattro sconosciuti, né io né Rodi l’abbiamo interrotto; non una domanda, non un sostegno. Credo che avesse solo bisogno di lasciare andare quel dolore, una libertà che probabilmente non poteva permettersi in casa, con una moglie e altri quattro figli piccoli da crescere. Era un soldato ai tempi del regime di Saddam; poi ha subìto l’occupazione americana, lo scioglimento dell’esercito, la disoccupazione, la rabbia. E un buco nero nel racconto. “Kassam, li hai sostenuti? Tuo figlio li ha sostenuti? Perché l’hanno ucciso?”. Ha scosso la testa, segno che non voleva andare avanti, e noi abbiamo fatto un passo indietro, perché il suo silenzio era il negativo della storia, era già tutto lì; Rodi l’aveva capito in uno sguardo.

Sa leggere le storie delle persone che incontra con una stretta di mano.

Una delle sorelle di Rodi combatte nello Ypj³, e lui mostra spesso le sue foto inorgoglito; ha una granitica stima per le donne della sua famiglia. “Mia sorella è al fronte oggi, e sia lei che mia madre si prendono scherzosamente gioco di me, perché io le armi non potrei mai toccarle e poi vengo al fronte con voi ogni giorno”.

³ Ypj è un acronimo la cui traduzione significa “Unità di protezione delle donne”. È la brigata interamente femminile dell’Ypg, le forze armate della regione siriana del Kurdistan occidentale, noto come Rojava.

Rodi ha anche una fidanzata, Judi, che lo aspetta in Rojava da più di un anno. Ogni settimana lui le promette che appena la guerra sarà finita la raggiungerà, la chiederà in moglie, e – come da tradizione – la sposerà e la renderà felice. La guerra però è lunga, Judi è lontana e parlarsi da una parte all’altra di due paesi in guerra è un cammino a ostacoli. Così, a volte, su quelle brandine a terra nelle basi temporanee dei soldati, Rodi parla con Judi, sospira, le dice che no, non si mette in pericolo, che evita le prime linee del fronte, che fa di tutto per avere dieci minuti di connessione tutte le sere per darle la buonanotte. Ma poi non è vero che Rodi evita le prime linee del fronte. Non gli piacciono le armi, ma la guerra la conosce e la sa raccontare bene. Così un giorno di marzo, mentre attraversavamo un vicolo di tre metri, quattro al massimo, io e Rodi siamo stati lisciati dai colpi di un cecchino. Due colpi sordi, puliti. Uno ha seguito il mio passo mentre correvo e uno il suo. “Mannocci, our lucky day”. Mannocci, così mi chiama, il nostro giorno fortunato. Non è stato il solo.

Rodi talvolta dimentica il giubbotto antiproiettile, ma ha sempre con sé una busta di plastica con la sua coperta di lana. Non gli piace dormire con le coperte nelle basi dei soldati, dice che non si sa chi le abbia usate prima, magari i Daesh. Così porta la sua da casa, da uno dei quartieri di recente costruzione di Erbil, che sembra una piccola Dubai, con distese di palazzoni di decine di piani, tutti uguali, separati da qualche centro commerciale e ristoranti rumorosi illuminati al neon.

In uno dei giorni di marzo del 2017 eravamo nella parte orientale di Mosul, che allora era stata liberata da un paio di mesi. I danni erano tutto sommato contenuti e ognuno, per quello che poteva, tentava di costruire un po’ di normalità. Un uomo svuotava l’interno della sua abitazione dai detriti provocati dai colpi di mortaio; gruppi di dipendenti statali in tute blu ripulivano le strade, qualcuno riportava alla vita botteghe di generi alimentari e caffè. Sulla strada dell’università, a Mosul est, un ragazzo preparava la brace per un kebab, mentre un bambino spazzava a terra tra i sei tavoli verdi di plastica all’interno di un ristorante. Non c’era nessuno ai tavoli e un gruppo di mosche ronzava intorno ai piatti di felafel e pomodori. Avevo fame. “Mangiamo, ragazzi”, ho proposto. Così ci siamo fermati.

Il ragazzino che spazzava per terra si chiamava Abudi. Ha sorriso guardandomi e mentre aspettavamo di mangiare ci ha raccontato la sua storia nel retro del ristorante: meglio nel retro, ha detto, perché non si sa mai chi può ascoltarti. Si è seduto su un congelatore, ciabatte ai piedi e maglietta a maniche corte grigio scuro. “Oggi fa caldo”, ha detto, “speriamo continui così, mi restano solo due magliette a maniche corte, non saprei come ripararmi se facesse freddo”. Abudi aveva dodici anni. Era scappato con la sua famiglia durante i combattimenti due mesi prima, all’inizio dell’offensiva. Aveva una voce ruvida e un argomentare profondo. Il suo viso era severo, come di chi porta sulle spalle un peso superiore alle proprie capacità, un volto così indurito che lo faceva sembrare una creatura senza età. Ti accorgevi che aveva dodici anni solo quando, improvvisamente, accennava un sorriso. Per un po’ ci è parso di scorgere il viso di un bambino.

Mentre parlava, Abudi incrociava nervosamente il pollice e l’indice della mano sinistra, il movimento delle dita si faceva più brusco quando raccontava le violenze di cui era stato testimone. “La prima esecuzione è stata terribile. Tre ragazzi sgozzati in piazza, con le spade. Anche la seconda è stata brutta: un ragazzo lanciato da un palazzo, accusato di stregoneria. Ma la terza cui ho assistito, quella di Mourad, è stata la peggiore. Non era la più violenta, però era la più vicina a noi. O forse è stata la peggiore perché ci stavamo abituando, papà diceva così. Diceva: ‘Figlio mio non ti abituare’”.

Mi sono chiesta quand’è che Abudi avesse smesso di essere un bambino o se mai lo fosse stato.

“Che sogni hai Abudi?”, gli ho domandato. Era ancora seduto sul congelatore, con le gambe penzoloni e le ciabatte intorno ai piedi sporchi mentre stropicciava ancora l’indice e il pollice della mano destra in un movimento sempre più sincopato dal basso verso l’alto. “Non ho nessun sogno – mi ha risposto – io non ho sogni”.

Abbiamo trascorso il resto del pomeriggio intorno ai tavoli verdi di plastica del ristorante in cui lavorava Abudi. A parte noi, non è entrato nessun altro. Abbiamo mangiato qualche felafel, un po’ di pomodori e cetrioli, bevuto una coca. Abudi ci ha raccontato degli altri, dei figli di Daesh: avevano la sua età ed erano “vestiti alla Kandahar”, vale a dire con i pantaloni corti a metà polpaccio o in divisa militare con la fascia nera dell’Isis intorno al capo e le armi sulle spalle. Ci ha raccontato di quei bambini che presidiavano le strade e insultavano gli anziani e cercavano di reclutare coetanei con la promessa di giochi e caramelle prima, motociclette poi, e infine le vergini. Bambini già adulti: avevano undici, massimo tredici anni e pattugliavano le strade, violenti come i padri. Mentre mangiavamo il nostro felafel Karwan ci ha mostrato una foto della figlia più grande; sua moglie – insegnante di inglese in una scuola elementare di Erbil – gliel’aveva appena spedita. Parlare dei figli lontani era un piccolo rito per noi, nei mesi della guerra. Forse pensavamo ci salvasse da tutto quel dolore. Forse mitigava il peso delle vite degli altri. Oppure era qualcosa che si stava incrinando, le solide certezze dell’inizio della guerra, il bene e il male, non funzionavano più.

Nella foto la figlia di Karwan era vestita di rosso: l’abito da principessa, lo chiama, mi ha detto. Era venerdì, giorno di festa dunque, e la moglie l’avrebbe portata a passeggiare con il fratello minore. La bambina ama le giostre, poche sere prima Karwan ci aveva fatto vedere un breve video, lui e la piccola sulle macchinette a scontro all’esterno del family mall a Erbil. Rodi ci osservava mentre condividevamo le nostalgie di padri e di madri lontane dai figli; anche lui vuole dei figli, una famiglia numerosa come la mia, dice, non appena torno in Rojava e sposo Judi.

“Cosa si deve fare con i figli dell’Isis, Rodi, secondo te? Cosa farà l’Iraq?”, gli ho chiesto. Rodi stava masticando un pezzo di pita, non aveva ancora finito il boccone e ha alzato lo sguardo senza togliere gli occhiali da vista che ogni tanto indossa, ma non sempre.

“Ne ammazzeranno il più possibile, che devono fare?”, ha risposto con pacatezza. “L’Iraq non ha sicuramente le risorse e probabilmente neppure la voglia di salvare questi ragazzini. Non ci sono progetti a lungo termine per cavargli dalla testa il lavaggio del cervello che gli hanno fatto, perciò rischiano di diventare peggio dei padri e per di più saranno stigmatizzati e rifiutati da tutti. Non è che l’Iraq non vuole essere generoso e magnanimo e perdonare ed essere indulgente con le famiglie dell’Isis. È che non può”.

“Tutto guarisce se curato – mi ha detto –. Ma solo se curato. Fate una cosa, questi bambini prendeteli voi europei che avete mezzi e competenze, poi ce li restituite quando e se li avrete guariti”. Lo osservavo. Che Rodi sia un dottore, si vede dalle mani che sono minute e affusolate. Tutti i medici hanno mani simili, mi sono detta mentre parlava.

Non so se farà mai il dottore, se si trasferirà in Rojava e lavorerà curando pazienti e la sera tornerà a casa da Judi, e i bambini che avranno avuto nel frattempo gli correranno incontro sulla porta. Non so se quello che ha studiato nell’università di Erbil diventerà il suo lavoro e gli darà da vivere, so però che quel giorno di marzo, mentre mangiavamo felafel freddi e pomodori e cetrioli nel ristorante dove lavorava il piccolo Abudi che ha visto sgozzare la gente a Mosul, il mestiere di Rodi è diventata una similitudine perfetta.

C’era, nelle parole di Rodi, un tono che somigliava a un rimprovero. Sapeva che l’avrei colto.

Mi stava dicendo: è facile per te sederti a questo tavolo di plastica verde in Iraq, e riflettere sulle categorie del bene e del male, del perdono e del castigo, ma qui c’è la guerra e i giudizi sono più semplici, le differenze si assottigliano e quando si assottigliano di solito vince il male: tuo padre ha ucciso mio figlio, quindi io non voglio che tu sopravviva.

Brutale, è vero, ma lineare. Mi stava dicendo che la vendetta regola le azioni e le valutazioni. Ma quel “Ne ammazzeranno il più possibile, che devono fare?”mi stava dicendo anche altro. Quella frase era il resoconto di una razionale e cruda disamina dei costi e benefici della guerra di Mosul. Mi stava dicendo: ci siamo già passati, gli americani hanno invaso l’Iraq, volevano schiacciare il terrorismo ed esportare democrazia e invece hanno moltiplicato gli scontri settari e favorito le condizioni di ascesa di fondamentalismi peggiori delle dittature che li hanno preceduti. Mi stava dicendo: anche se avete mezzi e competenze, in questa parte di mondo continuate a reiterare gli stessi errori da decenni. Agite ma non avete visione, perciò la risolviamo a modo nostro, eliminando il problema alla radice.

Ammettiamo che siamo pronti ad accettare l’idea che sia lecito uccidere centinaia, migliaia di bambini, se serve. Perché li consideriamo perduti, perché rischiano di diventare peggiori dei padri. Il degrado del dopoguerra non può che abbrutirli, i sopravvissuti saranno marchiati per sempre e se all’inizio quel marchio sarà un’onta, negli anni diventerà un segno di riconoscimento, un fattore unificante, una ideale medaglia alla continuità del progetto del Califfato, e quei bambini sopravvissuti saranno la pianta rigogliosa del seme lasciato dall’Isis. Mi stava dicendo: non ce lo possiamo permettere, voi non lo avete ancora capito, ma per noi è tutto già visto. Quel “Ne ammazzeranno il più possibile, che devono fare?”praticamente era una strategia antiterrorismo. “Ammazziamoli tutti”. Dove l’avevo già sentito?

A dicembre 2016 in Libia si combatteva per liberare Sirte dall’Isis.

Nel luglio dell’anno precedente Isis aveva imposto il proprio controllo sulla città dopo aver sedato nel sangue una rivolta capeggiata dalla tribù locale dei Farjani. I cadaveri dei rivoltosi furono esposti al pubblico, alcuni di loro crocifissi e lasciati in piazza per giorni. Sirte era la città natale dell’ex rais Gheddafi, roccaforte del suo consenso e teatro della sua morte. Dopo la rivoluzione, la gente di Sirte ha subìto l’esclusione e la riprovazione generale, più o meno lo stesso è accaduto nella regione di Anbar in Iraq, che era stata bacino del consenso di Saddam Hussein. Dopo l’occupazione americana e lo scioglimento del partito Baath e dell’esercito iracheno, il triangolo sunnita iracheno è stato marginalizzato e punito fino a diventare il teatro degli scontri più duri delle insurrezioni contro gli americani prima e della guerra civile poi.

Città simbolo dei regimi deposti che sono diventate in un caso e nell’altro roccaforti di un fondamentalismo che ha sfruttato l’instabilità traducendo in violenza il malcontento.

A Sirte si combatteva, insomma. La rotonda di Zafaran, dove fino a pochi mesi prima i miliziani dell’Isis avevano impiccato e crocifisso le persone che consideravano infedeli, portava i segni di una guerra aspra: case, moschee, banche, ospedali erano stati distrutti.

Sulla strada che conduce all’imponente centro congressi di Oagadougou, voluto da Gheddafi nella sua città natale a simbolo del proprio potere e del proprio consenso, c’erano ancora due cartelloni dello Stato Islamico. Il primo invitava i giovani alla preghiera, il secondo mostrava un kalashnikov e un testo che recitava: “Se tradisci noi, tradisci la tua famiglia”. Quelle di dicembre sarebbero state le ultime settimane della guerra libica contro l’Isis, le poche decine di miliziani rimasti erano assediate nel quartiere di al Giza, sul mare. Era impossibile capire quanti miliziani ci fossero ancora all’interno delle case, era ancora meno possibile capire quanti fossero i civili intrappolati. Negli ospedali da campo arrivavano bambini disidratati e terrorizzati. I dottori chiedevano dove fossero i padri. Loro rispondevano: “Stanno combattendo contro di voi”. I più traumatizzati gridavano ai medici e agli infermieri che erano infedeli e sarebbero finiti all’inferno. Erano giorni in cui alla disperazione per i soldati morti per gli attacchi suicidi di Isis si alternava l’entusiasmo dell’avanzata che volgeva al termine. I soldati libici erano quasi tutti giovanissimi, andavano al fronte con i fucili e le ciabatte. Armi tante, addestramento poco e scarso.

Volevano mostrarsi coraggiosi e fieri: “Stiamo proteggendo l’Europa dall’Isis”, dicevano spesso come una lezioncina imparata a memoria che chissà quale generale gli aveva messo in testa, concordata forse con gli eserciti europei che fornivano mezzi di terra e bombe. Cinquecento, quelle americane, in sette mesi di guerra. Per mesi i soldati libici, anche i più giovani e meno assennati, hanno mantenuto discrezione sulla cattura e il trattamento dei prigionieri. Difficile sapere dove li portassero e chi li interrogasse, se i foreign fighters sarebbero stati rispediti nei paesi di origine.

Le ultime settimane di guerra si somigliano un po’ tutte, il pudore lascia spazio ai dati di fatto.

“Ma quali prigionieri? Noi non facciamo prigionieri”, ci aveva detto a dicembre Makmoud, ventun anni, di Misurata, studente di informatica e a tempo perso soldato che protegge dall’Isis i confini al di là dell’Europa. “Non abbiamo fatto prigionieri”; questo era il mandato della guerra: kill them all.

Il giorno prima che Sirte venisse dichiarata ufficialmente liberata, i soldati libici hanno estratto un giovane dalle macerie di al Giza. Aveva il volto segnato dalla fame e dalla sete, la barba lunga e incolta, indossava un paio di pantaloni verde mimetico, lacerati in più punti, sopra una maglietta cui erano state strappate via le maniche.

Mentre il soldato lo strattonava, si intravedeva il torace del giovane, così magro che si potevano contare le costole. Decine di altri soldati intorno, gridavano “Allahu Akbar”. Il giovane miliziano estratto dalle macerie era completamente disarmato. Tecnicamente, un prigioniero. Il soldato libico con un berretto capovolto sulla fronte lo teneva per i capelli e, per trascinarlo via e portarlo sul piazzale, lo spingeva con scosse violente. In pochi secondi tutti gli scalini della piramide di detriti si sono riempiti di altri soldati, berretti in testa, ciabatte ai piedi e fucili. Uno di loro aveva una t-shirt con su scritto “Tremendous law”.

Sparavano in aria, tutti insieme, come celebrando un’euforia collettiva. Finché uno dei soldati ha sparato alle gambe del prigioniero. Continuavano a urlare “Allahu Akbar” sempre più forte, fino a diventare un’unica voce. Poi gli spari, sordi, contro il ragazzo disarmato.

Non avremmo dovuto essere lì, soprattutto non avrebbero dovuto essere accese la mia telecamera e la macchina fotografica di Alessio, ma lo erano. Perché avevamo speso così tanto tempo con quei soldati da guadagnarci la loro fiducia, per questo quel giorno avevamo raggiunto un punto così avanzato del fronte e nessuno era preoccupato della nostra presenza. Uno sparo, due, una gragnuola.

Ci siamo guardati ed è bastato un battito di ciglia e un gesto rapido del capo per camminare velocemente via di lì, il tempo di togliere le schede di memoria dalle macchine fotografiche, nasconderle nella tasca più interna dei pantaloni e chiedersi dove fossero le sigarette.“Fammi fumare per favore”.

Ogni tanto riapro quella foto e mi fermo ad osservare. Il ragazzo – il miliziano catturato – stringe la sua coscia sinistra, un soldato alla sua destra lo sta strattonando fino al piazzale antistante il mare, l’ultimo lembo del quartiere di Giza ormai raso al suolo. Intorno a lui decine di soldati, tutti armati. La fotografia ferma il momento esatto in cui il primo sparo l’ha colpito alla gamba sinistra. Il miliziano ha un’espressione mostruosa sul volto. Difficile dire se dal dolore o dalla paura. Ogni volta che guardo quella fotografia trovo un particolare che non avevo notato. L’ultima volta mi sono resa conto che c’è una persona di spalle in basso a destra, ha un camice blu. Era uno degli infermieri dell’ospedale da campo. Anche lui esaltato da quel momento di violenza collettiva, spettatore entusiasta di un crimine di guerra.

Abbiamo visto tanta morte e tanti feriti in questi anni. Ma quel giorno a Sirte è stato diverso. Quella era un’esecuzione, era la parte della guerra che non avremmo potuto e dovuto testimoniare. Al nostro ritorno il corpo del ragazzo era steso sull’asfalto, più o meno nella posizione che aveva raggiunto quando è stato colpito dal primo colpo, alla gamba. Intorno a lui altre decine di corpi. Decine di ragazzi giovanissimi, scalzi, affamati, pronti a tutto, con i loro passaporti in tasca. Giovani tunisini, iracheni, nigeriani, maliani. E libici, ovviamente.

Si era fatta l’ora della preghiera. A sinistra, il mare e i soldati sul marciapiede in file di due tre al massimo, a pregare, scalzi sui tappetini in direzione della Mecca, ginocchia a terra, i palmi delle mani rivolti verso il viso, lo sguardo basso. A destra, Giza distrutta; in mezzo sull’asfalto i cadaveri dei miliziani morti, e noi fermi a guardare. Mentre osservavamo quel corpo circondato da decine di altri corpi abbiamo sentito un colpo secco, fortissimo. Proveniva dallo stesso gruppo di macerie da cui era stato estratto il giovane miliziano pochi minuti prima. Abbiamo alzato gli occhi verso qualcosa di indefinito in cielo. “Braccia”, mi ha detto Alessio, “e un pezzo di busto”. Era un altro miliziano: pur di non farsi catturare si era fatto saltare in aria.

La morte di quel ragazzo ucciso di fronte ai nostri occhi è figlia della violenza di tutte le guerre, certo, ma lo era anche dell’elementare strategia antiterrorismo evocata da Rodi: risolvere il problema ammazzandone il più possibile.

Quel giorno di marzo, di fronte a un felafel a Mosul est, mi sono chiesta se la narrazione dell’Isis che si è imposta in questi anni e che ha descritto il gruppo terroristico come un mostro monolitico da disintegrare ad ogni costo fosse sufficiente a spiegare ciò che stavamo vivendo, e soprattutto quello che stavamo testimoniando a Mosul.

Dopo aver ascoltato la saggezza del piccolo Abudi, le parole di Rodi, dopo aver ricordato l’esecuzione del miliziano di Sirte, mi sono chiesta cosa fosse l’Isis nell’immaginario collettivo.

L’Isis è il male senza appello. Le bandiere nere, spiegate, senza sfumature. I miliziani dell’Isis non sono solo soldati del jihad in nome di una interpretazione distorta della religione, sono diavoli perversi, assetati di sangue, che vogliono corrompere le anime dei giovani musulmani e distruggere l’Occidente. Con l’Isis non si può parlare. Con l’Isis non si deve parlare. Sipario. Fine.

È sufficiente? No, non lo è stato e non lo è. Credo che una delle ragioni per cui l’Isis sia stato descritto come un mostro monolitico sia che questa descrizione è stata funzionale all’unica risposta che l’Occidente ha saputo dare al terrorismo in questi anni: violenza contro violenza. Bombardamenti indiscriminati, esecuzioni sommarie, punizioni collettive. Questo, certo, porta a vincere la guerra momentanea, quella a favore di telecamera, con le parate di pick up e i carri armati che sventolano le bandiere irachene e il premier al Abadi che ringrazia la coalizione internazionale al grido di “Abbiamo vinto e annientato il male”.

Ma non porta né a capire né a vincere le sfide di domani.

La violenza in questi anni è diventata un alibi e la narrazione dell’Isis è servita a giustificare qualsiasi cosa fosse ritenuta necessaria contro quel male. E a giustificare una rimozione di massa: i foreign fighters e i loro figli rifiutati dai loro paesi di origine in Europa, la vendetta dei villaggi iracheni nei confronti dei familiari di Isis.

Trascinati in un oblio che rende colpevoli anche le vittime.

Abudi, dodici anni, quartiere di al Tanak, Mosul ovest, primavera 2017

Mio padre aveva un’officina meccanica, di tanto in tanto andavo da lui, per aiutarlo. Un giorno nella piazza lungo la strada per arrivare da lui ho visto tanta gente raccolta ad osservare qualcosa. Quelli di Isis stavano sgozzando tre uomini.

Ricordo i brividi lungo tutto il corpo. Sono corso verso il negozio di mio padre. Gli ho detto che avevo paura. Ma non ho pianto.

Capitava spesso così, improvvisamente. Mentre le persone lavoravano, nelle officine, nelle botteghe, capitava che quelli di Isis portassero via qualcuno, facessero uscire gli altri dai negozi vicini e lo ammazzassero davanti a tutti. Altre volte ci obbligavano a camminare, fino a raggiungere al Muwahid o al Danma per assistere alle esecuzioni.

Quando mi sgozzavano la gente davanti io volevo solo andare a casa, ma anche quando tornavo a casa quell’immagine non mi abbandonava mai. Pensavo e pensavo e a volte sognavo quegli uomini senza testa. Erano incubi terribili, mi svegliavo urlando per il terrore. Avevo paura che potessero farlo anche a mio padre, ai miei fratelli. A me.

Provavo a dimenticare ma ogni volta succedeva di nuovo. Di fronte alla moschea del quartiere, o alla colonna dove c’era la bottega per comprare la frutta.

Allora papà mi ha detto di non andare più all’officina. E di lasciarlo lavorare da solo.

Mi ha detto: “Resta a casa, stai con tua madre e i tuoi fratelli”.

Prima dell’Isis avevamo tutto. Io andavo a scuola, papà con l’officina guadagnava bene e potevamo vivere in pace. Apriva il negozio molto presto al mattino e a volte quando non c’era scuola ero felice di aiutarlo. Mi faceva sentire grande. Ero felice quando doveva riparare le motociclette. Pensavo a quando sarei cresciuto e gli avrei chiesto di trovarne una adatta a me. Avevo i giocattoli e avevo una stanza tutta per me.

Prima che arrivasse Isis frequentavo la quarta classe, il mio insegnante preferito era Younes, e volevo bene anche al preside Qusai. I miei migliori amici erano Khaled, Muhammad, Ahmad e Yussef. Dividevamo tutto. I giochi, lo studio.

Poi è arrivato Isis. E a scuola le lettere dell’alfabeto erano usate come esempi per nominare le armi: P per proiettile, H per howitzer⁴. La matematica lo stesso, le addizioni erano la somma di armi. Pistola + pistola. Pallottola + pallottola. Su uno dei testi che usavano per insegnarci la matematica c’era scritto: “Se un bambino si fa esplodere in mezzo a un gruppo di venti persone e ne muoiono quindici, quante persone restano vive?”. E poi nelle scuole c’erano i bambini dei miliziani, i loro figli, vestiti da combattenti come i padri, e armati. Cercavano di convincere gli altri bambini a giurare fedeltà al Califfo.

⁴ Arma da fuoco di artiglieria, impiegata prevalentemente per il tiro diretto sui bersagli.

Li ho visti persino dare scosse elettriche a delle persone per costringerle a giurare fedeltà. Non c’era scampo, giurare fedeltà era obbligatorio.

Ho visto quei bambini, i loro bambini, picchiare gli anziani, sputare addosso ai vecchi, chiamarli cani, animali.

Volevano cambiare tutti. Perché avete tagliato la barba? Perché avete i pantaloni così lunghi? Perché non siete alla preghiera? E frustavano, punivano, incarceravano. E incitavano ad andare alle preghiere, ad andare in moschea. Chi non andava in moschea rischiava di essere ucciso. Ho visto tutto con i miei occhi. Salivano sui piani più alti delle case per buttare giù le persone.

A volte uccidevano le donne con i sassi, le lapidavano.

Una volta hanno attaccato il corpo di un uomo alla macchina e l’hanno trascinato per le strade di fronte a tutti.

Ho visto tutto, ho visto tutto.

Le donne dovevano coprire il volto, indossare il niqab⁵ e anche i guanti neri. Chi non rispettava le regole era condannata ad essere frustata in strada.

⁵ Nella tradizione islamica, indumento femminile di colore nero che copre la testa e l’intera figura lasciando scoperti solo gli occhi.

Una volta io e mia madre stavamo andando a casa di alcuni parenti, ci hanno fermato perché ritenevano che mia madre non fosse sufficientemente coperta. Allora sono arrivate le donne del gruppo al Khansa, la brigata della polizia femminile di Isis, e hanno trascinato mia madre in strada dicendo che l’avrebbero frustata, hanno fatto uscire i vicini dalle case e costretto a guardare e hanno frustato mia madre in strada, davanti a tutti.

Le hanno ordinato di sedersi a terra e hanno iniziato a frustarla sulla schiena. Se fossi stato armato le avrei uccise, sì, pensavo solo che volevo ucciderle per quello che stavano facendo a mia madre.

E piangevo, guardavo mamma mentre le frustavano la schiena, e piangevo.

Isis è come un fuoco che ci ha bruciato. Hanno dato fuoco alla nostra vita. Ci hanno tolto anche la casa. Un giorno sono arrivati e ci hanno ordinato di lasciare immediatamente la nostra casa, dicendo che quella casa, la nostra casa, da quel momento era la loro. Per un po’ ci hanno ospitato i vicini, aiutandoci con un po’ di cibo e i loro risparmi.

Tutti i nostri beni, tutti i nostri guadagni, la nostra casa, abbiamo perso tutto per colpa loro. All’inizio venivano in officina da papà e pretendevano riparazioni, dicevano che se papà non avesse lavorato per loro avrebbero dato fuoco al negozio. Allora papà riparava le loro macchine e le moto.

Poi è iniziata la guerra e un giorno sono andati in negozio e gli hanno portato l’esplosivo dicendo che se non avesse lavorato preparando le autobombe lo avrebbero sgozzato. Papà non voleva, non voleva. Allora quel giorno ha chiuso il negozio e non l’ha più riaperto.

Cosa è stata la guerra lo posso descrivere come una casa che cade. La nostra vita, la nostra casa, ci è caduta addosso, come i miei incubi di notte. Che mi cadevano nella testa e non se ne andavano.

Bombardavano e bombardavano. Noi ci eravamo rifugiati dai vicini e la casa ci è caduta completamente addosso. Siamo rimasti incastrati tra le macerie per ore, non saprei dire quante ore, so solo che pensavo che sarei morto lì. Poi delle persone generose ci hanno liberato, ci hanno aiutato a uscire dalle macerie della casa dei vicini.

La guerra è la fame. Negli ultimi tempi prima di scappare mangiavamo solo erba di prato. Eravamo bloccati dalle bombe e mangiavamo erba. Vendevano cara persino l’erba di campo. Un chilo di erba costava 10 mila dinari e noi eravamo costretti a mangiarla perché non c’era cibo, non c’era nulla. Quelli di Isis avevano portato tutte le provviste in una moschea per distribuirle solo alle famiglie degli affiliati. I loro bambini mangiavano e per noi c’era solo erba. Mio padre sbatteva la testa al muro quando noi piangevamo dalla fame.

Io non li perdonerò mai. Né loro né i loro figli.

L’Isis usava la gente come scudi umani. Ci spostavano. Una volta hanno preso noi e i nostri vicini, erano armati e ci hanno costretto a camminare davanti a loro. Altre volte costringevano gli uomini a combattere, a sparare contro l’esercito. Quelli che non sparavano erano giustiziati.

Ora devo lavorare, per aiutare la mia famiglia ad andare avanti.

A causa della guerra mio padre è rimasto invalido, per la bomba che ci ha colpito a casa dei vicini. Non può più lavorare. Quindi non vado a scuola, la mattina esco e spero che qualcuno mi dia un lavoro così abbiamo un po’ di soldi per mangiare.

Ieri non avevamo nemmeno mille dinari per comprare il latte per mio fratello piccolo, ho bussato alla porta dei vicini. Mi vergogno quando busso per chiedere i soldi. Sono tre giorni che nessuno mi dà da lavorare, così per due giorni non abbiamo mangiato. Viviamo in questa casa, ma non è casa nostra, non c’è niente di nostro. In verità non c’è proprio niente, perché non possiamo comprare nemmeno un piatto o un bicchiere. Dividiamo la casa con altre due famiglie, dormiamo in sette in una stanza. Il proprietario dice che se non paghiamo l’affitto dobbiamo andare via, ci butta in mezzo alla strada.

Se mio padre potesse lavorare, tornerei a scuola. Mi mancano i miei amici, la mia classe, ho nostalgia delle maestre e del preside e di Youssef e Muhammad. Molti dei miei amici sono morti. Ma devo lavorare, allora non ci penso, ci penso magari la sera quando vado a dormire. Ma molte volte sono stanco e allora ci penso poco.

Due giorni fa i vicini qui intorno hanno catturato un ragazzo e hanno chiamato la polizia, dicevano che era uno di Isis. I poliziotti ce lo hanno ucciso davanti, era l’altro ieri notte. Da una parte ero felice che era morto, però pensavo che era come durante la guerra. Che prendono le persone da casa e le ammazzano così. Spero che Dio faccia giustizia, e che come loro hanno ucciso, possano essere uccisi, sì loro e le loro famiglie. Mio zio, mio cugino, l’altro mio zio sono stati uccisi insieme alle loro famiglie. Che Dio possa punirli e fare loro quello che hanno fatto a noi. Siano maledetti, gli adulti e i loro figli.

Ce ne sono ancora molti nel quartiere, li riconosco, so chi sono gli affiliati e i loro bambini. Li ho visti camminare, li vedo in macchina. Li incontro mentre esco per cercare lavoro. Li guardo, ma ora sono loro che abbassano gli occhi. Ma non possono cambiare, chi ha il male dentro non può cambiare. Se nessuno mi vedesse, se avessi una pistola, li ucciderei con le mie mani.

Quella paura è il diavolo

Quando a luglio 2017 il primo ministro iracheno Haydar al Abadi riunisce i rappresentanti delle forze armate nella base della Golden Division, alla periferia di Mosul ovest, sulla linea del fronte ancora si combatte.

È il 9 del mese, l’aria brucia. Il primo ministro seguito dalla scorta è nervoso, inquieto di fronte a uno sparuto gruppo di soldati festanti radunati lì per l’occasione, e a noi giornalisti rilascia una dichiarazione veloce, formale, poco convinta. Ci sentiamo testimoni di una messinscena affrettata, in cui attori e comparse recitano la propria parte nella commedia della convenienza. Ma noi abbiamo bisogno delle parole di al Abadi per il tg della sera e per i quotidiani del mattino dopo e al Abadi ha bisogno dei riflettori per dimostrare al pubblico che la tenuta dello Stato è solida, e il nemico è finalmente sconfitto.

“Ringrazio tutti per lo sforzo e l’energia con cui è stata liberata la città”, dice la voce di al Abadi con timido orgoglio; alle sue spalle qualche soldato sventola grandi bandiere, i più giovani in piedi sui mezzi blindati intonano l’inno nazionale, tutti cercano un selfie con il primo ministro, l’ultima testimonianza della guerra più mediatica degli ultimi anni, un’istantanea di partecipazione bellica.

Le guardie del corpo di al Abadi indirizzano le telecamere e le macchine fotografiche dei giornalisti: “Avvicinatevi”, “Tornate indietro”, “Ora basta. Andate via”. Le parole di al Abadi dichiarano vittoria, ma il suo volto racconta un’altra verità, quella più difficile da dire. Che sradicare i fedeli di al Baghdadi dalla seconda città del paese non significa aver vinto.

Quello che le parole di al Abadi non possono ammettere, ma che la prossemica rivela più eloquentemente, è che la vera guerra per l’Iraq inizia il giorno dopo la dichiarata liberazione della città. Perché i miliziani dell’Isis, che hanno combattuto nel nome del Califfato, non aspirano alla vittoria, non temono la sconfitta. I miliziani di al Baghdadi non pensano solo in termini territoriali e geografici. Pensano secondo una prospettiva temporale e simbolica. Non ragionano sull’immediato, ragionano in chiave storica. E aver perso Mosul, così come mesi prima hanno perso Sirte (la capitale libica), così come avrebbero perso Raqqa (la capitale siriana), ha per loro un valore transitorio. Chi combatte in nome dello Stato Islamico combatte per le generazioni future. I miliziani hanno addestrato i propri figli affinché fossero la continuazione ideale del progetto del Califfato. Non temono la morte e hanno educato al martirio le generazioni future, che dovranno essere più ideologizzate, e pure e coraggiose dell’attuale. Combattere a Mosul è solo un passaggio del grande progetto del Califfato.

Al Abadi, mentre dichiara vittoria a favore delle telecamere, lo sa e lo teme. Lo sa anche quando dice: “Abbiamo vinto contro le tenebre, la brutalità, il terrorismo”. E lo teme forse più delle pallottole che sente in lontananza, dei colpi di mortaio, delle rovine e delle macerie di mezza città da ricostruire. A poche centinaia di metri da noi, nel momento dell’annuncio della vittoria, nella città vecchia ci sono ancora circa quattrocento miliziani, le loro famiglie e un numero imprecisato di civili. Ma i numeri reali delle ultime settimane, soprattutto delle ultime ore della guerra di Mosul, sono destinati a non essere chiariti mai. Quando al Abadi ha lasciato Mosul, seguito da un carosello di mezzi militari, le forze irachene hanno negato ai giornalisti l’accesso al fronte per giorni. La convinzione comune in quelle ore era che l’esercito e le forze della coalizione volessero chiudere rapidamente la partita, volessero “ripulire la manciata di case che restavano nelle mani dell’Isis”, così dicevano i soldati al fronte, attenti a non essere ripresi, visti, ascoltati. Ripulire, ovvero bombardare indiscriminatamente. Ripulire, ovvero giustiziare. Non è chiaro cosa sia successo in quei giorni di luglio, quanti uomini siano stati imprigionati o uccisi arbitrariamente perché sospettati di essere sostenitori dello Stato Islamico.

La guerra di Mosul è stata dura e sanguinosa. Una carneficina annunciata. L’Isis ha avuto tempo di trasformare la città in un labirinto di trappole esplosive, kamikaze e cecchini. L’Isis sapeva che non avrebbe potuto vincerla, per questo l’ha resa il più dolorosa possibile: la guerra di Mosul è stata la guerra delle autobombe, il nemico peggiore, il meno prevedibile. Puoi provare a difenderti, se hai tempo sufficiente, solo correndo. Non servono a niente i kalashnikov. Se i droni non hanno intercettato e fatto abbattere l’autobomba, le armi non servono. L’immagine dell’autobomba è un fumo bianco che si alza in verticale, assume lentamente la forma di un fungo, poi si dissolve. È anticipata solo dal grido dei soldati: “Mufakhakhah! Mufakhakhah!”. “Autobomba, autobomba”. Un suono cupo, chi riesce a salvarsi in tempo corre via; chi non si salva muore dilaniato e bruciato. I feriti sono trasportati, senza braccia o senza gambe, all’ospedale da campo più vicino. Chi non ce la fa finisce nei sacchi neri, quelli dell’immondizia; chi invece sopravvive resta amputato o senza occhi, o con i segni delle ustioni a marchiare il corpo per sempre.

L’autobomba è l’arma distintiva, il segno di riconoscimento dell’Isis in guerra.

L’uso delle macchine imbottite di esplosivo non è nuovo in Iraq, gli anni dello spargimento di sangue tra sunniti e sciiti, l’insurrezione irachena degli anni Duemila contro l’occupazione americana sono state segnate da attacchi quotidiani e migliaia di vittime. Per il linguaggio militare è lo Svbied, che sta per “Suicide Vehicle-Borne Improvised Explosive Device”: significa che c’è qualcuno nel veicolo che attiverà un detonatore che farà saltare in aria se stesso, il veicolo e ucciderà decine di persone. E così via a ogni angolo di strada, ogni giorno.

Nella guerra di Mosul le autobombe sono state l’arma più minacciosa e contemporaneamente la più semplice da realizzare. Basta un veicolo, uno purché sia. All’inizio erano automobili ma anche camion, poi trattori, mezzi militari, tutti blindati. All’Isis non mancavano veicoli: dopo la presa di Mosul, nell’estate del 2014, quando i soldati iracheni si sono dileguati, i miliziani hanno requisito miliardi di dollari di equipaggiamenti militari e mezzi corazzati.

Per l’esplosivo basta una miscela di nitrato di ammonio e gasolio. Tutto sommato una soluzione economica. E certo, qualcuno che guidi il mezzo. Ma di soldati pronti al martirio ce ne sono a centinaia. L’autobomba è un’arma così centrale nella guerra dell’Isis che il gruppo aveva creato una brigata dedicata, il battaglione “Ansari Abu Laith”, in onore dell’ex Wali⁶ di Mosul, ucciso da un bombardamento americano nel 2014. Il battaglione suicida.

⁶Wali è il governatore di una provincia in un paese arabo.

“L’autobomba è la paura”, mi ha detto Arkan, soldato ventiduenne che combatteva nell’esercito iracheno. La famiglia di Arkan era originaria di Mosul. Quando ci siamo conosciuti, una parte della sua famiglia era ancora intrappolata in città. Arkan non riusciva a mettersi in contatto con loro, non sapeva se stessero tutti bene, se qualcuno fosse stato rapito, punito, o ucciso e questo non faceva che aumentare la sua sete di vendetta e la sua voglia di combattere. La guerra per lui aveva un valore aggiunto. Arkan, sunnita di Mosul, stava liberando la sua città e i suoi parenti da altri sunniti che l’avevano resa un inferno. Arkan si muoveva con quel coraggio che nei giovanissimi diventa facilmente incoscienza. Ci ha portato nei tunnel costruiti dall’Isis per nascondersi, tunnel pieni di materassi, libri religiosi, medicine, armi ed esplosivi. Ci ha fatto attraversare campi aperti quando la guerra si combatteva ancora alla periferia di Mosul e bisognava liberare i villaggi, e i campi erano pieni di mine e lui sembrava incurante del pericolo. Più che fatalista, sembrava irresponsabile.

“Arkan, cos’è successo a quel blindato?”.

“Una mina. Bum”.

“Ma quando?”.

“Stamattina”.

Per questo Arkan mi innervosiva. Pensavo ci mettesse inutilmente in pericolo e quando sei in guerra, per quanta lungimiranza puoi avere, la tua bussola sono le persone che ti guidano, i soldati cui ti aggreghi, i civili che ti ospitano. Poi un giorno mentre camminavamo fianco a fianco sotto il sole cercando l’ombra tra i mezzi blindati per fumare una sigaretta, Arkan mi ha detto: “Sai qual è la verità? La verità è che questa guerra è colpa dei mosulawi⁷. Ho perso un fratello ucciso dai jihadisti. Ma alcuni dei parenti di mio padre si erano uniti a loro, li hanno appoggiati per convenienza e ora per convenienza cominceranno a scappare, perché sono spaventati dai droni e dalle bombe, certo. Ma non scappano per convinzione, scappano perché sono finiti i soldi. Non è venuto meno il sogno di al Baghdadi, sono solo cominciati a mancare i guadagni. Non farti fregare da quelli che escono disperati e piangenti, chiedigli quanto costava la verdura negli ultimi tempi e in quelle parole troverai le risposte che cerchi. I mosulawi sono stati codardi e lo sono ancora. E io me ne vergogno”.

⁷ Abitanti di Mosul.

Arkan aveva perso tre ragazzi della sua unità qualche settimana prima del nostro incontro, con un’autobomba in un magazzino militare. Questo intendeva quando dice è la paura: “Senti un colpo, il fuoco. L’odore di carne viva che brucia, un edificio annerito, la macchina carbonizzata e quello che resta sono lamiere e cenere e brandelli di corpo. E i resti del veicolo da cui puoi dedurre se l’armatura blindata fosse saldata, se ci fossero tubi sui telai per deviare eventuali colpi. Come si combatte una guerra in cui il nemico usa le autobombe? Prevedendo la sua azione, quando si può. Quello che non puoi fermare puoi provare a rallentarlo. Usiamo i bulldozer per alzare muri di terra e arginarli quando si avvicinano. Oppure usiamo i mezzi blindati come barriere, sacrifichiamo un mezzo per provare a fermare il loro. Ma le pallottole semplicemente rimbalzano contro le autobombe”.

In Libia, nella guerra contro l’Isis a Sirte, i miliziani chiamavano le autobombe “Dogma”. I soldati l’avevano sentito in uno degli inni del gruppo, così quando nelle comunicazioni radio davano l’allarme gridavano “Dogma! Dogma!”. Più drammatico era l’urlo dei soldati, più vicino era il pericolo.

Durante una delle nostre partenze per la Libia, ero tornata a Roma prima di Alessio che era rimasto a Sirte. Aspettavo la sua chiamata, come ogni sera.

“Stai bene?”.

“Sto bene”.

“Hai mangiato?”.

“Ho visto un mostro”.

“Che mostro?”.

“Ho visto Dogma”.

Quel giorno Alessio era in uno dei quartieri residenziali di Sirte, dietro un muro, con un gruppo di soldati. Poi era arrivato l’urlo, “Dogma! Dogma!”. E ha cercato anche lui riparo tra i soldati in fuga, con i fucili in mano, dietro i muri, correndo, prima che arrivasse l’esplosione: “Ho sentito un grande calore addosso, un calore che non mi ha abbandonato per ore, l’onda delle fiamme. Non so”.

“Com’è quella paura?”.

“Quella paura è il diavolo”.

Mi colpì molto che Alessio avesse usato queste due parole: mostro e diavolo. Lui che è sempre misurato, che non enfatizza mai le cose che dice, semmai resoconta per sottrazione e lavora per sintesi, più che per ridondanza. La paura per lui era stato un mostro, il diavolo. Poi mi ha raccontato di un soldato con lo sguardo perso nel vuoto dopo l’esplosione e di uno steso a faccia in giù su una barella, morto, una kefiah a coprirgli il viso, le braccia carbonizzate. Un altro giovane si era immolato. Ma non era il giovane che guidava l’autobomba. Un soldato libico, su un blindato, quando la radio trasmittente ha gridato “Dogma!”, si è diretto verso l’autobomba per bloccarla. Morto lì, per salvare gli altri.Chissà se ha avuto il tempo di avere paura prima di morire.

L’ultima volta che ho visto Arkan, il giovane soldato di Mosul, era mattina presto. Saranno state le sei, aspettavamo come spesso accadeva che i soldati ci portassero con loro al fronte. A volte l’attesa durava una notte; a volte due giorni.

Era sveglio da poco, infreddolito. Una coperta ancora sulle spalle. Ricordo che nell’humvee⁸ che guidava il giorno precedente c’era un fiore finto, di plastica, una specie di margherita rossa. E che sul finestrino era appeso un pupazzo di Mickey Mouse. Mi fece ridere l’idea di rendere familiare e confortevole lo spazio claustrofobico di un blindato militare. Ci siamo salutati, noi saremmo andati al fronte coi suoi commilitoni e una volta rientrati ci saremmo diretti a Erbil e poi in Italia. “Scrivimi, mi raccomando”. “Certo, mandami fotografie ogni tanto, Arkan”. “Abbi cura di te e del bambino”. “Anche tu abbi cura. Stay safe”. E per un po’ il giovane Arkan ha scritto e inviato foto. Poi silenzio. Poi ogni suo account è stato disattivato. Immagino sia morto.

⁸ Derivato dal tentativo di pronunciare l’acronimo HMMWV: “Veicolo ad alta mobilità a ruote multiuso”. È un veicolo militare tattico a trazione integrale in grado di trasportare un’ampia varietà di hardware militare.

Quando sono tornata a Mosul, poche settimane dopo, ho cercato di applicare il suo suggerimento: “Leggi tra le righe”, mi aveva fatto capire. “Non accontentarti della banalità del racconto della furia islamista. Quello c’è stato, ma non basta a capire”. Di Arkan non riuscivo a trovare notizie, perciò applicavo quel consiglio come un omaggio postumo.

Sulla strada per Qayyara c’era un check point dove arrivavano i civili in fuga. Il cielo su Qayyara è stato grigio per mesi: era il fumo dei pozzi di petrolio dati alle fiamme dall’Isis per rallentare l’avanzata dell’esercito, prima di ritirarsi dal villaggio, sconfitti. Quel non colore rendeva lo scenario della fuga da Mosul ancora più apocalittico.

Il primo uomo che ho incontrato si chiamava Fawsi, aveva quarantatré anni ma il suo viso segnato sembrava quello di un anziano. Ha vissuto per due anni e tre mesi sotto lo Stato Islamico a Hood, un villaggio a sud di Mosul. Prima di arrivare al check point aveva camminato per chilometri perché sui convogli militari che trasportavano i civili non c’era spazio per tutti.

“Il giorno più brutto, per me, è stato il 17 dicembre del 2015. Pochi mesi dopo l’arrivo dei miliziani le scuole sono state chiuse e i programmi scolastici cambiati, le uniche scuole ammesse erano quelle islamiche, alcune scuole erano stabilite nelle case dei miliziani. Educavano i ragazzi alla morte. Insegnavano loro come costruire bombe, spiegavano che l’unico modo giusto per morire era sacrificarsi per la causa del Califfato. Tutte le famiglie che conosco hanno cercato di proteggere i propri figli da questo lavaggio del cervello, perché un bambino corrotto così profondamente nello spirito e nel cuore è un bambino perduto. Un giorno, lo scorso dicembre, cinque bambini hanno cercato di scappare dai miliziani che li erano andati a prelevare a casa per costringerli a frequentare le loro lezioni. Sono stati catturati e uccisi: tre decapitati e due impiccati. Hanno esposto i loro corpi nella piazza del mercato, costringendo tutti noi ad assistere. Tutti dovevano capire quale sarebbe stato il loro destino se avessero provato a ribellarsi. Alla fine hanno gettato i cadaveri dei bambini dal palazzo più alto della piazza”.

“Perché non vi siete ribellati prima?”, gli ho chiesto.

Fawsi è rimasto in silenzio per alcuni secondi, ha abbassato lo sguardo: “Lo so. Il futuro rubato di quei cinque bambini non è solo colpa dell’Isis. La responsabilità di quello che abbiamo vissuto è anche dei tanti mosulawi che hanno supportato e finanziato gli uomini del Califfo dal primo giorno. Anzi dal giorno prima, dagli anni prima”.

Al check point di Qayyara i civili venivano smistati, gli uomini separati dalle donne e dai bambini, a chi li aveva erano requisiti i documenti. La motivazione ufficiale era che l’intelligence riteneva che tra i civili potessero nascondersi miliziani in fuga. La spiegazione ufficiosa era che gli uomini venivano trasportati via per essere interrogati in edifici attrezzati come basi militari temporanee. Mentre parlavo con Fawsi dei bambini uccisi e dei corpi esposti in pubblico, un pick up militare si è avvicinato al check point, i soldati avevano arrestato un presunto miliziano. Il suo nome era Ali, a quanto dicevano. Era legato, bendato e seduto sul retro del mezzo con il volto tra le ginocchia. I generali e i soldati lo esponevano come un trofeo. Secondo la loro versione il giovane, ventiquattrenne, dopo essersi tagliato la barba per evitare di mostrare segni distintivi della sua appartenenza a Isis, sarebbe fuggito dal villaggio di Baakar infiltrato tra i civili, qualcuno di loro l’avrebbe segnalato ai soldati e, di lì, velocemente arrestato.

Un soldato gli sussurra nelle orecchie: “Traditore”. E gli accarezza i capelli, sorridendo, beffardo.

“E ora?”.

“Ora lo interroghiamo”.

“E dove?”.

“Segreto militare”.

Il soldato lo tiene vicino a sé. “Adesso ti faccio vedere io”, gli dice, poi la carezza diventa uno schiaffo, palmo aperto in pieno volto. Il soldato sale sul pick up, che si dirige verso un imprecisato luogo di interrogatori tra la massa di gente in fuga e il fumo grigio dei pozzi di Qayyara.

Erano solo le prime settimane di guerra ed era già chiaro che la parola d’ordine di tutto il conflitto e del successivo dopoguerra sarebbe stata “ritorsione”. Le donne separate dagli uomini stringevano i figli al petto. Molte sapevano che i loro mariti sarebbero finiti in prigione, colpevoli o innocenti poco importava. Tutte temevano che da quegli interrogatori non sarebbero tornati mai. Chi andava avanti era destinato ai campi profughi. Uno di questi, il campo di al Khazir, si trova a est di Mosul, vicino al villaggio cristiano di Bartella. Fatimah è riuscita a scappare un venerdì: “Durante l’ora di preghiera, perché era meno facile trovarli in strada. Sono uscita di casa certa di morire”. Ha quasi quarant’anni e quattro figli. Uno è morto quando casa sua è stata data alle fiamme alcuni anni fa da gruppi fondamentalisti già presenti a Bir Halan, il suo villaggio. L’Isis prima dell’Isis, Al Qaeda in Iraq, Ansar al Islam, poco importa. Quello che importa è che le radici della parata del convoglio del 2014 fossero vive a Mosul da molti anni. Mi dice: “Tutti conoscevamo le famiglie estremiste intorno a noi, e quando sono arrivati a Bir Halan uomini da Tikrit e da tutta la regione di Anbar, li chiamavamo tra noi i ‘turisti cattivi’. Mio marito lavorava per la polizia irachena, per questo lo minacciavano continuamente. Un giorno sono andati nel suo ufficio, volevano chiuderlo e stabilire lì la sede della polizia islamica. Gli hanno ordinato di alzarsi, uscire e non tornare più. Mio marito si è rifiutato. Io, in quel momento, ero al mercato, quando mi ha chiamato una vicina gridando che casa mia era in fiamme. Sono corsa più velocemente che potevo facendomi spazio tra le fiamme per salvarlo, ma era morto. Hanno dato fuoco a casa nostra per colpire mio marito”.

“Che anno era, Fatimah?”.

“Il 2009”.

“Perché non sei andata via, dopo la morte di tuo figlio, perché eri ancora a Mosul quando è arrivato l’Isis?”.

“Via? E per andare dove?”.

Le mani di Fatimah portano ancora i segni delle cicatrici di quel giorno, suo figlio è morto e i ‘turisti cattivi’ sono diventati lo Stato Islamico.

Di fronte alla sua tenda, tre o quattro metri più in là, c’era un uomo anziano, Shaker Khalifa, arrivato al campo con la moglie e il figlio adolescente. Shaker Khalifa era scappato da Tob Zawa, era già stato interrogato e rimesso in libertà e i servizi gli avevano detto di non lasciare il campo, ché sarebbero tornati. Sedeva all’esterno della sua tenda blu, circondato da altri capifamiglia del villaggio. Aveva lo sguardo di chi deve essere stato molto rispettato, i modi perentori di chi ha gestito una forma di potere. Shaker aveva ascoltato le parole di Fatimah: “All’inizio l’Isis ha promesso una vita migliore. Sostenevano i nostri ragazzi con uno stipendio mensile di circa 100 mila dinari”.

Porti ciascuno la sua colpa

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Francesca Mannocchi

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