il curatore Giorgio Nisini (1974), scrittore e saggista, è attualmente ricercatore in Letteratura
Italiana Moderna e Contemporanea presso l’Università di Bari “Aldo Moro”. Ha pubblicato
numerosi studi sulla narrativa italiana del Novecento e sui rapporti tra linguaggi
letterari e cinematografici. Tra i suoi volumi: L’unità impossibile. Dinamiche testuali nella narrativa di Pier Paolo Pasolini (Carocci, 2008) e Il neorealismo italiano. Scritture, immagini, società (Perrone, 2012). Come scrittore ha pubblicato i romanzi La demolizione del Mammut (Perrone, 2008), Premio Corrado Alvaro Opera Prima e finalista Premio Tondelli, La città di Adamo (Fazi, 2011), selezione Premio Strega 2011, e La lottatrice di sumo (Fazi, 2015). È direttore artistico dell’Emporio Letterario di Pienza e presidente
del Premio Letterario “Corrado Alvaro-Libero Bigiaretti”.
1. Un editore e uno scrittore del Sud
Gli scambi epistolari tra Corrado Alvaro e Vito Laterza testimoniano un breve ma intenso
rapporto intellettuale tra due diversi protagonisti della cultura italiana del Novecento.
Da una parte lo scrittore di San Luca, narratore, poeta, sceneggiatore, firma storica di alcuni
tra i principali quotidiani nazionali, figura chiave del realismo degli anni Trenta
e autorevole interprete di una letteratura meridionale con vocazione cosmopolita;
dall’altra il nuovo timoniere di casa Laterza, illuminato erede della più importante
sigla editoriale del Mezzogiorno, che nello scenario post-crociano degli anni Cinquanta, epoca a cui risale il carteggio
qui pubblicato, fu costretto a mediare le esigenze di rinnovamento imposte dal clima
culturale, politico ed economico del dopoguerra con l’ingombrante eredità del filosofo
abruzzese. Per Laterza non si trattava di rinnegare la linea editoriale del passato, né di
rimettere in discussione la «mappa genetica» della casa editrice; la grande sfida
stava nel superare Croce senza cadere nell’anticrocianesimo, comprendere cioè la necessità
di ripensare «l’attività» editoriale senza tradire la sua identità e la sua tradizione.
L’avvio dei contatti con Corrado Alvaro, inaugurati con una lettera dello scrittore
nel 2 luglio 1952, pochi mesi prima della morte di Croce, si situa, dunque, in questo
delicato momento di transizione: Vito Laterza, che nel cinquantenario della casa editrice
(1951) aveva varato una tra le collane più innovative della sua gestione, i «Libri
del tempo», stava infatti costruendo una rete di autori e collaboratori che potessero
dare nuova forza e personalità al catalogo Laterza, appoggiato in questo dallo zio
Franco (uno dei figli del fondatore Giovanni) – che come ricorda Tullio De Mauro «curava
non senza attenzione le relazioni esterne» tramite continui viaggi verso il Nord Italia – e più in generale dagli “amici di casa Laterza”, un vero e proprio gruppo d’intellettuali
da cui Vito «traeva proposte e suggerimenti da incastonare nei contenitori editoriali
da lui progettati». In questa direzione i «Libri del tempo» rappresentarono la più avanzata modalità
per sintetizzare insieme il rigore e la serietà saggistica del catalogo storico, con
aperture verso il presente, trasformando così Laterza in una casa editrice non più
solo rivolta a «professori di latino e greco, di storia e filosofia», ma capace di
«parlare e far parlare di malgoverno, di cinema, di urbanistica, di sindacati, di
monopoli, di giustizia, di scuola come organo costituzionale, ma anche nel concreto
della vita di scolari e maestrine sconosciute». L’ambiente culturale di riferimento era «Il Mondo» di Mario Pannunzio, da cui provenne
una fitta schiera di autori giovani e meno giovani destinati, in alcuni casi, a stabilire
un rapporto di collaborazione di lunga durata – da Arturo Carlo Jemolo a Ernesto Rossi,
da Manlio Rossi-Doria ad Achille e Adolfo Battaglia – così come il magistero filosofico
di Eugenio Garin, con cui Vito si era laureato all’Università di Firenze e che divenne
il punto di riferimento per una collana strategica come i «Classici della Filosofia
Moderna». Sullo sfondo di questo scenario, Laterza monitorava costantemente anche
la pubblicistica colta che appariva sui quotidiani italiani e internazionali, interessato
in particolare allo sguardo di quegli intellettuali, scrittori compresi, che sperimentavano
una «prosa narrativa» di «saldissimo fondamento documentario». A Laterza non interessavano le «Avventure dell’Anima», ma i «tratti nuovi, grandi,
decisivi della nostra storia quotidiana» di cui occorreva che la letteratura si rendesse
conto, «la letteratura come letterati e come lettori»:
C’è attorno a noi una quantità di cose che vanno ancora scoperte, ci sono dei tratti
della nostra fisionomia che vanno fissati sulla carta prima che mutino; abbiamo una
varietà di sfumature “Provinciali” e sociali che occorre individuare per conoscerci
meglio; ci sono infine dei tratti nuovi, grandi, decisivi della nostra storia quotidiana,
che occorre far conoscere a tanti per quell’unica via di conoscenza che la letteratura
fornisce.
Letteratura, dunque, ma anche conoscenza critica del mondo contemporaneo: è qui che
si situa la scelta di Laterza di far entrare in catalogo anche opere che sconfinavano
nel campo della narrativa, pur senza essere fino in fondo opere di narrativa e senza
infrangere l’antico veto crociano contro «romanzi, novelle e letteratura amena»: da Un popolo di formiche di Tommaso Fiore (1951) a I minatori della Maremma di Bianciardi e Cassola (1956), da Le parrocchie di Regalpetra di Leonardo Sciascia (1956) a Silenzio a Milano di Anna Maria Ortese (1958). In questa prospettiva Corrado Alvaro apparve fin da subito
a Laterza come un autore paradigmatico: nelle sue attente analisi della vita e dell’organizzazione
sociale del Mezzogiorno, che egli pubblicava regolarmente su «La Stampa» e sul «Corriere
della Sera», Laterza intravide la possibilità di raccontare un universo culturale
e antropologico ancora poco conosciuto al di fuori dei propri confini – e forse anche
dentro i propri confini – rompendo così con un’immagine ormai obsoleta e stereotipata del
Sud che rischiava di perpetuare una sua trasfigurazione «in chiave esclusivamente
letteraria». L’operazione configurata da Laterza non era semplicemente di stampo giornalistico:
il suo progetto, più vasto, era quello di «un rinnovamento del contenuto della nostra
letteratura» tramite uno sguardo che fosse insieme critico e narrativo, operasse cioè attraverso
gli strumenti e le potenzialità stilistiche della scrittura letteraria nei margini
di una prosa saggistica di qualità. Alvaro, come Rocco Scotellaro, di cui stavano
per uscire postumi nei «Libri del tempo» Contadini del Sud (1954) e L’uva puttanella (1955), o come Giovanni Russo, che nella stessa collana avrebbe pubblicato Baroni e contadini (1955), non era solo una voce autorevole e prestigiosa a livello nazionale e internazionale,
ma anche l’interprete di un nuovo meridionalismo letterario che tentava di ridefinire
la fisionomia e l’identità del Sud al di fuori dei vecchi canoni. È per questo che
sia Vito che Franco Laterza, quando vennero a conoscenza della volontà di Alvaro di
raccogliere in volume una serie di “saggi di vita contemporanea”, il futuro Il nostro tempo e la speranza (1952), s’informarono immediatamente tramite Vitaliano Brancati sulle caratteristiche
del libro e su un eventuale impegno dello scrittore con altre case editrici. È qui
che presero avvio i loro scambi epistolari: Brancati – che sempre nei «Libri del tempo»
aveva da poco pubblicato il suo pamphlet Ritorno alla censura (1952) – raccolse notizie direttamente da Alvaro, scoprendo tuttavia che il libro
era già stato opzionato da Bompiani. La notizia venne ribadita a Vito Laterza anche dall’autore:
Brancati mi informò del Suo interessamento per un mio libro di saggi che era stato
annunziato. Gli dissi che il manoscritto era nelle mani di Bompiani cui mi lega un
contratto di opzione. Sarei stato molto contento di poter essere ospitato nelle collezioni
di Laterza che hanno rappresentato per lunghi anni una cultura senza compromessi e
che è oggi più che mai importante sapere che esistono e sono un rifugio. Purtroppo
Bompiani mi scrive di avere mandato in tipografia il manoscritto. Ma tengo a dirle
che mi ha fatto piacere la Sua attenzione, e a mandarle il mio omaggio e i miei migliori
saluti.
Bisognerà attendere oltre un anno prima che i rapporti tra i due riprendessero con
più frequenza; per l’esattezza nel settembre del 1953, quando Laterza tornò a contattare
Alvaro proponendogli di riunire in volume gli articoli sul Mezzogiorno che veniva
pubblicando sul «Corriere della Sera». La sua proposta era accompagnata da un suggerimento
di contenuto: quello d’integrare e ampliare le indagini già condotte per il quotidiano
milanese «insistendo ancora di più sugli aspetti del costume e dell’organizzazione
sociale meridionale», convinto che solo «scavando in quella direzione» sarebbe stato
possibile «trarre alla luce tanta Italia inedita». Purtroppo le sue speranze furono ancora una volta disattese. Dopo una risposta temporeggiatrice
di Alvaro, costretto dai vincoli con il suo editore a non poter prendere accordi in
autonomia, e dopo due missive di sollecito da parte dello stesso Laterza, il progetto
si arenò definitivamente, trovando una sua collocazione postuma sempre presso Bompiani
solo nel 1958, nel volume Un treno nel Sud.
2. «Cronache»
Il contatto tra Alvaro e Vito Laterza s’inaugurò dunque all’insegna di un doppio progetto
mancato. Un’incompiutezza che percorse tutto il loro rapporto, che fu contrassegnato
da numerose proposte editoriali che non arrivarono mai a realizzarsi, neanche quando,
per la collana «Cronache», di cui Alvaro avrebbe dovuto assumere la direzione, si
raggiunse un facile accordo contrattuale. Del resto fu proprio attorno all’idea delle «Cronache» che si sviluppò il momento
più intenso, seppur brevissimo, del loro carteggio. I due ne avevano già discusso
di persona durante una delle trasferte romane di Vito, ma l’editore la stava di certo progettando già dall’autunno precedente, come attestano
due lettere indirizzate a Massimo Mila e ad Arrigo Benedetti dell’ottobre 1953 (corsivo
mio):
Quando lessi il Suo ricordo di Pavese mi venne a mente un’altra cosa bellissima che
Lei ha scritto sui Suoi amici torinesi, il ricordo di Michelone Giua, con quella chiara
definizione della Torino anteguerra e dei giovani intellettuali che allora si venivano
formando ad un certo tipo di antifascismo e di amore al lavoro come “mestiere”. L’uno
e l’altro scritto mi dispiaceva che restassero dispersi in riviste, e più ancora mi
dispiaceva che Lei non si mettesse di buona volontà a tracciare una compiuta storia
della Torino di quegli anni [...]. Ora però mi si offre la possibilità di invitarLa
a scrivere per noi quella storia. Stiamo progettando una nuova collana, nella quale vorremmo raccogliere le testimonianze più valide – non solo per pregi
di scrittura ma soprattutto per qualità del contenuto – su singoli aspetti della storia
e della società italiana.
Leggo con molto interesse gli articoli che Lei pubblica, in terza pagina, sulla «Stampa»,
e sarei lieto di poterli pubblicare in volume, entro una collana di cronache del nostro tempo che spero di inaugurare nel ’54, forse più verso la fine che agli inizi. Saranno
libri in cui la fantasia degli autori potrà avere libero gioco solo se ancorata a
una situazione precisa del nostro tempo, a un aspetto ben individuato della condizione
umana contemporanea. Una collana in cui entreranno narratori e giornalisti e saggisti,
pur che abbiano da documentare un periodo o da caratterizzare un personaggio tipico
della nostra vita.
Che la collana indicata nelle lettere coincida con le «Cronache» è confermato da quanto
Laterza scrisse ad Alvaro nel gennaio dell’anno successivo, quando elencando una serie
di possibili proposte per il nuovo catalogo, nominò proprio Mila e Benedetti tra gli
autori con cui aveva già preso contatti. Tuttavia Alvaro non fu il primo candidato alla direzione della collana: qualche
mese prima l’editore aveva pensato di affidare il progetto a Carlo Levi, con il quale era già in trattativa per una serie di volumi che avrebbero dovuto
far parte dei «Libri del tempo»: un libro di viaggio «sull’America e gli Americani»,
uno «scritto sulla situazione attuale del Mezzogiorno» e una «raccolta di documenti
e testimonianze della Resistenza». I progetti non andarono in porto, così come non
andò in porto la pubblicazione di un saggio sulle «singole industrie del Nord e del
Sud» che avrebbe dovuto essere scritto da Riccardo Levi, fratello di Carlo; nonostante ciò i loro scambi epistolari continuarono a lungo, trovando un nodo di
discussione molto intenso attorno alla questione Scotellaro e alla pubblicazione dei
suoi testi inediti, di cui Levi curò, scrivendone un’introduzione, L’uva puttanella. Una lettera del 10 novembre 1953 testimonia in ogni caso la volontà di Laterza di
affidare allo scrittore torinese la collana in costruzione. Fu Vittore Fiore, figlio
di Tommaso, a farsi portavoce della richiesta:
Vittore m’ha detto d’averti parlato della nuova collana che avremmo in mente di varare
per l’anno prossimo, le «Cronache». E poiché, a quanto egli mi assicura, pare che
tu volentieri ne cureresti le sorti assumendone la direzione, te ne parlo ora un po’
più diffusamente [...].
La descrizione della collana fatta da Laterza a Levi verrà ripresa quasi alla lettera
nella missiva inviata ad Alvaro il 13 gennaio del 1954 – due mesi dopo, dunque – quando evidentemente la candidatura di Levi era ormai decaduta.
Da quel momento in poi il progetto venne dibattuto esclusivamente con lo scrittore
calabrese, con il quale se ne definirono caratteri e possibili collaborazioni. L’idea
tracciata da Vito era molto chiara: un contenitore editoriale che, da un lato, riconfermasse
la predisposizione crociana ad escludere dai propri canoni “romanzi, novelle e letteratura
amena”, o ancora peggio quelle citate “Avventure dell’Anima” che «altri editori già
coprono egregiamente», dall’altro dimostrasse il nuovo interesse per le possibilità saggistiche e interpretative
della letteratura, in linea con quella forte tradizione documentaristica ed engagé che negli anni del neorealismo aveva trovato un punto di saldatura. «L’idea delle
“Cronache”», scrive Laterza ad Alvaro, «ha, alle sue origini, la ponderata convinzione
che non sia possibile oggi, allo stadio in cui la cultura italiana si trova, scrivere
prosa narrativa che non abbia un saldissimo fondamento documentario, un legame stretto
e direi determinante con una precisa situazione della nostra società». Non si trattava di un’opzione stilistica tra le altre, ma dell’unica strada possibile,
così come lo era stata la strada della letteratura testimoniale negli anni dell’immediato
dopoguerra. Adesso, però, la testimonianza lasciava spazio all’analisi sociale: da qui l’idea
di una serie di volumi che, per la loro «evidente venatura saggistica», non costituissero
«affatto un rinnegamento della tradizione editoriale» di casa Laterza, «bensì una
continuazione aggiornata, vigile e aperta ai tempi». In questa direzione le «Cronache», che nel titolo riprendevano un termine a lungo
circolante nel dibatto culturale del dopoguerra – e non si pensi soltanto ai romanzi
di Pratolini, ma anche alla querelle su narrativa e cronaca consumatasi sulle pagine del «Politecnico» e di «Società» – avrebbero dovuto ospitare indagini di varia argomentazione realizzate da «narratori
e giornalisti e saggisti», ma sempre con l’obiettivo di «documentare un periodo» o
di «caratterizzare un personaggio tipico della nostra vita». Da qui la proposta di Laterza d’inserire nella collana non solo il «romanzo postumo
di Scotellaro», ma un ampio ventaglio di volumi che avrebbero dovuto interessarsi
a numerosi aspetti della società italiana del tempo: dagli appunti sulla Puglia di
Vittore Fiore e di Ugo Vittorini, fratello di Elio, a uno studio sulla Torino antifascista
degli anni Trenta, fino al resoconto del giro radiofonico delle regioni d’Italia realizzato
da Guido Piovene.
Corrado Alvaro, che in quella prima metà degli anni Cinquanta aveva ormai maturato
un bagaglio di contatti e di esperienze grazie alle sue lunghe collaborazioni giornalistiche,
cercò d’interpretare il punto di vista dell’editore lavorando principalmente su due
fronti: da un lato suggerendo nuovi autori e altri possibili campi d’indagine sull’Italia
e il suo più recente passato – dall’occupazione delle fabbriche del 1919 al socialismo
nella Valle Padana, dalla narrazione della Basilicata «toccata dalla riforma agraria»
a un libro sulla Sardegna e sull’educazione religiosa –, dall’altro ampliando il raggio d’azione dell’analisi sociale al di fuori degli
stretti confini nazionali, come dimostra, ad esempio, la sua proposta di un libro
sulla Germania del dopoguerra o sulla condizione operaia nella società svedese contemporanea, o, ancora, l’interesse per la vita minore americana attraverso le analisi di Elwyn
Brooks White, di cui suggerì a Laterza l’acquisizione dei volumi Here is New York (1949) e The second tree from the corner (1954), entrambi pubblicati dalla Harper & Brothers di New York.
L’attenzione di Laterza verso queste proposte fu sempre di grande apertura, intervenendo
a correggere il tiro solo là dove temeva un tradimento dell’impostazione generale
della collana. I caratteri di quest’ultima vennero ulteriormente precisati in una
lettera del 25 gennaio 1954, nella quale Laterza, perplesso sulla collaborazione di
alcuni autori come Gaetano Natale e Nino Mazzoni, cercò di rimettere in primo piano
la componente memorialistica già illustrata a Mila e a Benedetti. Le «Cronache» non
potevano appiattirsi a una semplice analisi della società e del mondo contemporaneo,
sebbene sviluppata attraverso lo sguardo di uno scrittore, di un saggista o di un
giornalista, ma dovevano anche corrispondere a una documentazione nata da un’esperienza
diretta – una «documentazione “umana”», come egli stesso la definì. La forma ideale era allora quella «dei “ricordi”, delle “memorie”, anziché del “resoconto”»:
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