Indice Estratto

Edizione: 2020
Pagine: 264
Collana: Anticorpi [67]
ISBN carta: 9788858140598
ISBN digitale: 9788858141779
Argomenti: Attualità politica ed economica

Le radici del populismo

Disuguaglianze e consenso elettorale in Italia

Pier Giorgio Ardeni

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Trasformare il disagio sociale in consenso politico è da sempre la cifra di ogni forma di demagogia: solo affrontando i problemi che sono all’origine della disuguaglianza, la nostra democrazia potrà vincere la sfida populista.

Negli ultimi anni movimenti e partiti populisti hanno registrato, in Italia come in Europa, un costante aumento di consensi. Certo, pesano il risentimento contro le élites e le ansie provocate dall’insicurezza, l’immigrazione e la paura della perdita delle tradizionali identità ‘culturali’, ma sono le disuguaglianze il vero, potente, motore del loro successo: disparità economiche, sociali e culturali, sia tra i ceti che tra i territori, che hanno creato una ‘classe dimenticata’. Analizzando il nostro paese da nord a sud e dai centri alle periferie, mettendo insieme risultati elettorali e peculiarità economiche e demografiche, Pier Giorgio Ardeni arriva a un’evidenza incontestabile: che il successo dei populismi trae linfa da divari di condizione a cui non è stata data risposta. I poveri contro i più ricchi, i ceti ‘non protetti’ contro quelli ‘garantiti’, le aree interne e periferiche contro quelle urbane. Scopriremo che se vogliamo salvaguardare la nostra democrazia non c’è altra strada che affrontare il problema alla radice: ridurre le disuguaglianze.

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Indice Estratto

Edizione: 2020
Pagine: 264
Collana: Anticorpi
ISBN: 9788858140598

L'autore

Pier Giorgio Ardeni

Pier Giorgio Ardeni è professore di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna. Studioso di economia dei Paesi in via di sviluppo, ha lavorato con organizzazioni internazionali in progetti di assistenza in Europa orientale, Africa e Asia ed è stato presidente dell’Istituto Cattaneo di Bologna. Ha scritto sulla storia dello sviluppo italiano, sulla grande emigrazione a cavallo del ventesimo secolo, sullo sviluppo capitalistico e sulle disuguaglianze economiche e sociali e i loro riflessi sulle dinamiche elettorali. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Crisi, trasformazioni e i punti di svolta della storia (2019); Alla ricerca dello sviluppo. Un viaggio nell’economia dell’Italia unita (con M. Gallegati, 2022); Il ritorno della storia. La crisi ecologica, la pandemia e l’irruzione della natura (2022); La trappola dell’efficienza. Ripensare il capitalismo per uno sviluppo diverso (con M. Gallegati, 2024). Per Laterza è autore di Le radici del populismo. Disuguaglianze e consenso elettorale in Italia (2020).

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Rassegna stampa

su FQ Millenium (01-06-2020) Allegato

Le radici del populismo
Buonanotte popolo. Ali Babà e i quaranta padroni
Leggi recensione in pdf
su Il Manifesto (04-07-2020) Allegato

Le radici del populismo
La flaniere sociale del risentimento
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su Corriere di Bologna (05-07-2020) Allegato

Le radici del populismo
Populismo all'italiana
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«Similarly, today,
as we experience the surge
or resurgence of conflicts
around non-divisible issues,
we feel like exclaiming,
“May God give us back the class struggle!”»

Albert Hirschman,
Social Conflicts as Pillars
of Democratic Market Societies,
in «Political Theory», vol. 22, n. 2, maggio 1994

Premessa

Questo libro nasce dal lavoro da me svolto negli ultimi anni e dall’esperienza fatta alla Fondazione di ricerca Istituto Carlo Cattaneo di Bologna, di cui sono stato presidente nel quadriennio 2016-19. È da tempo che mi confronto con la questione delle disuguaglianze e da quando è uscito il libro di Thomas Piketty, con la popolarità che ha avuto, il tema è finalmente entrato nel dibattito pubblico. Nel 2016 all’Istituto Cattaneo progettammo una conferenza internazionale, invitando quanti più studiosi ed esperti; fra gli altri, Tony Atkinson, che purtroppo declinò per via della sua malattia. Alla conferenza, che alla fine ebbe luogo ai primi di novembre del 2017, presero parte – per citarne alcuni – Stephan Jenkins, John Golthorpe, Jacques Silber e Joseph Stiglitz, oltre ai nostri Fabrizio Barca, Maurizio Franzini e Salvatore Morelli.

Quanto questa fosse una questione cruciale, anche per l’Italia, lo si sapeva: già bolliva in pentola quanto sarebbe poi venuto fuori dalle urne elettorali quattro mesi dopo. Nei due anni trascorsi da allora, molta acqua è passata sotto i ponti e tutte le tendenze che sono qui studiate si sono fatte, se possibile, più acute. Le idee alla base di questo libro erano comunque già lì, in quanto aveva scritto Tony Atkinson, ribadito da tutti i suoi allievi, in ciò che aveva anticipato Tony Judt, che in tanti avevamo apprezzato per lucidità e preveggenza. L’applicazione che ne ho voluto fare – a quello che possiamo chiamare il “caso italiano”, per molti versi unico – mette in luce un fenomeno che purtroppo è più generale di quello che si potrebbe sperare: che il sonno dell’equità genera il mostro della presunta rivalsa egalitaria in nome del popolo.

Il lavoro qui svolto, che mi ha richiesto la pazienza di alcuni mesi, è stato portato a termine grazie innanzitutto alla fiducia accordatami da Giuseppe Laterza e ai commenti e suggerimenti che ho ricevuto da parte di amici e colleghi, tra i quali voglio ricordare Piergiorgio Corbetta, Mauro Gallegati, Andrea Gentili, Giuseppe Pignataro, Nadia Urbinati e Marco Valbruzzi. Un immenso grazie va anche a Federica Rapini, per la sua costante presenza e i suoi preziosi suggerimenti sulla stesura del libro nel suo divenire.

Introduzione

Da qualche tempo ormai l’attenzione di studiosi, giornalisti e commentatori si è focalizzata su due delle tendenze salienti dei giorni nostri: la sempre maggiore disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza e il crescente consenso nei confronti di quello che è stato chiamato populismo, in Europa come negli Stati Uniti e in altri paesi (Fukuyama, 2018). Se in molti hanno adottato per questo nostro tempo l’epiteto di “era della disuguaglianza” – al punto che il libro del 2014 di Thomas Piketty, un economista che da anni lavora sul tema, è diventato un best seller –, altri, come Ivan Krastev, uno dei più brillanti scienziati politici odierni, l’hanno chiamato “l’era del populismo” (Krastev, 2011).

Che la disuguaglianza sia in aumento viene documentato da anni da una mole di studi e rapporti accademici di centri di ricerca e agenzie internazionali: reddito e ricchezza, da qualunque punto di vista li si guardi, sono sempre più concentrati nelle mani di pochi, sia nei paesi avanzati sia in quelli emergenti e in via di sviluppo. Il lavoro di Tony Atkinson e del suo gruppo – che include Thomas Piketty, Emmanuel Saez e altri – ha mostrato come negli ultimi quattro decenni le disuguaglianze siano aumentate ovunque. E gli istituti di ricerca, gli organismi internazionali – da Eurostat all’OECD, dalla Banca Mondiale al Fondo monetario internazionale – e quelli nazionali – da noi, ISTAT e Banca d’Italia in primis – hanno prodotto dati che documentano quanto sia aumentata la concentrazione del reddito e della ricchezza.

I ricchi sono sempre più ricchi, il ceto medio sta sparendo e i redditi della grande maggioranza della popolazione non crescono più. Le società dove l’opulenza è appannaggio di pochi e la famiglia media “fatica ad arrivare alla fine del mese” sono anche quelle dove è sempre più difficile salire lungo i gradini della scala sociale: l’ascensore sociale si è rotto. Lo Stato liberale non è più in grado di garantire le reti della protezione sociale e il governo dell’economia è stato lasciato al funzionamento del mercato, in nome della libertà, della meritocrazia individuale e della lotta al dirigismo. I partiti e le loro politiche – preoccupati di rispettare vincoli e contabilità – non agiscono più in favore delle grandi masse popolari, penalizzando tutti i ceti, salvo consentire, a chi ha i mezzi, di prosperare. I sentimenti di frustrazione e disaffezione si sono così diffusi, e alla disillusione nei confronti della capacità del capitalismo di generare prosperità per tutti in ugual misura si è associata la sfiducia nei sistemi democratici che ne hanno garantito lo sviluppo. La fede nei poteri taumaturgici del mercato, della libera competizione e della sana concorrenza meritocratica sta sbiadendo, annichilita dalla forza dirompente della globalizzazione livellatrice, dove sono solo le grandi corporation e la finanza internazionale a regnare sovrane.

Così, alle prospettive di un futuro migliore per tutti sono venute sostituendosi richieste di protezione crescenti: protezione dei privilegi acquisiti, prim’ancora dei diritti conquistati, difesa contro il sovvertimento delle gerarchie sociali consolidate, ma anche protezione dai nuovi poveri e ultimi del mondo, “che vengono a godere dei nostri benefici e a sottrarci quel pur modesto salario che il sistema ci garantiva”. Gli Stati democratici – con le loro istituzioni rappresentative – sono parsi non poter fare nulla, soverchiati dall’influenza esercitata dai mercati globali e dalle istituzioni multilaterali che ne ratificano – se va bene – l’operato. E così, anche la fiducia nella democrazia-cum-capitalismo sta venendo meno.

La disuguaglianza crescente, la stagnazione dei redditi bassi a fronte di redditi alti in costante aumento, hanno generato malcontento e frustrazione, non trovando risposta nelle politiche adottate dai partiti al governo, progressisti come conservatori. Facendo leva su quei sentimenti di smarrimento e disaffezione, partiti e movimenti “populisti” hanno così preso piede in molti paesi. Tendenze, piattaforme, atteggiamenti e “messaggi” populisti contraddistinguono il panorama politico non solo europeo.

È pur vero che etichettare con un’unica categoria di “populismo” sviluppi politici diversi come il voto sulla Brexit, le elezioni di Donald Trump o i vari movimenti e partiti politici che sono venuti alla ribalta di recente in Europa non ha certo contribuito a fare chiarezza su un fenomeno che ha molte sfaccettature, presenta caratteristiche diverse in ogni paese e situazione ed è il risultato di una serie di problemi specifici, generali, nazionali e internazionali. In questo senso, il caso greco di Syriza – che è considerato un movimento populista – è stato definito un’eccezione, data la crisi dell’euro e la crisi del debito che era alle sue origini.

Il crescente consenso a movimenti e partiti “populisti” è stato interpretato da molti come reazione contro la globalizzazione e, più in generale, come un fenomeno che in qualche modo deve avere profonde cause di natura economica, anche se è forse più corretto pensare ad un concorrere di cause molteplici, che vanno al di là della sola esposizione alla globalizzazione e ai suoi effetti. Taluni, come ad esempio Inglehart e Norris (2016), lo hanno attribuito a una reazione culturale contro il diffondersi di valori progressisti. Altri lo hanno fatto risalire all’insicurezza economica causata dalla crisi economica e finanziaria iniziata nel 2008 e ai suoi effetti successivi (Algan et al., 2017) e, specificamente, alla globalizzazione (Guiso et al., 2018; Rodrik, 2018).

Tuttavia, la questione della disuguaglianza – la distanza crescente tra redditi bassi e alti e la stagnazione dei redditi inferiori, il malcontento nei ceti meno abbienti e la loro marginalizzazione – non è stata considerata come uno dei possibili fattori determinanti specifici del crescente consenso populista da nessuno studio in particolare. Tra i molti lavori di ricerca prodotti negli ultimi anni non si segnala alcuna indagine sui legami tra disuguaglianza economica e aumento del populismo e poca attenzione – negli studi empirici esistenti – è stata data alla disuguaglianza come la ragione principale dell’aumento del populismo.

Questo libro vuole colmare quella lacuna, andando ad esplorare le radici del populismo, per capire quanto di quelle radici affondi nelle disuguaglianze. Nel primo capitolo, guarderemo alle disuguaglianze in Italia – considerando il paese nel suo complesso – mostrando come esse siano aumentate negli ultimi anni, rivelando una tendenza crescente che va indietro di un paio di decenni se non di più. Guarderemo altresì a come l’economia si sia “fermata”, a come la mobilità sociale sia diminuita e a come i divari territoriali abbiano acuito tutte le tendenze verso maggiori disuguaglianze. Nel secondo capitolo, guarderemo a come viene definito il populismo, a cosa lo spinge e a perché vi sia una spiegazione mancante per il suo successo, quella delle disuguaglianze. Nel terzo capitolo, guarderemo alla storia recente del populismo in Italia, a quali movimenti e partiti possano considerarsi tali e analizzeremo i risultati delle ultime elezioni politiche – quelle del 2018 – che hanno portato alla ribalta della scena italiana i due più rappresentativi esempi di due diversi populismi, la Lega e il Movimento 5 Stelle. Nel quarto capitolo, infine, guarderemo al paese con la lente d’ingrandimento, mostrando quanto l’Italia dei territori sia dispersa e disuguale nella sua demografia, come nella composizione sociale. Osserveremo come il reddito è distribuito in Italia e come, a livello comunale e territoriale, la disuguale distribuzione del reddito e il consenso populista vadano mano nella mano.

Il populismo prende certamente piede come reazione alla globalizzazione, ma esso è in realtà una reazione alle disuguaglianze, che gli effetti della globalizzazione vanno a comporre. La globalizzazione ha esacerbato certe tendenze, soprattutto nei gruppi sociali che si sentono più esposti, e ad essa è stata data la colpa. Il punto è che le disuguaglianze possono avere un legame con la globalizzazione – ad esempio, quelle nei redditi da lavoro e nei salari – ma hanno origini diverse e anche più lontane: sono un fenomeno più di lungo periodo, che cambia lentamente e nel tempo. La globalizzazione che ha preso piede tra gli anni Novanta e il nuovo secolo può avere accentuato certe tendenze del funzionamento del capitalismo, ma le disuguaglianze hanno origini più antiche (Piketty, 2014).

In questo senso, il recente ridimensionamento italiano del centro-sinistra – al governo per vari anni – e il consenso elettorale di due partiti diversamente populisti possono essere visti come un esempio calzante del legame possibile tra disuguaglianza crescente, malcontento e disagio sociale e successo del populismo, un legame enigmatico di cui è necessario capire la consistenza.

Per dare corpo a questa analisi, nel libro si è voluto andare oltre l’analisi aggregata del nostro paese nel suo complesso, scendendo al livello territoriale più basso, quello comunale. Il comportamento elettorale, com’è ovvio, dipende da un insieme di condizioni economiche e sociali. La sua variabilità sul territorio, già di per sé, conferma quanto il profilo socio-demografico ed economico influisca sulle scelte di voto. E il dettaglio comunale consente una sua più affinata descrizione. Dati per comune sono disponibili per una serie di indicatori economici e socio-demografici: da quelli demografici provenienti dalle anagrafi – raccolti da ISTAT – ai dati sui redditi dichiarati provenienti dall’Agenzia delle Entrate. È a questi che si è qui fatto ricorso per incrociarli con i risultati elettorali. Un’analisi originale che in nessuno studio era stata finora condotta.

La presentazione di questi dati, com’è altresì ovvio, richiederebbe molto spazio. Si è qui proceduto ad una sintesi, ricorrendo anche ad alcune semplici procedure di analisi statistica, come l’analisi di correlazione e di regressione multipla. Come vedremo, la caratterizzazione che emerge del territorio italiano – classificando i comuni per macro-aree geo-politiche e lungo l’asse centro-periferia – permette di evidenziare dinamiche che le analisi per lo più regionali o locali hanno lasciato inesplorate, consentendoci di cogliere quel legame più profondo tra disuguaglianze nella distribuzione del reddito, divari territoriali e comportamento di voto che era l’obiettivo di questo lavoro. Dal quale emerge che una relazione tra disuguaglianze e voto esiste e si vede.

Capitolo 1.
Le disuguaglianze in Italia
vengono da lontano

La storia d’Italia degli ultimi anni ci parla di un paese fermo, la cui economia non cresce più, con poca o nulla mobilità sociale, nel quale le disuguaglianze economiche e territoriali sono enormi. L’economia non avanza, produttività e capacità innovativa sono al palo, anche perché il paese non investe in ricerca e innovazione. La mobilità tra una classe e l’altra è bassa, persino più bassa di un tempo. Le mobilità di reddito, di istruzione e di classe dell’Italia di oggi sono quelle di una società ferma, bloccata. L’ascensore sociale – un tempo dato da scuola e lavoro – non funziona. L’istruzione non paga ed è appannaggio di una parte minoritaria della popolazione. E lo Stato non investe per favorirla. La scarsa mobilità sociale, poi, si associa ad un’alta disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. L’Italia è un paese disuguale e le disuguaglianze hanno origini profonde e riflettono divari regionali e territoriali che non fanno che consolidarsi, accentuandosi.

Tale immobilità, tali tendenze non sono cosa di questi giorni e hanno radici che vanno indietro nel tempo. Vediamole con ordine e cerchiamo di capire perché le disuguaglianze – non solo economiche – si inseriscono, complicandolo, in un quadro preoccupante, che viene da lontano.

1. Un’economia ferma

Dopo i venticinque anni del boom economico nel quale il paese era definitivamente “entrato nella modernità”, dopo il “grande balzo in avanti” che aveva portato ad un aumento dei redditi medi e dei salari, facendo entrare l’Italia nel novero delle grandi potenze industriali, l’allargarsi del ceto medio, il riscatto dei ceti popolari, la scolarità di massa, la mobilità sociale e il welfare universalistico, l’Italia ha attraversato gli anni della crisi (post 1973) e della ristrutturazione continuando a crescere, anche se ad un passo ridotto, grazie ad un mix di spesa pubblica e sociale e politiche concertate. In quegli anni, per reggere le spinte inflazionistiche e lasciare immutati privilegi e vantaggi acquisiti senza alterare equilibri settoriali e sociali consolidati, la spesa pubblica viene finanziata grazie ad un debito crescente che premia la classe media dei “BOTpeople” (con tassi di rendimento a due cifre) e politiche salariali “tutelate” (come con la scala mobile), lasciando che l’industria ristrutturi e riconverta, mentre la ricomposizione di classe riprende piede¹.

Se per gli altri paesi avanzati quello fu il lungo periodo del productivity slowdown, in Italia «la crisi non rallentò la produttività perché portò ad una diminuzione dell’occupazione (e ad un aumento della disoccupazione)» (Ardeni, 2019b). Nel 1992, il PIL pro capite italiano – così come il prodotto per ora lavorata – raggiunse finalmente un livello pari a quello di Germania e Gran Bretagna (Toniolo, 2013). Questo, però, «fu ottenuto grazie ad una diminuzione dell’occupazione e a un aumento della disoccupazione che venne compensato, politicamente, da un aumento della spesa sociale» (Ardeni, 2019a).

È dopo l’89, e soprattutto dopo il 1992, che il rallentamento si accentua ed è solo ancorandosi vieppiù all’Europa (e trovandovi protezione) che il paese trova riparo arrivando, però, sguarnito all’appuntamento con la globalizzazione incipiente. Con l’avvio dell’euro poi, nei primi anni Duemila, l’economia italiana si è definitivamente fermata. E la crisi del 2008 non ha fatto che accentuare il quadro.

La coincidenza è stata penalizzante, perché di fronte ai nuovi vincoli imposti dalla valuta europea l’Italia non ha saputo adeguarsi a euro e globalizzazione. E ha iniziato a restare indietro. Il reddito pro capite reale prodotto dal paese nel 2018 – 26,719 euro, ai prezzi del 2010 – è tornato ai livelli di vent’anni prima – era di 26,352 euro nel 1999 – ed è ancora ben al di sotto del massimo raggiunto nel 2007 di 28,699 euro, l’ultimo anno di crescita già debole prima della crisi. Gli anni Novanta si erano chiusi con un tasso di crescita medio annuo sul decennio dell’1,4%, in calo rispetto al 2,3% del decennio precedente. Anche se il 2000 aveva addirittura registrato un picco del 3,7% – il più alto dal 1988 – gli anni successivi confermavano il rallentamento, con un tasso medio annuale dell’1,1% fino al 2007. La crisi iniziata nel 2008 ha poi assestato un colpo da cui l’Italia non si è ancora ripresa (il tasso di crescita medio annuo del periodo 2008-18 resta ancora negativo e pari al –0,6%). Nel confronto internazionale, poi, l’Italia arranca, perdendo posizioni. Se, infatti, fino agli anni Novanta il nostro reddito pro capite si era avvicinato a quello tedesco e francese – le due economie europee maggiori –, da allora e, in particolare, dopo il 2007 se ne è costantemente allontanato ed è in continua diminuzione. Oggi, il reddito di un italiano è in media il 74,5% di quello tedesco (era stato il 94,6% nel 1996) e l’80,3% di quello francese (era stato il 97% nel 1996). E anche nei confronti della Spagna la distanza si è accorciata – sono loro che corrono mentre noi arranchiamo: il nostro reddito era del 47% superiore a quello spagnolo nel 1985 (la distanza maggiore di sempre), ma poi ha iniziato a calare e oggi il reddito pro capite italiano è appena maggiore del 6,8%.

Molto si è discusso in questi anni sulle ragioni di tale rallentamento dell’economia italiana, se esso sia dovuto ad una più lenta dinamica della domanda aggregata – consumi privati, investimenti e spesa pubblica – e delle esportazioni o se, viceversa, non dipenda da fattori più “strutturali”, che hanno a che fare con ciò che produciamo e come: ovvero dalla produttività. Nelle considerazioni di studiosi, commentatori e finanche rappresentanti delle istituzioni – come quelle del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco – il tema della bassa crescita della produttività appare ormai ricorrente: «l’Italia non cresce perché non cresce la produttività»². Ora, ci sono almeno due definizioni di produttività che sono importanti a questo proposito, la produttività del lavoro – quanto si produce per occupato o per ora di lavoro – e la produttività totale dei fattori (TFP o total factor productivity), quella che dipende dalla combinazione di lavoro e capitale, che viene imputata alla “tecnologia”, all’organizzazione e ad un insieme di variabili³. L’aumento del prodotto totale può essere dovuto ad un aumento del capitale (investimenti), a parità di lavoro, o ad un aumento dell’occupazione (a parità di capitale) o ad un fattore residuale (una organizzazione o tecnologia che consenta di produrre di più, a parità di lavoro e capitale), per questo chiamato produttività totale dei fattori.

La crescita del PIL è il risultato del contributo delle sue componenti: l’aumento dovuto al lavoro (maggiore occupazione), quello dovuto al capitale (investimenti) e quello dovuto alla TFP. Dai dati OECD ed Eurostat risulta chiaro che l’andamento dell’economia italiana si discosta da quello di Francia e Germania non tanto per i contributi di lavoro e capitale, quanto piuttosto per una riduzione della TFP. In ultima istanza, il differenziale di crescita tra Italia e Francia e Germania rispecchia il divario tra le diverse dinamiche della produttività totale dei fattori che, da vent’anni, ogni anno, contribuiscono per 0,8 decimi di minore crescita rispetto alla Germania e per 0,5 decimi rispetto alla Francia (OECD, 2019). Se vi è stata un’ancorché modesta crescita del PIL in questi anni, essa è stata dovuta più ad un aumento dell’occupazione – e quindi delle ore lavorate – che ad un incremento degli investimenti o del TFP⁴. Ma, come sottolinea l’OECD, questo è avvenuto un po’ ovunque: più ore lavorate, maggiore utilizzo dei lavoratori occupati, maggiore domanda di lavoro, cioè occupazione. In diversi paesi, i tassi di occupazione hanno raggiunto livelli record, inclusa l’Italia⁵. Ciò non toglie che l’Italia abbia ancora uno dei tassi di occupazione più bassi tra i paesi OECD, specialmente per le donne. Se, comunque, l’occupazione è cresciuta più di quanto sia cresciuto il PIL, ciò si spiega con il fatto che in Italia come in altri paesi i posti di lavoro sono stati creati in settori e attività a bassa produttività e a bassa remunerazione. Se aumenta l’occupazione e il PIL non aumenta, è ovvio che c’è qualcosa che non va con la produttività.

Quali sono le cause dello scarso aumento della produttività? Se maggiore produttività vuol dire maggiore efficienza e redditività dei fattori impiegati è quindi una questione di tecnologia, di organizzazione e di competitività sistemica, che vuol dire nuove idee, innovazioni nei prodotti, nei processi e nell’organizzazione. Le imprese italiane e l’economia nel suo complesso hanno potuto sopravvivere negli ultimi anni grazie alla diminuzione dei salari – si è prodotto più valore (poco) aumentando l’occupazione ma diminuendo i salari, invece di innovare, ri-organizzare e rendere il sistema più efficiente. Cosa vuol dire tutto questo? Che si è investito poco. Gli investimenti pubblici e privati sono calati e sono bassi da più di due decenni. E soprattutto, sono calati gli investimenti in ricerca e sviluppo (dove nasce l’innovazione), sia quelli pubblici (ricerca e università) sia quelli privati. Se si esclude il 2000, quando gli investimenti in ICT e beni capitali tangibili contribuirono per l’1,2% alla crescita del PIL, bisogna risalire al 1991 per trovare un aumento superiore all’1%. Se è vero che questa dinamica degli investimenti può anche aver avuto delle motivazioni razionali – di contenimento della spesa pubblica da un lato e di adattamento da parte del settore privato dall’altro⁶ – ciò non toglie che è l’economia italiana che si ritrova ora a dover rincorrere.

2. L’ascensore sociale si è rotto

Se l’economia è ferma e s’aggiusta da una parte togliendo dall’altra, anche la società italiana non è particolarmente mobile, se non dal punto di vista geografico, nonostante ormai economisti e politici le chiedano ad ogni piè sospinto flessibilità e mobilità. «La mobilità sociale non funziona: servono cinque generazioni per salire», dice l’OCSE in un rapporto uscito nel giugno 2018, e «in Italia sono necessarie cinque generazioni perché un bambino nato in una famiglia a basso reddito raggiunga il reddito medio nazionale».

La mobilità sociale in una società moderna è fondamentale. Come lo è quella economica. Se un’attività va male, si deve poter avere l’opportunità di misurarsi con un’altra. Se un settore economico sparisce, un’economia sana consentirà di sviluppare nuovi settori. E se è vero che ci sono ricchi e poveri, chi ha di più e chi ha di meno, è pur vero che deve essere possibile poter cambiare la propria condizione e una società è tanto più sana e giusta se tutti hanno la percezione e la possibilità di poter cambiare, nel corso della loro vita, il proprio status. Ma se l’ascensore sociale si ferma, le conseguenze economiche, sociali e politiche divengono drammatiche. La mancanza di mobilità sociale induce, tra le altre cose, la perdita e l’esodo di talenti e di giovani preparati e promettenti, come mostrano molti studi e rapporti di ricerca recenti⁷. La scarsa mobilità sociale, avverte l’OECD, «mina la crescita potenziale e riduce la soddisfazione individuale, il benessere e la coesione sociale».

La scarsa mobilità sociale si riflette nella sua percezione, lasciando emergere i problemi reali. Ad esempio, perché è importante il livello di istruzione dei genitori? Per dare un’educazione colta ai figli? No, purtroppo, in Italia, come nella maggior parte dei paesi OECD, il 34% delle persone ritiene che sia importante avere genitori ben istruiti per migliorare il proprio status. A differenza dei paesi OECD, però, in Italia il 71% dei genitori teme che i loro figli non raggiungeranno lo status e il reddito che loro stessi hanno ottenuto. L’Italia, negli ultimi decenni, ha fatto pochi progressi in termini di istruzione superiore e ciò anche perché i laureati, nel nostro paese, guadagnano in media solo il 40% in più dei diplomati, contro una media OECD del 60 (ne parleremo oltre più diffusamente).

La mobilità sociale viene misurata dagli studiosi confrontando lo status sociale di genitori e figli – detta inter-generazionale – ovvero lo status individuale (di reddito) nel corso della vita⁸. La prima, avverte il recente rapporto OECD, è molto bassa e non è ugualmente distribuita tra le classi. Ciò è vero per quanto riguarda i livelli di istruzione, il tipo di occupazione e le retribuzioni, confrontando figli e genitori. In Italia, due terzi (il 67%) dei figli di genitori con istruzione inferiore al ciclo superiore restano con lo stesso livello di istruzione (contro una media OCSE del 42%). In altre parole, i figli di chi ha solo la terza media (la maggioranza degli italiani, quasi il 55% della popolazione) non va oltre la scuola inferiore. Inoltre, solo il 6% delle persone con livello di istruzione inferiore al ciclo superiore raggiunge la laurea (meno della metà della media OCSE). Lo stesso vale per il tipo di occupazione: i figli di lavoratori manuali diventano lavoratori manuali anche loro in 4 casi su 10 (più della media OCSE), mentre i figli dei manager o dei dirigenti divengono per lo più manager o dirigenti. Infine, il 31% dei figli di padri con basse retribuzioni continua ad avere retribuzioni basse (media vicina a quella OCSE).

La mobilità individuale del reddito è altresì scarsa: le possibilità che un individuo possa vedere crescere il suo reddito nel corso della vita sono limitate, particolarmente per chi parte da un reddito basso. E questa mobilità si è ulteriormente abbassata a partire dagli anni Novanta. È ovvio che ciò dipende in grande parte dalle opportunità offerte nel mercato del lavoro e dal livello di istruzione. La disoccupazione giovanile in Italia, è noto, è molto alta e più alta della media OCSE: molti occupati, poi, hanno posizioni lavorative di bassa qualità e poche possibilità di spostarsi verso l’alto. Le politiche che hanno puntato tutto sulla flessibilizzazione più che sull’aumento delle opportunità hanno generato solo precariato, non maggiore mobilità e accesso. E chi entra nel mercato in una certa classe di stipendio o salario fa fatica ad uscirne.

Come è stato rilevato da più parti e come vedremo più avanti, negli ultimi decenni la distribuzione del reddito nella maggioranza dei paesi OCSE, Italia inclusa, è andata vieppiù concentrandosi. Tuttavia, anche la disuguaglianza del reddito è più accettabile se è associata ad una mobilità alta tra le generazioni e nel corso della vita degli individui. Ognuno di noi è più propenso ad accettare un reddito basso se sa che questo può aumentare in un futuro non troppo lontano. Ricordiamo l’“effetto tunnel” di Albert Hirschman: in una galleria si formano due file di auto; se la nostra fila è ferma ma vediamo che l’altra comincia a muoversi, allora accettiamo con più condiscendenza il restare fermi. Se, però, notiamo che gli altri si muovono e noi continuiamo a restare fermi, allora cominciamo ad innervosirci e non siamo più disposti ad accettare di restare fermi.

Una società avrà una maggiore tolleranza verso un alto grado di disuguaglianza se vi è consapevolezza che nessuno è destinato a restare nella condizione sociale in cui si trova. Pertanto, a parità di livelli di disuguaglianza – di reddito, di istruzione, di opportunità – una società più mobile sarà più tollerante nei confronti della disuguaglianza di una meno mobile. In tutti i paesi OCSE, invece, una crescente disuguaglianza del reddito si è accompagnata ad una minore mobilità sociale. Anzi, i paesi con alta mobilità si sono rivelati sempre più spesso quelli ove la disuguaglianza è minore. Come si manifesta una minore mobilità sociale? Il canale più tipico è quello legato alle condizioni familiari e del “capitale umano”: il maggiore reddito dei genitori influisce sul livello di istruzione dei figli i quali, grazie all’istruzione, sono in grado di accedere a classi di reddito più alto.

Cosa succede in Italia a questo riguardo? Tra i paesi OCSE, il nostro ha un livello di disuguaglianza del reddito che è medio-alto – tra i paesi UE è più alto quello di Austria, Spagna, Portogallo e Grecia, oltre alla Gran Bretagna (vedi Figura 1) – e presenta una mobilità sociale medio-bassa nelle varie dimensioni di reddito, occupazione, istruzione e salute e una mobilità individuale nel corso della vita bassa e decrescente per i redditi bassi e media per i redditi alti. Gli altri paesi UE fanno meglio. In ogni caso, se confrontiamo la media italiana con quella dell’insieme dei paesi OCSE – tra i quali vi sono paesi con alti livelli di disuguaglianza come Stati Uniti e Messico – vediamo che mentre nei paesi OCSE il 50% degli individui nella classe di reddito più bassa tende a restare nella stessa classe nel corso del tempo (almeno 4 anni), in Italia sono circa il 60%. E quelli nella classe media? Per l’Italia come per la media OCSE le quote sono simili: solo il 40% di chi appartiene al ceto medio riesce a salire di classe nel corso del tempo e circa il 20% scende a livelli di reddito più bassi. La “persistenza” è poi più alta per i più ricchi: più del 70% di coloro nel quintile più ricco della popolazione vi resta nel corso del tempo. In altre parole: chi si trova in una certa classe di reddito sempre più tenderà a rimanervi (la mobilità sociale e di reddito è diminuita), una tendenza che dagli anni Novanta continua imperterrita.

Figura 1. Disuguaglianza e mobilità sociale in diverse dimensioni

Fonte: OCSE/OECD, 2018a, cap. 1.

Il rapporto dell’OCSE fornisce anche una fotografia di quella che viene chiamata mobilità sociale di classe, ovvero quanto gli individui, da una generazione all’altra, cambiano di classe sociale, definita secondo certi parametri specifici⁹. Il quadro che emerge per l’Italia è drammatico (vedi Figura 2). Non solo l’Italia è il paese con mobilità sociale di classe più bassa di tutti – misurata come percentuale di individui di età 25-64 anni la cui classe è diversa da quella dei genitori, 2002-2014 – ed è pari al 60%, ma la metà di questo 60% è scivolata verso una classe sociale inferiore (la mobilità verso il basso è comunque alta anche in altri paesi).

Figura 2. Mobilità sociale di classe, 2002-2014

Fonte: OCSE/OECD, 2018a, cap. 1.

Misurare la mobilità sociale – inter-generazionale, di classe o di reddito – è comunque complicato e dipende molto dai dati che si utilizzano, principalmente perché sono necessarie informazioni a livello individuale che riguardano le famiglie di origine. Questo viene generalmente fatto con onerose indagini multi-scopo da istituti di statistica o importanti centri di ricerca. In uno studio recente, Acciari, Polo e Violante (2019) hanno indagato una fonte originale di dati di fonte fiscale (le dichiarazioni IRPEF con codici fiscali annessi), dalla quale hanno ottenuto risultati leggermente in controtendenza ma che, complessivamente, confermano quanto visto sopra.

3. La scuola non è per tutti e studiare non paga

Il tema della limitata mobilità sociale porta a due altre importanti questioni: quella dell’istruzione e quella della mobilità occupazionale. L’ultimo rapporto dell’OCSE sull’istruzione (Education at a Glance 2018) conferma che i dati per l’Italia, nel confronto internazionale, sono allarmanti. Basso livello di istruzione qualificata e specializzata, pochi laureati e remunerati meno dei loro colleghi europei. Forse che gli italiani non hanno voglia di studiare? Oppure non trovano la scuola giusta? Il fatto è che la scuola è tornata ad essere classista e non è per tutti.

Se è vero che l’Italia ancora nei primi anni Cinquanta era un paese con il 13% di analfabeti e ben il 46% che sapeva leggere e scrivere ma non aveva finito la quinta elementare, molti progressi sono stati fatti in questi settant’anni, anche se negli ultimi venti sembrano essersi arrestati. L’ultimo rapporto OCSE evidenzia, in sintesi, le tendenze ormai note degli ultimi tempi: l’Italia è tra i paesi dove maggiore è la frequenza delle scuole materne – 90% per i bambini tra 3 e 5 anni di età – e alta la frequenza delle scuole elementari ma è anche il paese con la più bassa quota di laureati – il 18% della popolazione adulta – e la più bassa quota di spesa pubblica per istruzione – il 7% della spesa per servizi. Gli italiani, dunque, “non hanno voglia di studiare” o non viene data loro l’opportunità di farlo?

Guardiamo ai dati più nel dettaglio, cominciando dalla scuola per l’infanzia. Nonostante l’alta frequenza delle scuole materne, l’Italia destina a quel livello di istruzione solo lo 0,5% del suo PIL, meno della media OCSE. L’84% di quella spesa viene dal pubblico e, di questa, i tre quarti vengono dal governo centrale (e solo un quarto, quindi, dagli enti locali).

In Italia, la quota di persone di età compresa tra i 25 e i 64 anni di età con sola licenza elementare o media inferiore è ancora alta – il 40%, contro una media OCSE del 22,4% e una media europea del 20,3%. In Europa, solo Spagna e Portogallo sono in una situazione peggiore. Nel nostro paese, in compenso, il 41,5% della popolazione della stessa classe di età (25-64) ha un livello di istruzione secondario superiore (scuole tecniche e professionali, scuole secondarie, master di scuola secondaria), appena maggiore della media OCSE del 39,3%. E questa quota è sempre la stessa e non è aumentata negli ultimi anni (era inferiore di due punti percentuali già nel 2000). Va detto poi che la maggior parte delle persone con istruzione secondaria ha fatto scuole professionali, così come alta è la quota di quelli che hanno conseguito un titolo prima dei 25 anni. In altre parole, l’istruzione per adulti, in Italia, ha minor successo che negli altri paesi.

L’istruzione terziaria (laurea universitaria, master o dottorato), al contrario, resta un obiettivo raggiunto da appena il 17,7% della popolazione adulta (25-64) totale in Italia, contro una media europea del 33,4 e una media OCSE del 36,7. Non solo, ma se poi guardiamo a come la popolazione più istruita si distribuisce per regione, abbiamo una ragione in più per allarmarci. Se guardiamo a come la percentuale di laureati per regione è variata negli ultimi tre anni, si può vedere che le regioni meridionali, con l’aggiunta di Veneto, Trentino Alto Adige, Piemonte e Valle d’Aosta, sono sotto la media nazionale e la regione con le quote più alte – il Lazio – è ben lontana dai livelli europei.

Tutti questi dati restano preoccupanti anche se si guarda alla sola popolazione giovane-adulta, ovvero quella di età compresa tra i 25 e i 34 anni di età, nonostante i trend degli ultimi anni siano meno sconfortanti. Il tasso di istruzione primaria e media inferiore – ovvero la quota di popolazione che ha frequentato solo la scuola dell’obbligo – resta altissimo per il nostro paese. Dal 2000 ad oggi, esso è infatti passato dal 43,6% della popolazione di riferimento al 26,1, contro una media europea scesa dal 23,1% al 14,8 e una media OCSE di poco superiore. La quota di possessori di titolo di studio secondario superiore – nella classe di età dei giovani adulti – è invece passata dal 46% al 48,3 nel periodo, contro una media europea scesa dal 53,2% al 44,7. Parimenti, i giovani adulti con titolo universitario sono passati dal 10,4% del totale dell’anno 2000 al 20,7% del 2010, per poi attestarsi al 25,6% attuale. I loro colleghi europei, che erano il 20% del totale nel 2000, sono oggi più del 40,4.

Gli sbocchi occupazionali per i laureati sono sconfortanti per il nostro paese. «L’Italia», dice il rapporto OCSE, «è uno dei pochi paesi dove le prospettive occupazionali per i laureati tra i 25 e i 34 anni di età sono inferiori a quelle di chi ha un titolo di studio professionale».

Il tasso di occupazione per chi ha livello di istruzione secondario è del 71% in Italia – contro una media OCSE del 75 – mentre per chi è laureato è ovviamente maggiore (80%). Tra i giovani adulti (età 25-34) il trend degli ultimi anni non è molto confortante. Se, ovviamente, è diminuito il tasso di occupazione per chi ha solo licenza elementare o media, passato dal 60% del 2000 al 65 del 2005 al 51 attuale, è diminuito anche il tasso per chi ha titolo di studio superiore – era il 67% nel 2000, il 73 nel 2005 ed è sceso al 63 attuale – così come è calato il tasso di occupazione per i laureati – dal 73% del 2000 in costante diminuzione fino al 64 odierno. Le medie europee, in tutti i casi, sono migliori, pur anch’esse in lieve calo.

I tassi di disoccupazione tra i giovani adulti mostrano invece un mercato del lavoro che per l’Italia è simile a quello degli altri paesi europei per chi ha solo licenza elementare o media inferiore – il 23,8% contro una media europea del 20,4 – laddove il tasso è invece parecchio più alto per chi ha titolo di studio superiore – 16 contro 10,3 – ed è doppio per chi ha titolo di istruzione terziaria – 15,3 contro 7,4. Ovvero, i laureati italiani disoccupati sono, in percentuale, il doppio degli europei. Preoccupanti, per l’Italia, sono anche i tassi di inattività dei giovani adulti, pari al 25 e 24%, rispettivamente per diplomati e laureati, contro una corrispondente media europea del 15 e 11%, rispettivamente. In pratica, un giovane su quattro, in Italia, pur avendo un diploma superiore o una laurea, non ha e non cerca lavoro. Più inattivi dei nostri giovani laureati, tra i paesi europei, non vi è nessuno, mentre ve ne sono in Corea del Sud, Messico e Turchia tra i diplomati.

Tuttavia, studiare conviene, si dice: è un investimento per le famiglie e le persone che generalmente paga in termini di remunerazione. Ma è davvero così? In Italia, mentre chi ha solo una licenza elementare o media guadagna in media il 23% in meno di un diplomato di scuola superiore (percentuale calcolata sull’intera popolazione di età compresa tra 25 e 64 anni, in linea con la media europea), chi ha una laurea o più riceve uno stipendio maggiore del 41%, in media, di quello di un diplomato, contro una media europea del 53%. Ovvero, i nostri laureati sono pagati meno dei loro colleghi europei, rispetto ai diplomati. A questo riguardo, è interessante notare che le donne non solo guadagnano meno degli uomini, ma più sono istruite e meno guadagnano (in proporzione). Le laureate italiane, infatti, hanno una retribuzione che si aggira attorno al 71% di quella degli uomini, mentre per le diplomate il valore sale attorno all’81% (le medie europee sono 75 e 79%, rispettivamente). E questo vale anche per le più giovani.

L’Italia non remunera a dovere chi studia. Come ricorda il rapporto dell’OCSE, i vantaggi in termini di remunerazione dei laureati e gli svantaggi di coloro che sono privi di titolo di studio secondario dovrebbero spiegarsi secondo le leggi economiche della domanda e dell’offerta. In questo caso, però, la domanda e l’offerta di lavoro secondo il livello di istruzione non si possono misurare se non indirettamente. In particolare, la quota di persone con titolo di studio terziario potrebbe essere vista come un indicatore di offerta di manodopera qualificata, laddove il tasso di disoccupazione – che riflette il potenziale di assorbimento del mercato del lavoro – potrebbe essere visto come un indicatore di domanda. Nei paesi OCSE i tassi di disoccupazione diminuiscono all’aumentare del livello di istruzione, il che vorrebbe dire che i vantaggi in termini di remunerazione per i laureati dovrebbero essere maggiori in quei paesi ove la loro quota è bassa. L’Italia, tuttavia, è un’infelice eccezione, in cui a una quota bassa di laureati corrisponde un vantaggio remunerativo comparativo basso. «L’Italia è un outlier», dice il rapporto OCSE, perché «nonostante la quota di laureati sia la più bassa tra i paesi OCSE, i vantaggi di remunerazione comparati sono piuttosto esigui, molto inferiori alla media OCSE».

La spesa per l’istruzione è il nostro punto debole. Tra i paesi menzionati nel rapporto OCSE, la spesa totale per istruzione della spesa pubblica totale varia dal 16% di Brasile, Costa Rica, Indonesia, Messico, Nuova Zelanda e Sud Africa a meno dell’8% di Repubblica Ceca, Ungheria e Russia (la media dei paesi OCSE è dell’11,3, mentre quella UE è del 9,9%). Tra i paesi europei, l’Italia è buona ultima, con un livello di spesa pari al 7,1% del totale. In rapporto al PIL, lo Stato italiano destina appena il 3,6% all’istruzione (la media europea è del 4,7 e quella OCSE del 4,8%), su una spesa totale in servizi in Italia pari al 50,9% del PIL (in Europa è il 47 e nell’insieme dei paesi OCSE è il 43%).

Negli ultimi anni, peraltro, l’Italia ha destinato sempre meno risorse a questa voce, e non si può pertanto dire che ciò sia stato il frutto di una particolare politica di alcuni governi, nonostante i molti professori il paese abbia avuto tra i suoi rappresentanti nell’esecutivo. Il trend, iniziato già negli anni Novanta, si è consolidato negli ultimi lustri. Se nel 2005 l’8,1% della spesa pubblica veniva allocata alle spese per istruzione, a tutti i livelli, nel 2008 essa è salita appena all’8,2%, per scendere poi regolarmente fino al 7,1 attuale (di cui solo l’1,6% dedicato all’istruzione terziaria, come solo l’Ungheria fa tra i paesi europei).

Tale spesa, se è generalmente calata per molti paesi tra il 2010 e il 2014, per alcuni, tra cui Italia, Portogallo, Slovenia e Spagna, è diminuita di più dell’11% in 4 anni, a fronte di un calo molto più modesto della spesa complessiva per servizi.

Se il livello di istruzione è basso e le prospettive occupazionali non ricompensano chi studia, la politica deve preoccuparsi. Ma il livello di istruzione è basso anche perché l’Italia fa troppo poco per migliorarlo. Perché gli italiani non studiano? Perché scelgono di fermarsi ad un livello di istruzione medio inferiore o, al più, superiore? La prima ragione, analizzata in precedenza, sta nella bassa mobilità sociale. Purtroppo, infatti, quanto più una società è ferma e la mobilità sociale è bassa, tanto più il livello di istruzione tende a “trasmettersi” tra le generazioni. Se un paese vuole migliorare la condizione sociale dei suoi cittadini attuali e futuri, deve offrire ai giovani più eque possibilità di ottenere un livello di istruzione di qualità e ciò è ancor più vero oggi che il gap nel mercato del lavoro tra occupazioni qualificate e non si è ampliato, così come crescente è il divario di reddito tra i laureati, i diplomati e gli altri. Un paese con un’ampia quota di lavoratori non qualificati è quindi destinato ad avere disuguaglianze crescenti. È ovvio, però, che non è pensabile che tutti ottengano la laurea. Ma sono i figli dei meno qualificati e istruiti che devono poter avere l’opportunità di fare quella scelta. Gli adulti laureati, tipicamente, hanno un genitore laureato, mentre sono molto pochi i figli di genitori non laureati ad accedere alla laurea. E questo è qualcosa che deve preoccupare la politica.

Il rapporto OCSE ci mostra che l’Italia è il paese dove più alta è la quota di persone tra i 30 e i 44 anni i cui genitori non sono laureati (ben il 95%, seconda solo alla Turchia, con il 97%). Ed è anche tra i paesi dove i figli di genitori non laureati meno accedono all’università (e questo è ancor più vero per la generazione tra i 45 e i 59 anni). Non solo, ma l’Italia è tra i paesi dove altissima è la quota di laureati tra i figli di genitori di cui almeno uno è laureato (seconda solo a Turchia, Polonia e Singapore). Ciò significa che in Italia il percorso scolastico intrapreso e il livello di istruzione raggiunto dipendono moltissimo da quelli dei genitori (ne sono influenzati e possibilmente ne sono anche determinati): la differenza, per i laureati, tra chi ha genitori laureati e chi no è attorno al 54%, al contrario, ad esempio, dell’Austria, dove la differenza è solo del 22%.

Se questo è il quadro relativo al livello di scolarità e al suo legame con le condizioni familiari, e su come esso incida sulle prospettive occupazionali, un accenno va fatto pure all’analfabetismo funzionale e di ritorno, perché anch’esso è rafforzato dalla bassa mobilità sociale. Il grado di alfabetizzazione degli individui è importante dal punto di vista della partecipazione sociale e professionale. Ebbene, se in Italia l’analfabetismo strumentale è stato sostanzialmente ridotto a quasi zero, è però vero che ancora all’ultimo censimento (2011) ben 4,9 milioni di italiani erano analfabeti o privi di licenza elementare. Se a questi aggiungiamo i possessori di sola licenza elementare – poco più di 11 milioni – allora si ha che in Italia gli illetterati (così li definisce l’OCSE) compongono quasi il 30% della popolazione. Ma, come sottolineano molte indagini sui livelli di istruzione degli adulti, alla mancanza di istruzione oggi si aggiunge l’analfabetismo funzionale, ovvero «l’incapacità di un individuo di usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana» (Ardeni, 2019a).

L’analfabetismo funzionale si misura per gradi e non riguarda solo il saper leggere, scrivere e far di conto correntemente (quello che è l’analfabetismo di ritorno: di chi aveva queste capacità, ma nel corso della vita le ha perse). Esso è tanto più profondo quanto più indica la mancanza di conoscenza e capacità comunicative e relazionali, di skills e competenze qualificate. Ora, dalle ultime indagini risulta che il nostro paese si colloca all’ultimo posto della graduatoria nelle competenze alfabetiche (literacy), anche se rispetto alle precedenti indagini OCSE la distanza dagli altri paesi appare ridursi, mentre l’Italia risulta penultima nelle competenze matematiche e di calcolo (numeracy), considerate fondamentali per affrontare e gestire problemi di natura matematica nelle diverse situazioni della vita adulta. In Italia, il 27,9% non ha competenze alfabetiche e il 31,9% è privo di competenze numeriche – questi sono gli analfabeti funzionali.

Se, tuttavia, prendiamo in esame quello che l’OCSE considera «il livello di competenze alfabetiche e numeriche considerate necessarie per interagire in modo efficace nella società del XXI secolo», nel complesso, il 71% della popolazione italiana non raggiunge quel livello, un dato drammatico. Più di sette italiani su dieci, quindi, sono analfabeti funzionali o hanno capacità cognitive e di elaborazione minime! Inoltre, il confronto tra l’Italia e la media OCSE, per le diverse classi di età, evidenzia ancor di più la distanza del nostro paese dagli altri. Va poi aggiunto che, naturalmente, queste tendenze sono ancora più marcate tra i disoccupati e i non occupati (e soprattutto tra i giovani non occupati né in cerca di occupazione o in formazione, i cosiddetti NEET). Infine, com’è ovvio, le capacità alfabetiche e numeriche appaiono fortemente correlate con il background familiare socio-economico di riferimento. Gli adulti con bassi livelli di istruzione (al di sotto del diploma) con genitori che hanno anch’essi un basso livello di istruzione hanno una probabilità cinque volte maggiore di trovarsi ai più bassi livelli di competenza alfabetica rispetto a coloro i quali hanno un titolo di studio pari al diploma o superiore ed almeno un genitore con un titolo di studio pari o superiore al diploma (un risultato che è tuttavia, in media, simile a quello degli altri paesi OCSE). La bassa mobilità sociale ha il suo peso anche in questo caso: tanto più basso è il livello di istruzione dei genitori, tanto più alta è la probabilità di un individuo di non avere le competenze alfabetiche e numeriche per “poter stare al mondo” dignitosamente.

4. Le disuguaglianze di reddito e di ricchezza
vengono da lontano

Non solo l’economia è ferma, come abbiamo visto, e le prospettive occupazionali poco incoraggianti. Non solo le prospettive individuali di ogni italiano sono fortemente condizionate dalla famiglia di origine e dal background, ma reddito e ricchezza sono sempre più concentrati e le disuguaglianze socio-economiche appaiono in aumento. Tutte le fonti più autorevoli, nazionali e internazionali (ISTAT e Banca d’Italia, Eurostat o OCSE), lo confermano. Iniziamo col guardare alle tendenze recenti, in Italia, rispetto agli altri paesi, per poi analizzare il più lungo periodo.

Gli ultimi dati di Eurostat¹⁰ mostrano che in Italia l’indice Gini – calcolato sul reddito disponibile equivalente – è tornato ad un livello attorno al 33%, lo stesso del 1995. Se, negli anni tra il 1995 e il 2001, l’indice Gini per l’Italia era considerevolmente diminuito (fino al minimo del 29%) per poi tornare al 32,9% nel 2004 e di nuovo giù nei quattro anni successivi, dopo la crisi esso è tornato ad aumentare (Tabella 1). Negli ultimi anni, poi, la disuguaglianza nella distribuzione del reddito per l’Italia è sempre stata più elevata che nell’area euro.

Tabella 1. Indice di Gini del reddito disponibile equalizzato

	1995	1996	1997	1998	1999	2000	2001	2004	2005	2006	2007
Area euro								30,7	29,3	29,3	30,0
Italia	33	32	31	31	30	29	29	32,9	32,7	32,1	32,0
	2008	2009	2010	2011	2012	2013	2014	2015	2016	2017	2018
Area euro	30,5	30,3	30,3	30,6	30,4	30,7	30,9	30,7	30,7	30,4	30,6
Italia	31,2	31,8	31,7	32,5	32,4	32,8	32,4	32,4	33,1	32,7	33,4

Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat (EU-SILC, EHCP).

I dati dell’indagine sui bilanci delle famiglie italiane (ISTAT-Banca d’Italia, 2018), anche se leggermente diversi, confermano questa tendenza: «L’indice di Gini del reddito equivalente nel 2016 è salito al 33,5%, dal 33% del 2012 e del 2014. [...] Nei dieci anni precedenti, seguiti alla crisi finanziaria globale, il livello della disuguaglianza è aumentato di 1,5 punti percentuali riportandosi in prossimità dei livelli toccati alla fine degli anni Novanta (34,3%)».

Per chiarezza, va detto che l’indice di Gini è una misura di concentrazione del reddito che tiene conto dell’omogeneità della distribuzione, ed è per questo l’indice più utilizzato: una variazione di un punto percentuale dell’indice segnala una considerevole variazione della distribuzione. L’indice, però, non tiene conto del rapporto relativo tra percentili (o decili, quintili) della distribuzione. Se, quindi, l’andamento complessivo dell’indice Gini (sul reddito disponibile) è stato comunque contenuto in un intervallo di 5 punti percentuali, è il divario tra ricchi e poveri che si è ampliato. Tra il 2005 e il 2018 il reddito disponibile equivalente medio netto ha avuto, per l’Italia, un andamento debolmente crescente fino al 2012, per poi fermarsi, mentre nell’insieme dei paesi dell’area euro ha continuato ad aumentare (Tabella 2). Nel 2005 il reddito italiano era ancora superiore a quello medio europeo (e più che doppio rispetto al valore di dieci anni prima) e da allora non ha fatto che allontanarsene. A ciò si è accompagnato un peggioramento della distribuzione, confermato dalla minore crescita del reddito mediano. Se poi confrontiamo quei valori con il reddito massimo del quintile più povero (il 20% dei percettori di redditi più bassi), possiamo notare che questo è rimasto sostanzialmente fermo negli ultimi anni, nel caso italiano, mentre ha continuato ad aumentare nella media dei paesi dell’area euro. Ed è stato sistematicamente inferiore a quello mediano, più di quello europeo, confermando, una volta di più, come in Italia la disuguaglianza sia maggiore.

Tabella 2. Reddito disponibile equivalente netto medio, mediano e massimo
del quintile più povero

	2005	2006	2007	2008	2009	2010	2011	2012	2013	2014	2015	2016	2017	2018
Reddito disponibile equivalente netto medio
Area euro	16.228	16.251	17.393	19.066	19.554	19.715	19.686	19.929	19.953	20.000	20.372	20.855	21.357	21.957
Italia	16.572	16.725	17.314	17.711	17.983	18.221	18.149	18.267	17.932	17.914	17.890	18.286	18.714	19.208
Reddito disponibile equivalente netto mediano
Area euro	14.282	14.383	15.281	16.499	16.989	17.170	17.139	17.397	17.374	17.495	17.856	18.343	18.809	19.331
Italia	14.307	14.560	15.106	15.640	15.605	15.964	15.971	15.979	15.733	15.759	15.846	16.247	16.542	16.844
Reddito disponibile equivalente massimo del quintile più povero
Area euro	9.481	9.542	10.017	10.767	11.107	11.203	11.135	11.274	11.308	11.265	11.469	11.762	12.196	12.350
Italia	8.718	8.859	9.159	9.596	9.678	9.843	9.613	9.686	9.600	9.585	9.518	9.585	9.876	10.050

Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat (EU-SILC, EHCP).

In sostanza, nell’ultimo decennio, in Italia, il reddito medio del quintile più povero è rimasto sostanzialmente costante (diminuendo quindi in termini reali), il reddito delle classi medie è aumentato di poco (come mostra il reddito mediano), mentre è quello del quintile più ricco che è aumentato (la sua quota è rimasta attorno al 40% del totale, ma essendo aumentato il reddito medio, ciò implica che anche il reddito dei più ricchi è aumentato).

La distribuzione del reddito disponibile equivalente mostra che il quintile più ricco (il 20% dei percettori di redditi più elevati) detiene quasi il 40% del reddito complessivo, una quota superiore a quella detenuta complessivamente (37,2%) dai sei decili di reddito più poveri. Ed è maggiore di quella detenuta dai ricchi, in media, nei paesi dell’area euro. Nel confronto con gli altri paesi, quindi, i dati mostrano ampie disparità nella distribuzione del reddito in Europa. Nella UE, il quintile più ricco della popolazione (il 20% con il reddito più elevato) ha ricevuto un reddito 5,2 volte maggiore rispetto al quintile più povero. L’Italia ha uno dei rapporti tra quintili che è tra i più alti (6,3), insieme alla Lettonia, inferiore solo a Grecia, Spagna, Romania, Lituania e Bulgaria (il più alto). L’Italia registra un valore sempre più alto di quello della media dei paesi dell’area euro.

Inoltre, come è aumentata la disuguaglianza nella distribuzione del reddito, così è aumentata la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Secondo le stime elaborate da ISTAT e Banca d’Italia (ISTAT-Banca d’Italia, 2019), «a fine 2017 la ricchezza netta delle famiglie italiane – costituita dalla somma delle attività reali e delle attività finanziarie al netto delle passività finanziarie – è stata pari a 9.743 miliardi di euro, 8,4 volte il loro reddito disponibile. Le abitazioni hanno costituito la principale forma di investimento delle famiglie e, con un valore di 5.246 miliardi di euro, hanno rappresentato la metà della ricchezza lorda». «Alla fine del 2016 le famiglie italiane disponevano in media di una ricchezza netta di circa 206.000 euro (218.000 euro nel 2014). Il valore mediano, che separa la metà più povera delle famiglie dalla metà più ricca, era significativamente inferiore (126.000 euro, da 138.000 euro nel 2014), riflettendo la forte asimmetria della distribuzione»¹¹. Tra il 2014 e il 2016 la ricchezza netta media è diminuita del 5% a prezzi costanti, proseguendo la flessione avviatasi nel 2010.

La ricchezzanetta è ben più concentrata del reddito. Secondo l’ultima indagine sui bilanci delle famiglie italiane (ISTAT-Banca d’Italia, 2018), l’indice di Gini calcolato sulla distribuzione della ricchezzanetta è stato pari al 61,6% nel 2016 (come nel 2006, era stato il 64,5% nel 2012). «Nel decennio tra il 2006 e il 2016, i due decili più bassi della ricchezza netta sono passati, rispettivamente, da 2.300 a 1.100 euro e da 12.000 a 6.200 euro, la mediana è scesa da 166.000 a 126.000 euro e il nono decile da 580.000 a 462.000 euro».

Se poi guardiamo al più lungo periodo, notiamo che la ricchezza netta delle famiglie italiane ha registrato una crescita costante: nel 2010 il patrimonio delle famiglie era di circa 8.600 miliardi di euro, cioè 7,5 volte la ricchezza del 1965. Tuttavia, questo andamento crescente è stato caratterizzato da periodi di maggiore accelerazione e periodi di contrazione. Nel tempo, comunque, l’aumento ha subìto un rallentamento in ragione della riduzione dei risparmi delle famiglie e del calo del tasso di crescita del paese. Negli anni della crisi, ad esempio, tra il 2007 e il 2010, la ricchezza netta (a prezzi costanti) delle famiglie italiane è calata del 5% (Banca d’Italia, 2015). Certo, se guardiamo al PIL, il nostro paese ha visto aumentare la propria ricchezza più di quanto non abbia saputo incrementare la produzione, a conferma che la rilevanza delle condizioni patrimoniali rispetto a quelle reddituali è cresciuta nel tempo: rispetto al passato, oggi la ricchezza ereditata è molto più rilevante di quella che è possibile accumulare con l’attività lavorativa o di impresa.

Anche nel rapporto tra ricchezza netta e reddito disponibile delle famiglie l’Italia si distingue. Tale rapporto, secondo dati di fonte OCSE riportati nel testo di ISTAT-Banca d’Italia (2019), «è più alto di quello relativo alle famiglie francesi, inglesi e canadesi (intorno a 8), anche se nel periodo il divario si è notevolmente ridotto. Negli ultimi anni l’indicatore è gradualmente sceso dal picco raggiunto nel 2013, con un andamento opposto a quello osservato per gli altri paesi. Il livello elevato di quest’indicatore nel confronto internazionale è amplificato dal ristagno ventennale dei redditi delle famiglie italiane».

I dati di più lungo periodo, tuttavia, mostrano che l’aumento delle disuguaglianze e della concentrazione dei redditi hanno origini lontane, che si sommano a redditi disponibili stagnanti o in calo. Se il PIL – come abbiamo già ricordato – ha conosciuto una fase di rallentamento dopo gli anni Novanta e due contrazioni negli anni 2008-09 e 2011-13 (e, con il PIL, anche i consumi aggregati), il reddito familiare disponibile lordo ha invece visto un primo calo nel 1993-94, una debolissima fase di crescita fino al 2007 e un sostanziale calo negli anni successivi, per riprendersi solo nel 2015 e 2016 (Brandolini et al., 2018)¹². Ma anche la distribuzione del reddito ha seguito l’andamento macro-economico negativo.

Guardando al più lungo periodo, secondo i dati ricostruiti da Brandolini et al. (2018), della Banca d’Italia – compatibili con quelli di fonte Eurostat visti in precedenza, ma leggermente differenti –, l’indice di Gini sul reddito disponibile totale è passato dal 33,4% del 1989 al 37,5% del 1998, per restare sempre sopra il 35% fino al 2014¹³. Se il reddito disponibile medio è passato dai 35.900 euro (in termini reali, ai prezzi 2014) del 1989 ai 30.600 euro del 2014 (con un picco massimo di 36.100 euro nel 2006), il reddito mediano è calato pressoché costantemente, passando dai 30.100 euro del 1989 ai 25.100 euro del 2014 (pur risalendo fino ai 29.700 euro del 2006)¹⁴. La distanza tra media e mediana denota un aumento della concentrazione del reddito.

Nel venticinquennio considerato, è altresì mutato il peso delle varie classi di reddito sul totale della popolazione. Se la classe povera (definita come quella con un reddito disponibile inferiore al 60% del valore mediano) è passata dal 16,1% del 1989-91 al 21,4% del 2012-14, la classe medio-bassa (con un reddito tra il 60 e il 120% della mediana) è scesa nello stesso periodo dal 47,1 al 41,2% della popolazione. La classe ricca (con un reddito pari a 3 volte il valore mediano) è invece passata dall’1,8 al 2,4%. I redditi di queste classi sono però variati in modo asimmetrico: mentre quello della classe più povera è variato di poco, passando dal 6,4 al 7,4% del reddito disponibile equivalente totale, e quello della classe medio-bassa è sceso dal 36,2 al 32,1% del totale, il reddito della classe ricca è passato dal 6,4 a più del 10%, per scendere all’8,9% dell’ultimo biennio.

In sostanza, questi numeri confermano che la concentrazione dei redditi è aumentata negli anni, che l’aumento non si è verificato in seguito alla crisi del 2008 e che la polarizzazione tra le classi è in atto da tempo ed è crescente. Anzi, le tendenze in atto, come riportato da Brandolini et al. (2018), sembrano più il risultato di qualcosa che si è messo in moto negli anni Novanta che di processi più recenti. Se c’è un periodo in cui i ricchi sono diventati più ricchi e la classe media si è ridotta questo è stato quello compreso tra gli anni Novanta e il momento in cui è scoppiata la crisi.

La più consistente diminuzione delle disuguaglianze, in Italia, si è avuta tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, quando il calo è stato di ben 7 punti percentuali¹⁵. Nel 1967 – il primo anno per il quale sono disponibili i dati sulla distribuzione del reddito per l’Italia – l’indice di Gini sul reddito disponibile era pari al 37,9%; dopodiché inizia a calare fino al suo minimo storico nel 1984 (30,6%), torna ad aumentare, per scendere di nuovo nel 1991. Ma da allora, pur variando, è sempre rimasto sotto il 34%. Rispetto al 1967, il reddito pro capite a prezzi costanti è più che raddoppiato, in meno di cinquant’anni. La disuguaglianza, invece, è diminuita nel primo quarto di secolo, per poi oscillare attorno ad un valore comunque più alto del suo minimo storico.

Il confronto internazionale mostra tendenze simili, nelle quali l’Italia segue i trend globali. Secondo i dati del World Inequality Report (2018)¹⁶, tra il 1980 e il 2016 all’1% più ricco della popolazione mondiale è andato il 27% dell’aumento del reddito globale, mentre al 50% più povero è andato solo il 13% (Figura 3).

Figura 3. Incremento del reddito globale mondiale per percentile, 1980-2016

Fonte: Oxfam (2018), elaborazione su dati del World Inequality Database.

La nota “curva dell’elefante” di Lakner e Milanovic mostra le classi di reddito che più hanno beneficiato della crescita negli ultimi decenni. Dalla figura emerge chiaramente come i principali perdenti sono quelli tra il 50° e il 90° percentile della distribuzione globale, ovvero le classi medie dei paesi più sviluppati.

Figura 4. Quota del reddito nazionale dell’1% più ricco, 1980-2016

Fonte: elaborazioni su dati del World Inequality Database (Gallo, 2019).

Guardando ai dati internazionali per paese più da vicino, notiamo due tendenze. La prima è che l’Italia e la Svezia sono i paesi dove l’1% più ricco detiene la minore quota del reddito totale nazionale e, come anche in Francia, tale quota è stata negli ultimi anni abbastanza costante (Figura 4). La seconda è che solo in Francia e nel Regno Unito la quota del reddito totale detenuta dalla metà meno ricca della popolazione non è diminuita negli ultimi anni (Figura 5).

Figura 5. Quota del reddito nazionale del 50% meno ricco, 1980-2016

Fonte: elaborazioni su dati del World Inequality Database (Gallo, 2019).

Questi dati (che sono per costruzione, come detto, leggermente diversi da quelli visti sopra, riguardando i redditi individuali lordi, ma utili al confronto internazionale) confermano per l’Italia quanto già detto. Se nel 1980 il decile più ricco della popolazione italiana deteneva il 23% del reddito totale, alla metà più povera (i cinque decili inferiori) ne andava solo il 30%. Tra il 1980 e il 1985 l’Italia e la Svezia risultano essere i paesi con il valore più basso dell’indice di Gini (29,5% l’Italia e 28,2% la Svezia). Da allora il divario tra poveri e ricchi in Italia non ha fatto che allargarsi, tanto che nel 2016 il decile più ricco deteneva il 29% del reddito totale e la metà più povera il 24% (con un valore dell’indice Gini per l’Italia pari al 38,6%). La distanza tra le due fasce di reddito, quindi, si è allargata tra il 1985 e 2001, mentre nell’intero periodo successivo le quote di reddito sono rimaste sostanzialmente costanti, con qualche oscillazione. E la classe media, ossia coloro che si collocano tra il 50° e il 90° percentile della distribuzione del reddito? Ebbene, secondo i dati del WIR, in Italia, contrariamente a quanto si pensa, le quote di reddito della classe media sono aumentate fino al 2001 per poi rimanere complessivamente invariate. Ma se le quote non sono mutate, è il livello del reddito che, pur rimanendo quasi invariato, è diminuito in termini reali (Brandolini et al., 2018).

Infine, va ricordato che un altro indicatore importante per la valutazione del grado di disuguaglianza nella distribuzione è il reddito di mercato, quello calcolato prima di imposte, sussidi e altri trasferimenti dallo Stato. La disuguaglianza riferita a questo reddito è, secondo i dati più recenti, molto elevata in quasi tutti i paesi avanzati, Italia inclusa, ed è in crescita, più di quella riferita al reddito disponibile. Nel nostro paese, l’indice di Gini riferito ai redditi di mercato è passato dal 38,6% del 1985 al 50,3 del 2010 ed è rimasto tale sino ad oggi. Ciò significa che le politiche pubbliche – di redistribuzione e fiscali – sono state in grado di ridurre l’indice di ben 15 punti percentuali (anche se in altri paesi tale effetto è anche maggiore)¹⁷. Ma significa anche che grande parte della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi si forma nei mercati, prima che intervengano le politiche redistributive.

Tra le ragioni che hanno portato ad un aumento delle disuguaglianze nei redditi di mercato vi è senz’altro il fatto che i redditi da capitale sono aumentati più dei redditi da lavoro. I redditi da capitale, che includono profitti e rendite finanziarie, hanno conosciuto un incremento vistoso nell’ultimo trentennio. Tra l’altro, quei redditi si distribuiscono tra le famiglie in modo più disuguale dei redditi da lavoro, anche in ragione della trasmissione per via ereditaria dei patrimoni. Il loro aumento è stato poi favorito dall’incremento del tasso di rendimento sulla ricchezza finanziaria che è stato di molto superiore al tasso di crescita dei redditi da lavoro (correlato, in buona misura, con il tasso di crescita dell’economia, che è stato tendenzialmente basso).

Il reddito da lavoro, in Italia come in altri paesi, è diminuito d’importanza, negli ultimi decenni, in rapporto al reddito nazionale – la sua quota varia tra il 55 e il 70%, 15 punti percentuali in meno di quanto non fosse negli anni Ottanta. Se escludiamo i “super-redditi” da lavoro (i compensi dei top manager e simili)¹⁸, la diminuzione del reddito da lavoro sarebbe ancora più marcata. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito da lavoro è peggiorata notevolmente negli ultimi decenni e l’indice di Gini ha valori che superano ampiamente il 40%. Questa disuguaglianza è aumentata perché mentre vi sono tipologie di lavoratori – qualificati, specializzatissimi, in taluni settori specifici – che hanno visto le loro retribuzioni aumentare in modo considerevole, vi sono invece ampie fasce di lavoratori che hanno visto i loro salari e stipendi ristagnare o addirittura diminuire¹⁹.

Una spiegazione diffusa di questo fenomeno – l’aggravarsi della disuguaglianza dei redditi da lavoro – è quella basata sull’importanza del capitale umano. Nei paesi avanzati – anche per effetto della globalizzazione – è aumentata la domanda di lavoratori skilled, per i quali il differenziale retributivo rispetto ai lavoratori unskilled è aumentato, anche perché la domanda di lavoro non qualificato – anch’essa per effetto della globalizzazione – è calata e ha comportato una diminuzione delle retribuzioni (trainata dal livello dei salari nei paesi emergenti). Il problema, però, non è tanto se il capitale umano debba essere premiato, quanto se l’acquisizione di quel capitale – di quelle skills e competenze – sia accessibile a tutti e se esso venga retribuito in modo egualitario. I dati sembrano dire che ciò non accade (gap di genere, divari territoriali, gap di età). Inoltre, i dati sulla mobilità sociale e l’accesso all’istruzione che abbiamo esaminato fanno pensare il contrario. Una scuola classista che non favorisce tutti in ugual misura. I figli di manager e imprenditori che hanno una probabilità molto maggiore di laurearsi rispetto ai figli di operai.

Tuttavia, la dotazione di capitale umano spiega solo in parte la disuguaglianza dei redditi da lavoro. Come diversi studi hanno mostrato, in Italia, è la trasmissione intergenerazionale a farla da padrone. Questa non riguarda solo l’istruzione e il titolo di studio: essa riguarda il contesto sociale in cui un giovane si forma, le relazioni familiari, il reddito dei genitori, il luogo in cui si cresce, in altre parole la famiglia di origine con tutto ciò che ne consegue. Sono le condizioni di partenza, sulle quali non si può intervenire, ad essere fondamentali. L’emigrazione, interna e internazionale, è un modo per uscirne, come lo è darsi da fare per laurearsi in una università più accreditata, magari con una borsa di studio.

Un’analisi dell’andamento dei redditi da lavoro, delle retribuzioni suddivise in salari e stipendi, tipo di impiego (se a tempo pieno o parziale) e categorie professionali, richiederebbe troppo spazio. Tuttavia, alcuni dati macro possono dare un’idea. L’OCSE, ad esempio, calcola la retribuzione media annuale per occupato dipendente a tempo pieno (o equivalente) dividendo la quota del reddito nazionale che va al lavoro per il numero totale di occupati, moltiplicata per il rapporto tra le ore medie lavorate da un occupato a tempo pieno sul totale delle ore medie lavorate. Ebbene, se guardiamo ai dati italiani, vediamo che nel 2018 la retribuzione media per occupato è stata pari a 29.601 euro, appena superiore ai livelli degli anni precedenti (in termini reali) ma inferiore al massimo raggiunto nel 2010 di 30.620 euro e appena inferiore al livello che aveva, in termini reali, nel 2004 (29.636). Per l’Italia, dunque, a differenza di molti altri paesi europei, i livelli attuali sono ancora inferiori ai livelli pre-crisi.

In termini distributivi, le retribuzioni italiane appaiono essere meno concentrate che in altri paesi. In Italia, il peso delle retribuzioni “basse” – definite come quelle inferiori a due terzi della mediana delle retribuzioni lorde dell’insieme degli occupati a tempo pieno – è inferiore a quello di altri paesi europei: nel 2016 esso era pari al 7,73% (contro il 18,85 della Germania), più basso dei livelli pre-crisi compresi tra il 9,3 e il 10,5%. Ma anche il peso delle retribuzioni “alte” – definite specularmente come quelle superiori ai due terzi della mediana – è per l’Italia inferiore a quello di altri paesi (9,01% nel 2016) e in calo rispetto ai livelli pre-crisi.

Com’è ovvio, il reddito da lavoro, le retribuzioni totali e per ora lavorata, nonché per tipologia occupazionale e condizione professionale, dipendono dall’andamento dell’economia. E, tra tutte le tipologie di occupati, sono i lavoratori salariati, in particolare, che sembrano aver risentito maggiormente dell’andamento dell’economia negli ultimi anni. Secondo il rapporto dello European Trade Union Institute, Benchmarking Working Europe 2018, i lavoratori di nove stati membri dell’Unione Europea – tra cui Italia, Regno Unito, Spagna, Belgio, Grecia e Finlandia – nel 2017 hanno guadagnato meno che nel 2010. Come hanno sostenuto di recente Bloise et al. (2018) in uno studio sulla distribuzione salariale in Italia, «l’analisi delle retribuzioni medie a prezzi costanti, sia annue che settimanali, nel settore dipendente privato fa emergere un andamento fortemente oscillante nel periodo osservato: crescono costantemente fino al 1992 – anno in cui si verificò un’intensa crisi nell’economia italiana – per poi registrare una forte diminuzione fino al 1996, un lieve recupero fino al 1998, una caduta molto intensa fino al 2002, una lieve ripresa successiva e una nuova rovinosa caduta dopo l’esplosione della crisi dei debiti sovrani».

Ma è soprattutto la distribuzione dei salari ad avere penalizzato i percettori dei salari più bassi, per i quali si è assistito ad un vero e proprio drastico peggioramento. Bloise et al. (2018), guardando all’andamento dei principali percentili della distribuzione dei redditi annui da lavoro dipendente nel settore privato, sottolineano che

fino al 1992 le retribuzioni reali crescono per tutti i percentili, anche se in misura fortemente differenziata, favorendo i redditi più alti; dopo tale periodo, i lavoratori che si collocano nei percentili alti (dal 75° in poi) mantengono il loro tenore di vita reale, seppure con qualche oscillazione, quelli mediani sostanzialmente restano sui valori del 1985, ma poi subiscono un sensibile arretramento (di circa 5 punti percentuali) dal 2010 in poi, mentre la coda bassa della distribuzione (10° e del 25° percentile) sperimenta una cospicua caduta dei redditi reali. Rispetto al valore del 1985, nel punto di minimo (che si verifica nel 2012) le retribuzioni reali di tali due percentili si riducono di 35 e 20 punti percentuali, rispettivamente.

Tutto ciò è confermato dall’andamento dell’indice di Gini delle retribuzioni lorde annuali: dal 1985 esso passa da un valore di poco inferiore al 35% ad un valore attorno al 42%. Da ultimo, va menzionato anche il fatto che accanto ad un aumento delle disuguaglianze nella distribuzione dei redditi, anche il rischio di povertà è aumentato negli ultimi anni, come dimostrato da varie fonti statistiche. E se sono aumentati di molto i redditi alti di ricchi e super-ricchi, i redditi dei poveri sono rimasti fermi o sono diminuiti.

La povertà non è che la faccia triste della disuguaglianza. Povertà significa un reddito inferiore ad una certa soglia che può essere assoluta (se riferita al reddito richiesto per poter disporre di un paniere di beni necessari per la sopravvivenza) o relativa (se confrontata ad un reddito mediano, quindi dipendente dal reddito complessivo). I tassi di povertà, tuttavia, possono essere calcolati avendo a riferimento la spesa per consumi, come fa ISTAT, o il reddito, come fa Eurostat.

Secondo gli ultimi dati ISTAT (2019), nel 2018 più di 1.822.000 famiglie erano in condizioni di povertà assoluta (il 7,0% del totale delle famiglie e 42mila in meno del 2017), per un numero complessivo di 5 milioni di individui (8,4% del totale). «Pur rimanendo ai livelli massimi dal 2005», sottolinea il rapporto, «si arresta dopo tre anni la crescita del numero e della quota di famiglie in povertà assoluta»²⁰. La Tabella 4 mostra che dal 2005 – il primo anno per il quale i dati sono disponibili – il numero di famiglie povere è costantemente aumentato e sono oggi un milione in più di quelle del 2005, quando erano 819mila.

Tabella 4. Povertà assoluta in Italia 2005-18.
Numero di famiglie in migliaia e percentuale sul totale

	2005	2006	2007	2008	2009	2010	2011	2012	2013	2014	2015	2016	2017	2018
Migliaia	819	789	823	937	969	980	1.081	1.398	1.614	1.470	1.582	1.619	1.778	1.822
Percentuale	3,6	3,5	3,5	4,0	4,0	4,0	4,3	5,6	6,3	5,7	6,1	6,3	6,9	7,0

Fonte: elaborazioni su dati Istat.

La spesa media mensile delle famiglie povere nel 2018 è stata del 19,4% inferiore alla soglia di povertà (meno quindi del 20,4% del 2017). I dati ci dicono poi che la povertà è più diffusa al Sud e nelle aree metropolitane, che è maggiore tra le famiglie numerose e monogenitoriali e tra quelle il cui capofamiglia ha bassi livelli di istruzione. Grave è anche il fatto che, rispetto all’anno precedente, i tassi di povertà assoluta siano aumentati notevolmente tra i minori di età. Inoltre, l’incidenza è stata pari al 30,3% tra gli individui stranieri (oltre un milione e 500mila), mentre tra gli italiani è stata pari al 6,4%.

Secondo gli stessi dati ISTAT (2019), nel 2018 le famiglie in condizioni di povertà relativa erano poco più di 3 milioni (11,8%), per un totale di individui di quasi 9 milioni (15,0%)²¹. Se il numero è inferiore al massimo raggiunto nel 2017 di 3 milioni e 171mila (pari al 12,3% del totale), esso è comunque superiore al livello degli ultimi vent’anni²². E anche la percentuale, pur inferiore al massimo del 2017 (12,3), è tornata superiore a quella del 1997 (1,1) e al valore minimo del 2003 (9,8). Se a queste aggiungiamo le famiglie “quasi povere” (con livelli di spesa appena superiori), si ha così che, in Italia, nel 2018, le famiglie “sicuramente non povere” erano l’80,8% del totale. Quasi un quinto delle famiglie, quindi, si trova in condizioni di povertà relativa o quasi.

Gli ultimi dati Eurostat – provenienti dall’indagine SILC – ci offrono un quadro ancor più drammatico. Eurostat definisce una condizione di reddito e capacità di spesa che chiama rischio di povertà ed esclusione sociale²³. Ebbene, secondo questi dati, nel 2018 il 27,3% delle famiglie residenti in Italia era a rischio di povertà ed esclusione sociale, corrispondenti a 16 milioni e 441mila persone. Se la tendenza degli ultimi due anni denota un calo (erano il 30% nel 2016, cioè più di 18 milioni, e il 28,9% nel 2017, cioè più di 17 milioni e 400mila), siamo ancora a livelli superiori a quelli del 2010 (quando il tasso era stato del 25%, cioè meno di 15 milioni) e a tutti gli anni precedenti. Nel confronto con altri paesi europei, l’Italia è seconda solo alla Bulgaria (32,8%), alla Romania (32,5), alla Grecia (31,5), alla Lituania (28,3) e, quest’anno, anche alla Lettonia (28,4), e di molto superiore alla media dei paesi UE.

Ora, se guardiamo a come i residenti italiani a rischio di povertà ed esclusione sociale si distribuivano tra i quintili della distribuzione del reddito disponibile equivalente vediamo che, nel 2018, nel primo quintile (i più poveri) erano il 79,8% (contro il 100% degli anni precedenti), nel secondo quintile erano il 32,4% (contro il 20,9 del 2017) e addirittura nel terzo quintile erano l’11,1% (come nel 2017). Inoltre, fra tutti i residenti a rischio di povertà ed esclusione sociale, alta è altresì la quota tra chi lavora (il 12,3%). In sostanza, la condizione di povertà non è più solo legata al reddito e al lavoro: anche chi ha un certo reddito e chi lavora si trova a vivere in condizioni di indigenza. E la tendenza, pur in relativo rallentamento, non sembra essere quella di un miglioramento.

Come abbiamo visto a proposito di distribuzione salariale, sono i lavoratori con livelli di salario basso che hanno visto peggiorare il proprio tenore di vita negli ultimi anni, andando ad ingrossare le fila dei working poors. Come ricordano Bloise et al. (2018), «la quota di lavoratori con retribuzione inferiore al 60% della mediana cresce dal 26,3% del 1992 al 31,4% degli anni più recenti, mentre nello stesso periodo la quota di lavoratori che non arriva nemmeno al 40% della retribuzione mediana passa dal 17,9% al 22,1%».

5. I divari territoriali e regionali si accentuano

Le tendenze che abbiamo illustrato – di un paese fermo, con un’economia stagnante, bassa mobilità sociale e intergenerazionale, alti livelli di disuguaglianza di reddito e salariale, alta incidenza della povertà – sono, se possibile, accentuate e complicate da divari territoriali e regionali notevoli, che non si sono mai ridotti e che appaiono sempre più preoccupanti. Le differenze territoriali e regionali in Italia – le distanze tra Nord e Sud – hanno, come sappiamo, una storia che va molto indietro nel tempo (si veda solo, ad esempio, Felice, 2013, 2015, 2018). Ma proprio perché hanno radici profonde e si estendono a tutti gli ambiti che abbiamo passato in rassegna, rendono il quadro ancor più drammatico.

Cominciamo dal prodotto interno lordo. Secondo quanto riporta l’ISTAT, il PIL dell’Italia nel 2017 – ultimo anno per cui sono disponibili dati ripartiti per regioni – è stato pari a 1.725 miliardi circa di euro. Il Piemonte ha contribuito per 133 miliardi, la Lombardia per 383,2, il Veneto per 162,5, l’Emilia Romagna per 157,2. Il 48,5% del PIL nazionale, quindi, è venuto da queste quattro regioni. La ripartizione per macro-aree mostra che il 33,1% è stato prodotto dal Nord-Ovest, il 23,1% dal Nord-Est, il 21,5% dal Centro e solo il 22,3% dal Mezzogiorno. Il PIL per abitante nel 2017 è stato pari a 35,4mila euro nel Nord-Ovest, a 34,3mila euro nel Nord-Est e a 30,7mila euro nel Centro, con un differenziale negativo del Mezzogiorno amplissimo: il livello del PIL pro capite è stato infatti di 18,5mila euro, inferiore del 45% rispetto a quello del Centro-Nord (era del 44,1% nel 2016). Il Mezzogiorno, con un valore poco più della metà di quello del Nord-Ovest, supera lievemente il livello che aveva nel 2011 (18,1mila euro).

La spesa pro capite per consumi finali delle famiglie a prezzi correnti nel 2017 è stata di 20,4mila euro nel Nord-Ovest, 20,2mila euro nel Nord-Est, 18,3mila euro al Centro e 13,3mila euro nel Mezzogiorno, con un divario negativo tra Mezzogiorno e Centro-Nord del 32,4%.

Il tasso di crescita del PIL nazionale, che nel 2017 è tornato a salire (1,5% contro lo 0,9% del 2016), è stato dovuto ad un tasso di crescita dell’1,8% sia nel Nord-Ovest che nel Nord-Est, contro un tasso dello 0,9% nel Centro e un tasso dell’1,4 nel Meridione. Il contributo delle regioni meridionali è sempre stato inferiore a quello delle regioni centro-settentrionali, e ciò spiega il progressivo allontanamento del Sud d’Italia dal Centro-Nord in termini di reddito. Nel periodo 2000-2007 il tasso di crescita cumulato del PIL in termini reali era stato dell’8,5% per l’intero paese e del 8,6% per il Nord-Ovest, del 9,2 per il Nord-Est, dell’11,9 per il Centro e del solo 4,5% per il Mezzogiorno. Nel periodo 2007-16, invece, il tasso di crescita cumulato del PIL aggregato era stato del –6,8%, quello del Nord-Ovest del –4,6, quello del Nord-Est del –4,3, quello del Centro del –8,3 e quello del Mezzogiorno del –10,7%. Tra il 2011 e il 2017, riporta ancora l’ISTAT, le aree che hanno subìto le diminuzioni del PIL più marcate sono il Mezzogiorno (–0,5% medio annuo) e il Centro (–0,4%). Nel Nord-Ovest si è avuta una sostanziale stabilità mentre il Nord-Est è l’unica ripartizione dove si è avuto un incremento (+0,3%). Se confrontiamo i dati del PIL per abitante a prezzi costanti, per regione, osserviamo che nel periodo 2011-17 tutte le regioni del Nord – con l’esclusione della Valle d’Aosta – hanno registrato un aumento, mentre diverse regioni del Centro e quasi tutte quelle del Mezzogiorno hanno visto un calo (unica eccezione la Basilicata, che ha registrato un aumento dell’1,7%).

Figura 6. Occupazione e disoccupazione(numeri indici e valori percentuali)

Fonte: Banca d’Italia, 2018.

Anche l’occupazione ha avuto un andamento simile al PIL. Se nel periodo 2011-17 la variazione degli occupati a livello nazionale è stata appena dello 0,2%, vi sono regioni, come il Lazio, ove è aumentata dello 0,8%, mentre in molte altre regioni è diminuita. Come in Liguria (–0,5%), Valle d’Aosta (–0,5), Marche (–0,5), Sicilia (–0,6), Umbria (–0,6) e Molise (–0,6). Nell’insieme delle regioni meridionali il calo è stato dello 0,2%, nel periodo.

Il reddito da lavoro per occupato dipendente, nel 2017, è stato pari a 39,3mila euro nel Nord-Ovest, 37,6mila nel Nord-Est e 35,3mila nel Centro. Il Mezzogiorno, con 30,9mila euro, ha dunque visto un livello inferiore di circa il 18% rispetto ai 37,6mila euro delle regioni del Centro-Nord. Complessivamente, nel periodo 2011-17, i redditi da lavoro dipendente sono cresciuti a un tasso medio annuo dell’1,2% nel Nord, dello 0,9% nel Centro e sono rimasti sostanzialmente invariati nel Mezzogiorno.

Figura 7. Reddito disponibile e consumi delle famiglie (numeri indice; anno 2008 = 100)

Fonte: Banca d’Italia, 2018.

Per quanto riguarda il reddito disponibile per abitante, il livello più elevato nel 2017 si è avuto per le famiglie residenti nel Nord-Ovest (21,9mila euro), seguito da quello delle famiglie residenti nel Nord-Est (21,4mila euro). Nel Centro il livello è pari a 19,5mila euro e nel Mezzogiorno a 13,7mila euro, con un differenziale negativo del 26,1% rispetto alla media nazionale. Il reddito disponibile è dato dalla somma del cosiddetto risultato lordo di gestione (valore legato alle attività di produzione e autoconsumo), delle retribuzioni lorde, dei redditi da impresa e da capitale e la cosiddetta distribuzione secondaria, ovvero sussidi e trasferimenti operati dalle amministrazioni pubbliche. Ebbene, i dati mostrano che nelle regioni meridionali la redistribuzione aggiunge mediamente duemila euro al reddito pro capite (contro un valore medio di circa 500 euro nelle regioni del Nord-Ovest).

Nel quadro descritto – dal quale emerge che se l’economia italiana in questi anni ha sofferto, a pagare di più sono state le regioni meridionali – è naturale che anche mobilità sociale e istruzione abbiano profondamente risentito delle differenze territoriali. Come si è detto, una bassa mobilità sociale implica che chi nasce in condizioni meno privilegiate difficilmente riesce a risalire posizioni sociali. Il nostro Sud è ancora una realtà a parte: chi nasce e cresce nel Mezzogiorno ha molte meno probabilità di migliorare sensibilmente la sua posizione economica rispetto a chi è bambino e poi giovane e adulto nel Nord-Est. All’interno del paese il grado di mobilità ha una forte variabilità.

Non tutte le tipologie di mobilità sociale sono però distribuite sul territorio nazionale nello stesso modo. La mobilità inter-generazionale di reddito e ricchezza, ad esempio, ha avuto un’evoluzione, negli ultimi decenni, diversa da quella di istruzione e classe. Come notano Cannari e Alessio (2018), negli anni Novanta gli effetti delle condizioni familiari di reddito e ricchezza «erano decisamente più rilevanti nel Sud che nelle altre aree del paese; nel corso degli anni questa differenza si è attenuata fino a scomparire nel caso del reddito e addirittura invertire il segno nel caso della ricchezza». Nel Mezzogiorno, invece, «rimane relativamente più rilevante il fattore istruzione dei genitori mentre nel Centro e nel Nord sono più importanti i fattori legati al luogo di nascita».

La fotografia economica delle regioni vista fin qui non lascia sperare che anche in termini di mobilità le disparità territoriali non siano così marcate come quelle economiche. Le differenze nel mercato del lavoro già indicano una spiccata divergenza territoriale. Come affermano gli ultimi rapporti dell’ISTAT, la maggior parte degli indicatori del mercato del lavoro presenta divari territoriali vistosi, che si sono accentuati nel corso della crisi. Nel 2018, nelle regioni del Nord, ben sette persone ogni dieci, tra i 20 e i 64 anni, erano occupate, mentre nel Mezzogiorno non si arrivava a cinque (mentre erano più contenuti, sebbene in crescita, i divari del tasso di occupazione per la classe 55-64 anni). L’incidenza del part time, molto più elevata per le donne, era invece distribuita in modo piuttosto uniforme, mentre la quota di lavoratori a termine era più alta nelle regioni meridionali, con un divario più accentuato per le donne.

Negli ultimi anni, quasi tutte le regioni registrano una diminuzione dell’incidenza del lavoro non regolare. Nel Mezzogiorno vi sono i valori più elevati, mentre i valori minori sono, in media, al Nord. Tra il 2008 e il 2016 il peso dell’occupazione non regolare è aumentato in tutte le aree, in particolare nel Nord-Est. E il lavoro sommerso, oltre a essere più diffuso nelle unità produttive di minori dimensioni, è caratterizzato da forti specificità settoriali.

Nel 2018 grandi differenze persistono anche per il tasso di disoccupazione con il valore del Mezzogiorno che supera di oltre tre volte quello del Nord-Est. Nonostante il generale calo, la disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno cresce in Sicilia e Basilicata, nel Centro in Umbria e nel Nord in Liguria e Veneto. Il lieve aumento della disoccupazione di lunga durata interessa meno della metà delle regioni, soprattutto centrali e meridionali. La riduzione del tasso di mancata partecipazione – ovvero l’aumento del tasso di attività – interessa tutte le regioni ad eccezione della Liguria, ma il valore del Mezzogiorno rimane più che doppio rispetto al Centro e oltre tre volte quello del Nord-Est. La situazione è particolarmente critica in Sicilia dove, nonostante la debole riduzione dell’ultimo anno, l’inattività raggiunge il 40,7%.

Le cause della marcata eterogeneità territoriale vanno ovviamente ricondotte ad un’ampia varietà di fattori. Uno di questi è, naturalmente, l’istruzione, considerata come una delle chiavi per le possibilità di mobilità sociale. I risultati dell’analisi sull’analfabetismo funzionale, sulle capacità alfabetiche e numeriche e sulle competenze degli studenti evidenziano una volta di più lo scarto tra le regioni meridionali e quelle del Centro-Nord (Ardeni, 2019a). Questa differenza sostanziale emerge anche nel recente rapporto ISTAT (2017), in cui vengono evidenziate significative differenze territoriali in diversi indicatori relativi all’istruzione. Ad esempio, il tasso di abbandono scolastico dei giovani tra i 18 e i 24 anni è molto più alto nel Mezzogiorno rispetto al Nord: nelle regioni meridionali quasi un ragazzo su cinque abbandona la scuola precocemente, mentre nel Settentrione questo accade soltanto ad un ragazzo su dieci.

Queste differenze geografiche nei livelli di istruzione si ripercuotono, com’è ovvio, sul mercato del lavoro, che quindi non dipende solo dalle condizioni economiche esogene ma su di esse agisce, endogenamente. Sono le caratteristiche del contesto – quelli che vengono chiamati fattori istituzionali, culturali e anche geografici e storici – che interagiscono. Non solo, quindi, la consueta eterogeneità territoriale nel tasso di disoccupazione e nei salari, nelle tipologie occupazionali, nell’emergenza di forme di economia irregolare e sommersa o di lavori non-standard, ma peculiarità locali nei livelli di formazione, nell’acquisizione di “capitale umano” – e nelle possibilità di accesso –, nella creazione di reti e capitale sociale determinano poi la dinamica dell’economia.

Un ulteriore aspetto caratterizzante i divari regionali e territoriali in Italia riguarda la disuguaglianza nella distribuzione del reddito e l’incidenza e la diffusione della povertà. A livello regionale, la disuguaglianza è maggiore nelle regioni meridionali e la crisi economica ha ampliato il divario con quelle settentrionali (come argomentato, ad esempio, da Mussida e Parisi, 2016). Sebbene tali tendenze siano in atto da qualche tempo e nel lungo periodo, esse sembrano essere state esacerbate nel recente passato (Felice, 2018).

Come abbiamo visto, una prima misura della disuguaglianza economica tra le regioni italiane si ottiene osservando i redditi familiari disponibili equivalenti, dati dalla somma dei redditi da lavoro e da capitale, che avviene sul mercato, cui vanno aggiunti imposte personali e trasferimenti monetari derivanti dalle politiche di redistribuzione. Da quella osservazione già si evidenzia come i redditi delle regioni del Nord siano di molto superiori a quelli del Meridione²⁴.

A ciò va aggiunto che diverse analisi hanno mostrato come sia presente una elevata disuguaglianza interna alle regioni, che spiega anche la differenza della disuguaglianza tra le regioni. I dati di ISTAT e Eurostat mostrano, ad esempio, che, se si considerano i rapporti inter-quintili (tra il quinto più ricco e il quinto più povero), le famiglie delle regioni del Mezzogiorno oltre ad avere redditi medi disponibili decisamente inferiori a quelli del Centro-Nord, hanno anche disuguaglianze interne più elevate²⁵. In Italia, riporta ISTAT, l’indice di Gini riferito ai dati 2016 è più elevato nel Sud e nelle Isole (33,4) rispetto al Centro (31,8), al Nord-Ovest (31,1) e al Nord-Est (27,9), con valori stabili o in leggero miglioramento rispetto a dieci anni prima. Sardegna, Sicilia, Calabria e Campania hanno valori superiori alla media nazionale e notevolmente in crescita rispetto a dieci anni prima.

Si tratta quindi di capire quanto le disuguaglianze regionali contribuiscano alla disuguaglianza nazionale, anche perché non è inusuale trovare attribuito ai divari territoriali l’aumento della disuguaglianza complessiva. Il reddito disponibile del Meridione è inferiore a quello del Settentrione, ma purtroppo non è che al Sud sono tutti uniformemente meno ricchi che al Nord. Ciò che varie analisi hanno mostrato è che, invece, grandissima parte delle disuguaglianze di reddito in Italia non sono imputabili a differenze territoriali ma alle disuguaglianze interne a ciascuna area. In altre parole, quali che siano le ragioni all’origine di quelle disuguaglianze – di professione, istruzione, settore – sono quelle ad essere preponderanti, più che la regione di residenza. In sostanza, in Italia la disuguaglianza non è dovuta alla location ma allo status (familiare, professionale, di istruzione).

Anche i dati sulla povertà dimostrano che il Sud non è semplicemente più “indietro” del Nord, ma che al Sud vi sono aree di arretratezza e disagio profondi. Intanto, come riporta l’ISTAT, va detto che «l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta si conferma notevolmente superiore nel Mezzogiorno (9,6% nel Sud e 10,8 nelle Isole) rispetto alle altre aree del paese (6,1% nel Nord-Ovest e 5,3 nel Nord-Est e del Centro)». Inoltre, sebbene più famiglie risiedano al Nord che nel Mezzogiorno (47,7% rispetto a 31,7), anche nel 2018 si sono avute più famiglie povere presenti al Sud (45,1% contro 39,3 del Nord e il 15,6 del Centro). Si tratta di oltre due milioni e 350mila individui poveri che risiedono nelle regioni del Mezzogiorno (46,7%), mentre 1 milione e 900mila vivono al Nord (il 22,7% nel Nord-Ovest e il 14,8 nel Nord-Est)²⁶.

Anche i dati riferiti alle caratteristiche territoriali mostrano notevoli differenze interne alle aree. Mentre nelle regioni del Nord i comuni centro delle aree metropolitane presentano incidenze di povertà (7,0%) maggiori rispetto ai comuni periferici delle stesse aree, ai comuni sopra i 50mila abitanti (5,4%) e ai restanti comuni più piccoli (5,7%), nelle regioni del Centro i comuni centro di aree metropolitane presentano l’incidenza minore (3,5%) di famiglie povere, contro il 5,6% dei comuni periferici e di quelli sopra i 50mila abitanti e il 6,4% dei comuni più piccoli. Al Sud e nelle Isole l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta nei comuni centro di aree metropolitane è pari al 13,6%, valore che raggiunge il 15,7% nel solo Sud.

Per quanto riguarda la povertà relativa, invece, nel 2018, rispetto all’anno precedente, si nota un peggioramento al Nord (da 5,9% al 6,6%), in particolare nel Nord-Est, e un miglioramento nel Mezzogiorno (24,7% nel 2017, 22,1% nel 2018). A livello individuale, il lieve calo in media nazionale (da 15,6% a 15,0%) è dovuto all’aumento nelle regioni del Nord e ad una diminuzione nelle regioni del Sud. Tali variazioni sono possibilmente dovute, tuttavia, ad un aumento del reddito mediano al Nord e ad una diminuzione di quel reddito al Sud.

Va sottolineato, comunque, come è stato notato nei recenti rapporti ISTAT e Banca d’Italia, che «la disuguaglianza nei redditi familiari equivalenti è cresciuta sia nel Centro-Nord sia nel Mezzogiorno, dove è strutturalmente più elevata, a partire dalla crisi economica. L’aumento a livello nazionale è dovuto agli incrementi osservati all’interno di ciascuna area territoriale, mentre è rimasto relativamente costante il contributo del divario medio tra le due aree» (Banca d’Italia, 2018). Nel Mezzogiorno, in particolare, «la disuguaglianza è cresciuta durante la recessione e nel successivo periodo di ripresa, compensando il calo osservato tra il 2000 e il 2006». «Nel Centro-Nord essa è rimasta sostanzialmente stabile fino al 2006 ed è aumentata nel decennio successivo. In entrambe le macro-aree l’incremento della disuguaglianza a partire dal 2008 è stato determinato soprattutto dal calo dei redditi più bassi, che è risultato però più forte nel Mezzogiorno»²⁷.

6. Un paese fermo e disuguale,
terreno fertile per il populismo

In conclusione, l’Italia è un paese la cui economia ha smesso di crescere e non riesce a tenere il passo degli altri, con una stratificazione sociale sostanzialmente bloccata, in cui possibilità e opportunità di muoversi lungo la scala sociale si sono ridotte. L’ascensore sociale si è rotto e le disuguaglianze in aumento non fanno che accentuare la percezione di una società ferma, dai rapporti di classe e sociali consolidati, fino ad apparire come una società senza via d’uscita, se non l’emigrazione. Il contesto politico ed economico internazionale, i vincoli europei, la globalizzazione non han fatto che acuire il senso di frustrazione e disagio di una situazione che, ai più svantaggiati, appare senza sbocchi.

La globalizzazione ha aumentato i redditi nei paesi in via di sviluppo, con significativi miglioramenti delle condizioni di vita. La diminuzione globale della “distanza” tra paesi è stata però accompagnata dall’aumento della disuguaglianza all’interno dei paesi avanzati. O meglio, si dovrebbe dire che è stata concomitante, anche perché non è stato dimostrato quanto la seconda sia dipesa dalla prima. Ma, d’altra parte, disuguaglianze e impoverimento delle classi medio-basse hanno finito per essere percepite come il risultato di dinamiche globali penalizzanti. Se la globalizzazione ha sicuramente contribuito ad esercitare una pressione sui redditi medio-bassi – sia per gli effetti concorrenziali che per le migrazioni – nell’ultimo decennio la crisi economica e le risposte che ad essa sono state date hanno aggravato il peso su quei redditi e quelle classi.

L’azione dei governi e delle istituzioni internazionali ha finito per complicare il processo, lasciando che i “perdenti della globalizzazione”, i più esposti, da un lato, e le fasce meno protette ma anche con meno possibilità e opportunità, dall’altro, finissero per rivoltarsi contro, disordinatamente, cercando nuove risposte. Tutto questo, in Italia come altrove, ha finito per indebolire la democrazia e la partecipazione politica, portando al rigetto di quei principi d’integrazione che erano stati visti come veicoli di benessere, dando la stura a reazioni protezionistiche e localistiche, sulle quali tendenze nazionalistiche e demagogiche hanno potuto cavalcare. Un fertile humus per il populismo oggi all’ordine del giorno.

Se, da noi come altrove, è qui che trova linfa il populismo – e vedremo come e quale populismo – è anche vero, però, che tutto questo non è solo il frutto delle politiche di un particolare governo, degli sviluppi di questi ultimi anni, della globalizzazione o della lunga recessione iniziata nel 2008, ma viene da lontano e nasce dal peggiorare delle condizioni di larghe masse della popolazione, da disuguaglianze e disparità che affondano le loro radici nel tempo.

Capitolo 2.
Perché il populismo

Che il populismo sia all’ordine del giorno è ormai un dato di fatto, confermato dalla continua attenzione da parte di media, commentatori e studiosi. Il termine “populista” è entrato nel linguaggio corrente di giornalisti e politici, una crescente mole di studi viene dedicata al tema e si può dire che se ne abusi perfino per qualificare leader e piattaforme politiche. In effetti, negli anni recenti, movimenti e partiti “populisti” hanno raccolto crescenti consensi in Europa e nel mondo. In varie declinazioni, si sono guadagnati il centro della scena politica, guardati con preoccupazione e condiscendenza da commentatori e studiosi, per il loro appello diretto alle masse, il contrapporre popolo ed élites governanti, il mettere in discussione i meccanismi della democrazia rappresentativa. Se da molte parti si è detto che le radici del fenomeno sono da cercarsi nel “vuoto della politica” e nella supposta “lontananza delle istituzioni” dai cittadini, è anche vero che si riconosce come alle origini del populismo e del suo consenso vi sia una disaffezione crescente degli elettori, unita ad una condizione economica e sociale che negli ultimi anni è andata vieppiù peggiorando per i più a vantaggio di pochi. Da anni ormai si parla di crisi della democrazia, crisi della partecipazione politica e crisi dei partiti, e l’ascesa del populismo non ne è che una faccia. Tuttavia, se questo è vero in generale, non è però ovvio cosa sia il populismo, anche perché l’esperienza di vari paesi in Europa e oltreoceano mostra che non sembra esservi una tendenza uniforme e che ogni populismo è diverso, nonostante vi siano tratti comuni.

Cos’è, dunque, il populismo? E cosa ne alimenta il consenso? Come vedremo in questo capitolo, ne sono state date varie definizioni perché diverse sono le determinanti che lo caratterizzano. Detto che oggi tutti – leader politici, commentatori, opinionisti e studiosi – tendono ad etichettare come “populista” qualunque proposta, messaggio, comportamento o programma politico che si presenti contro “le élites” e “l’establishment” e faccia riferimento al “popolo”, è importante provare a definirne i contorni. Anche perché esso è ormai una cifra del nostro tempo, del dibattito politico e culturale e del modo di porsi di molte organizzazioni e dei loro leader.

Prendendo spunto dalle dinamiche politiche ed elettorali, dal sentimento, dagli “umori” e dalle percezioni espresse dai cittadini, vari studiosi hanno guardato alle caratteristiche – politico-ideologiche, di linguaggio e di comunicazione – dei movimenti ascrivibili al fenomeno populista, distinguendo tipologie di populismi. In molti hanno così guardato al come si sviluppa, ovvero a quale sia la fenomenologia di quello odierno, e al perché, o meglio a chi si rivolge. In tal senso, tuttavia, un numero relativamente esiguo di studi ha invece cercato di individuare relazioni causali – quali fattori siano alla sua origine e ne spieghino il consenso – empiricamente, ovvero guardando ai dati e mettendo in relazione proposte politiche, espressioni di voto, condizioni socio-economiche e culturali degli elettori. Da dove specificamente trae origine il populismo? Qual è il motore del suo consenso? A questo cercheremo di rispondere in questo e nei prossimi capitoli.

1. Cos’è il populismo

Se guardiamo al vasto numero di studi e pubblicazioni prodotti negli ultimi anni non esiste, apparentemente, una definizione del populismo chiara e condivisa, soprattutto negli ambienti accademici. In effetti, il termine è stato ampiamente utilizzato e frequentemente contestato dagli studiosi, almeno sin dalla pubblicazione del volume edito da Ghita Ionescu ed Ernest Gellner nel 1969¹. Nella loro rassegna, ad esempio, Gidron e Bonikowski (2013) sottolineavano come le molte “varietà di populismo” esistenti oltrepassino non solo confini geografici ed epoche storiche, ma anche le divisioni ideologiche (Kaltwasser, 2014)².

Nel suo recentissimo libro Marcia Macaulay (2019) offre una panoramica dei principali approcci teorici al populismo esaminando le domande originariamente poste da Ionescu e Gellner (1969): se il populismo sia un’ideologia, un movimento, una “mentalità ricorrente”, una “psicologia politica” o un “culto del popolo”; se sia “caratterizzato da un peculiare negativismo” e, infine, se sia “poroso”, ovvero sia in grado di essere assorbito da o permeare “ideologie o movimenti più forti”. Anche se tra gli studiosi non sembra esservi consenso su una definizione unica, secondo Macaulay il populismo può essere definito, alternativamente, come ideologia, come stile discorsivo e come forma di mobilitazione politica³. Va però detto che queste tre caratterizzazioni sono, per così dire, “teoriche”, laddove le applicazioni empirichealle dinamiche osservate rivelano una maggiore complessità.

La definizione di populismo come ideologia è stata data dallo studioso olandese Cas Mudde in una serie di studi incentrati principalmente sui partiti populisti europei di destra (Mudde, 2004, 2007): «Un’ideologia centrata su un corpus “esile” che, in definitiva, considera la società come separata in due gruppi omogenei e antagonisti, il “popolo puro” contro “l’élite corrotta”, e che sostiene che la politica dovrebbe essere un’espressione della volonté générale del popolo» (Mudde, 2004). L’approccio “ideazionale” di Mudde, come è stato chiamato, è importante, perché ha avuto una considerevole influenza sugli studi delle scienze politiche su questo tema, in particolare su quelli focalizzati sui partiti populisti europei di destra⁴.

Basandosi sul lavoro del teorico politico Michael Freeden (1996, 2003), Mudde definisce l’ideologia come «un insieme di idee vagamente correlate». Poiché, secondo Mudde, il populismo è un’ideologia dal corpus “esile”, esso può anche essere trasversale alle divisioni ideologiche tradizionali e fondersi con appelli di sinistra o di destra: ovvero esso è un’ideologia che può essere “apposta” ad altre ideologie, basandosi su tre concetti fondamentali del populismo come “popolo”, “élites” e “volontà generale”.

In alternativa alla definizione di esso come ideologia, si è sviluppato un approccio che definisce il populismo come uno stile discorsivo, a partire dal contributo di Margaret Canovan (1981). Canovan ha elencato una tipologia comprensiva dei movimenti populisti osservando che tutti mostrano due caratteristiche principali: un’esaltazione del popolo e una posizione anti-elitaria, che esprime sfiducia nei confronti dei politici professionisti e della politica basata sulla competizione ideologica e induce ad esaltare «il pathos del “piccolo uomo”, delle sue lotte e delle sue virtù» (Canovan, 1981) e a fidarsi di un leader che non ha nulla a che fare con partiti e istituzioni.

Dal momento che cercare di mettere in relazione queste caratteristiche con un’ideologia definita, condivisa da tutte le forme di populismo forzandole in un’unica categoria, ed etichettare il populismo come di destra o di sinistra «è una causa persa», l’etichetta populista può essere applicata «a certi stili di politica che attingono alle ambigue risonanze del “popolo”», in particolare «ai politici che affermano di parlare a nome di tutto il popolo piuttosto che di una qualsiasi fazione» (Canovan, 1981). In tal modo, il populismo può essere definito come uno stile politico, cioè come una modalità specifica di retorica e come una peculiare logica di costruzione del discorso politico (Wodak, 2015; Moffitt, 2016)⁵. In questo senso, esso è trans-ideologico, essendo piuttosto un registro discorsivo con una vocazione egemonica, una retorica che vede la politica come la lotta morale ed etica tra il popolo e l’oligarchia (l’élite). Lo si concettualizza, quindi, come un discorso manicheo che assegna una dimensione morale binaria ai conflitti politici, come fanno coloro che affermano di parlare a nome della maggioranza delle persone⁶.

Infine, in contrapposizione agli approcci ideazionale e discorsivo, alcuni studiosi hanno sostenuto che il populismo non sia altro che una modalità di strategia politica, un registro demagogico caratterizzante taluni programmi politici per accattivare consensi, particolarmente dei ceti più esposti, adottato a destra come a sinistra. Politiche populiste sono quelle che puntano, ad esempio, alla redistribuzione economica per le classi più colpite dalla crisi e alla nazionalizzazione delle risorse naturali: la mobilitazione populista, in questi casi, fa leva su appelli anti-establishment e anti-sistema, perché contrari a quegli obiettivi a favore del popolo (Acemoglu et al., 2011). Qui l’etichetta populista si attaglia a quelle posizioni a favore della redistribuzione, “contro i ricchi e le élites”, quando i leader usano un linguaggio demagogico per fare appello agli elettori ordinari che non sono legati a grandi interessi economici. Tale definizione implica, però, una qualche forma di organizzazione o struttura del partito che non si trova sempre nei movimenti populistici.

Vi è poi chi, come Tarchi (2015), ha proposto il concetto di mentalità, descrivendo poi come il populismo si è manifestato in Italia (argomento di cui parleremo nel prossimo capitolo). Alle due definizioni di populismo, quella di ideologia e quella che permette soltanto di parlare di uno stile populista, Tarchi, ritenendo l’ideologia una definizione troppo rigida (e rispetto alla quale i populisti stessi manifestano una forte ostilità) e lo stile una definizione troppo ampia, afferma che la natura del populismo consiste nell’essere una mentalità caratteristica. Questa

può assumere una molteplicità di espressioni e può essere alla base di uno schema ideologico di interpretazione della dinamica sociale, dello stile di comportamento politico di soggetti individuali o collettivi […], di una formula di legittimazione che può fare da base a un regime, e, per il suo carattere fluido, non si manifesta in forma monolitica ma presenta gradi di intensità diversi a seconda dei contesti e delle circostanze (Tarchi, 2015).

Da un lato, quindi, la mentalità populista sarà compatibile con diversi contenuti ideologici e, di conseguenza, fatta propria da forze politiche anche molto lontane tra loro, confermando la «trasversalità del populismo rispetto alla linea divisoria sinistra/destra». Dall’altro, potrà presentarsi anche come mero stile politico, utilizzato strumentalmente da soggetti che non necessariamente condividano la forma mentis populista.

Se poi anche il concetto di mentalità risulta ampio, è perché è il populismo stesso a ricercare vaghezza e generalità, in quanto politicizza lo scontro più generale (e generico) di tutti: la contrapposizione governati-governanti. Per questo Tarchi predilige la definizione di mentalità che «individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione» (Tarchi, 2015).

In questa definizione si ritrovano le tre caratteristiche fondamentali del populismo: un’idea di popolo come comunità organica e omogenea dotata di intrinseche qualità etiche e pratiche, considerato come unica fonte legittima del potere; la contrapposizione tra popolo e oligarchie moralmente corrotte e incapaci; l’ostilità verso le forme di mediazione e rappresentanza. Il popolo è considerato depositario delle migliori virtù e rappresenta il mito della sana “società civile” contro la politica corrotta, facendo riferimento ad una società coesa, una totalità organica, non attraversata da conflitti interni (da cui l’ostilità verso la “lotta di classe”), che, in definitiva, non ammette pluralismo. È il popolo della “gente comune”, delle “persone normali”, dell’uomo “qualunque” (il semplice impiegato che “tiene famiglia” come il piccolo imprenditore vessato dal fisco). Dal momento che è da questo popolo immaginato che deve derivare ogni forma di potere politico legittimo, sono gli strumenti di democrazia diretta e spesso plebiscitaria (referendum, mandato imperativo, recall degli eletti) che, soli, saranno in grado di vincolare la classe politica alla volontà popolare (ed è da qui che deriva l’insofferenza verso la democrazia rappresentativa che impedisce un rapporto diretto tra rappresentanti e rappresentati, tra leader e popolo).

Il primo nemico dei populisti, ribadisce Tarchi, per tutto quanto detto sopra, è la classe politica, identificata nelle élites, nelle oligarchie al potere. I populisti non sono ostili alla democrazia in quanto tale, ma alle sue degenerazioni (come quella di creare una “casta” di “politici di professione”). Populismo e anti-politica, secondo Tarchi, sono due cose diverse, perché i populisti non sono contro la politica tout court. I populisti vogliono partecipare alla competizione elettorale, non annullarla e il «progetto populista è bonificare la politica, non sconvolgere l’ordine sociale». È da qui che deriva anche la logica manichea di contrapporre i governati ai governanti, la parte “bassa” della società a quella “alta”. Il leader populista, poi, non è che “uno del popolo”, dotato di virtù straordinarie, certo, ma che si fa carico di rappresentare gli interessi del popolo cui appartiene.

In ogni caso, al di là di queste categorizzazioni fornite dagli studiosi, va detto che se la ricerca accademica recente si è soffermata su questo tema è senz’altro perché, come già ricordato, è divenuto la cifra caratterizzante del dibattito politico e sui media. Tuttavia, le differenti posizioni mettono in luce quanto il fenomeno sia multiforme e complesso, principalmente in ragione del fatto che esso appare spesso come un’attitudine, un comportamento cui corrispondono linguaggi e forme della comunicazione, più che uno specifico orientamento politico, che si adatta a differenti posizioni ideologiche di fondo. Che sia un’ideologia, debole o forte, uno stile, una modalità strategica, o una mentalità poco importa, in definitiva, per comprenderne caratteristiche, finalità e concause. Ciò che va messo in luce è quanto il populismo come categoria politica sia importante per comprendere la realtà sociale di oggi nel suo manifestarsi⁷. I concetti che si usano per comprendere la politica sono sempre in qualche modo parte della politica che intendono descrivere. Nella realtà odierna in cui nuove forme della politica emergono – si pensi all’importanza di Internet e della comunicazione digitale – anche il linguaggio e il modo in cui esso descrive i fenomeni della politica si deve adeguare, e con esso le categorie politiche cui fa ricorso. Cosa si intende per populismo oggi? Chi sono i populisti?

L’etichetta è stata affibbiata a quei movimenti e quei leader che hanno fatto ricorso al concetto di popolo e che, orgogliosamente, pretendono di parlare al popolo e in suo nome. Ora, se è ovvio quanto il concetto di popolo sia vago, generico, onnicomprensivo e, alla fine, impreciso, questa ambiguità ne spiega anche la popolarità e l’uso frequente. Le accuse al populismo di essere “generico”, in realtà, non negano che, in ogni caso, il suo è un discorso politico organizzato attorno a un proposito esplicito: garantire la sovranità popolare, in linea con l’idea – moderna – che è il popolo il terreno ultimo che conferisce legittimazione all’autorità pubblica e che riferirsi a quell’autorità può perfino permettere di scavalcare le istituzioni formali della rappresentazione democratica⁸. I sostenitori delle tesi populiste, però, vanno oltre, sottolineando la loro pretesa di parlare a nome di un popolo “moralmente puro e unitario” contro il potere dominante di un’élite corrotta e non rappresentativa. Ed è sulla base di questa idea – che la volontà popolare possa andare al di là delle istituzioni della democrazia rappresentativa – che i leader populisti si sentono autorizzati a rivendicare come unica autorità quella popolare. Come spesso affermano quei leader, però, solo alcune persone fanno veramente parte del “popolo” e il leader populista agisce nel loro nome. E, come si può comprendere, questo non è che il primo passo verso il rifiuto del pluralismo democratico e l’autocrazia (o l’autoritarismo).

In questo senso, grande parte della riflessione recente su cos’è il populismo – negli ambienti accademici come sulla stampa e i media – è stata motivata dal ruolo che il populismo può giocare nel mettere in discussione la democrazia rappresentativa, accelerandone potenzialmente il declino. Uno dei motivi per cui è oggetto di tanta attenzione è proprio la preoccupazione che esso genera riguardo all’idea stessa di democrazia liberale, la percezione che esso sia qualcosa di “tossico” per la democrazia⁹. In quest’ottica, è stato descritto come un “virus” che infetta i sistemi di partito in tutta Europa e diffonde i suoi “effetti epidemici” (Bartolini, 2011). La sua attuale ascesa, afferma Galston (2018), «è più che un contraccolpo emotivo; esso incoraggia una struttura politica che minaccia la democrazia liberale. Mentre il populismo accetta i principi della sovranità popolare e del governo della maggioranza, è scettico sul costituzionalismo e le protezioni liberali per gli individui».

I populisti di ogni latitudine e propensione, è stato detto, sono contro le élites, espressione di qualcosa di “altro” rispetto al popolo. Essi, però, tendono all’autoritarismo perché in fondo non tollerano la diversità delle opinioni: quindi, essendo il populismo una forma esclusivista di politica dell’identità, viene visto come un pericolo per la democrazia¹⁰. I populisti tendono ad essere autoritari in quanto, una volta al potere, vogliono “confiscare” l’apparato statale, favoriscono il clientelismo, finiscono per essere corrotti e cercano di reprimere la società civile. Come ha sostenuto Müller (2016), tutti gli autoritari fanno cose simili, ma i populisti le fanno in nome del popolo. «Il pericolo per le democrazie oggi non è un’ideologia globale che neghi sistematicamente gli ideali democratici. Il pericolo è il populismo – una forma degradata di democrazia che promette di realizzare gli ideali più alti della democrazia», ovvero “lascia che il popolo regni!”.

Populista fu il movimento dei narodniki nella Russia del XIX secolo. Populista fu dichiaratamente il People’s Party negli Stati Uniti di fine Ottocento. Questo, in particolare, nacque come movimento egalitario dalla Farmers’ Alliance per lottare contro l’ordine economico e politico delle oligarchie del capitalismo americano della prima “età dell’oro”. Lungi dall’avere caratteri “cesaristi” di personalizzazione autoritaria, quel movimento rivendicava nuove forme di partecipazione democratica per dare voce e risposta alla domanda di migliori condizioni di vita delle masse popolari impoverite, per favorire nuovi strumenti di governo al di là delle istituzioni consolidate. Ciò che è completamente assente oggi, sia dalle preoccupazioni di chi vede il populismo come manifestazione del declino della democrazia, sia in chi rivendica di parlare in nome del popolo contro le élites dominanti e il sistema¹¹.

Se il concetto originario di populista, quindi, si è perso, oggi ne sono rimasti i connotati di base, con una caratterizzazione tutta diversa, al punto che si è parlato di “neo-populismo” (Graziano, 2018). Sotto la stessa egida del populismo, attualmente, si riconoscono e vengono elencati partiti di destra e di sinistra, movimenti tra i più diversi come Podemos, Syriza e la Lega, con leader come Trump, Erdoan, Orbán, Salvini, Marine Le Pen. Il concetto di populismo, sostengono alcuni, è fin troppo vago e finisce per essere inutile, un epiteto abusato per le manifestazioni più diverse di demagogia, intolleranza, autoritarismo o semplicemente di rivolta politica. Se lo scopo è comprendere le ragioni di movimenti e leader che si dichiarano contro le élites e contro “il sistema” in nome del popolo, definirli semplicemente populisti, è stato detto, non aiuta. Non solo, ma come sostiene Jason Frank (2018), «nei contesti politici contemporanei l’ambiguità intrinseca del populismo assume un chiaro significato polemico se articolata dalla posizione di un liberismo un tempo egemonico e oggi sotto attacco»¹².

Molti degli studi e delle analisi sul populismo hanno finito per tratteggiarne i caratteri solo per imputargli l’attacco alla democrazia liberale. Ma, se la democrazia è in crisi, non è a causa del populismo: affermare questo significa, in definitiva, oscurare le profonde ragioni economiche, sociali e politiche che hanno portato a mettere in discussione le forme stesse della partecipazione democratica. Anzi, così facendo, si finisce per fare di tutta l’erba un fascio, per accomunare tutti quei movimenti di protesta, tutte quelle manifestazioni del disagio e dello scontento che hanno portato a mettere in discussione l’ordine costituito delle democrazie liberali in nome di un ritrovato senso del controllo collettivo sulle istituzioni della rappresentanza.

Chi critica il populismo perché autoritario e contro il sistema mette insieme chi del popolo forse non è così “amico” – i Trump, gli Orbán, gli Erdoan – con le istanze egalitarie di movimenti come Podemos o antagonistiche rispetto alle politiche neoliberiste come Syriza, e in realtà pare nascondere ragioni più strutturali della crisi della democrazia rappresentativa, quali ad esempio le disuguaglianze economiche, la mercatizzazione dei beni un tempo comuni e la costante erosione dei criteri di accountability democratica, con il ruolo crescente dato ad istituzioni sovra-nazionali non democratiche (non rappresentative). Sono quelle le ragioni che stanno portando alla crisi della democrazia liberale (rappresentativa) che ha come conseguenza l’emergere di movimenti e risposte autoritarie e parlare contro chi si pone alla testa del “popolo” finisce in realtà per non fare il bene di quello stesso “popolo” che quelle politiche hanno contribuito ad antagonizzare.

In conclusione, quindi, possiamo dire che il populismo oggi si presenta come un composito insieme di forme della comunicazione politica di facile accesso e condivisione, istanze di rappresentanza collettiva (“dal basso”), egalitarismo, ma anche disarticolazione delle forme ingessate della democrazia rappresentativa e dei partiti tradizionali, superamento delle “vecchie” demarcazioni ideologiche, nonché difesa identitaria, “sovranismo”, nazionalismo in nome del popolo sovrano. Non un’ideologia in senso proprio, ma più che altro uno stile, un insieme di caratteri, un registro: elementi di populismo sono presenti in più formazioni, nelle posizioni di leader anche molto diversi, e tutte, con sfumature differenti, fanno appello al popolo per scardinare un ordine costituito, per superare l’egemonia dei partiti tradizionali e uscire dallo steccato del discorso politico dominante.

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