Introduzione
Nell’ottobre del 2015, dopo aver organizzato una conferenza sul lavoro digitale, fummo
invitati a presentare le nostre ricerche al Parlamento europeo. Il palazzo che lo
ospita è un vero labirinto e, com’era prevedibile, ci perdemmo subito tra i corridoi
alla ricerca della sala riunioni. A salvarci ci pensò un vecchio collega di università,
nel frattempo diventato assistente parlamentare, che ci incontrò per puro caso a svariati
piani di distanza dall’aula dove si sarebbe tenuto il nostro intervento e si offrì
di accompagnarci. Nel tragitto, chiese che ci facessimo al Parlamento con quell’aria
spaesata. Gli rispondemmo che eravamo stati invitati a parlare di lavoro tramite piattaforma.
«Hai presente gli autisti che lavorano per Uber?».
Il nostro collega ci guardò stralunato e si domandò cosa c’entrassero due giuristi
del lavoro con Uber. «Non è un problema di antitrust e trasporti?», ci chiese. Rispondemmo
che, per noi, la questione principale erano le condizioni di lavoro degli autisti
e il fatto che, essendo qualificati come lavoratori autonomi, questi potessero contare
su ben poche protezioni giuridiche, a fronte di un rapporto molto sbilanciato anche
per via dell’impiego massiccio di nuove tecnologie. Avevamo il sospetto, gli confidammo,
che di lì a poco questo sarebbe stato uno dei temi più caldi nel dibattito sul futuro
del lavoro e, in particolare, sulle piattaforme digitali che stavano arrivando in
tutte le grandi città europee.
Fu una scommessa facile da vincere, diciamoci la verità. Dal 2015 in avanti, il lavoro
per società come Deliveroo, Uber, Glovo o su piattaforme online come Amazon Mechanical
Turk è approdato sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo, complice una miriade
di cause che i lavoratori hanno intentato praticamente ovunque operino questi modelli
di business. Molti governi si sono domandati se fosse il caso di intervenire con nuove
regole. Nel frattempo, la produzione accademica su questi temi è stata addirittura
alluvionale: non si contano le pubblicazioni, le conferenze, i seminari che sono stati
imbastiti negli ultimi anni sulle condizioni dei lavoratori delle piattaforme.
Abbiamo innegabilmente contribuito a questa alluvione, scrivendo molti articoli, saggi
e rapporti per istituzioni internazionali e, soprattutto, intervenendo come relatori
in tante iniziative accademiche, politiche e sindacali, in Italia e all’estero. Abbiamo
imparato moltissimo. Innumerevoli stimoli ci sono stati offerti dal pubblico e dai
relatori che hanno preso parte a questi incontri. Non c’è da stupirsi, tuttavia, che
molte delle domande che abbiamo ricevuto durante questi confronti iniziassero, dopo
un po’, a diventare ricorrenti.
Non avrebbe senso – si chiedono in tanti – chiudere un occhio sulle condizioni di
questi lavoratori, visto che a breve verranno rimpiazzati da automobili a guida autonoma,
droni e intelligenza artificiale? Non è il caso, invece, di concentrare tutte queste
energie sulle competenze che converrà sviluppare per quando l’ormai inesorabile sostituzione
tecnologica si sarà materializzata? Non sarebbe meglio lasciare che remunerazioni
e tutele si riducano, per evitare che le imprese spingano ancora di più sul pedale
dell’automazione totale? Non potremmo a questo punto sostituire i tanto anacronistici
diritti dei lavoratori con ammortizzatori sociali, fino ad arrivare al reddito universale
di base? Non rischiamo insomma di rallentare l’innovazione e frenare lo sviluppo tecnologico
con questa smania di voler attribuire tutele “novecentesche” ai lavoratori coinvolti
nei settori più in ascesa? Non si farebbe prima ad escogitare regimi di protezione
alleggeriti e flessibili per evitare che le piattaforme fuggano a gambe levate dal
nostro Paese alla ricerca di lidi più accoglienti, preoccupandoci con calma dei pericoli
delle tecnologie?
La nostra risposta a queste domande è semplice. No! Ed è una risposta convinta, maturata
durante gli ultimi anni di studio.
Questo libro intende non solo offrire motivazioni a sostegno di questa replica secca,
ma anche contribuire a ridefinire le questioni sul tavolo. Vuol far riflettere su
come la tecnologia possa essere utilizzata per cambiare in positivo la vita e il lavoro,
a patto di non lasciare che il settore del tech si autoregolamenti pretendendo di governare le decisioni pubbliche quale unico arbitro
del nostro destino. Vuole anche raccontare come i nuovi strumenti di lavoro ci consentiranno
di risparmiare fatica e noia, rimpiazzando lavori pericolosi o ripetitivi. Allo stesso
tempo, si sforza di mettere in guardia su come alcune applicazioni tecnologiche possano
essere usate per sottoporre tutti a regimi di sorveglianza invasiva e continua, anche
sul lavoro (accrescendo il livello di stress e annullando gli spazi più intimi di
riservatezza).
Se stessimo a sentire i guru della tecnologia e i tanti loro apologeti di stanza tra
istituzioni e stampa, rischieremmo di cadere in un equivoco, quello secondo cui anche
solo cercare di governare l’innovazione tecnologica sarebbe inutile e dannoso. Capita
sempre più spesso che gli stessi invochino l’intervento della politica per dettare
regole su questioni spinose come la libertà di parola, le fake news e il contrasto all’odio online, ma nessun altro intervento legislativo sembra mai
andar bene. Non se ne parla neanche di introdurre regole su strumenti di sorveglianza
che utilizzano l’intelligenza artificiale per sottoporre a scrutinio i candidati a
un posto di lavoro, ma anche per verificare il merito creditizio ogni volta che si
chiede un mutuo o i fattori di rischio quando si tratta di sottoscrivere un’assicurazione.
Quanto a regolare il lavoro tramite piattaforma, apriti cielo. «Non vorrete mica che
le piattaforme chiudano i battenti? Perderemmo migliaia di posti di lavoro! Per non
parlare dell’indotto che si regge grazie alle app. Non ci fosse stato il delivery,la quarantena sarebbe stata un inferno per tutti». Come se il destino produttivo di
una delle prime potenze industriali mondiali passasse dalla consegna di pasti e pacchi
in bici e si dovesse quindi accettare qualsiasi condizione posta da queste aziende
pur di continuare a farci il favore di operare in Italia.
Per evitare di cadere in cortocircuiti intellettuali ai limiti del ridicolo va innanzitutto
sgomberato il campo da un fraintendimento: l’idea, cioè, che lo stato del progresso
sia deterministicamente dato. Forti di un sostegno incondizionato agli approdi della
tecnica, in troppi ancora oggi sostengono a gran voce l’incapacità delle regole vigenti
di tenere il passo del “nuovo che avanza”, titolare di un inviolabile diritto di precedenza,
e al contempo invocano la necessità di interventi palingenetici sull’impianto normativo,
al grido di «tutto sbagliato, tutto da rifare!».
Per sfatare questo mito, è bene precisare che l’impatto dei cambiamenti sociali è
determinato dalle decisioni aziendali e, soprattutto, da quelle collettive: solo in
un secondo momento l’ICT (Information and Communication Technology) accelera e consolida questi mutamenti. Insomma, non è colpa del digitale se aumenta
il lavoro precario, né si può attribuire la svalutazione del contributo umano esclusivamente
alla tecnologia. Sebbene oggi la parola “Uber”sia metafora globale per tutti i fenomeni di polverizzazione del rapporto di lavoro
(i giornali a corto di fantasia titolano sulle varie “Uber del dog-sitting”, “Uber
degli elicotteri”, “Uber delle camicie stirate”), il trend “dislocativo” non è certo
stato inaugurato dalla piattaforma nata in California. Il lavoro parcellizzato in
innumerevoli prestazioni (la singola consegna di cibo, la breve traduzioneonline, la trascrizione di scontrini, addirittura la fatica di taggare foto sui socialper raffinare l’intelligenza artificiale) e distribuito in microscambi che sostituiscono
relazioni di lavoro più durature e meglio regolate è semplicemente la faccia più scintillante
di una tendenza molto più ampia1. Un fenomeno che spazia dai sorpassati vouchernostrani alle catene di subfornitura e agli appalti al ribasso.
In un’opera che esplora le sfide poste dalle tecnologie di ultima generazione e il
loro impatto su libertà, democrazia, giustizia e politica, il giurista Jamie Susskind
ha scritto che molti dei problemi dei nostri tempi hanno a che fare con le opzioni
dei singoli, più che con il digitale in sé2. Tutt’altro che ineluttabile e scritta nella pietra, l’innovazione prende la direzione
che noi stabiliamo, con le nostre azioni e le nostre omissioni, e viaggia alla velocità
che le viene impressa. Alla radice, tutte le grandi trasformazioni non sono altro
che una somma, a volte perversa, a volte benefica, di innumerevoli scelte individuali
e collettive. È questo, allora, che bisogna fissarsi nella mente: sulla carta non
esistono tecnologie buone e tecnologie cattive. Esistono usi distorti e usi consapevoli
delle invenzioni e delle innovazioni. La qualità del lavoro presente e futuro dipende
direttamente da come esso è concepito, negoziato e organizzato. Questo sarà il messaggio
principale del libro: l’uso del digitale può e deve essere governato per assicurare
che il progresso tecnologico favorisca i molti e non i pochissimi.
Non si tratta di invocare meno innovazione, specie in Italia dove su questo fronte siamo, colpevolmente, in ritardo:
basti pensare alle molte zone del Paese dove la connessione veloce a internet è un
miraggio e dove gli investimenti in nuove tecnologie sono al palo. La pandemia scatenata
dal Coronavirus ha reso palese, ad esempio, quanto scarse siano le infrastrutture
che sostengono la rete, e ha aperto uno squarcio sulla debolezza della cultura aziendale
in fatto di nuovi modelli organizzativi. Hai voglia a dire «tutti a fare smart working da casa», se la banda larga si ferma alla circonvallazione dei capoluoghi e non esiste
possibilità di misurarsi sui risultati, anziché sul cartellino timbrato. Siamo scarsi
in fatto di innovazione, insomma. Secondo il Digital Economy and Society Index (DESI) 2020 l’Italia è ancora quartultima in Europa (e ultima per competenze). Quindi
di tecnologia ce ne vuole di più, siamo d’accordo, ma le sue conseguenze sul lavoro
e sulla vita delle persone vanno governate con lucidità.
Spesso, oltretutto, a un diffuso fatalismo si accompagna una larga tendenza alla minimizzazione.
A detta dei più, fette consistenti della forza lavoro sarebbero ancora impegnate in
attività tutto sommato tradizionali, quindi al riparo dalla digitalizzazione galoppante
e dalla concorrenza globale dei colossi del tech. Peccato che non sia così. Vale invece il contrario: alcuni segmenti economici fungono
spesso da campo di sperimentazione per modelli che saranno di lì a poco dominanti,
in caso di successo del test. La fragilità contrattuale sofferta dai precari della
gig-economy, così come la costante soggezione a robuste prerogative di comando in cambio di fragili
sicurezze, o ancora l’invasività degli strumenti di controllo digitale, altro non
sono che sintomi inconfutabili della grande metamorfosi in atto3.
Nel dibattito convenzionaleha prevalso, sinora, una sopravvalutazione dei prodigi della tecnologia. Eppure, a
differenza di quanto accaduto con la medicina, con la biotecnologia e con le scienze
in generale, in molti settori le applicazioni aziendali degli sviluppi digitali sembrano
avere poco di davvero rivoluzionario. Gran parte delle novità prodotte è oggi meramente
impiegata per compiere più efficacemente azioni e funzioni che, in passato, comportavano
un maggiore dispendio di energie (ben venga!) o che, in molti casi, ci si guardava
bene dal mettere in atto – in nome di valori, primo fra tutti quello della dignità
della persona, che oggi paiono in dismissione (basti pensare alla raccolta e all’uso
dei dati biometrici, e alle tecniche intrusive di riconoscimento facciale per l’autenticazione
o di tracciamento di massa in funzione anti-contagio).
Diversi studi hanno descritto l’avvento delle tecnologie di ultima generazione e mappato
i loro effetti sul rapporto di lavoro4. Si va da dispositivi fisici, quali esoscheletri e wearables (vale a dire tecnologie “indossabili”, come i braccialetti elettronici), fino a strumenti
immateriali come algoritmi e intelligenze artificiali. Innanzitutto, queste tecnologie
fungono da supervisori capaci di ricavare informazioni in tempo reale, scongiurando
incidenti causati da errori umani e riducendo la pericolosità e la pesantezza di certe
attività routinarie, tediose o svilenti. Allo stesso tempo, come racconteremo nel
primo capitolo di questo libro, realizzano un modello di controllo così minuzioso
e smisuratamente penetrante della prestazione da sfociare troppo spesso in abusi e
derive ingovernabili. Non è però tollerabile che i benefici di queste strumentazioni
in termini di maggior sicurezza e alleggerimento della fatica fisica del lavoro si
accompagnino a pratiche di sorveglianza dal sapore distopico.
Un’altra funzione fondamentale svolta dalle tecnologie digitali ha a che fare con
la delega di molte funzioni gestionali ad agenti non umani (si parla infatti di “managementtramite algoritmi”). Agli algoritmi è demandato il compito di automatizzare schemi
di turnazione e retribuzione – ed è qui che entrano in gioco anche le imprese della
gig-economy di cui ci occupiamo nel secondo capitolo. Peraltro, l’attività di divisione del lavoro
svolta dalle piattaforme online determina una situazione di invisibilità per una serie
di mansioni svolte da lavoratori in carne e ossa eppure fatte passare come “virtuali”.
Insomma: nel retrobottega della formidabile economia digitale si nasconde un esercito
di lavoratori fantasma deputati all’innesco di processi, alla riparazione di errori,
alla programmazione di stringhe di codice, o ancora responsabili di rimettere a posto
bici, monopattini e vetture della mobilità condivisa, oppure della cottura di un hamburger,
dello stoccaggio e del recapito di pacchi, dell’allestimento delle corsie dei magazzini
della grande distribuzione. In una battuta, il lavoro sporco della seconda ondata
della new economy non lo fanno le macchine intelligenti, ma i macchinisti invisibili.
Il quadro – si sarà capito – non è dei più rosei. Subiamo l’innovazione, più che generarla:
in ciò si manifesta il tradimento di quella promessa “liberatrice” delle tecnologie
digitali. Nate come campo di ricerca e spazio di ribellione, finiscono spesso riconvertite
in strumenti di repressione burocratica. Avrebbero dovuto semplificarci la vita, e
invece si sono spesso rivelate un asso nella manica quando si tratta di sorvegliare,
misurare, egemonizzare, ricattare, mercificare, spammare, brutalizzare, punire. Si
presentavano come uno spazio aperto alla concorrenza e alla contendibilità, sono diventati
terreno di conquista per oligopolisti in cerca di rendite in nome del tecno-darwinismo.
Giuravano di fare di noi dei novelli Prometeo, il titano che ruba il sapereagli dèi per offrirlo agli uomini, ci hanno purtroppo consegnati alle mollezze di
un terziario a scarso valore aggiunto e a bassa produttività (e di un indotto ancor
più minimale) che solletica desideri frivoli e soddisfa agi a basso costo. Avrebbero
dovuto ridurre le disparità e accorciare le distanze, hanno finito per alzare barriere
e ingigantire le disuguaglianze.
La reazione diffusa è stata repentina e fragorosa. Molti degli esiti elettorali degli
ultimi anni, come la vittoria di Trump in America, il successo della Brexit nel Regno
Unito, le nerborute performance elettorali dei partiti estremisti in tanti Paesi europei,
fotografano una grave insofferenza nei confronti delle disuguaglianze che proprio
il divario tecnologico potrebbe aver esacerbato.
È stato scritto che il lavoro precario finisce per rendere precarie, o comunque meno
liberali, le nostre democrazie inquiete5. Difficile dissentire. A scanso di equivoci, le risposte populiste, al pari di quelle
“omeopatiche”, non fanno altro che acuire i malanni che s’illudono di curare o, peggio,
sono parte di un’agenda che ha priorità tacite, opposte a quelle propagandate. Solo
per fare degli esempi concreti: gli elettori che hanno votato per rendere l’«America
great again», irretiti dalle sirene del protezionismo a stelle e strisce, si trovano
spesso a pagare il conto salato di politiche smaccatamente anti-labour, che danneggiano il ceto medio e lisciano il pelo ai beneficiati. Allo stesso tempo,
l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea minaccia seriamente di indebolire lo
statuto protettivo del diritto del lavoro britannico, in gran parte di importazione
europea. Paradossalmente, perciò, le rivolte anti-establishment avranno delle conseguenze negative proprio su quegli elettori che più intensamente
le hanno promosse: un’eterogenesi dei fini non di poco conto. Tuttavia, le motivazioni
alla radice di certi sentimenti di vulnerabilità e, insieme, di certe pulsioni di
rivalsa non vanno trascurate. È dovere di tutti indagare le ragioni economico-sociali
dello scontento per mitigarne i sintomi e correggerne le cause.
Il punto, allora, non è certamente tifare per un grottesco «indietro tutta»: la tecnologia
può essere un alleato imprescindibile, dalla fabbrica alla scrivania, dal magazzino
all’ufficio. È essenziale, però, sfidarla continuamente sul terreno della convenienza
sociale e politica, prima ancora che economica. Per questo, è indispensabile contrastare
una versione fanfarona del progresso, tutta chiacchiere e food delivery.
* * *
La nostra analisi parte dall’idea che per cercare di prepararsi al futuro sia d’obbligo
innanzitutto prendersi cura del presente, di ciò che accade ora. Non si può specularesui destini del lavoro senza averne indagato le questioni irrisolte, le pieghe meno
note e gli elementi di criticità.
Che cosa succede ai lavori che non vengono spazzati via dalla tecnologia? Si possono
conciliare flessibilità e tutele per fare in modo che il quadro normativo abiliti
le innovazioni? Come si negozia l’ampiezza e l’intensità di un potere di sorveglianza
sempre più pervasivo? In che modo si regola l’utilizzo della mole di dati raccolti
sul posto di lavoro senza abdicare ai più elementari principi etici? Quante possibilità
ci sono che il modello del lavoro nella gig-economy conquisti settori del tutto eterogenei e si affermi come nuovo paradigma produttivo?
Di quali investimenti e di quali tagli c’è bisogno per sostenere la produttività?
In che modo si assicura una distribuzione equa dei dividendi del progresso tecnologico?
Come si ristruttura la rete di sicurezza sociale affinché sia in grado di offrire
soluzioni ai lavoratori non-standard? Quali sono gli elementi indispensabili di un
nuovo patto sociale e istituzionale in grado di ridurre le disuguaglianze, contenere
il rancore e allargare le opportunità? Che cosa stanno facendo, e cosa potranno fare,
le parti sociali e le forze politiche per mettere in campo misure efficaci che accompagnino
la transizione? A questi interrogativi si aggiungono due dilemmi ancora più intimi:
a che cosa siamo disposti a rinunciare e a quali obiettivi puntiamo?
Questo libro intende ridimensionare lo sconcerto, risolvere alcuni dubbi e offrire
soluzioni realistiche. Si occupa dei tre grandi vettori del cambiamento che sta ridisegnando
il mercato del lavoro: automazione, algoritmi e piattaforme6. Insieme, queste forze promettono di traghettarci in un nuovo mondo, per il quale
oggi sembriamo scarsamente equipaggiati. Esse costituiscono un bersaglio mobile giacché
cambiano rapidamente e profondamente, assieme ai contesti con cui interagiscono e
a cui danno forma. Servono quindi coordinate precise per orientarsi in questo territorio:
non tanto nuove rotte, quanto punti di riferimento certi per un viaggio agevole. Non
è vero, e lo ripeteremo più avanti, che tutto il nostro panorama normativo sia obsoleto
e da buttare. Non è neanche vero che in altri Paesi, compresi quelli più avanzati,
si lasci spazio incontrastato ai nuovi modelli di business, rinunciando ai tentativi
di governare lavoro e tecnologia.
Il libro che avete tra le mani militerà al fianco delle cose più ostinate del mondo,
vale a dire i fatti, e dalla parte delle opinioni più sincere in circolazione. Al
troppo accecante futuro si replicherà con tantissimo presente. Il testo, frutto di
più anni di ricerca, si concentra sulle dimensioni “classiche” della materia lavoristica,
quella individuale e quella collettiva, e adotta un punto di vista trasparente: le
regole non causano necessariamente la paralisi delle attività economiche. Al contrario,
il diritto è un alleato dell’innovazione autentica7, giacché consente parità di condizioni tra operatori in competizione, abilita le
sperimentazioni più rischiose e ne protegge i risultati, media tra posizioni dissonanti
e interessi in conflitto, amministra i costi di transazione, assicura certezza e programmabilità,
riequilibra gli scompensi e sanziona le posizioni dominanti.
È un libro che parte da questioni di natura giuridica per occuparsi prioritariamente
di temi che investono l’intera società e riguardano ognuno di noi, convocati per scrivere
una storia alternativa delle trasformazioni, soprattutto digitali, del lavoro. È un
libro anche di diritto, ma parla la lingua di tutti e si avvale di esempi tratti dal quotidiano
e di aneddoti ispirati a casi comuni. Se proprio occorresse incasellarlo in un genere
letterario, ci piacerebbe considerarlo un dispaccio dal fronte del lavoro che cambia,
senza alcuna velleità da manualistica. Ci auguriamo che i lettori possano arricchire
il proprio bagaglio di informazioni per farsi una propria idea, consapevoli di una
cosa: la tecnologia e le sue conseguenze sono fenomeni umani, dipendono strettamente
dal tessuto sociale e regolamentare su cui si riverberano; possono, insomma, essere
governate ed è bene che lo si faccia in fretta. Gli strumenti ci sono già, oppure
si possono individuare tramite la discussione collettiva. L’importante è non dare
l’innovazione per scontata né temere di contestarla, quando necessario, per indirizzarla
verso il progresso a beneficio di tutti. Non solo non è impossibile, non sarebbe neppure
inedito. Speriamo di convincervi.
Avanti, cominciamo.
1.
Quale futuro?
Henry Ford II: «Walter, come convinci
tutti quei robot a iscriversi al tuo sindacato?»
Walter Reuther, leader sindacale: «Già, Henry,
e tu come li convinci a comprare le tue macchine?»
aneddoto apocrifo
1. Niente panico, sono false le voci sulla fine del lavoro
Quella del “futuro del lavoro” sembra diventata una materia a sé, feconda di titoli
e convegni (arriveranno presto anche gli scaffali dedicati nelle librerie), ma avara
di progetti e investimenti. Fatto sta che il lavoro del futuro è più studiato che
vissuto o – meglio ancora – plasmato. Non c’è parlamento, università, multinazionale,
think tank o sindacato che non abbia inaugurato un gruppo di ricerca sul mondo del lavoro ai
tempi della quarta rivoluzione industriale.
La cosa non deve sorprendere: il lavoro occupa un posto centrale nelle nostre vite.
Oltre che mezzo di realizzazione personale, il lavoro è garanzia di relazioni, veicolo
di mobilità e chiave di riscatto: contribuisce a definire un pezzo consistente della
nostra identità, individuale e collettiva. In molti sistemi giuridici un lavoro –
principalmente di natura subordinata, a tempo pieno e indeterminato – è canale privilegiato,
talvolta esclusivo, di accesso a un sistema integrato di diritti, obblighi, tutele
e welfare. Il lavoro è l’attività che, per un numero cospicuo di cittadini, occupa
gran parte del tempo della giornata e assicura la disponibilità di risorse e garanzie
economiche.
Uno spettro, oggi, si aggira in molte delle riflessioni che ruotano attorno alla rivoluzione
digitale: quello dell’imminente scomparsa del lavoro (umano). Il dibattito è pressoché
monopolizzato da una prospettiva meramente contabile sul numero di lavori che andranno persi per via dell’automazione e da ragionamenti
compensatori1. Si finisce così per affidarsi alle sole statistiche, brindando o disperando a seconda
di un saldo positivo o negativo sui fogli di calcolo delle trimestrali. L’ansia trova
riparo nei pallottolieri. Questa lettura angosciosa dei cambiamenti in corso ha rubato
il campo all’analisi approfondita: molte delle congetture sulla trasformazione (soprattutto
tecnologica) del lavoro hanno spesso una natura iperbolica. Accerchiati da metafore
di ogni sorta, le analisi sugli usi concreti delle tecnologie, oppure sulla possibilità
di “aumentare” senza sostituire le capacità umane vengono quasi del tutto ignorate2. Peggio ancora va alle riflessioni su come ridisegnare l’ambiente di lavoro, ripensare
il contenuto dei mestieri e la loro articolazione pratica, aggiornare gli inquadramenti
contrattuali e reinventare le tradizionali tecniche di azione collettiva.
In questo contesto cacofonico, ogni dettaglio di cronaca, persino quello più insignificante,
smette di essere parte del tutto e diventa segno incontrovertibile di una qualche
tendenza inedita e inarrestabile. I microchip sottocutanei per controllare i dipendenti,
la miriade di mestieri soppiantati dai computer, i big data che licenzieranno i fannulloni, i dilemmi sulla responsabilità in caso di incidenti
causati dalle auto che si guideranno da sole, i robot che si sostituiranno ai nostri
capi, l’ambiente di lavoro immateriale e permeabile tanto da essere a portata di smartphone,
le intelligenze artificiali che scateneranno sanguinosi conflitti mondiali, la carta
di “credito sociale” per stilare la classifica degli umani più affidabili,lo shopping e il design a domicilio grazie ai potenti mezzi della realtà aumentata...
Sono solo alcuni dei racconti – verissimi o verosimili – che si alternano, accendendo
gli animi nelle conversazioni pubbliche e private.
È giusto che se ne discuta così tanto. Ma quando i governi intervengono sulle questioni
sollevate in questi dibattiti, le reazioni sono troppo spesso scomposte, figlie di
una logica emergenziale, e per lo più effimere. Eppure, le stesse inquietudini si
riaffacciano sul palcoscenico della storia economica con sospetta ricorrenza catalizzando
le attenzioni dei più. A tal proposito, circola una significativa cartolina in cui
sono giustapposte tre diverse copertine di «Der Spiegel», il famoso settimanale tedesco.
La serie contiene le prime pagine di edizioni rispettivamente risalenti a marzo 1964,
aprile 1978 e settembre 2016. Nei titoli a corredo dell’immagine si passa da un allarmante
Automazione in Germania, l’arrivo dei robot, a un accigliato La rivoluzione dei computer: come il progresso causa disoccupazione, fino a un disastroso Sei licenziato! Come computer e robot ci rubano il lavoro – e quali professioni saranno
al sicuro. In tutti e tre i casi, un robot dai connotati umani è rappresentato nell’atto di
sbarazzarsi di un lavoratore umano. L’unica differenza sostanziale tra la copertina
del 1978 e quella di pochi anni fa riguarda il lavoratore protagonista: nella prima
si tratta di una tuta blu, nella seconda di un colletto bianco.
Nessun mestiere infatti è intrinsecamente immune alla rivoluzione digitale e, anzi,
la classica visione polarizzante (da un lato lavori manuali, dall’altro quelli di
concetto) non è in grado di fotografare la complessità del presente. Un avvocato,
un medico, una consulente, un broker e una manager corrono rischi simili o anche peggiori
di quelli che si trovano a fronteggiare un metalmeccanico, un’infermiera, un postino,
un cuoco o un autista. Le aree protette, con ogni probabilità, si trovano all’intersezione
dei mestieri. Dalla contaminazione tra saperi tradizionalmente appartenenti a diversi
campi, infatti, stanno nascendo o nasceranno professioni ibride: operai altamente
specializzati in processi innovativi, architetti di big data,analisti di algoritmi, ingegneri informatici della conoscenza giuridica,linguisti computazionali, allenatori e terapisti di protesi robotiche3. Accanto a questi, tanti lavori più antichi eppure resistenti: professionisti di
vendite e marketing, addetti ai servizi di sicurezza, pulizie, ristorazione, o ancora
assistenti sanitari e domestici.
È certo che l’uomo conserverà aree d’imbattibile vantaggio competitivo nei confronti
delle macchine, e in parte riuscirà a essere l’azionista di maggioranza di alleanze
originali con i robot e le intelligenze artificiali4, ma come ci si assicura che questa primogenitura non vada dissipata in nome di misure
scellerate e valutazioni spregiudicate? È in corso una neanche troppo silenziosa corsa
mondiale tra potenze rivali per assicurarsi una posizione di avanguardia e prestigio
in campi nuovi, e l’Europa sta rimanendo indietro in settori in ascesa. Per evitarlo,
avremmo bisogno di investire in infrastrutture immateriali a rendimento sicuro e diffuso
nel tempo: istruzione e formazione, le uniche armi in grado di contrastare l’avanzata
delle disuguaglianze. Il guaio, però, è che sembra più scontato perpetuare la ricchezza
a partire dalle rendite e non, invece, investendo sul talento di chi lavora.
Allo stesso tempo, è pressoché impossibile anticipare la domanda di competenze che
saranno richieste negli anni a venire, considerata l’incertezza sulle traiettorie
di sviluppo del mercato del lavoro. Sappiamo quali attività potrebbero scomparire,
ma non abbiamo idea di quelle che potrebbero sorgere. L’unica certezza è la carenza
di competenze digitali che saranno chiave nel futuro, digitali ma anche non formali.
E allora, solo investendo massicciamente in formazione di base e professionale e incoraggiando
modelli come quello dell’apprendistato degnamente retribuito, si avrà la possibilità
di realizzare il dettato costituzionale, che all’art. 3 garantisce «il pieno sviluppo
della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del Paese».
Il grosso problema con cui ci si confronterà negli anni a venire sarà proprio che
i lavoratori più vulnerabili e precari sono gli stessi che avranno meno opportunità
di accedere a programmi di formazione e aggiornamento. È così da decenni, purtroppo. In più, molti dei modelli organizzativi che passano
per innovativi e altamente tecnologici hanno la tendenza a generare lavoro precario
e privo di valore: regolatori e analisti dovrebbero essere più consapevoli di questo
circolo vizioso in cui rischiamo di restare incastrati.
È stato dimostrato che nell’ultimo ventennio l’accelerazione digitale ha agito a tenaglia,
stritolando chi si trova nel mezzo5. Mentre accresceva la fascia alta e quella bassa della distribuzione dei redditi,
ha compresso il numero di lavoratori nella fascia media determinando una forte polarizzazione.
Stando ai dati, infatti, l’effetto sostituzione sembra avere molte più chance nella
fascia media, mentre guardando le zone in basso e in alto nella mappa del lavoro e
delle competenze è più facile imbattersi nell’effetto complementarità. Anche in questo
caso, lo scenario non è poi tanto rassicurante. Solo i lavoratori altamente qualificati
assistono all’incremento della propria produttività grazie alle tecnologie e ne traggono
benefici diretti. Per tutti gli altri le notizie sono molto meno buone.
Allargando lo sguardo, emerge uno squilibrio ancora più preoccupante: chi perde il
lavoro ha scarsissime possibilità di ritrovarlo in un altro settore. Per uscire da
questo vicolo cieco, c’è bisogno di coraggio e di investimenti. Non basta però delegare
allo Stato questo compito, anche le imprese – di fatto istituzioni sociali di prossimità
– devono farsi carico di un percorso costante di aggiornamento delle competenze della
propria forza lavoro. Ne va, tra l’altro, della loro capacità di avere successo in
un mercato sempre più competitivo e affamato di novità.
1.1. La «robocalisse» è rinviata a data da destinarsi?
A che ora è la fine del lavoro? L’apocalisse, o meglio la robocalisse, è alle porte e i lavoratori in carne e ossa rischiano di cavarsela piuttosto male.
Molti analisti non fanno che ripetere che la corsa selvaggia dell’innovazione ha imboccato
una direzione senza ritorno alla volta della sostituzione del lavoro umano6. Anche di recente alcuni commentatori hanno sostenuto che la pandemia avrebbe favorito
un aumento senza precedenti dell’automazione, dal momento che «le macchine non si
ammalano».
Questi messaggi – per quanto in buona fede, almeno alla fonte – sono spesso serviti
da arma retorica con cui giustificare interventi di deregolamentazione del mercato
del lavoro. Più di frequente, hanno contribuito a diffondere il luogo comune secondo
cui istituzioni sociali “inflessibili” e tutele sul lavoro “desuete” finirebbero per
soffocare l’innovazione nella culla. Quel che è peggio, la narrazione dominante ha
associato a questo scenario un ricatto più o meno esplicito: se l’automazione promette
di rendere “superfluo” il contributo umano, l’unica strategia per rendere competitivi
i lavoratori sarebbe quella di tagliare oneri e responsabilità – spingendo il grosso
dei rischi dalle imprese in capo ai “fornitori” di energie da lavoro. Insomma, la
tesi per cui le macchine, se non più intelligenti, saranno quantomeno più convenienti
dei lavoratori è agitata a mo’ di minaccia da chiunque intenda competere spregiudicatamente.
È utile dirlo sin da ora, però: certe strategie imprenditoriali deresponsabilizzanti
hanno davvero ben poco di rivoluzionario. Molto spesso, oltretutto, finiscono per
congelare la produttività.
La disarticolazione del diritto del lavoro, inoltre, non miete grandi risultati. Anzi,
in assenza di rapporti solidi e vincoli stabili, si determina un disallineamento tra
gli interessi dell’impresa e quelli della forza lavoro, soprattutto per quel che riguarda
lo sviluppo di nuove competenze e l’incubazione di innovazione “interna”, con effetti perversi sulla competitività7. Viceversa, proprio il coinvolgimento attivo della forza lavoro, direttamente proporzionale
alla sensazione di soddisfazione, benessere e appagamento (e quindi a un sistema di
garanzie), è in grado di determinare un incremento di produttività8.
Di sicuro c’è che le evoluzioni in atto non presentano caratteri di prevedibilità.
Non è affatto chiara la relazione tra innovazione e occupazione. L’Organizzazione
per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) prova da tempo a spiegare come
la tecnologia modifichi la struttura e il contenuto dei rapporti di lavoro, più che
investire direttamente il numero complessivo di occupati, dal momento che la distruzione
di posti in certi settori è bilanciata da un effetto opposto in altri campi, a cui
si accompagna una profonda disparità geografica e spesso economica, non solo tra Stati
ma anche tra aree diverse dello stesso Paese (con le zone più “ricche” che presentano
dati più accentuati in tema di polarizzazione e disuguaglianza)9.
D’altra parte, di fronte all’abbondanza di previsioni funeste, gli ottimisti fanno
presto a ricordare, con toni quasi beffardi, una sequela di previsioni sulla riduzione
delle ore di lavoro, poi rivelatesi infondate o esagerate. Nel bel mezzo della Grande
Depressione, con Possibilità economiche per i nostri nipoti l’economista John Maynard Keynes descrisse una plausibile alba del 2030 in cui un
cittadino statunitense si sarebbe svegliato disoccupato, complici il progresso tecnologico
e gli investimenti statali in innovazione10. La profezia tarda ad avverarsi – ne è prova il fatto che probabilmente avrete impostato
la sveglia all’alba di domattina per evitare di fare tardi al lavoro.
La riapertura del dibattito è stata stimolata da una pubblicazione molto acclamata,
The future of employment: How susceptible are jobs to computerisation?, finalizzata a quantificare la “computerizzabilità” di un ampio numero di professioni.
A detta dei due autori, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne11, il 47% del totale della forza lavoro degli Stati Uniti presenterebbe una considerevole
vulnerabilità all’automazione, «forse nel prossimo o nei prossimi due decenni». Per
arrivare a questa stima, gli autori hanno valutato – affidandosi al contributo di
esperti di intelligenza artificiale – la probabilità che una data occupazione, in
un campione di più di settecento professioni, sia interessata e alla fine sostituita
da processi di robotizzazione. Le occupazioni sono state quindi catalogate in tre
classi di probabilità di automazione: bassa, media e alta. L’esercizio empirico è
stato ripetuto con molti adattamenti per Paese o settore. Adottando il modello di
Frey e Osborne, altri accademici hanno stimato cifre che salgono al 54%, se si applica
il calcolo alla situazione europea, o addirittura al 57% quando lo stesso metodo è
stato utilizzato per calcolare il rischio di automazione nei Paesi OCSE. Un’altra
recente analisi, cucita su misura sulla nostra situazione nazionale, ha rivelato –
pur invitando alla cautela – che il 40% dei lavoratori italiani andrebbe incontro
a un alto rischio di sostituzione12.
L’esperienza indica che i pronostici più audaci forniscono solo risposte insoddisfacenti.
Le cifre più attendibili, infatti, non sembrerebbero confermare anticipazioni così
tragiche. L’errore di molti studi, a ben vedere, è consistito nell’aver considerato
le occupazioni e non le mansioni specifiche. All’interno della stessa occupazione,
infatti, solo alcuni compiti particolari sono automatizzabili. Tenendo conto di questo,
altri studi dimostrano che, in media, nei Paesi dell’OCSE solo circa il 9% dei posti
di lavoro presenta un concreto rischio di automabilità, mentre quasi la metà degli
occupati assisterà a un cambiamento radicale delle proprie mansioni13, senza tuttavia soccombere.
Molti autori hanno quindi sovrastimato la rapidità e l’intensità del processo con
cui le macchine prenderanno il sopravvento sull’uomo: tali valutazioni sarebbero falsate dagli ovvi limiti dell’estrapolazione lineare, che estende i dati relativi a un certo
gruppo a gruppi totalmente diversi. È però interessante approfondire i due ordini
di motivi per cui le previsioni più pessimistiche non sono finora corrisposte a sviluppi
reali. Da un lato, infatti, è importante sgombrare il campo dal grande inganno della
“torta fissa di posti di lavoro”. È del tutto errato immaginare uno stock stabile
di posti, poiché la quantità di lavoro disponibile può teoricamente aumentare senza
limiti. In più, i lavoratori possono essere assorbiti da altri settori e specializzarsi
in compiti nuovi e complementari. Bisogna pure considerare che la trasformazione non
ha solo una dimensione tecnologica: fenomeni demografici, avanzata della globalizzazione,
dinamiche migratorie, emergenze climatiche e sanitarie, ma anche variazioni negli
stili di vita contribuiscono in maniera significativa a rimodellare il mercato del
lavoro.
Inoltre, se l’impatto diretto delle innovazioni finalizzate all’aumento di produttività
determina la distruzione di posti di lavoro quando, a breve termine, si mantengono
costanti la produzione e i prezzi, l’introduzione di certe macchine – in particolare
quelle che portano all’automazione solo parziale di un determinato mestiere o alla
riduzione dei prezzi e al lancio dei nuovi prodotti – ha effetti benefici sull’occupazione14. In pratica, la produzione più efficiente spinge i prezzi verso il basso, aumenta
il potere d’acquisto e genera maggiore domanda di beni. Il risultato è tale da innescare
la creazione di un numero di posti di lavoro superiore a quelli persi, se non addirittura
di nuove attività economiche, meglio remunerate, in settori diversi e più produttivi
(con un conseguente esito positivo netto a livello aggregato).
Per citare un esempio classico, negli Stati Uniti si temeva che l’introduzione degli
sportelli automatici, avvenuta ormai cinquant’anni fa, potesse cancellare le professioni
bancarie. Al contrario, i costi inferiori delle filiali spinsero le banche ad aprire
nuovi uffici, anche in posti remoti, che a loro volta attirarono un crescente numero
di clienti. Risultato? La crescita di posti di lavoro nel settore, a dispetto dei
presagi, e un progressivo cambio delle mansioni degli addetti: da semplici sportellisti
a consulenti finanziari. Il vero guaio, semmai, è che nel periodo osservato questo
trend non ha determinato un parallelo aumento dei salari15. Senza dubbio, per generare ricadute positive, è necessario che le imprese scelgano
di non congelare il frutto degli incrementi di produttività, optando per tradurli
in investimenti16.
La gara a stimare la probabilità di sostituzione tecnologica di un mestiere, spesso
basata sulla fallacia che trascura l’eterogeneità di funzioni e mansioni “avvolte”
in uno stesso lavoro, ha finito per confondere molti analisti. Più di recente la ricerca
si è concentrata sul singolo compito invece che sull’intera occupazione, nel valutare
il rischio di computerizzazione. Questi studi alternativi sono basati sul metodo adottato
da David Autor del MIT di Boston e dai suoi coautori, i quali hanno dimostrato come
le occupazioni siano molto più sfaccettate di quanto si pensi17. Com’è chiaro a tutti, i lavori consistono nello «svolgere un ventaglio di compiti
diversi», non tutti a rischio di sostituibilità robotica. Un’ampia fetta di attività
è ancora difficile da meccanizzare, poiché si tratta di azioni che richiedono una
miscela di abilità di dominio umano, tra cui astrazione, estro, improvvisazione, pensiero
critico, giudizio analitico, intelligenza relazionale o sociale, ma anche abilità
percettive, doti di manipolazione e destrezza fisica. Non bisogna peraltro trascurare
l’aspetto geografico: un lavoro ad alto rischio di automazione in una certa area potrebbe
essere “al sicuro” in una zona diversa. E viceversa18.
Esistono infine conoscenze “tacite”, vuoi personali o procedurali, sviluppate con
la pratica e sedimentate nel nostro subconscio. Ed è estremamente difficile articolare
queste capacità umane in protocolli standard: è il limite umanoall’automazione. Consoliamoci, quindi. Tantissime attività, dal quotidiano al sublime,
non possono essere computerizzate perché non saremmo in grado di decodificarne le
regole per trasferirle a una macchina intelligente19. D’altronde, come ha provato a spiegare il filosofo Karl Polanyi, «sappiamo (fare)
più di quello che riusciamo a dire».
2. Il digitale è politico. Una missione nuova per l’“umano al comando”
Tanti mestieri sono scomparsi. Solo negli ultimi decenni: addetti agli ascensori o
alla gestione dei lampioni a candela, tagliatori di ghiaccio, telefonisti e centralinisti,
agenti di viaggio, sentinelle militari. In altri settori, primo tra tutti l’agricoltura,
il numero di addetti si è ridotto vertiginosamente. Eppure, il lavoro non si è estinto.
Tanto la lunga lista di previsioni errate quanto le correzioni al rialzo delle stime
più drammatiche dovrebbero servire a placare, almeno in parte, l’ansia da cambio di
paradigma.
Ma non basta. Non è sufficiente aderire alle analisi più rassicuranti per liquidare
la complessa questione del lavoro che cambia e tirare tutti un sospiro di sollievo.
La notizia che la fine del lavoro non sia poi tanto all’ordine del giorno ci inchioda
alle nostre responsabilità e impone di alzare lo sguardo. Prima di approfondire l’analisi
qualitativa (e anche giuridica) della trasformazione digitale, è utile chiedersi quale
sia lo spazio di intervento in un contesto così mutevole.
Bisogna ricordare che mentre nel secolo scorso il processo di industrializzazione
ha determinato un contro-movimento di de-precarizzazione dell’occupazione grazie a
una migrazione verso relazioni più solide e sicure, la rivoluzione in corso ha finora
generato una reazione uguale e contraria: le architetture contrattuali tipiche dell’economia
delle piattaforme digitali (ma non solo) assumono la forma di rapporti sotto-regolamentati
tra un committente e un contrattista “usa e getta” – per dirla nel modo più brutale
possibile. Nonostante ciò, in maniera contraddittoria, mentre si interviene legislativamente
per smussare le presunte rigidità dei contratti tipici, si denuncia l’incapacità delle
categorie giuslavoristiche tradizionali di accogliere moduli organizzativi alternativi.
Delle due l’una, allora: o gli interventi flessibilizzanti hanno conseguito risultati
minimi, oppure erano stati invocati al solo fine di sbarazzarsi di qualche responsabilità.
Il giuslavorista Antonio Lo Faro ha messo in fila le scelte politiche e collettive
che hanno fatto sì che lo stesso rapporto di lavoro “classico” (che è ancora oggi
quello prevalente, se si guardano le statistiche) sia stato oggetto di un’azione di
assottigliamento delle protezioni accordate ai lavoratori, attraverso interventi che
hanno determinato la riduzione delle tutele in caso di licenziamento illegittimo e
un’apertura indiscriminata alla contrattazione in deroga20. È evidente, quindi, che quando ci si scaglia contro le tutele del lavoro, propugnando
che queste agiscano da freno sull’innovazione, si sbaglia del tutto il bersaglio,
e non sempre in buona fede.
Mentre ci si arrovella in merito agli effetti di certe pratiche dislocative (esternalizzazione,
piattaformizzazione, casualizzazione) su competitività ed efficienza, sorge il dubbio
che molti giganti del tech, ma anche tante imprese che hanno fatto dell’innovazione il proprio grido di battaglia,
abbiano i piedi d’argilla. L’attuale modus operandi dei colossi digitali, senz’altro efficace quando si tratta di «muoversi in fretta
e spaccare tutto», nel lungo periodo finisce per sgretolarsi, sia finanziariamente
(tante quotazioni sono fallite nonostante promesse mirabolanti e nel frattempo gli
investitori sono stati costretti a mettere mano al portafogli per evitare il collasso),
sia operativamente (non fanno quasi più notizia le app che adottano un modello aziendale
classico, con tanto di dipendenti tradizionali, per stare sul mercato e rispondere
in modo credibile alle esigenze dei clienti). Quando si tratta di competere per davvero
e macinare risultati nel lungo periodo, vale una regola semplice: solido è meglio
di liquido, o almeno questo sembrano insegnarci le parabole aziendali di diversi attori
del comparto.
Il punto, in ogni caso, è sempre lo stesso. L’avanzata delle tecnologie digitali può
e deve essere governata. Il processo dinamico dell’innovazione non avviene in un vuoto
istituzionale, politico, socioeconomico e culturale21. Ciononostante, l’opinione dominante in fatto di tecnologia propugna l’idea, del
tutto erronea e ben poco disinteressata, che non si possano mettere in campo regole
sull’introduzione di nuovi strumenti di lavoro, o che – ancora peggio – non sia il
caso di governare le loro conseguenze sulla quantità e sulla qualità dei posti di
lavoro. Si sente spesso ripetere che qualsiasi tentativo di gestire gli effetti delle
scoperte digitali finirebbe per mortificare lo spirito innovativo e porterebbe a gravi
perdite economiche. Per non parlare delle perenni schermaglie sull’asserita incapacità
di norme forgiate nel secolo scorso di tenere testa alle novità lanciate negli ultimi
anni.
Queste fascinazioni, ancora una volta, vanno rispedite al mittente senza troppi complimenti.
Le norme volte a mitigare gli effetti potenzialmente dannosi dell’uso di dispositivi
tecnologici sulla qualità del lavoro e sulla dignità umana dei lavoratori esistono
già oggi in vari Paesi industrializzati, emergenti o in via di sviluppo (si pensi
al diritto agli obblighi di sicurezza, alla protezione dei dati personali o al nascente
diritto alla disconnessione). Molti sistemi giuridici hanno da tempo adottato regole
per temperare l’impatto sociale dei licenziamenti di massa e delle perdite di posti
di lavoro, anche legati all’automazione e alla riconversione tecnologica (i giuristi
del lavoro definiscono “licenziamenti economici” quelli che avvengono per «ragioni
inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento
di essa»22).
Qualche dubbio è montato di recente, dacché, in Italia, si è consolidato un orientamento
giurisprudenziale che ritiene legittimo il licenziamento in conseguenza dell’introduzione
in azienda di una innovazione robotica che determini una contrazione della forza lavoro.
Parallelamente, la giurisprudenza ha ammesso i licenziamenti economici e organizzativi
operati anche da imprese in bonis desiderose di adeguare la propria organizzazione a standard tecnologici più efficienti.
Tuttavia, il sistema giuridico non sembra propenso a tollerare l’espulsione dei lavoratori
meramente in ragione di un ambiguo tasso di sostituibilità. Inoltre, gli strumenti
normativi che regolano la riduzione del personale richiedono alle imprese di informare
e consultare adeguatamente i sindacati e i rappresentanti dei lavoratori e di coinvolgere
gli enti pubblici prima di procedere alla riduzione del personale. Di questo siamo
in debito principalmente con le istituzioni europee che, pur in ottica anticoncorrenziale,
hanno limitato il ricorso alle scorciatoie che avrebbero determinato una situazione
di corsa al ribasso delle condizioni di lavoro.
Altri esempi sono sotto gli occhi di tutti: a pandemia in corso, si sono attivati
massicci programmi di cassa integrazione, con regole amministrative semplificate e
accelerate, al fine di concedere una tregua alle imprese a corto di liquidità e allo
stesso tempo un sostegno immediato ai lavoratori. Le istituzioni dell’Unione Europea
hanno prontamente investito cento miliardi di euro per garantire una boccata d’ossigeno
ai settori in difficoltà23. In molti casi, questa tregua ha consentito a tanti di superare indenni i momenti
più duri del primo semestre del 2020. Sarebbe malizioso notare come, proprio in queste
circostanze avverse, i militanti dello “Stato minimo” e dell’Europa matrigna siano
stati costretti alla ritirata disonorevole, se non addirittura a un fulmineo cambio
di casacca.
Guardando alla questione con le lenti dell’analisi economica del diritto, un impatto
economico negativo di questo tipo di regolamentazione non è mai stato provato. Al
contrario, un forte coinvolgimento di istituzioni pubbliche e parti sociali nella
gestione di potenziali licenziamenti di massa è associato a livelli elevati di produttività
e competitività. I dati aggiornati del Cambridge Centre for Business Research dimostrano
come un adeguato corpus di regole del diritto del lavoro abbia un effetto positivo anche sui tassi di occupazione,
riduca quelli di disoccupazione e stimoli l’innovazione.
È il caso, allora, di smentire una volta per tutte i proclami sconclusionati di chi
si ostina a dipingere la normativa lavoristica come una palla al piede per i capitani
d’impresa. Come ha chiarito di recente l’OCSE24, la contrattazione collettiva – a cui dedichiamo le conclusioni di questo testo –
contribuisce a ridurre le disuguaglianze, ma ha soprattutto il merito di sostenere
la diffusione di buone pratiche in materia di gestione del personale, formazione,
salute e sicurezza sul posto di lavoro, introduzione di processi tecnologici, assicurazioni,
pacchetti di pensionamento, schemi incentivanti legati ai risultati: tutti strumenti
che possono tornare utili proprio alle piccole e medie imprese per affrontare le sfide
legate alla trasformazione del lavoro. Il dialogo sociale permette alle imprese di
rispondere al cambiamento demografico e a quello digitale, adattando l’organizzazione
e i tempi di lavoro alle nuove esigenze in modo più flessibile e pragmatico rispetto
a una eventuale riforma del codice del lavoro.
Messi da parte i fanatismi, non bisogna neppure illudersi che un pacchetto di regole,
per quanto illuminate, sia sufficiente a risolvere i problemi derivanti dall’automazione
e, più in generale, dalla rivoluzione digitale. Le regole vigenti, ad esempio, alleviano
le conseguenze più drammatiche dei licenziamenti, ma non sono in grado di prevenirli
di per sé, specie nei casi in cui nuovi macchinari e processi organizzativi dovessero
essere in grado di soppiantare un numero elevato di posti di lavoro in un breve lasso
di tempo.
Non è detto insomma che la storia si ripeta identica a sé stessa. Certe caratteristiche
della quarta rivoluzione industriale, unite alla persistente crisi globale, esacerbata
dallo shock provocato dal Covid-19, e alla natura quasi monopolisticadi molte tecnologie (immaginate di voler aprire, oggi, un motore di ricerca alternativo
a Google), potrebbero generare conseguenze difficili da governare, mettendo così a
dura prova il quadro normativo e il modello di relazioni industriali esistenti. Quasi
sicuramente non saranno sufficienti le sole norme sui licenziamenti collettivi per
risolvere gli scompensi legati alla transizione, ma sostenere la loro totale irrilevanza
o l’impotenza del decisore pubblico che le ha concepite è un argomento deresponsabilizzante.
Non ci si può quindi abbandonare ai facili trionfalismi. Né si può escludere che il
lavoro del futuro sia inferiore, non di numero ma di qualità, a quello del presente25. In ogni caso, è urgente ricalibrare il focus della discussione, tentando di decifrare
le conseguenze dell’automazione, della digitalizzazione e della piattaformizzazione
da un punto di vista qualitativo. Le metamorfosi più profonde, come spiega Eurofound
– agenzia dell’Unione Europea che promuove il miglioramento delle condizioni di vita
e lavoro –, impongono spesso un adeguamento delle pratiche organizzative, delle infrastrutture
sociali e finanche del quadro istituzionale. Per farlo, è necessario uno sforzo di
analisi per valutare laicamente elementi di continuità e discontinuità, evitando di
restare accecati da ciò che ci è più familiare, prima di sperimentare nuovi interventi.
Sebbene automazione e digitale siano sotto stretta osservazione dei giuristi sin dall’avvento
del microprocessore, l’ascesa fulminea delle nuove imprese-piattaforma – moduli organizzativi
ibridi e formati contrattuali ultra-atipici, a cavallo tra lavoro autonomo e lavoro
subordinato – sembra aver colto di sorpresa esperti e commentatori, i quali si sono
rivolti forse troppo sbrigativamente all’armamentario classico, in cerca di strumenti
interpretativi da adoperare anche in questa fase nuova.
Per evitare riflessi condizionati, è necessario un atteggiamento pragmatico, che punti
a un’applicazione più efficace e più flessibile delle regole esistenti, oltre che
a un’opera di bonifica delle regole ambigue e degli spazi di incertezza. A quanti
ammoniscono che “lacci e lacciuoli” rischiano di condannare all’arretratezza perenne
un Paese di per sé scarsamente innovativo bisogna inoltre rispondere che non è questo
il momento di rinunciare all’intransigenza. Come vedremo, anche le istituzioni europee
si sono intestate la battaglia per un futuro digitale sostenibile, facendo da apripista
per un movimento globale di governo delle tecnologie.
Il progresso, tanto quello tecnologico quanto quello sociale, ha bisogno di essere
indirizzato e la direzione si definisce a partire dagli obiettivi che ci si prepone.
Per questo, il lavoro del futuro ha disperato bisogno di istituzioni politiche e sociali
che aggreghino il consenso intorno a visioni non scontate26. Al posto di un avvenire senza conducente, come le vetture che si guidano da sé,
è importante sforzarsi di disegnare e attuare un modello che veda l’umano al comando,
con i decisori umani “al volante” delle trasformazioni tecniche e sociali, come ha
invocato il Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE)27. Riflettendo su intelligenza artificiale e nuovi sistemi di decisione automatizzata,
il CESE ha definito l’approccio che pone la persona – ma potremmo dire i cittadini
e i lavoratori – al centro delle scelte come una precondizione affinché la trasformazione
digitale sia sostenibile, accessibile, sicura e vantaggiosa. Vanno bene le tecnologie,
ma siano gli umani a guidarne l’adozione e la regolamentazione. «Le macchine rimangano
macchine e le persone conservino il controllo su di esse», si legge in un’opinione
del CESE che auspica un coinvolgimento ampio nello sviluppo di sistemi avanzati, «al
fine di garantire che il genere umano abbia autonomia, dominio sulla tecnologia, appagamento
e soddisfazione».
Per realizzare tutto ciò, governi, ricercatori ed esperti non possono partire dal
presupposto che un quadro normativo volto a mitigare gli effetti funesti degli shock
del mercato del lavoro non esista o sia impossibile da applicare: la regolamentazione
dei licenziamenti collettivi determinati dalle riorganizzazioni aziendali, le norme
sulla protezione dei dati personali, i criteri per l’accesso alle tutele sociali sono
un dato acquisito in tutta l’Unione Europea28. Su questo modello, è urgente definire interventi legislativi che rinforzino diritti
incomprimibili, bilancino i valori, stabiliscano standard minimi e impongano processi
trasparenti e condivisi. Come insegna l’aneddoto dello scambio tra Ford e il rappresentante
dei lavoratori richiamato nell’epigrafe di questo capitolo, è fondamentale tenere
in equilibrio interessi compositi e contrapposti. Contrattare la transizione e governare
il cambiamento sono le uniche ricette in grado di assicurarci un futuro all’altezza
delle attese più ambiziose.
Possiamo lasciare che a definirci siano le nostre paure o che, viceversa, a farlo
siano le nostre aspirazioni. Qualunque volto abbia, il cambiamento non può accadere
accidentalmente; è importante che sia frutto di scelte consapevoli che rispondano
a un interrogativo secco: non quanto, ma quale lavoro vogliamo.
2.
Le trasformazioni del lavoro
«Non possiamo “disinventare” le nuove tecnologie, ma possiamo decidere come introdurle
e chi ne beneficia»
Andrew Worth, autista di bus
Congresso del Trade Union Congress britannico, settembre 2018
1. Le conseguenze per il “lavoro che resta”
È vero: riconoscere come ingiustificata l’ansia da fine del lavoro è un vezzo molto
alla moda, ma comunque comprensibile. Rischia di servire a poco, però. A meno che
non si svolga un esercizio alternativo: esaminare gli effetti dei processi di automazione
e digitalizzazione sui “lavori che restano”, quelli cioè che non sono spazzativia dalla portentosa quarta rivoluzione industriale, ma che pure – in forme varie e difficilmente
riconducibili a sintesi – sono spiazzati dalla trasformazione. In pratica, la quasi totalità delle occupazioni oggi esistenti.
Chi lavora da più di vent’anni ha sperimentato sulla propria pelle la detonazione
generata dall’innesco di internet e digitale in azienda, gli esordienti hanno senz’altro
metabolizzato più in fretta l’innesto tecnologico – spesso contribuendo direttamente
alla diffusione o all’adozione di nuovi modelli a trazione informatica – e sono già
pronti (o rassegnati) a scommettere su una carriera “irrequieta”, assistita da strumenti
iperconnessi. In ogni caso, le storie umane e lavorative di “migranti” e “nativi”
digitali si intrecciano ogni giorno sul posto di lavoro. L’allungamento progressivo
della vita lavorativa, infatti, fa sì che più generazioni convivano nello stesso ufficio
o nella stessa fabbrica, dai nuovi assunti fino a coloro che vedono avvicinarsi il
pensionamento. Pur nella diversità di attitudini in fatto di strutture verticistiche,
condivisione di informazioni e predisposizione all’utilizzo di sistemi tecnologici,
tutti sono chiamati a confrontarsi direttamente con l’innovazione e con modi alternativi
di rendere la prestazione lavorativa, in una società che – come direbbero i sociologi
– si è via via trasformata da industriale a industriosa, da operaia a operosa.
D’altra parte, gli studiosi ritengono che solo alcune mansioni (quelle più monotone,
meccaniche e prevedibili) potranno essere completamente robotizzate. Bisogna però
tenere a mente che alla base della scelta imprenditoriale di automatizzare vi è un
calcolo in cui entrano in gioco tre elementi principali: fattibilità tecnica, sostenibilità
economica e convenienza delle alternative. Su questa equazione imperfetta molto è
stato scritto. Val la pena ribadire che ogni previsione sulla “automabilità” di un
lavoro deve fare i conti con alcuni fattori spesso trascurati dagli analisti e dai
decisori pubblici.
Primo fra tutti, il contenuto oggettivo delle prestazioni, inteso come concentrato
di qualità, professionalità, complessità. In questa valutazione entrano in gioco anche
le condizioni fattuali, normative e contrattuali che definiscono le sembianze delle
prestazioni stesse, contribuendo a determinarne il valore. Che vuol dire? Significa
che, prima di procedere alla sostituzione di un dipendente con una macchina (più o
meno) intelligente, o – più plausibilmente – prima di riorganizzare un processo mettendo
al centro un agente meccanico o digitale, un imprenditore valuterà lo stato dell’arte
della tecnica e, dunque, l’effettiva prestanza del candidato robot, prenderà poi in
considerazione il costo e il ritorno di un siffatto investimento in macchinari e software,
ma soprattutto si premurerà di esplorare le opzioni nel caso in cui tale operazione
risulti particolarmente onerosa. Ne consegue che, per analizzare in profondità i processi
tipici della seconda età delle macchine, è fondamentale concentrare lo sguardo sull’interazione
tra atomi e bit, da un lato, e condizioni del rapporto di lavoro, dall’altro.
Lo scorso anno, il «New York Times»ha ospitato una serie di novelle distopiche in forma di editoriali «scritti dal futuro».
In uno di questi esercizi di fantascienza e futurologia, Brian Merchant ha provato
a descrivere un centro di stoccaggio Amazon «totalmente robotizzato» e «a operai zero»1. Siamo nel 2034, e il resoconto chiarisce fin da subito che lo stabilimento appena
inaugurato da Bezos è tutto fuorché automatizzato, nonostante l’abbondanza di bracci
meccanici incaricati dell’impacchettamento e di muletti automatici responsabili dello
smistamento merci. Già al momento del varo, dopo il brindisi, è toccato a un inserviente
di una cooperativa esterna ripulire i resti dei festeggiamenti (e i cocci di una bottiglia
di spumante andata in frantumi). La voce narrante è proprio quella di uno dei responsabili
della manutenzione, rigorosamente ingaggiato come lavoratore autonomo, assieme a un
contingente di ingegneri deputati al controllo dei software, addetti alle pulizie
e operai di riserva chiamati ad intervenire ogni volta che un robot si imbambola.
Istruzioni e reprimende viaggiano via cavo, i locali sono interamente sorvegliati
da remoto; l’ambiente – concepito nell’auspicio mai realizzato di non aver bisogno
di forza lavoro umana – è piuttosto inospitale e insicuro: niente impianto di areazione,
poca luce e troppi incroci pericolosi. Le collisioni sono all’ordine del giorno. Per
questi lavoratori invisibili è pressoché impossibile sindacalizzarsi, essendo tutti
legati contrattualmente a entità diverse. Mettere in atto delle contestazioni è anche
difficile da un punto di vista pratico, considerati gli scarsi momenti di interazione,
l’elevato ricambio di dipendentie l’assenza di un sentimento di classe. In fin dei conti, l’elemento più distopico
del dispaccio è proprio la sua attinenza col presente, e lo stesso autore ha usato
l’espediente per illustrare più liberamente una condizione che accomuna già oggi molti
centri di raccolta e spedizione del gigante americano.
Ironia della sorte: un ufficio stampa troppo zelante si è premurato di precisare che
il progetto non era stato ancora realizzato, fraintendendo il senso della trovata
e al contempo certificandone la verosimiglianza. A gennaio 2018, infatti, a Seattle
ha aperto Amazon Go, il primo supermercato senza cassieri dove è possibile fare la
spesa “senza contatti”, grazie a un sistema diffuso di sensori, telecamere e lettori
di codici a barre, e uscire senza passare dalle casse, neppure da quelle automatiche
– ricevendo una semplice notifica dello scontrino per gli acquisti effettuati. Ovviamente,
a dispetto dei comunicati inneggianti al negozio interamente automatizzato, gli scaffali
vengono regolarmente riforniti da lavoratori in carne e ossa, che sovrintendono anche
alla preparazione dei prodotti freschi o da forno. Se non altro, l’esperimento è indicativo
di come molti operatori commerciali stiano testando ipotesi organizzative in modo
del tutto frammentario ed episodico, lasciando che siano i lavoratori a correggere
i fallimenti di queste innovazioni disfunzionali – come hanno scritto le antropologhe
Alexandra Mateescu e Madeleine Clare Elish in un report di Data & Society2.
La trovata di Merchant illustra come la chimera della piena automazione si nutra di
una svalutazione graduale. In modo circolare, per capire davvero il lavoro che verrà,
è cruciale considerare anche i fattori che contribuiscono a definire la natura di
una data occupazione, concentrandosi su come e quanto il digitale sia in grado di
enfatizzare o svilire il contributo individuale. Anche in questo caso, la tecnologia
ha un ruolo tutt’altro che neutrale poiché può determinare un logoramento lento, profondo
e pressoché invisibile a danno dei salari3. Può succedere che, proprio agendo come forza che immiserisce il contenuto delle
attività umane (accrescendo le potenzialità invasive dei sistemi di sorveglianza,
parcellizzando le mansioni per favorirne l’esternalizzazione, adottando selvaggiamente
processi decisionali automatizzati), lo sviluppo digitale finisca per accelerare il
processo di sostituzione robotica di ruoli e mansioni e, alla lunga, segni l’estinzione
definitiva di un particolare tipo di lavoro: quello di qualità. Il guaio, tra l’altro,
è che la trasformazione assunta a piccole dosi sembra avere effetti paralizzanti sulle
risposte dei governi e delle parti sociali nei confronti di ultimi, penultimi e vulnerabili.
Precarizzazione, ribasso e automazione rischiano così di diventare le tappe forzate
di un viaggio lento al termine del lavoro dignitoso. Contemporaneamente, l’impoverimento
contrattuale, il caos normativo e la debolezza dei meccanismi di controllo stanno
spianando la strada alla non convenienza del lavoro sicuro, dignitos
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