Nota editoriale sull’onomastica e sulle date

Per le traslitterazioni dei termini e dei nomi di persona e di luogo neogreci ci si è attenuti in generale all’edizione originale del libro, in particolare non indicando gli accenti.

Per i toponimi che hanno una traduzione attestata in italiano, la si è in generale seguita, evitando però i casi verosimilmente percepiti dal lettore di oggi come arcaici o in disuso, per i quali si è usata la più corrente versione originale neogreca. Si è anche cercato di limitare al massimo l’uso di varianti per indicare uno stesso luogo. Morea è un noto sinonimo di Peloponneso; alcuni lettori potrebbero non avere familiarità con il termine Rumelia, che indica la terraferma a nord del golfo di Corinto ed era comunque usato sia dai greci, sia dai turchi. A proposito dei quali, mentre l’autore usa il termine “greci” riferendosi ai cristiani ortodossi grecofoni, tende ad evitare, per ragioni spiegate nell’Introduzione, il termine “turchi” a meno che non sia citato in una fonte originale o non si possa per qualche specifica ragione fare altrimenti.

I nomi dei personaggi storici greci dell’epoca di riferimento sono dati quasi sempre in neogreco, con qualche eccezione relativa a quelli più noti e più presenti nei repertori italiani, per i quali si è utilizzata la versione italianizzata (Capodistria, Maurocordato, Ypsilanti).

I cristiani ortodossi dell’Impero ottomano usavano ancora, negli anni Venti dell’Ottocento, il calendario giuliano, e la Grecia avrebbe adottato il calendario gregoriano, già generalmente in uso nel resto d’Europa, solo nel 1923, qualche tempo dopo l’Impero ottomano (1917) e la Russia (1918). Nel periodo considerato, il calendario giuliano si trovava dodici giorni indietro rispetto al gregoriano. Nel libro si fa riferimento al calendario giuliano per eventi avvenuti in Grecia, nell’Impero ottomano e in Russia; al gregoriano per quelli che ebbero luogo nell’Europa occidentale e centrale.

Introduzione.
In merito a eroi, greci e turchi

Che cosa voleva il popolo greco nel 1821? [...] Lo chiarirò in poche parole. Voleva istituire il regno dei greci. Perché? Per dare una risposta mi sono rivolto alla Chiesa. Sfoglio le Sacre Scritture e cosa scopro? Dio creò l’uomo a Sua immagine e somiglianza. E lo rese dominatore della Terra, degli animali, delle piante e così via [...]. Il potere è autorevole, lo Stato è virtuoso quando si fonda sui sacri attributi della Sua immagine. [Quando così non è] lo scettro si deteriora nelle mani del sovrano [...]. Il popolo di Grecia voleva restaurare il regno di quell’immagine in quei giorni eroici, quando piangevamo di gioia.

Georgios Tertsetis, 1855¹.

Sulla terrazza dell’hotel Hermes di Ermopoli, il muro del porto protegge i clienti dal meltemi, il vento del Nord che manda le onde a frangersi sulla spiaggia di ciottoli in basso e scoraggia dall’avventurarsi in mare a meno che non si sia nuotatori provetti. Alte dimore in pietra si allineano sulla baia; la collina che si vede al di là è dominata dalla cupola azzurra della chiesa di San Nicola. L’isola di Siro, nelle Cicladi, appena un centinaio di miglia a sud-est di Atene, è un trafficato scalo marittimo per l’imbarco verso Mykonos, Nasso, Santorini e altre destinazioni turistiche, e nel porto i traghetti vanno e vengono dalla mattina alla sera. Ma verso mezzogiorno i negozi che prospettano sul porto chiudono, la banchina si svuota e le taverne dispongono i loro tavoli all’ombra dei vicoletti laterali.

Potremmo immaginare che questa bella cittadina esistesse da secoli. Prima della guerra d’indipendenza greca, però, su questa linea costiera c’era ben poco a parte sabbia e paludi: fin dall’età romana questi bracci di mare erano troppo pericolosi e la pirateria troppo minacciosa per consentire insediamenti sulla costa. Sulla baia c’erano pochi edifici sparsi: una chiesetta, qualche negozio, un piccolo caffè sui cui tavolacci i viaggiatori passavano a volte la notte in attesa della loro nave. La cittadina principale si trovava distaccata dal porto, a un paio di chilometri, in posizione arretrata, abbarbicata ai fianchi di una collina scoscesa con le sue stradine medievali sormontate da una cattedrale cattolica. Nota come Siro alta (Ano Syros), rimane un esempio in buona parte inalterato di insediamento medievale, che merita davvero una visita ma richiede una camminata faticosa su una salita ripida nel caldo estivo e resta impedita alla vista dalla cittadina moderna spuntata ai suoi piedi.

Il porto di Ermopoli nacque da un evento bellico catastrofico, che vide nel 1822 degli irregolari ottomani schiacciare una rivolta greca sull’isola di Chio, appena un centinaio di miglia a nord-est, massacrandone gli abitanti con scene che fecero inorridire l’Europa. Tra le migliaia di sopravvissuti che fuggirono, alcuni giunsero a Siro: portando le loro competenze mercantili in quella che fino ad allora era stata un’isola a vocazione agricola, fondarono la cittadina moderna dandole il nome di Ermes, dio del commercio e della prosperità. «Siro cresce come i funghi», scriveva una giovane americana filellenica che la visitò nel 1826 a bordo del battello a vapore Karteria, il cui arrivo attirò le folle sulla banchina. «Conta trentamila abitanti, mentre tre anni fa non c’erano che cinque o sei negozi lungo la riva». Alla metà dell’Ottocento non meno di un terzo di tutti i traffici del Regno di Grecia si concentrava qui e la popolazione stanziata intorno al porto superava di gran lunga quella della città vecchia sulla collina².

La Karteria, una fregata a vapore – non solo la prima nave a vapore a visitare le isole, ma anche la prima in assoluto ad essere impiegata in guerra nel mondo –, era stata un prodigioso risultato dell’avvento del capitalismo e dell’industria che aveva fatto seguito all’indipendenza. I grandi cantieri navali che si allineavano sul lato meridionale del porto segnalavano l’emergere di Ermopoli come scalo tecnico chiave nel Mediterraneo orientale. I cavi posati dalla Compagnia telegrafica sottomarina del Levante collegavano la cittadina ad Atene, Chio e Costantinopoli. Un’elegante piazza centrale porticata, con palme e un piccolo teatro dell’opera in stile italiano testimoniava l’adesione alla moderna cultura borghese. Tali profondi cambiamenti interessarono non solo Siro, ma l’intera Grecia: il paese oggi visitato dai turisti è perlopiù un risultato della rivoluzione del 1821. Nel Peloponneso gli insediamenti devastati furono ricostruiti con viali rettilinei e ville neoclassiche. In un luogo isolato e sperduto ridotto in rovine dagli eventi bellici – Atene – sorse una nuova capitale, con ampi boulevards, hotel, un parlamento, un’università e un palazzo reale. In tutto il regno, uno stile di vita più antico, d’impronta prevalentemente rurale, soccombette al fascino di una società dominata da banche, giornali, orologi e diritti di proprietà privata. E mentre la distanza tra il nuovo porto ortodosso di Siro e la vecchia cittadina cattolica sulla collina si riduceva gradualmente, anche le numerose e caratterizzate culture locali e regionali cedevano il passo a un più vasto senso di appartenenza nazionale. Questa trasformazione di una società, di un ordinamento politico e di un’economia fu il prodotto di una rivolta contadina che divenne una rivoluzione e dette vita a una nazione. Ciò per cui i greci combatterono e vinsero fu un prodromo della futura Europa in cui i nuovi Stati sarebbero stati ritagliati dagli imperi prenazionali per emergere come nazioni sovrane in un ordine capitalistico globale. Spinta dal desiderio di libertà, la lotta dei greci divenne inevitabilmente una ricerca del significato dell’indipendenza statale nel mondo moderno.

La rivolta del 1821 arrivò verso la fine di un cinquantennio di rivoluzioni. Quest’epoca di trasformazione globale era iniziata con gli Stati Uniti, che erano riusciti a scuotersi di dosso il giogo del potere coloniale, ed era proseguita con il rovesciamento della loro monarchia da parte dei francesi e con l’insurrezione per la libertà di Haiti³. Quando i greci si sollevarono, le colonie spagnole in Sudamerica stavano lottando per l’indipendenza e gran parte dell’Europa meridionale era in agitazione. I movimenti indipendentisti americani potevano fruire del vantaggio di avere i loro oppressori dall’altra parte dell’oceano, ma i rivoluzionari europei non erano così fortunati, e i moti che ebbero luogo in Spagna, Sicilia, Napoli e Piemonte furono facilmente stroncati. Solo i greci continuarono a combattere e, smentendo ogni previsione, ebbero successo.

I risultati ottenuti con la loro azione furono qualcosa di unico, perché non si limitarono allo sradicamento del potere dello Stato ottomano sulle loro terre: l’intera filosofia che aveva dominato fu spazzata via assieme alle istituzioni che l’avevano supportata. Non la legittimità delle dinastie, ma la nazione, la fede, il capitalismo e la rappresentanza costituzionale furono le parole chiave di questo nuovo ordine. Il principio fondamentale, scrisse Lord Acton nel suo saggio del 1862 sulla Nazionalità, era che «le nazioni non sarebbero state governate da stranieri»: fu questo principio che contraddistinse la guerra greca rispetto alle altre rivoluzioni dell’Europa meridionale e che contribuisce a spiegare perché ebbe vasto sostegno e diffusione e anche perché fu particolarmente brutale e violenta. Appartenenti ad altri popoli oppressi – italiani, polacchi, tedeschi e non solo – accorsero ad unirsi alla lotta, perché vedevano nella vittoria dei greci una promessa per il proprio futuro. E benché quel futuro si sia poi rivelato più lontano di quanto la maggior parte di loro pensasse, erano nel giusto. La rivoluzione greca, scrisse un economista nel 1910, fu «la prima manifestazione di quella teoria delle nazionalità che avrebbe dominato il diciannovesimo secolo». E anche il ventesimo: i principati, le monarchie composite e gli imperi territoriali d’Europa – alcuni dei quali erano durati quasi quanto gli ottomani – avrebbero ceduto il passo a nuovi Stati basati sui medesimi princìpi di omogeneità etnica e di governo democratico che erano emersi in Grecia. Era il mondo degli Stati nazionali, lo stesso in cui ci troviamo a vivere, sopravvissuto anche alla globalizzazione del tardo Novecento⁴.

Ma questo è solo un aspetto della vicenda, perché assieme allo Stato nazionale arrivò un nuovo modo di pensare le relazioni internazionali, destinato a ridefinire l’Europa e non solo l’Europa. Il teorico della politica ed editore britannico Leonard Woolf, che scriveva nel 1916, individuava nelle «conferenze che regolarono la questione dell’indipendenza greca [...] il perno di un nuovo sistema internazionale, seppur ancora ai primordi». Per Woolf, e per molti altri, queste lontane conferenze diplomatiche fornivano un modello per la gestione dell’assetto pacifico del mondo; e anche la diffusione del principio di autodeterminazione nazionale alla fine della prima guerra mondiale andò di concerto con la fondazione della Società delle Nazioni, precorritrice delle Nazioni Unite e del panorama di organizzazioni internazionali entro cui viviamo oggi. Si tratta quindi non solo del trionfo del nazionalismo, ma anche di quello dell’idea stessa di una società di Stati organizzata internazionalmente, le cui origini si possono ritrovare qui, congiunte, nella vicenda storica del 1821⁵.

La guerra a Siro fu caratterizzata da manovre diplomatiche e furbizia affaristica, non dall’eroismo da campo di battaglia. Quando la flotta ottomana si ormeggiò al largo, i notabili la raggiunsero a remi per presentare all’ammiraglio imperiale – il kapudan pasha – i doni di prammatica. Pagavano le tasse dovute e per qualche anno riuscirono a mantenere una neutralità del tutto peculiare. La fonte principale della prosperità dell’isola era un vivace mercato nell’area portuale, con compravendita di quanto proveniva da saccheggi e da bottini pirateschi, compresi prigionieri e schiavi assieme a campane da chiesa, vestiti, metalli preziosi, armi e altri oggetti di valore. Quando gli insorti fecero la loro comparsa, fu nella forma di una flottiglia privata di uomini armati che mescolavano gli slogan politici all’aperta rapina, e dai quali gli isolani si difendevano con tutti i mezzi a loro disposizione⁶.

Che stridente contrasto con l’immagine convenzionale della guerra d’indipendenza greca vista come epopea dell’unità nazionale, che ha per protagonisti combattenti quali Odysseus Androutsos e Georgios Karaïskakis, il “Vecchio” Kolokotronis e Nikitaras “il Mangiaturchi”! Guerrieri la cui virilità e il cui coraggio sono attestati da mustacchi e sguardo fiero, ci fissano tuttora dai muri di kafeneia e aule scolastiche, con il loro yatagan o il fucile levati in alto, a guidare la lotta contro i barbari portatori di turbante. Soggetti di litografie popolari fin da quando Peter von Hess, pittore bavarese con una predilezione per le scene convenzionali, li romanticizzò per il primo re di Grecia, Ottone, molti degli eroi del 1821 furono in realtà odiati, denigrati, cacciati, traditi; talvolta, addirittura, si uccisero a vicenda. Col tempo, tuttavia, divennero emblemi di virtù morale, fonti d’ispirazione e modelli di abnegazione patriottica per le generazioni a venire. Il più celebre in assoluto, Theodoros Kolokotronis, compì il salto che lo fece passare da brigante ad eroe nazionale grazie non solo alle sue gesta in guerra, ma anche agli scritti di una piccola cerchia di veterani i quali diedero alla sua immagine un lustro tale che in un sondaggio nazionale effettuato nel 2008 per scegliere il greco più importante di tutti i tempi si piazzò al terzo posto, preceduto solo da Alessandro Magno e da Georgios Papanikolaou, oncologo ed eroe di un altro tipo di guerra⁷.

Gli eroi provocano alcuni inconvenienti. Popolano quadri statici che intendono illustrare valori immortali; non esistono in un paesaggio storico il cui significato muta nel tempo e a seconda del punto di vista. Inoltre il dramma eroico è focalizzato su un gruppo e su una serie di virtù prettamente marziali a discapito di altri personaggi ed elementi di fatto non meno significativi. I politici coinvolti nel conflitto greco non possono vantare altrettanti ammiratori, anche se non ebbero un’influenza minore su quanto accaduto e non furono più censurabili dal punto di vista morale, interessati, vili o mercenari dei maggiori capi militari. Gli uomini con le spade, pronti a tagliar corto con la complessità morale in modo analogo a quando mozzavano teste, hanno messo in ombra i proprietari terrieri e i mercanti che li foraggiavano, per non parlare dei contadini che fornivano loro olive, uva, pecore e capre. Ovviamente hanno messo in ombra anche le donne, a parte le poche che compaiono nei racconti popolari come “uomini onorari”⁸.

Eppure gli eroi hanno una loro utilità, e nella lotta dei greci, combattuta contro un antagonista assai più potente, l’eroismo è stato al centro del pensiero rivoluzionario. Gli eroi erano necessari nel 1821 perché, nonostante gli evidenti oneri che gravavano su tutti i cristiani in un ordinamento fondato sulla volontà del sultano e sul primato insindacabile dell’islam, molti di coloro che sopportavano tali umiliazioni non erano favorevoli alla rivolta. Alcuni greci erano «propensi a fuggire dalle disgrazie che li opprimevano»: nei decenni precedenti avevano colonizzato Minorca e la Corsica, la Florida britannica e l’Alaska russa⁹. Altri, che erano rimasti, avevano raggiunto un’innegabile condizione di prosperità. Le grandi dinastie di proprietari terrieri, i cui maggiori rappresentanti dominavano zone del Peloponneso, si mostravano esitanti a intraprendere una lotta che difficilmente li avrebbe portati a un miglioramento della propria condizione. Le agevolazioni fiscali e i privilegi imperiali rappresentavano anche per gli armatori un invito a ponderare bene. Il capo greco più importante del Pindo occidentale si schierò tardi per la rivoluzione e presto fece ritorno all’ovile ottomano. Nella primavera del 1821 gli insorti aspettarono impazienti per settimane che le popolazioni di Missolungi e dell’isola di Idra si unissero a loro, castigarono gli abitanti di Chio per la loro mancanza di zelo rivoluzionario e, a un certo punto, qualcuno di loro si spacciò per un generale russo nel tentativo di suscitare entusiasmi¹⁰.

Tra coloro sui quali la prospettiva rivoluzionaria esercitava invece un richiamo c’erano i capitani di marina rovinati dalla flessione dei commerci dopo le guerre napoleoniche; i briganti costretti a lasciare le loro case per una precaria condizione di esilio; e i giovani brillanti che all’estero studiavano le idee repubblicane all’università. Ognuno di questi gruppi aveva la sua importanza in quella società cospirativa che rese popolare l’idea di prendere le armi alla vigilia del 1821. Una volta messa in piedi la macchina, la questione era, a quanto dicevano testualmente i suoi attivisti, come avviarla. Questo è il motivo per cui facevano appello agli eroi. Richiedevano uomini che cercassero di emulare gli antichi, che avrebbero dato ascolto alla chiamata della patria senza pensare ai rischi da correre, poiché questo, come avrebbe in seguito osservato uno dei capi della rivoluzione, sarebbe stato fin dall’inizio esiziale per la causa. «Meglio un’ora di libertà che quarant’anni di schiavitù», come diceva all’epoca uno dei più celebri canti rivoluzionari: questa era la loro considerazione. I personaggi emblematici della guerra furono così uomini le cui più grandi imprese consistettero in atti caratterizzati da un ardimento quasi dissennato.

Questa dissennatezza è misurabile. L’Impero ottomano contava nel 1820 probabilmente 24 milioni di abitanti e, mentre è verosimile che ci fossero circa tre milioni di greci sparsi per l’impero, il numero di quelli che vivevano nelle province direttamente coinvolte nella lotta al massimo si aggirava presumibilmente intorno al milione. In termini di disponibilità finanziarie, organizzazione e risorse lo squilibrio era ancora maggiore. Il sultano dell’Impero ottomano aveva a disposizione uno degli apparati burocratici più grandi del mondo, che governava un territorio esteso dall’Ucraina al Sudan, dalla frontiera con la Persia a Tunisi. La sua marina e i suoi eserciti erano assai più numerosi, meglio organizzati e più facilmente reintegrabili rispetto alle ridotte milizie greche. Queste ultime potevano mettere insieme con difficoltà dai 15.000 ai 20.000 uomini, pochi dei quali si sarebbero allontanati molto da casa; il sultano ne poteva raccogliere una quantità quattro, cinque o sei volte superiore. Poteva annientare impunemente intere comunità, come aveva fatto in passato, con conseguenze devastanti. Per questo molti greci ben informati ritenevano l’eventualità di combattere più che insensata e, sempre per questo, coloro che incitavano alla rivoluzione assicuravano a chiunque li ascoltasse che la sollevazione aveva l’appoggio dello zar di Russia. In realtà non era vero, ma l’invenzione dava forza a quella che sarebbe sembrata altrimenti una causa persa.

Ma mentre lo zar esitava, gran parte dell’Europa era rimasta ammaliata. Vedeva antichi eroi risorti a nuova vita in discendenti che stavano emulando le loro imprese e dimostrando le loro stesse virtù. I greci si resero conto di questa ossessione europea per il passato e la sfruttarono. Ai capiclan armati delle montagne del Peloponneso era richiesto di competere con Temistocle e con Leonida. Gli stessi capiclan, più o meno analfabeti, rivolgevano, attraverso i loro colti e giovani segretari, magniloquenti appelli ai popoli d’Europa perché aiutassero i nuovi “spartani” a scuotersi di dosso i ceppi della servitù. Si parlava di continuo di eroi, nell’ambito di quel particolare richiamo esercitato dalla causa greca sulle persone colte al di qua e al di là dell’Atlantico. C’era però in questo anche qualcosa di lievemente surreale. Una sera del 1825 un giovane volontario inglese che combatteva in montagna iniziò a declamare Omero, alla maniera inglese, ai compagni di lotta. Dopo qualche riga si fermò. I capi erano disorientati: «Che lingua è?», chiese placidamente uno di loro¹¹.

«La mia famiglia era originaria dell’Epiro; mio padre si stabilì a Chio». Questo incipit, che tracciava le coordinate di un mondo greco con cui il pubblico inglese non aveva familiarità, appartiene a uno dei maggiori successi letterari del 1819, il romanzo, pubblicato anonimo, intitolato Anastasius: or Memoirs of a Greek Written at the Close of the Eighteenth Century. Il suo narratore è un antieroe, un giovane avventuriero amorale che mette incinta una ragazza e poi fugge dall’isola natia iniziando un’odissea picaresca nel mondo del Levante ottomano, cambiando identità e fede ad ogni nuovo viaggio. Anastasius è un greco a cui la prospettiva dell’eroismo è preclusa proprio perché è degradato dall’asservimento, una degenerazione morale da cui lotta per sfuggire. Quando venne chiesto a Byron se fosse stato lui l’autore del racconto, rispose che avrebbe dato in cambio due dei suoi poemi per poterlo aver scritto. Si scoprì presto che era opera dell’importante banchiere anglo-olandese Thomas Hope, un ricco esteta che aveva vissuto per qualche anno in terra ottomana.

Ma Byron non era l’unico ad essere invidioso: anche Shelley, Delacroix e il principe Metternich divorarono il romanzo di Hope. Ciò che lo rendeva così singolare era il ritratto dei greci nell’ambiente ottomano in cui si trovavano a vivere. La verità è che, anche più di quanto accada oggi, gli europei dell’epoca, quando si trattava dei greci, vivevano nel passato e i viaggiatori portavano con sé non una guida moderna (non ce n’erano), ma una falsa guida antica, un bizzarro diario di viaggio settecentesco che descriveva le presunte peregrinazioni di un giovane scita nel quarto secolo a.C. Il Voyage du jeune Anacharsis en Grèce, al contrario di Anastasius, non dice alcunché dei vari dragomanni, giannizzeri, imam e pascià che ogni viaggiatore reale avrebbe probabilmente in qualche modo incontrato. Anche le carte geografiche di inizio Ottocento, persino le più precise, si collocavano analogamente nel passato, servendosi dei toponimi di età classica e perlopiù tirando a indovinare sul profilo dell’interno montuoso che si trovava al di là delle linee di costa, rese al contrario perfettamente. Come notava il Citoyen Grec autore del pionieristico Résumé géographique de la Grèce et de la Turquie d’Europe del 1826, «Di tutte le parti d’Europa, la Grecia è quella la cui geografia è meno conosciuta»¹².

Nel corso dei secoli, il commercio e la Chiesa avevano esteso l’uso della lingua greca e la portata dell’ortodossia ben al di là delle terre familiari ai lettori dei classici antichi. Il Citoyen Grec afferma che la Grecia «dev’essere considerata, come la Spagna e l’Italia, una grande penisola» e continua delineando una regione straordinariamente vasta che si estende dalla Bosnia, dalle terre danubiane e dal Mar Nero a nord fino a Capo Matapan a sud: di fatto, il territorio che le generazioni successive definiranno i Balcani. Al contempo, un lettore attento è in grado di identificare anche una “piccola Grecia” nascosta nel suo libro, che occupa un’area molto più ridotta intorno alle città-Stato dell’antichità classica. Fu all’estremo confine settentrionale della vasta “Grecia” balcanica, vicino alla Russia, che l’insurrezione iniziò a divampare nel febbraio 1821, anche se s’impegnò a dare «libertà al suolo classico della Grecia», e dopo che gli scontri si esaurirono a nord proseguì nelle regioni che si trovavano più di 1500 chilometri a sud, destinate a divenire infine il cuore del nuovo Stato indipendente¹³.

Se ne può dedurre che l’estensione geografica della Grecia fosse sorprendentemente indeterminata perfino nelle menti degli stessi greci, che in effetti quando iniziarono a sollevarsi non pensavano a richieste territoriali molto ben definite. Vivevano in un’epoca essenzialmente prenazionale, improntata all’esempio dell’impero, più sensibile a un messaggio di redenzione e di liberazione che attenta a terre e confini. I popoli della penisola comprendevano non solo i greci, ma anche serbi e albanesi, bosniaci e romeni, con una varietà di ortodossi, cattolici, musulmani ed ebrei. Chiamare quest’enorme area Grecia equivaleva a rendere omaggio al passato ma soprattutto a rivendicare e ad immaginare in qualche modo un futuro in cui gli ottomani musulmani sarebbero stati sostituiti da un nuovo dominio cristiano. Tutti questi eterogenei popoli sarebbero mai potuti essere parte della Grecia? Alcuni illuministi radicali pensavano di sì, inserendo nel novero persino i musulmani. Nel 1797 l’intellettuale greco rivoluzionario Rhigas Velestinlis aveva rivolto un appello a tutti gli abitanti dell’impero – «bulgari e albanesi, armeni e Romioi, neri e bianchi» – perché combattessero per la libertà nel segno della croce. Definiva come popoli «di discendenza greca» gli abitanti di «Rumelia, Asia Minore, isole mediterranee, Valacco-Moldavia» e tutti quelli che soffrivano sotto «l’intollerabile tirannide» del dispotismo ottomano: «tutti, dico, cristiani e turchi, senza distinzione di religione (perché tutti siamo stati fatti a immagine di Dio)».

Quando però, nel 1821, lo scontro divampò, i magnifici orizzonti ecumenici del repubblicanesimo illuminista svanirono e la fede divenne uno spartiacque decisivo. Anzi, una delle ragioni per cui la guerra d’indipendenza greca toccò livelli di violenza che non avevano caratterizzato le altre rivolte in Europa meridionale fu che assunse fin dall’inizio il carattere di un conflitto religioso. I greci colti che studiavano all’estero e sognavano l’Illuminismo potevano riferirsi alla loro lotta usando la terminologia propria di una “rivoluzione”, ma questo era un lessico d’élite che rifletteva l’influsso del repubblicanesimo laico e si era sovrapposto a una tradizione popolare oracolare e profetica che era più antica e più profondamente radicata: fu questo filone dell’ortodossia a parlare in modo più diretto alla gente comune analfabeta dei villaggi che insorse e combatté.

Per decenni, se non per secoli, sotto il dominio ottomano i cristiani si erano considerati in attesa. I vescovi dicevano loro che sottostavano al potere di un sultano musulmano per volontà divina, e che questo era un castigo per i loro peccati. La pazienza era una virtù; la sottomissione agli ottomani era imposta da Dio. Tuttavia, in un momento indeterminato di un futuro incerto, l’attesa avrebbe avuto termine e il loro anelito alla libertà avrebbe trovato una risposta. Ciò che desideravano era la liberazione di Costantinopoli, e con essa il trionfo di Cristo e dei suoi veri credenti. I profeti annunciavano la caduta finale del sultano, figura che incarnava i concetti gemellati della tirannia e dell’Anticristo. Testi oracolari che ebbero vasta circolazione predicevano l’intervento dello zar di Russia, o dei monarchi cristiani d’Europa alleati.

Questo grande movimento immaginato veniva definito romeïko e rimaneva sull’orizzonte delle aspettative da tempi immemorabili. Nelle parole di un canto popolare, «Che venga il romeïko a far cessare la tirannia». A un certo punto, nei decenni che precedettero il 1821, l’idea del romeïko attraversò un passaggio cruciale: da evento determinato esclusivamente da un intervento esterno divenne qualcosa che poteva ragionevolmente implicare anche la partecipazione dei comuni cristiani. All’inizio della sollevazione, quindi, essa fu largamente identificata con questo momento tanto atteso di azione politica. Un’espressione colloquiale diffusa tra i contadini insorti per definire quanto stava accadendo nella primavera del 1821 era che stavano «facendo il romeïko». Questo implicava il loro convincimento che le potenze straniere si sarebbero decise ad intervenire e che fossero dalla loro parte. «La Francia [cioè l’Europa] sostiene il romeïko», proclamava un volantino due giorni dopo l’inizio della rivolta. Agli anziani delle comunità furono spedite lettere garantendo loro che «i re hanno deciso di fare il romeïko»¹⁴.

Il romeïko era portatore del trionfo di Cristo e del sogno della resurrezione della Bisanzio imperiale mediante il rovesciamento del sultano a Costantinopoli; non aveva assolutamente nulla a che fare con l’antica Grecia che tanto incantava l’Europa. A Parigi il grande savant greco dell’Illuminismo, Adamantios Korais, si era speso molto per diffondere tra le classi colte i termini “elleno” e “greco” e per disavvezzare i greci dalla Chiesa riportandoli ai valori degli antichi. Per la parola “elleno” (ellinas), che è il modo in cui in genere oggi i greci si riferiscono a sé stessi, va detto che in origine definiva esclusivamente gli antichi greci. Il modo di gran lunga prevalente con cui gli abitanti dei villaggi greci si autodenominavano prima del 1821 era romioi, letteralmente “romani”, di fatto semplicemente cristiani ortodossi. Agli occhi di alcuni ortodossi, gli elleni non erano antenati appropriati per i credenti moderni perché erano stati pagani, ma per gli intellettuali europei e greci erano invece gli antenati che più contavano. Grazie soprattutto ai giovani rivoluzionari colti che elaboravano le centinaia di decreti, proclami e disposizioni emesse dal governo provvisorio di guerra, “elleno” trionfò. Così come la parola perse il suo originario riferimento esclusivo al remoto passato pagano per giungere a riferirsi ai discendenti, i greci moderni, anche la sollevazione cessò di essere vista come la realizzazione del romeïko assumendo l’aspetto della resurrezione della nazione antica. Fu la guerra stessa a diffondere questa nuova visione di una comunità politica basata più sulla genealogia che su una fedeltà condivisa al patriarca dell’impero. «Voi greci avete in testa qualcosa d’importante», si diceva che avesse detto il potentissimo pascià di Giannina ai cristiani che erano al suo servizio. «Non battezzate più i nostri figli con i nomi di Ioannis, Petros e Kostas, ma li chiamate Leonida, Temistocle e Aristide! Credo che stiate architettando qualcosa». Così quello che era partito come romeïko finì per diventare una lotta per l’indipendenza politica degli elleni¹⁵.

L’uso del termine “greco” negli anni immediatamente successivi al 1820 poteva comportare delle complicazioni, ma il termine “turco” era ancor più problematico. Comune nelle parlate europee e anche in greco, era impiegato di rado dai musulmani all’interno dell’Impero ottomano. Una narrazione della rivolta in Morea scritta all’epoca da un ufficiale ottomano presente sul luogo, Yusuf el-Moravi, non menziona il termine neanche una volta. “Turco” può definire un contadino dell’Anatolia, ma di certo non l’ex schiavo georgiano che fu il primo comandante delle forze imperiali in Morea, Khurshid Pascià, né l’uomo da lui sconfitto, l’albanese Ali, pascià di Giannina. I cosiddetti “turchi” che combattevano per gli eserciti ottomani annoveravano egiziani, bosniaci e molti che non erano affatto musulmani: pescatori cosacchi zaporoghi del Danubio, guerrieri cattolici delle montagne albanesi, cristiani arruolati in Epiro. Tra di loro c’erano anche dei greci¹⁶. Trovarsi realmente di fronte uomini che arrivavano dall’Asia Minore era per alcuni greci un evento sorprendente e degno di nota. L’assedio di Patrasso, scrisse un combattente, fu la prima occasione in cui incontrarono «i turchi orientali». Cristiani e musulmani del Peloponneso e della Rumelia condividevano alcuni termini per definire questi forestieri – chaldoupides, doudoumides e kaklamanous – che erano inequivocabilmente dispregiativi e li contraddistinguevano come stranieri¹⁷.

Forse la cosa più importante di cui rendersi conto a proposito della guerra del 1821 è che, in realtà, non si trattò affatto di una lotta che vedesse semplicemente contrapposti greci e turchi: se c’era una cosa assolutamente chiara all’epoca era il ruolo eccezionalmente importante, spesso decisivo, svolto nel conflitto dagli albanesi, sia cristiani, sia musulmani. «Gli albanesi mi piacciono molto», aveva scritto Byron nell’inverno del 1809 in occasione di una visita al loro governatore provinciale di maggior rilievo, Ali Pascià. «Alcune tribù sono cristiane, ma l’appartenenza religiosa non causa grandi differenze nel loro modo di condursi; sono ritenuti le truppe migliori al servizio dei turchi». Byron aveva identificato le due caratteristiche principali degli albanesi in questa vicenda: la relativa irrilevanza della fede religiosa professata nel determinare le loro alleanze e la reputazione di combattenti. La loro lingua era parlata in una fascia territoriale montana che andava dal Montenegro fino al Peloponneso da cattolici, cristiani ortodossi e musulmani, e forniva a molti cosiddetti “greci” e “turchi” la possibilità di comunicare tra loro, nonché un senso di solidarietà rinsaldato dalla comune esperienza dei decenni vissuti sotto Ali Pascià. Dopo l’uccisione di Ali nel 1822, alcuni albanesi scelsero di servire il sultano e altri andarono con i greci. Gli eserciti ottomani nei Balcani si fondavano sui reparti albanesi, sia cristiani, sia musulmani, e la Porta (il governo centrale dell’Impero ottomano) era costantemente in ansia riguardo alla loro affidabilità. «Sono persone tali che per cinque o sei gurush sono in grado di ammazzare le proprie madri e i padri», affermava un ufficiale ottomano. «È impensabile attendersi da loro spirito di servizio e fedeltà»¹⁸. Dalla parte dei greci c’erano le bande dei sulioti cristiano-albanesi, temprati combattenti montanari che si raccoglievano attorno ai loro capiclan e che s’integrarono gradualmente nello sforzo bellico nazionale. C’erano anche i marinai di lingua albanese di Idra e Spetses, che fornirono non solo il nerbo della flotta greca, ma anche membri di spicco del governo greco – compreso, durante la guerra, un presidente –, i quali talvolta si servivano tra loro dell’albanese per impedire ad altri appartenenti allo stesso schieramento di leggere la loro corrispondenza¹⁹.

In questo mondo prenazionale, le barriere linguistiche erano basse e nessuno, a parte una sparuta pattuglia di intellettuali, si preoccupava della purezza della lingua. Popolo marinaro, i greci parlavano un idioma ricco di parole provenienti da arabo, spagnolo, albanese, turco e lingue slave. Sul mare l’influenza più forte era quella dell’italiano: veleggiavano su una gallotta, un saccoleva o sui più grandi briki o polacca, sui quali potevano portare un passangieris o due assieme al karikon; oppure potevano darsi al kourso (alla pirateria), o allestire un temibile burloto (nave incendiaria). A terra si affidavano a parole turche come ordi (accampamento), loufes (soldo dei militari), tophanas (arsenale), toufeki (fucile) o tambouri (trincea), che riflettevano la tradizione militare ottomana, con occasionale presenza di termini di derivazione italiana come resalto (assalto), incontro (nel senso di “occasione”) o le munitziones necessarie per una ekspeditzion, ricordo del lungo predominio veneziano sulla regione. Sulle colline del Peloponneso nel 1821 ci si trovava di fronte a uno stupefacente assortimento di titoli portati dagli alti ranghi militari dello schieramento greco: izpravnik (dal russo-romeno), beïzade (turco-persiano), milord (inglese) e prince (francese)²⁰.

Tutto lo spettro della società ortodossa all’interno del mondo ottomano fu trascinato nella guerra: famiglie principesche di Costantinopoli, fortemente invischiate nella politica della corte imperiale; notabili delle province, vescovi bellicosi e preti rivoluzionari; giovani raffinati che sognavano Rousseau e capiclan rozzi e semianalfabeti come Theodoros Kolokotronis, il carismatico brigante agevolato da una casareccia abilità nei campi delle parole, delle armi e del politicantismo nell’ascesa verso la carica di comandante delle forze armate greche nel Peloponneso. È degno di nota il fatto che nessuno rivestisse una posizione dominante da un punto di vista sociologico o individuale. E in effetti, dopo l’inizio della rivoluzione, i contemporanei rimanevano colpiti dalla sua incapacità di produrre una personalità unificatrice, un Washington o un Napoleone. I personaggi più importanti transitavano sul palco per un attimo e sparivano, mentre altri emergevano all’improvviso dall’oscurità. L’uomo che guidò la sollevazione iniziale, Alessandro Ypsilanti, non mise mai piede nelle terre poi divenute, infine, la Grecia indipendente; il primo re della nazione, il principe Ottone di Baviera, aveva sei anni quando il conflitto cominciò e giunse nel suo nuovo regno all’età di diciassette, a guerra finita. Kolokotronis e Karaïskakis, i due combattenti più familiari ai greci di oggi, svolsero entrambi ruoli importanti, ma il primo, dopo i suoi più notevoli successi contro i turchi, fomentò la guerra civile, mentre il secondo, prima di fare guerra ai turchi, aveva di fatto lavorato con loro. Nessuno dei due poteva essere paragonato a Washington, che guidò gli eserciti della sua parte per tutto il corso della lotta per l’indipendenza e poi divenne capo di Stato²¹.

Gli scenari in cui la lotta si sviluppò non erano meno vari del cast dei suoi attori. Atene divenne la nuova capitale nazionale nel 1834, ma questa cittadina ottomana priva di grande importanza non fu testimone di avvenimenti di rilievo fino a guerra molto inoltrata. Il Peloponneso rimase al centro dell’azione per gran parte del periodo e rappresentò il cuore dell’insurrezione, ma conflitti decisivi ebbero luogo anche nei principati danubiani, sui monti dell’Epiro, nella Grecia centrale e nell’Egeo. Le densamente popolate Isole Ionie rimasero sempre sotto un semicoloniale dominio inglese e rappresentarono una fonte vitale di merci, uomini, informazioni riservate e denaro; l’Egitto era sia sede di una comunità greca in rapida crescita, sia un alleato chiave per gli ottomani. Quindi questa non fu tanto una guerra singola, quanto una serie di interconnesse lotte regionali in cui topografia, tradizioni e strutture del potere locali condizionavano pesantemente gli eventi, destinate a convergere solo gradualmente. Questo libro è strutturato di conseguenza, partendo dalle montagne e dalle isole per poi abbracciare la prospettiva vista da Vienna e Odessa, Marsiglia, Costantinopoli, Londra, Alessandria, San Pietroburgo e Parigi: quella variegata Europa postnapoleonica che negli svolgimenti della vicenda giunse a contare quanto ciò che stava accadendo nel cuore dell’Impero ottomano, se non talvolta molto di più.

Nel 1828 era evidente che i greci avevano strappato al sultano una qualche forma d’indipendenza. Ma su quale fosse la natura di tale trionfo e su quando fosse stato ottenuto si sarebbe discusso per decenni. L’asservimento al sultano e all’islam terminò; ciò che il sultano aveva ritenuto un’assurdità – uno Stato greco – era sorto; l’insurrezione conquistò per i greci nuovi diritti politici e nuove libertà di culto. È però certamente indicativo il fatto che mentre non c’è una vera discussione su quando la rivolta ebbe inizio, gli storici non concordano su quando ebbe termine: per alcuni la storia finisce quando il conte Giovanni Capodistria instaurò la propria presidenza nel 1828 e si assicurò il riconoscimento da parte dell’Europa; altri optano per l’instaurazione della monarchia bavarese e l’arrivo del primo re, Ottone, nel 1833. Il combattente e storico George Finlay riteneva che l’insurrezione avesse avuto termine con la rivoluzione del 1843, che impose alla monarchia una delle Costituzioni più democratiche d’Europa. Questa discordanza è indice di qualcosa di significativo: per la Grecia il compimento dell’indipendenza non fu istantaneo e si realizzò nel corso di anni, se non decenni. La libertà dal dominio ottomano era una cosa; garantirsi la sovranità nazionale era tutt’altra cosa, e per raggiungere l’obiettivo ci volle molto più tempo. Anzi, sotto alcuni aspetti la lotta continua a tutt’oggi.

Ho iniziato a lavorare a questo libro una decina di anni fa, nel mezzo di una crisi del debito globale che vide l’economia della Grecia posta sotto sorveglianza internazionale. Pareva all’epoca che il prezzo per la permanenza della Grecia nell’Eurozona potesse veramente consistere nella perdita della sua indipendenza. L’Europa stava vivendo la fine dello Stato nazionale sovrano? Che cos’era veramente l’indipendenza, e che cosa aveva significato per una nazione come la Grecia? Tali domande mi spinsero a tornare all’epoca in cui sia la Grecia, sia l’Europa iniziarono ad abbracciare lo Stato nazionale. Nel 1821 il desiderio di libertà era secolare, ma l’aspirazione ad esercitare la libertà attraverso un governo nazionale che detenesse il potere in nome del suo popolo era nuova. Volevo capire come fosse emersa quest’aspirazione, e in particolare come fin dai primissimi passi l’emancipazione nazionale venne a legarsi con il capitalismo in termini di prestiti dall’estero, indebitamento internazionale e speculazione finanziaria.

La Grecia del ventunesimo secolo era già impoverita dall’austerità quando dovette fronteggiare un’altra sfida: la crisi dei rifugiati. Nel 2013 fu concesso asilo a 3485 di essi; il numero salì a più di 46.000 nel 2016 e a più di 80.000 tre anni dopo. Essendo passati attraverso la katastrofi del 1922 – quando centinaia di migliaia di persone furono costrette a fuggire dall’Asia Minore –, così come dagli ingenti sfollamenti interni della guerra civile alla fine degli anni Quaranta, i greci sapevano bene, come gli altri europei, che cosa significhi dover abbandonare la propria casa e rifarsi una vita altrove. Un secolo prima della katastrofi, proprio la Grecia era emersa da un conflitto che solo nel Peloponneso aveva sradicato forse un quarto dell’intera popolazione. I tragici postumi dell’assedio di Missolungi, quando migliaia di donne e bambini greci furono venduti come schiavi, stimolarono fortemente le simpatie dell’Europa. Questi sommovimenti, al pari delle vittorie riportate, accompagnarono la fine del dominio ottomano, ma – allontanando fisicamente le persone dalle loro modalità di vita più antiche e sedimentate – crearono una comunità politica di nuovo tipo, incentrata sulle risorse e le politiche di uno Stato nazionale centralizzato.

Il ruolo e le responsabilità dello storico in generale nel raccontare questa storia emersero con chiarezza quando il primo ministro Kyriakos Mitsotakis nominò un comitato per sovrintendere all’imminente bicentenario della rivoluzione e organizzarne la commemorazione. Un portavoce del governo parlò dell’uso delle celebrazioni per contribuire a recuperare l’orgoglio nazionale, incoraggiando i greci a ricollegarsi con la propria identità di nazione²². Non appena lessi dell’iniziativa sui giornali, confesso di essermi ricordato di come un secolo prima, nel 1921, un Comitato centrale per il centenario della rivoluzione greca si fosse riunito elaborando idee svariate prima di venire azzerato dal disastro dell’Asia Minore e di cadere in un totale oblio²³. Cosa più preoccupante, i conservatori francesi in particolare avevano ribattuto per anni sul bisogno di una nuova narrazione nazionale atta a recuperare l’orgoglio nei confronti della nazione e del suo passato, e nel caso francese ciò si era trasformato in una sorta di giustificazione di destra per l’esclusione e l’espulsione. Perlopiù gli storici si considerano membri di una categoria professionale impegnata a dissipare i miti nazionalisti, non a puntellarli. Così quando venni invitato a far parte del comitato, la mia prima reazione fu esitante. Poi però ci ripensai: era irragionevole – date le divisioni apertesi in Grecia come risultato degli anni di austerità – provare a immaginare che cosa avrebbe potuto unire le persone in un approccio conoscitivo al passato che fosse inclusivo e non esclusivo? Non era una prospettiva migliore rispetto all’accettare passivamente quel genere di polarizzazione politica che aveva dilaniato la Grecia nel passato?

Se dunque questo invito mi indusse a riconsiderare la mia posizione sul tema, ciò che davvero volevo dire a tale proposito emerse chiaramente solo durante la pandemia da coronavirus. Da Manhattan, uno degli epicentri della catastrofe, dove vivevo, seguivo la reazione della Grecia nei primi mesi, in stridente contrasto con quella degli Stati Uniti. Difficilmente i due governi avrebbero potuto scegliere approcci così diversi. Ma le vere differenze andavano cercate più nel profondo. Nulla più di un’emergenza sanitaria riesce a mettere in luce la fiducia di un popolo nel proprio Stato. La pandemia rivelò che gli Stati Uniti sono una nazione fortemente divisa il cui atteggiamento verso il governo è in profonda crisi. In Grecia, invece, si è riusciti a far rispettare uno dei lockdown più capillari d’Europa perché la gente aveva fiducia nello Stato ed era propensa a seguirne le direttive. La società greca ha rivelato capacità di resistenza superiori a quelle della società americana; ha dimostrato una notevole resilienza, cosa che del resto si può dire anche pensando alle immense sfide affrontate in tutto il corso del precedente decennio.

E come in effetti era stato anche due secoli prima. Ho iniziato a capire che la rivoluzione del 1821 ebbe successo perché, al di là dei momenti epici e spesso celebrati che avevano messo in primo piano l’ardimento individuale e il sacrificio di sé stessi, si trattò fondamentalmente di una storia di resistenza sociale di fronte a un radicale cambiamento sistemico. A dare ai greci l’indipendenza non furono tanto le loro vittorie, quanto il rifiuto di accettare la sconfitta. Questo perché ciò che chiamiamo una guerra fu in realtà un’insurrezione in cui l’unica cosa possibile per la parte più debole era tenere duro e aspettare. Il promesso sostegno da parte russa non si materializzò mai, eppure la lotta proseguì anno dopo anno. La forza della gente dei villaggi e delle isole – che doveva fronteggiare non solo le incursioni degli eserciti turchi ed egiziani, ma anche le razzie e i saccheggi dei propri connazionali in armi – fu l’elemento decisivo. Quindi, andare oltre gli eroi è importante non per suggerire che fossero colossi dai piedi d’argilla, ma per dare un quadro più completo delle forze messe in moto dalla rivolta e che la spinsero avanti. Makrigiannis, che nella guerra era stato uno dei comandanti, esprime meglio il concetto alla fine delle sue memorie:

Sapete quando un uomo dovrebbe dire “io”? Quando ha combattuto da solo, e da solo ha creato o distrutto, allora potrebbe dire “io”. Ma quando molta gente ha combattuto e creato, allora è giusto che dicano “noi”²⁴.

Parte prima.
Nel gran mattino del mondo

Nel gran mattino del mondo

lo spirito di Dio dispiegò possente

di Libertà il vessillo sopra il Caos

e le sue bande d’autarchi si dispersero [...].

Percy Bysshe Shelley, Hellas. Un dramma lirico (1821), versi 46-9 [trad. Rognoni-Mandolini Pesaresi].

1.
Dalla Russia

Secondo me la Rivoluzione francese e Napoleone hanno aperto gli occhi al mondo. Prima le nazioni non riconoscevano sé stesse, la gente pensava che i re fossero dèi in terra e diceva che qualsiasi cosa facessero andava bene. Per questo motivo oggi è più difficile governare un popolo.

Theodoros Kolokotronis, Apomnimonevmata, in O Kolokotronis, vol. I, Athina 1901, p. 49.

3 4ο3α3α η9ωγηα3α23 (I krisis apefasisthi, La decisione è stata presa!)

Anthimos Gazis, 22 febbraio 1821²⁵.

Tutto ebbe inizio con la sconfitta di Napoleone. Nel 1814, dopo più di un ventennio di guerra in tutta l’Europa, l’imperatore fu mandato in esilio all’Elba, mentre i vincitori festeggiavano e mettevano a punto l’organizzazione del congresso di pace da tenersi a Vienna, che avrebbe deciso il destino del continente. Lo zar Alessandro I, sovrano della Russia e al comando del più grande esercito d’Europa, si trovava nel castello della suocera a Bruchsal, sulla via della capitale austriaca, quando, alla fine di una giornata piena di presentazioni ufficiali e pasti pesanti, si godeva un tranquillo tête-à-tête con una delle damigelle d’onore della moglie. «Dacché mi trattate con tale cortesia, Maestà, vi sono debitrice della mia professione di fede», gli disse Roxandra Stourdza. «Nel profondo della mia anima io sono repubblicana; detesto le corti e non ho mai attribuito la minima importanza a quelle distinzioni di rango e di nascita che mi fanno rabbrividire e mi tediano a morte. Ma per favore non tradite qui il mio segreto, o potrei pagarla cara». «No, certo», rispose lo zar con un sorriso. «Non temete. E per ricambiare la vostra franchezza con la mia... La penso proprio come voi»²⁶.

Gli uomini che stava per incontrare a Vienna sarebbero rimasti sconvolti al pensiero che lo zar di Russia potesse avere segrete convinzioni repubblicane. L’austriaco principe di Metternich, nume tutelare del congresso, vedeva la minaccia della sovversione ovunque e identificava nella monarchia la principale difesa contro di essa. Castlereagh, ministro degli Esteri britannico, portò il legittimismo a tali estremi da rifiutarsi di firmare il trattato che poneva fine alla guerra sulla base del fatto che Napoleone era un usurpatore. Questi due uomini erano concordi nella determinazione a imporre un ordine conservatore a un continente sconvolto dalla Rivoluzione francese. Nessuno dei due aveva molto tempo per parlare dei diritti dei popoli o delle nazioni. Nel difendere la cancellazione della plurisecolare Repubblica di Genova dalla carta d’Europa, che andava contro l’evidente volere dei suoi abitanti, Castlereagh dichiarò che «i pregiudizi di un popolo» possono essere presi in considerazione solo se «non s’imbattono in cose di maggiore importanza»²⁷.

In verità lo zar non era neppure repubblicano. A Vienna lui e gli altri monarchi ricollocarono gli scacciati Borboni sui loro troni, posero i belgi cattolici sotto il re olandese, abolirono l’antica Repubblica di Venezia e spensero le speranze di resurrezione della Polonia come Stato indipendente. Allo stesso tempo desiderava un assetto tale da garantire i «sacri diritti dell’umanità» e, a differenza di Metternich, cercava di essere amato piuttosto che temuto. Si diceva che la nonna, Caterina la Grande, avesse osservato: «Quel ragazzo è un groviglio di contraddizioni». Giunto al trono nel pieno delle guerre napoleoniche, Alessandro sostenne che per sconfiggere la Francia fosse necessario un fine morale più elevato. Si schierò per un assetto costituzionale nelle Isole Ionie e in Sardegna, riconobbe la Costituzione spagnola nel 1812 e fu favorevole a imporne una ai Borboni in Francia. Il suo animo sensibile si entusiasmava all’idea di essere destinato ad apportare pace all’Europa; dava ascolto a importanti mistici tedeschi i quali gli dicevano che era una sorta di Messia, e che la sconfitta ad opera sua dell’Anticristo Bonaparte avrebbe portato il continente, sotto guida russa, a una rinascita spirituale. Questa convinzione si cristallizzò nel suo straordinario disegno di unione dei monarchi cristiani in una Santa Alleanza²⁸.

A Vienna lo zar avvertiva la necessità di un’anima affine, di qualcuno che capisse la sua combinazione di religiosità e razionalismo illuminato, un uomo pronto ad aiutarlo, secondo la sua visione, a combattere per il costituzionalismo e a tener testa a Metternich e ai suoi istinti più reazionari. Era rimasto impressionato da un giovane e brillante diplomatico d’origine greca che faceva parte del suo entourage, e quindi gli ordinò di prendere parte ai negoziati: fu così che il trentottenne Giovanni Capodistria salì alla ribalta del congresso e fu fortemente coinvolto nel compito di dar forma al futuro dell’Europa dopo Napoleone (anni dopo sarebbe diventato il primo presidente della Grecia indipendente). «Nel mondo si stanno contrapponendo due schieramenti», disse Metternich, «quello dei Capodistria e quello dei Metternich»²⁹. I due erano concordi sul fatto che la coalizione di Stati vincitrice della guerra avrebbe dovuto garantire la pace nel futuro. Le loro opinioni, però, divergevano sulla natura di quella pace e sui princìpi che avrebbe dovuto contribuire a mantenere: Metternich credeva che le forze radicali scatenate dai francesi in tutta Europa andassero contrastate e represse con vigore; Capodistria pensava che andassero capite. «Questa guerra non è stata combattuta dai sovrani ma dalle nazioni», disse a un interlocutore poco dopo il suo arrivo a Vienna. «Una volta rovesciato Napoleone, ci si è dimenticati dell’interesse delle nazioni concentrandosi unicamente sull’interesse dei prìncipi»³⁰.

Uno dei motivi della sensibilità di Capodistria alla forza del nazionalismo fu che proveniva dalle Isole Ionie, dove una popolazione che in gran parte parlava il greco era stata dominata per secoli dai veneziani prima di godere di un breve periodo di autonomia sotto un’occupazione congiunta russo-ottomana. Fondata nel 1800, nel corso delle guerre napoleoniche, la cosiddetta Repubblica Settinsulare fu in effetti il primo Stato greco indipendente di epoca moderna, soggetto solo nominalmente al sultano ottomano. Il padre di Capodistria, membro dell’aristocrazia corfiotta, aveva contribuito all’elaborazione della sua Costituzione prima che il figlio si assumesse l’incarico di farla funzionare, un compito che lo mise in contatto con un insieme di patrioti greci che annoverava vescovi, studiosi, mercanti e combattenti armati che avevano lasciato la terraferma ottomana per trovare scampo sulle isole. Dopo la cancellazione della Repubblica Settinsulare ad opera dei francesi, Capodistria lasciò l’isola natale di Corfù ed entrò al servizio dei russi, ma mantenne i contatti con questi uomini e condivise i loro sogni di libertà. Quando lo zar lo convocò a Vienna nel 1814, Capodistria si pose esplicitamente la questione di una possibile problematicità dei suoi legami con i greci. «Rispetto i sentimenti che provate per la vostra patria e per la Grecia», lo rassicurò Alessandro. «Ed è proprio perché so cosa provate che desidero avervi accanto. Non ci potrebbe essere cosa più opportuna né più utile per i greci della vostra presenza accanto a me quale loro fautore»³¹.

L’antagonismo russo-ottomano andava intensificandosi da più di mezzo secolo. Persino durante la comune lotta contro i francesi i due imperi erano entrati in guerra, riconciliandosi solo alla vigilia dell’invasione napoleonica della Russia, nel 1812. L’ultima cosa che le altre potenze avrebbero voluto dopo la sconfitta di Napoleone erano nuove discordie, e così Metternich e Castlereagh cercarono di indurre il sultano Mahmud II a raggiungerli al congresso a Vienna, affinché i contrasti con la Russia potessero essere risolti pacificamente. Tuttavia il sultano rifiutò di andare, rimanendo in seguito, per un decennio e più, categoricamente contrario a qualsiasi intervento europeo, quantunque animato da buone intenzioni, nei propri affari interni. Tale rifiuto significava che le grandi potenze non potevano includere le terre ottomane nel sistema di garanzie territoriali che stavano progettando per l’assetto politico europeo; in subordine a ciò, la cosa più auspicabile dal punto di vista austriaco e inglese era allora non consentire a Vienna alcuna discussione ufficiale concernente l’Impero ottomano³².

Metternich fece del suo meglio per tenere l’argomento al di fuori del dibattito. La sua polizia bloccava gli emissari dei popoli soggetti dei Balcani ottomani non consentendo loro di raggiungere Vienna. Tentò anche di sequestrare un opuscolo di un professore tedesco che faceva appello agli eserciti europei perché scacciassero i turchi dal continente. Ma gli austriaci non poterono impedire che si parlasse molto di solidarietà cristiana con i serbi, i greci e altri. Notizie di “carneficine” nella Serbia ottomana raggiungevano la capitale. Come per i greci, i loro sostenitori erano presenti a Vienna in forze, e vedevano nel congresso un’occasione per portare la loro situazione all’attenzione dell’Europa. Ci furono discussioni nei salotti, memorandum e discorsi pubblici. Gli arcivescovi in esilio invocavano l’aiuto russo. Richard Church, un ufficiale inglese che aveva istruito combattenti greci nelle Isole Ionie, parlò a chiunque gli prestasse ascolto di quegli «uomini liberi» pronti a «difendere la loro libertà contro i turchi». I russi della delegazione imperiale erano solidali. Il loro impero si era espanso verso sud, a spese degli ottomani, per decenni, ed erano lieti di servirsi della solidarietà ortodossa come di un motivo per continuare a farlo: il loro esercito aveva ricacciato Napoleone, ed era improbabile che quello del sultano riuscisse a fermarlo. La polizia segreta austriaca riferiva che i russi parlavano come se fossero i «padroni dell’universo»: «Eccitano ancora i greci inducendoli a sperare nella resurrezione [...]. I greci si abbandonano a queste idee [...]. Alcune figure di spicco parlano della liberazione dell’Epiro, della Morea e di una patria greca la cui rinascita verrà assicurata dalla Russia»³³.

La verità vera era che, qualsiasi fossero i sogni dei greci su ciò che lo zar avrebbe fatto per aiutarli, la loro liberazione occupava una posizione assai bassa nella sua lista di priorità. A Vienna quella fondamentale di Alessandro consisteva nel tenere insieme la coalizione bellica che aveva sconfitto Napoleone. Gli era chiaro che nessuno dei suoi partner condivideva la disponibilità russa ad appoggiare la causa dei correligionari ortodossi nelle terre ottomane, e quindi fondamentalmente riteneva che il congresso di pace non fosse la sede adatta per aiutare i greci. Quando Capodistria lo pregò di valutare l’idea di riportare le Isole Ionie sotto protezione russa, lo zar rifiutò: le truppe britanniche le avevano occupate e non aveva alcuna intenzione di inimicarsi degli alleati. L’unico sostegno che era disposto a fornire era su una scala molto più ridotta. Alessandro patrocinò una nuova società erudita – gli Amici delle Muse – istituita da Capodistria per il progresso culturale dei greci; lo zar, inoltre, andava alla messa domenicale a Vienna in una chiesa greca ortodossa frequentata dai cristiani provenienti dalle terre ottomane. Tuttavia, quando ricevette degli applausi per la sua presenza, Alessandro si irritò perché quello che era stato pensato come un gesto privato di appoggio era stato frainteso.

A Vienna la diplomazia e la visibilità sociale erano interconnesse come mai prima di allora. «Sicuramente in nessun momento della storia del mondo una tale mole di affari seri e complicati è stata trattata nel corso di così tante feste», ricordava uno dei presenti. «Un regno veniva fatto a pezzettini o ampliato in un ballo; si accordava un indennizzo durante una cena; in una partita di caccia si progettava una Costituzione». Fu in questa temperie mondana che Capodistria e lo zar costituirono la loro società culturale greca. Ma per i greci che cosa mai potevano contare sfarzo e raffinatezza, pettegolezzi e chiacchiere se Metternich fu sentito dire seccamente che non riconosceva alcuna nazione greca, ma solo dei sudditi ottomani? Lo zar non era disposto a mettere a rischio la coalizione contrapponendoglisi, perché in lui la paura della rivoluzione prevaleva sul senso di solidarietà cristiana. I greci dell’Impero ottomano si resero conto che non potevano guardare ai leader europei sperando di essere liberati da loro, e fu a questo punto che, a centinaia di chilometri dalla capitale asburgica, un gruppo di loro decise di prendere in mano la situazione³⁴.

«La Galleria Athena è un moderno centro commerciale nel cuore di Odessa», informa un sito web ucraino indirizzato ai visitatori del porto sul Mar Nero. «Su sette piani ci sono più di 200 negozi, servizi e ristoranti. Il centro commerciale è situato nel cuore della città, vicino a via Deribasovskaja, con comodo accesso al centro, parcheggio sotterraneo e ottimo polo di scambio multimodale a ogni ora del giorno e della notte». Il nome dello shopping center, la sua ben conservata facciata neoclassica (oggi oscurata da una copertura in vetro su più livelli) e il suo indirizzo, su Hrets’ka (piazza Greca), indicano che si tratta del luogo dove originariamente fu costruito il mercato greco all’inizio dell’Ottocento, quando l’allora cittadina muoveva i suoi primi passi, prodotto della spinta russa verso sud, verso il Mar Nero. Ben lungi dagli splendori della Vienna imperiale, e appena un decimo della sua estensione, Odessa, che nel 1820 non aveva ancora trent’anni, era un centro basato sull’andirivieni delle mercanzie. Il mercato greco si trovava nel centro dei commerci, fra depositi di importatori dove i carri trasportavano frutta secca, olio d’oliva, noci e tabacco, pesce salato, carrube, incenso e vino andando e venendo dal porto.

In una via alberata a ridosso del centro commerciale si vedono ancora allineate tre modeste case del primo Ottocento. Quella in mezzo ha la struttura che era consueta nella zona: un negozio al piano terra, un ingresso al cortile interno per scaricare le merci, e vani abitativi al piano di sopra con un balcone che dà sulla strada. Fu qui, nella casa al numero 18 di Krasnij Pereulok, allora di proprietà di un agiato mercante greco, che «alcuni greci il cui ceto rimane assai oscuro» si riunirono alla fine del 1814 per fondare una società fraterna. Più umile del suo illustre corrispettivo viennese, la loro Filiki Etaireia (Società degli Amici [da qui in poi generalmente indicata come Eteria, N.d.T.]) era destinata a divenire il catalizzatore della prima rivoluzione nazionale europea che vinse, costringendo alla fine re e diplomatici a cambiare completamente il loro approccio alla gestione della pace europea³⁵.

All’inizio erano solamente in tre: un impiegato in una ditta commerciale, un ex studente e un artigiano, le cui vite avevano avuto fino ad allora un andamento altalenante. Emmanouil Xanthos, originario dell’isola di Patmos, era agente di un mercante e aveva viaggiato nei Balcani divenendo massone; ebbe l’ispirazione di fondare a Odessa un’organizzazione simile alla massoneria allo scopo di riunire i greci per abbattere la tirannide ottomana. Athanasios Tsakalof, figlio di un commerciante di pellicce con sede a Mosca, aveva studiato a Parigi diventando membro di una società culturale greca prima di venire in Russia per ragioni di lavoro. Nikolaos Skoufas era un cappellaio. I tre non erano forse ricchi, ma erano persone di una certa cultura, avevano viaggiato ed erano impegnati politicamente. Quando s’incontrarono alla fine del 1814 erano preoccupati per l’andamento del Congresso di Vienna. Sapevano del professore tedesco che aveva invocato una guerra europea contro gli ottomani e rimasero sdegnati per il fatto che Metternich non solo avesse cercato di sequestrare l’opuscolo, ma avesse anche avuto la sfacciataggine di negare che i greci fossero «rinvenibili nel catalogo delle nazioni». Di fronte alla prospettiva che l’Europa potesse da allora in poi opporsi alla rivoluzione in qualunque forma si presentasse, Xanthos, Tsakalof e Skoufas si accordarono per cercare di «riunire gli uomini scelti e coraggiosi della stirpe affinché possano operare, per loro conto, per raggiungere ciò che per tanti anni hanno vanamente sperato di poter ricevere dalla filantropia dei re cristiani». Mettersi all’opera per la propria liberazione: questa era la decisione fondamentale³⁶.

Il fatto che questi tre uomini si fossero incontrati a Odessa non era certo frutto di una casualità. Grazie al trattato di Küçük Kaynarca del 1774, l’Impero russo aveva acquisito un nuovo ruolo di protettore delle popolazioni ortodosse delle terre ottomane. Inoltre Caterina la Grande, la risoluta nonna dello zar Alessandro I, aveva avuto una vera ossessione per i greci. Aveva chiamato una nuova residenza estiva col nome del luogo natale di Alessandro Magno perché ispirasse il maggiore dei propri nipoti. Sognava il proprio fratello minore assiso sul trono a Costantinopoli; costruì una copia della sua grande chiesa bizantina, Hagia Sofia, sui terreni della sua tenuta a Carskoe Selo, e fornì anche sostegno ai greci che vivevano sotto gli ottomani: era come se greci antichi e greci moderni fossero per lei un’unica cosa. «L’imperatrice discorreva con me l’altro giorno degli antichi greci, della loro alacrità e della superiorità del loro genio, e di come il medesimo carattere sussista ancor oggi nei moderni greci», scriveva l’ambasciatore inglese nel 1779³⁷. Quando la Russia conquistò la Crimea, tutta la regione fu strappata al dominio ottomano. Nell’istituire una nuova, vasta provincia meridionale della Nuova Russia – un’area più vasta della Francia –, il governo favorì l’arrivo di nuovi coloni, fra i quali molte famiglie provenienti dalle isole greche, con donazioni di terre, sussidi ed esenzioni fiscali. Un piccolo villaggio tataro sul Mar Nero divenne il nuovo insediamento di Odessa, la cui popolazione crebbe di dieci volte in un trentennio. Poco prima del 1830 assommava a più di 30.000 abitanti ed era in rapida espansione. Era, come scriveva il giovane Aleksandr Puškin, un luogo in cui «tutto spira Europa». Città di stranieri, avviata a diventare il terzo centro più popoloso dell’impero, Odessa si stava dimostrando un incredibile successo commerciale, e la comunità greca ne era al centro³⁸.

Capodistria aveva raggiunto i gradi più prestigiosi nel servizio imperiale, ma non era certo il solo: il governatore della Bessarabia, ad esempio, era anche lui greco, e così il capo della polizia di San Pietroburgo. «Cristiano ortodosso, greco di nascita, suddito fedele e – penso di poter dire – servitore devoto dell’imperatore»: queste parole riassumevano le loro appartenenze, che si sovrapponevano. Tra i membri di famiglie principesche greche che si erano sottratti al dominio ottomano e avevano trovato rifugio al servizio dello zar vi erano la già citata damigella d’onore della zarina, Roxandra Stourdza, nipote di un ex dragomanno imperiale e ospodaro (governatore) della Moldavia; suo fratello Alessandro, un diplomatico che fu segretario di Capodistria; e un fascinoso giovane aiutante di campo dello zar, il principe Alessandro Ypsilanti, che aveva perso il braccio destro combattendo contro i francesi a Dresda. Quando lo zar pregava nella chiesa greca a Vienna – una chiesa fondata dalla famiglia di Stourdza – erano tutti presenti, Capodistria e Ypsilanti seduti con i greci, i loro nobili volti a mostrare una malinconia che, ricordava Stourdza, «pareva presaga delle sventure e del futuro destino della Grecia»³⁹.

Più in basso nella gerarchia sociale ma non meno ricchi e potenti nella società russa erano i mercanti greci che capeggiavano l’espansione del potere imperiale verso sud; molti di loro erano self-made men dominanti in quel commercio del grano che aveva alimentato la crescita di Odessa. Un eroe greco della guerra combattuta dalla Russia contro gli ottomani nel 1769, il capitano di marina Ioannis Varvakis, fece una fortuna esportando caviale dal Mar Caspio e in seguito la spese finanziando la causa greca: il funerale dello zar Alessandro, nel 1825, si tenne proprio nel monastero costruito da Varvakis a Taganrog, dove il monarca si era prematuramente spento. Greci dalle formazioni più disparate arrivavano in Russia in cerca di ricchezze, e quando poi non le trovavano, trovavano qualcos’altro: una nuova coscienza politica. Un ragazzo originario di un villaggio del Peloponneso fu spedito all’età di quindici anni a Kišinëv, in Bessarabia, dai suoi preoccupati genitori allo scopo di farlo entrare in una ditta commerciale e di tenerlo fuori dai guai. Quando tornò a casa, sette anni dopo, aveva l’aspetto di un europeo: parlava russo, era vestito all’europea e perlustrava le fortificazioni ottomane per conto dell’Eteria. In seguito divenne uno dei principali cronisti dell’insurrezione greca⁴⁰.

La vita in Russia contribuì così a incentivare un senso di lealtà nazionale greca. Come spesso accade agli emigranti che arrivano da società contadine, fu nella loro nuova terra che smisero di parlare soltanto del villaggio o dell’isola natale come della loro “patria” e che ebbero modo di udire quel termine usato invece per descrivere una comunità comprendente tutti coloro che parlavano la stessa lingua e frequentavano la stessa chiesa. L’orgoglio regionale era forte, ma altrettanto forte, e in misura crescente, era qualcosa di più vicino a un moderno senso di appartenenza nazionale. A Odessa c’erano quartieri greci con le loro scuole, chiese, società benefiche e teatri; il primo dramma teatrale greco moderno, La morte di Demostene, fu messo in scena nel 1818, seguito da un balletto, I sulioti a Giannina. Questo recente e vasto sentimento identitario fluiva attraverso una rete commerciale che connetteva i greci della Russia meridionale non solo con i principati danubiani e con l’Egeo ottomano, ma anche con ditte commerciali insediate in tutta l’Europa e l’Asia. Secondo un viaggiatore inglese che scriveva da Odessa nel 1821, «I greci sono assai intelligenti e scaltri; hanno agenti del loro paese in tutti i luoghi in cui commerciano; formano, per così dire, una grande famiglia e riescono a soggiogare i loro vicini»⁴¹.

Fin dall’inizio ci fu uno stretto collegamento fra il mondo del commercio e le attività dell’Eteria. Non solo perché molti fra i suoi membri – di fatto la maggior parte – lavoravano nel commercio, rimanendo spesso anche vittime delle sue aleatorietà. C’era anche il fatto che la vita che conducevano seguendo i propri affari rappresentava un’utile copertura. Quando ad esempio l’Eteria mandava qualcuno all’estero per fare opera di reclutamento in paesi arabi, il suo itinerario da Costantinopoli all’Egitto e a Cipro appariva come un normale viaggio di commercio. Il mondo degli affari forniva anche un linguaggio segreto già pronto all’uso. “Amico”, il termine abitualmente usato tra i sodali dell’Eteria, era un modo comune per riferirsi ai soci d’affari. Uno dei dirigenti scriveva della necessità di prepararsi alla prossima «grande fiera» (panagiri, la sollevazione) e specificava le aree «rifornite con una quantità sufficiente di prodotti da portare al mercato», intendendo in realtà parlare del reclutamento di uomini armati pronti a combattere. Nomi in codice, messaggi in cifra e gergo furono tutti tratti dal mondo del commercio e adattati alle necessità cospirative. Le forze armate (stratevmata) erano “conti” (logariasmoi); la guerra (polemos), “bilancio” (bilantzon); le navi mercantili “cammelli” e quelle grandi “elefanti”. Lo zar era “il Filantropo” (Filanthropos), i membri della famiglia di Napoleone erano “i Beati” (Makaritai), il patriarca era “il Vegliardo” (Palaioteros) e il sultano “l’Apatico” (Apathis). Anche i popoli avevano nomi in codice: i serbi erano “falliti” (Apotychontes), gli italiani “dolci” (Glykeis), i turchi “residenti stranieri” (Metoikoi), gli albanesi musulmani “affini” (Sympetheroi)⁴².

All’interno dell’Eteria, i cui membri si riconoscevano tra loro mediante segni segreti, vigeva una fratellanza gerarchica, interamente maschile (le donne non erano ammesse) ed esclusiva, nel senso che almeno in teoria non era consentito ai membri di affiliarsi ad altre organizzazioni. Nella sua struttura somigliava alla massoneria; nella liturgia era fortemente impregnata dell’atmosfera propria della Chiesa e proprio un prete avrebbe dovuto sovrintendere al giuramento dei nuovi membri. Il grado più basso, quello dei cosiddetti Adelfopoiton (affratellati), era per gli “umili e incolti”; i membri del secondo grado, i Systemenon (associati), non sapevano granché al di fuori del fatto che il fine della società fosse «il miglioramento delle condizioni della patria». Solo gli Iereis (sacerdoti) e i Poimenes (pastori), terzo e quarto grado, potevano fare opera di reclutamento: essi sapevano che «la società è formata da autentici greci che sono amanti della patria ed è denominata Filiki Etaireia. Il suo scopo è il miglioramento delle condizioni della nazione (ethnos) e, se Dio vorrà concederla, la sua libertà». Nulla tuttavia indicava come ciò dovesse ottenersi, né vi era una più precisa articolazione dell’obiettivo politico⁴³. L’appartenenza all’Autorità suprema (Anotati Archi) dell’Eteria era un segreto attentamente custodito. Ai ranghi inferiori veniva fatto capire che era presieduta da personalità di assoluto rilievo, forse dallo zar in persona. In realtà si trattava di un organismo di composizione variabile – in genere otto o nove persone – in cui figuravano i primi e più fidati membri dell’organizzazione. Ma il segreto aveva una sua funzionalità: consentiva il fiorire di ogni sorta di voci su chi sostenesse la società, e forniva al complesso dell’organizzazione una mistica. Come qualcuno ricordava, «c’era chi credeva che la sede [dell’Autorità suprema] fosse in Russia, chi in Francia, Inghilterra, America o altrove»⁴⁴.

La massoneria fu la più importante società segreta dell’Europa tardosettecentesca. Dopo la sconfitta di Napoleone, tuttavia, sorsero molte nuove organizzazioni clandestine e cospirative che si proponevano finalità dichiaratamente costituzionaliste o rivoluzionarie. C’era la Carboneria italiana, il cui nome faceva rabbrividire i lealisti borbonici; e c’erano anche altri svariati, misteriosi e semidimenticati raggruppamenti – i Patrioti europei, la Charbonnerie, i Filadelfi, i Decisi, i Cavalieri guelfi, gli Indipendentisti –, per non parlare di quelli immaginari, come la setta segreta egiziana che si diceva operasse nelle Isole Ionie ordendo misfatti. Per il cancelliere Metternich, e per la sua polizia segreta all’erta per identificare qualsiasi segno dello «spirito tumultuario del secolo», erano tutti parte di una vasta rete tesa a perturbare la «tranquillità dell’Europa» con il «fantastico progetto di nazionale indipendenza». L’Eteria non aveva contatti con nessuno di essi, al contrario di quanto abbiano poi creduto Metternich e altri, ma ne condivideva un atteggiamento e una drammaturgia di tipo rivoluzionario, un’abilità nel lavoro politico clandestino e una capacità di spaventare i potenti. L’Eteria non era sicuramente il più grande di questi raggruppamenti – la Carboneria aveva probabilmente il decuplo dei suoi aderenti – ma fra tutti risultò di gran lunga il più efficace⁴⁵.

Queste società segrete erano a loro volta un aspetto di una caratteristica fondamentale della politicizzazione della cultura europea dopo il 1815, l’ascesa della politica di massa mediante associazioni e società di ogni genere, che in maggioranza svolgevano le loro attività alla luce del sole ed erano pienamente legittime, ma al contempo lavoravano per dar forma a una forza di tipo nuovo, che in definitiva risultò per Metternich e la Santa Alleanza una minaccia molto più seria dei radicali clandestini: l’opinione pubblica. Insieme all’abolizionismo della schiavitù, fu la causa della Grecia a rivelare per la prima volta nella storia moderna il potere innovativo dell’opinione pubblica, che valicava i confini, si esprimeva attraverso la stampa ed era alimentato dalla vita delle associazioni⁴⁶.

Non poche di queste nuove società erano frutto dell’infatuazione europea per i greci, come mostra l’esempio della Società degli Amici delle Muse di Capodistria. I nuovi musei archeologici, società erudite, antiquari, filologi e filosofi politici d’Europa rappresentavano nel loro complesso il vasto impatto dell’ellenismo. Anche nelle terre ottomane le scuole diffondevano la cultura illuminista tra i greci dell’impero, con notevole efficacia. L’erudito Dimitrios Galanos, che partì per Dacca e Bombay e divenne un pioniere dello studio del sanscrito, non acquisì le proprie competenze filologiche in luoghi particolarmente prestigiosi, bensì nelle scuole delle Atene, Missolungi e Patmos ottomane. Anthimos Gazis mosse i primi passi da ragazzo di paese che studiava logica, scienze e filosofia alla scuola della Zagora ottomana. A Vienna, dove seguì il congresso, predicò nella chiesa greca, contribuì all’azione della società culturale greca fondata da Capodistria e dallo zar, scrisse articoli e lavori eruditi prima di far ritorno alla sua terra natale, la Tessaglia, per insegnare. Uomini di questo profilo contribuirono alla ripresa culturale nelle terre ottomane ma fecero anche qualcosa di più: resero popolare l’idea che la Grecia potesse un giorno rinascere come comunità politica⁴⁷.

Tra le società erudite e culturali, ammesse e tollerate, da una parte, e i rivoluzionari dell’Eteria dall’altra, la differenza era più profonda di una semplice contrapposizione tra pubblico e clandestino. Alcuni, figure come Gazis, si mantenevano a cavallo tra le due realtà. Ma per la maggior parte esisteva un’autentica differenza di prospettiva. Le società culturali tendevano a diffondere la cultura dell’Illuminismo e riflettevano il suo secolarismo e il suo straordinario interesse per l’antichità. L’Eteria era immersa nel mondo dell’ortodossia e parlava a quella letteratura profetica ed escatologica che circolava tra i credenti e prediceva l’avvento di una battaglia cosmica contro le forze dell’Anticristo e il trionfo finale della cristianità sull’islam. I due tipi di società, quindi, differivano nettamente quanto all’idea del tempo che sarebbe stato necessario per realizzare un vero cambiamento: gli studiosi e gli intellettuali erano fiduciosi nella trasformazione culturale, ritenendo che ci sarebbero voluti anni e forse decenni prima che i greci fossero pronti per la libertà. Temevano la frettolosità, come anche i costi in termini di sangue versato di quegli «entusiasmi prematuri e irrazionali» che sarebbero stati apportatori del «maggior danno alla patria». I radicali non si preoccupavano; tutto ciò che contava, per usare la metafora allora in voga, era avviare la macchina: «I mezzi di cui oggi disponiamo sono sufficienti. La macchina, in fondo, è messa a punto! Adesso non occorre altro che qualcuno che la avvii, e poi funzionerà da sola». Erano fiduciosi, come scriveva un giornale del 1820, nel fatto che «il nostro è un tempo di miracoli e dobbiamo tenerci preparati ad ogni possibile eventualità»⁴⁸. Lo scontro fra questi due approcci non avrebbe avuto termine neppure con lo scoppio della rivolta⁴⁹.

Non appena i tre greci ebbero costituito il loro gruppo segreto a Odessa, Skoufas e Tsakalof partirono per Mosca, mentre Xanthos s’imbarcò per Costantinopoli, dove trovò un lavoro da impiegato in una ditta commerciale. Prima di dividersi, si scambiarono dei cifrari. Ma non c’era alcun programma né alcun piano organizzativo, e i loro primissimi tentativi di reclutamento suscitarono reazioni sprezzanti: i floridi mercanti che Skoufas avvicinò a Mosca posero in chiaro che non volevano avere nulla a che fare con lui. In effetti, quando Skoufas e Tsakalof tornarono a Odessa e scelsero per la loro organizzazione segreta il nome Filiki Etaireia (Società degli Amici) potevano contare su meno di venti membri, in gran parte commercianti, capitani di marina e marinai che non navigavano in buone acque. Uno di loro si autodescriveva come «un mercante fallito». «La caduta del prezzo del grano mi ha rovinato», scriveva un altro. «Finché il commercio è morto, sono rovinato», affermava un terzo. «Il motivo per cui non sono in mare è che sono debitore di 10.000 grosia e non riesco a trovare lavoro per ripagare il debito». Nel 1817 gli affiliati erano soltanto 42, molti dei quali disoccupati; la rivoluzione non pareva avvicinarsi⁵⁰.

Le cose non avevano fatto grandi passi in avanti quando comparve a Odessa un dandy dalla voce vellutata proveniente da Itaca, che portava l’uniforme della Guardia nazionale ionica. Poco preoccupato della discrezione e vantando origini nobili e parentela con lo stesso Capodistria, Nikolaos Galatis si persuase ad entrare nella cerchia più ristretta dell’Eteria e poi si diresse a nord per incontrare il ministro degli Esteri russo. Capodistria si fece immediatamente un’impressione sfavorevole del giovane avventuriero. Non appena Galatis ebbe iniziato a descrivere l’Eteria e a parlare della speranza che Capodistria la dirigesse, il ministro, furioso, lo interruppe:

Signore, dovete essere fuori di senno se sognate un tale progetto. Nessuno avrebbe avuto l’ardire di mettermi a parte di ciò in questa casa, dove ho l’onore di servire un grande e potente sovrano, se non un giovane come voi, che arriva direttamente dagli scogli di Itaca ed è trascinato da un qualche genere di cieca passione [...]. L’unico consiglio che posso darvi è [...] di tornarvene immediatamente da dove siete venuto, e di dire a coloro che vi hanno mandato che, a meno che non vogliano distruggere sé stessi e insieme la loro innocente e infelice nazione, devono abbandonare l’indirizzo rivoluzionario e continuare a vivere come prima sotto i loro attuali governi finché la Provvidenza non stabilisca altrimenti⁵¹.

Per ordine di Capodistria, la polizia russa estradò Galatis al di là del fiume Prut, nella provincia ottomana della Moldavia, dove il console russo ebbe mandato di tenerlo d’occhio⁵². Nei mesi successivi Galatis fece una vasta e alquanto indiscriminata opera di proselitismo in Moldavia e nella vicina Valacchia, portando molti nuovi membri nell’Eteria con una modalità che si sarebbe rivelata decisiva per la sua futura evoluzione. Allo stesso tempo adottava una condotta che allarmava i fondatori. Un giorno, pavoneggiandosi sul corso principale della capitale moldava, Iai, in uniforme da ufficiale russo, Galatis apostrofò i passeggeri di una carrozza che secondo lui lo aveva urtato passando. Quando questi protestarono, strappò la frusta dalle mani del cocchiere e iniziò a colpirli. Il fatto che le sue vittime appartenessero a illustri famiglie moldave non fece altro che fomentare la sua collera, e disse loro in termini inequivocabili che «avrebbero dovuto sapere che i pedoni erano assai migliori di loro»⁵³. L’aneddoto mette in luce non solo il temperamento irascibile e la vanità di Galatis, ma, cosa più rilevante, la nascente tensione all’interno del mondo gerarchico della cristianità ottomana – con la sua élite di proprietari terrieri, i contadini e le classi medie emergenti – dovuta al profilarsi di un’associazione politica di genere del tutto nuovo, basata su idee radicali di sacrificio di sé stessi, iniziativa individuale ed eguaglianza per la causa della rinascita nazionale.

La circostanza in cui Capodistria parlò allo zar del suo incontro con Galatis fu a quanto pare la prima in cui fu nota ad entrambi l’esistenza dell’Eteria; temevano che avrebbe potuto condurre alla «catastrofe» i cristiani che si trovavano sotto il dominio ottomano. Alla fine, però, conclusero di poter far poco, e Capodistria si limitò a scrivere a importanti personalità greche presenti in terra russa, mettendoli in guardia contro i cospiratori⁵⁴. Intanto Galatis – «linguacciuto, senza pace e avido di denaro» – stava creando confusione. Quando si recò a Costantinopoli per vedere la direzione dell’Eteria, iniziò a fare richieste strambe e minacciò di denunciare alle autorità ottomane la società. Erano uomini che prendevano sul serio il giuramento che avevano pronunciato, e anche la propria sicurezza, e dopo molte riflessioni e molti tentativi di indurlo a cambiare le sue modalità, lo mandarono in missione nel Peloponneso, dove, non sospettando alcunché, alla fine fu ucciso con un colpo sparato a bruciapelo da uno dei suoi compagni in un luogo deserto sulla costa, vicino ad alcune rovine. Ci mise un quarto d’ora a morire, mentre il suo assassino gli sedeva accanto in lacrime, compiangendo quella condotta che aveva portato Galatis a fare una fine così atroce. L’Eteria può aver avuto dimensioni ridotte, ma i suoi capi erano uomini di grande passione e dedizione. Su una lapide commemorativa nel villaggio natale di Galatis, a Itaca, sono incise quelle che si dicono essere state le sue ultime parole: «Che cosa vi ho fatto?»⁵⁵.

Fu nel 1818, quando la base operativa della società si spostò nella capitale ottomana, che le sue attività conobbero una subitanea trasformazione. Un agiato mercante di Costantinopoli, Panagiotis Sekeris, prese in mano la situazione e si ritrovò in pratica a gestire l’organizzazione. La mancanza di un’amministrazione ordinatamente centralizzata aveva portato ad accuse di corruzione e caos. Sekeris registrò i dati dei nuovi reclutati e le quote da loro versate; tenne sotto controllo le finanze; respinse tentativi di estorsione e di corruzione. Fu lui ad aprire all’Eteria le porte dell’alta società greca della capitale ottomana, reclutando in particolare alcune potenti personalità originarie del Peloponneso, e fu sempre lui a finanziarla in modo talmente massiccio che finì per impoverirsi. Quando uno dei fondatori, Skoufas, morì senza un soldo all’età di trentanove anni, fu Sekeris a pagare il suo funerale⁵⁶.

Il trasferimento dell’Eteria proprio nel cuore dello Stato ottomano era un segno di notevole sicurezza, e le riforme amministrative di Sekeris furono accompagnate da un ambizioso e vasto impulso dato al reclutamento. Prima di morire, Skoufas aveva proposto di nominare dei cosiddetti “apostoli” in varie regioni e adesso si presentavano i candidati naturali a questa funzione, diverse importanti figure di kapetanioi greci dotati di esperienza militare. Erano soldati, veterani delle guerre napoleoniche, che avevano combattuto per i russi nelle Isole Ionie ed erano venuti in Russia per riscuotere le loro ricompense. Anche Capodistria li conosceva: inizialmente erano venuti per incontrarlo, e lui li aveva messi in guardia nei confronti dell’Eteria e li aveva esortati a rimanere in Russia. Loro, invece, avevano preso la strada del Sud e si erano affiliati comunque. Per la direzione dell’Eteria rappresentavano un dono del cielo, degli “apostoli” – epiteto con risonanze sia cristiane, sia giacobine – che iniziarono ad essere reclutati con grande successo nelle terre greche.

Un potente personaggio che si affiliò grazie agli sforzi profusi nel reclutamento fu Petros Mavromihalis, detto il “bey della Maina”, il cui dominio su quella remota penisola rocciosa nel Sud del Peloponneso fornì all’Eteria una potenziale base per future operazioni. Meno potente, ma altrettanto importante, fu in seguito Theodoros Kolokotronis, ben noto ex kleftis (brigante) in esilio a Zante fin dal 1806, che avrebbe finito col tornare nel Peloponneso diventandovi il comandante rivoluzionario. Si stima che l’apostolo Anagnostaras abbia reclutato circa cinquanta uomini, tra i quali Kolokotronis; quest’ultimo, a sua volta, ne reclutò forse undici, tra cui alcuni dei suoi numerosi figliocci. Uno di loro, un giovane orologiaio di Tripolizza, afferma di averne reclutati altri venti. Le cifre hanno forse del leggendario, ma fu in questo modo che l’influenza dell’Eteria si diffuse rapidamente nel Peloponneso, nell’Egeo, nell’Epiro e nelle Isole Ionie, mentre anche i Balcani settentrionali, l’Egitto e l’Italia furono coperti dalla rete. Un azzimato giovane diplomatico russo di origini greche divenne l’apostolo per la Russia, aprendo l’accesso all’alta società russo-greca. Il registro di Sekeris mostra che 168 nuovi membri aderirono nel 1818 e più di 330 l’anno dopo. Nel 1821 la maggior parte dei ricchi mercanti della Russia meridionale erano diventati donatori per la causa e c’erano talmente tanti nuovi membri che i protocolli non venivano più osservati, la direzione centrale non era in grado di monitorare ogni aderente e mantenere la segretezza stava diventando impossibile. «Iniziai a portare ogni greco nella Filiki Etaireia», ricordava qualcuno. «Entro ventiquattr’ore la cosa fu nota a tutti i greci di Odessa; venivano nella mia stanza e io facevo prestare giuramento a chiunque arrivasse»⁵⁷.

Forse perché era facile confondere la Società degli Amici con l’assai diversa Società degli Amici delle Muse fondata da Capodistria nel 1814 – una confusione che potrebbe essere stata deliberatamente favorita quando i fondatori dell’Eteria ne avevano scelto il nome – erano in molti a credere che il ministro degli Esteri russo fosse il capo dell’Eteria. Anzi, il successo dell’Eteria è largamente imputabile all’idea che fosse sostenuta dallo zar e dallo Stato russo. A quanto pare né Capodistria né lo zar sentivano di poter fare granché in merito al diffondersi di queste voci. Erano molto più preoccupati delle attività cospirative all’interno dell’esercito russo, e probabilmente lo zar era il primo a non essere molto interessato a quanto facevano i greci. Capodistria, che era più interessato, teneva d’occhio le loro attività. Uno dei suoi collaboratori era un eterista; e a Corfù il fratello maggiore di Capodistria si affiliò⁵⁸. Ma sebbene intrattenesse stretti rapporti con molti aderenti, Capodistria fu personalmente attentissimo a mantenere le distanze e a rimanere fedele allo zar; abbiamo numerose indicazioni del fatto che abbia consigliato a molti greci di non entrare nell’Eteria e nessuna prova che ne abbia mai incoraggiati a fare il contrario. Quando Xanthos, uno dei fondatori dell’Eteria, tentò di indurlo a cambiare idea e ad accettare di diventarne il capo, non ottenne risultati⁵⁹.

Gli eteristi disponevano comunque di un’altra opzione per individuare il loro leader: un ufficiale greco di nobili natali che era aiutante di campo dello zar e il cui nome era già circolato come una possibile alternativa. Si trattava del summenzionato principe Alessandro Konstantinovi Ypsilanti, che era stato a Vienna con Capodistria e lo zar, i quali lo conoscevano bene. Uomo d’azione più che diplomatico, Ypsilanti possedeva il curriculum ideale: era un aristocratico, un rivoluzionario e un militare, ed era molto stimato dai suoi colleghi ufficiali dell’esercito russo. La sua famiglia faceva parte della nobiltà fanariota, era una di quelle famiglie principesche greche, incredibilmente ricche, che per decenni avevano occupato le posizioni di livello più elevato aperte ai cristiani nell’amministrazione del sultano. Suo padre era stato governatore ottomano (ospodaro) nei principati danubiani alla fine del Settecento e fu poi costretto a rifugiarsi in Russia. Alessandro era suo figlio maggiore, generale degli ussari imperiali, apprezzatissimo per il suo coraggio e per la forza d’animo dimostrata dopo aver perso il braccio destro combattendo contro i francesi⁶⁰.

Quando Xanthos incontrò il principe all’inizio degli anni Venti e gli disse quanto i greci stessero soffrendo sotto il dominio ottomano, Ypsilanti chiese perché, se le loro pene erano così grandi, facessero così poco per liberarsene. «Come possono i poveri greci dell’Impero ottomano fare qualcosa se sono stati abbandonati da coloro che potrebbero guidarli?», replicò Xanthos. «Tutte le famiglie importanti emigrano e lasciano orfani i loro compatrioti greci (omogeneis)». A mano a mano Xanthos portò il principe al punto principale, rivelandogli nel secondo incontro che ebbe con lui l’esistenza della Società degli Amici e offrendogliene la guida. In realtà Ypsilanti doveva aver saputo qualcosa dell’Eteria, visto che tre dei suoi fratelli si erano già affiliati. Il principe accettò l’offerta e si gettò a testa bassa nell’impegno per la causa. Tra la sua decisione e l’inizio della rivolta passò meno di un anno⁶¹.

Si è discusso a lungo sulle motivazioni che portarono Ypsilanti ad accettare di guidare l’Eteria. Secondo alcuni fu mosso dall’ambizione e dal desiderio di gloria. Altri richiamano l’attenzione su un fattore di tipo pecuniario: le sue vaste proprietà di famiglia in Moldavia erano state espropriate dal sultano dopo la fuga del padre, e c’era in corso una lotta per ottenere un indennizzo. In un’apologia scritta anni dopo, poco prima di morire, Ypsilanti negò di essere stato influenzato da considerazioni di ordine personale. Secondo lui era stata una questione di patriottismo: aveva avuto chiara coscienza del pericolo che minacciava il popolo greco e aveva sentito che era importante non lasciar cadere l’Eteria nelle recriminazioni e nelle faide interne.

Ypsilanti affermava altresì di aver ottenuto assicurazioni dell’appoggio russo, anche se le prove a questo proposito sono scarse. È vero che s’incontrò con Capodistria, e secondo Ypsilanti questi espresse viva approvazione per le sue idee. Capodistria, però, dice esattamente il contrario, ovvero che mise in guardia Ypsilanti contro «simili folli progetti» opera di «miserabili commessi di mercanti» che si comportavano da portavoce della nazione greca ma in realtà la mettevano in pericolo. A Ypsilanti non fu concesso un incontro con lo zar anche se di fatto s’incontrarono, casualmente, nel giardino del palazzo imperiale di campagna. Mentre Ypsilanti afferma che lo zar lo incoraggiò ed espresse la sua profonda simpatia per i greci, un resoconto più affidabile ci dice che Alessandro fece resistenza ad essere trascinato in una conversazione sull’argomento. «Amico mio, voi siete giovane ed entusiasta, come sempre», pare che lo zar gli abbia detto, «ma come potete vedere l’Europa è in pace»⁶². Ciò suona verosimile: la ricostruzione più affidabile della situazione è che quando Ypsilanti assunse la guida dell’Eteria sapeva – o dovrebbe aver saputo – di non avere il sostegno dello zar. Ma, nelle parole di un contemporaneo, era «un uomo di temperamento romantico e non equilibrato» che, come il corso degli eventi avrebbe dimostrato, aveva una capacità assai sviluppata di udire ciò che voleva sentirsi dire. Il maggior esperto russo in materia di contrasto alle insurrezioni lo riteneva «fondamentalmente frivolo», mentre un diplomatico che conosceva bene Ypsilanti lo considerava «un’anima nobile, piena di ardore, ma priva d’intelligenza; uno di quegli spiriti mediocri esasperati dall’ostinazione, intossicati dalla vanità, che si credono i motori di grandi iniziative [...]». I successivi avvenimenti avrebbero rivelato nel principe un impulsivo, un incauto e un cattivo conoscitore degli uomini⁶³.

Ufficialmente la dirigenza dell’Eteria era rimasta collettiva e ad Ypsilanti furono dati il nome in codice “il Buono” (Kalos), le iniziali AR per la corrispondenza e un nuovo titolo, quello di “rappresentante generale dell’Autorità suprema” (genikos epitropos tis Archis), il che permise all’Eteria di mantenere il suo carattere collegiale ma anche di non smentire la diffusa credenza secondo cui c’era qualcuno ancor più importante al di sopra di lui. Ma Ypsilanti non era molto interessato al processo decisionale collettivo; dopo tutto, era un aristocratico e un ufficiale. In breve tempo rese l’Eteria più gerarchica, nepotista e militare, istituendo una cerimonia d’iniziazione neomedievale, investendo cavalieri i suoi fratelli e affidando loro posizioni di rilievo. Si trattava di un influsso esercitato da prìncipi fanarioti. Come notò un osservatore che proveniva da quell’ambiente, «Dopo la sua nomina, i membri delle migliori famiglie aderirono all’Eteria». Iniziò ad emergere una spaccatura fra alcuni dei membri di maggiore anzianità, che rischiavano quotidianamente la vita nella Costantinopoli ottomana, e una nuova cerchia di aiutanti del principe raggruppati attorno a lui in Russia. I primi erano più cauti rispetto ai nuovi venuti, e avevano anche maggiore esperienza amministrativa. Tuttavia si sentirono progressivamente emarginati quando il centro dell’azione, alla fine del 1820, tornò da Costantinopoli sulla sponda russa del Mar Nero⁶⁴.

Questa turbolenza all’interno dell’Eteria contribuì alla confusione che intralciò i suoi piani insurrezionali. Naturalmente è difficile per gli storici capire come venissero prese le decisioni chiave in un’organizzazione cospirativa segreta, e in tutta la saga del 1821 ci sono poche domande più difficili di quelle concernenti il come e il quando Ypsilanti si risolse ad avviare l’insurrezione: il processo, una storia sincopata di arresti e riavvii, rimane oscuro e controverso. «Nel consiglio di Ypsilanti nulla era in ordine», scrisse qualcuno che tentò di cercare un accordo con lui. «Nessun piano sistematico, nessuna organizzazione, nessuna prospettiva, neanche una parvenza di efficienza»⁶⁵. Le decisioni andavano inoltre prese su uno sfondo internazionale che era in rapido movimento: un colpo di Stato costituzionalista in Spagna che si ripercosse a Napoli e poi in Piemonte; in Epiro un’embrionale guerra civile ottomana quando i generali del sultano assediarono il potente Ali Pascià di Giannina; tensioni che sobbollivano in Serbia. Mentre raccoglieva fondi e reclute a Odessa, Ypsilanti maturò già a settembre la sensazione che i greci avrebbero dovuto far presto a muoversi⁶⁶.

Circa trecento chilometri a sud-ovest di Odessa, la piccola e remota città di confine di Ismail, in Bessarabia, era una recente acquisizione russa, situata sul margine del delta del Danubio, alla frontiera ottomana. Ypsilanti vi arrivò il 1° ottobre 1820 e rimase per circa una settimana nella casa di un mercante greco per incontrare i maggiori rappresentanti dell’Eteria. Per molti di loro si trattò della prima opportunità di costruirsi un rapporto personale con il nuovo capo e di parlargli delle loro attività. Per Ypsilanti fu il momento in cui prese il comando. Per l’Eteria fu un punto di svolta, il momento in cui passò dalla fase di crescita organizzativa al compito di prepararsi all’insurrezione.

Non disponendo di testimonianze, non possiamo sapere se queste riunioni si siano svolte in uno o più giorni, chi fossero tutti i partecipanti o che cosa si sia esattamente detto. Quello che sappiamo con certezza è che i partecipanti erano una dozzina o più, che le discussioni erano condotte da Ypsilanti e che ruotavano attorno alla data e al luogo dell’insurrezione. La domanda che premeva di più era quanto mancasse al Peloponneso – che per un certo periodo rimase al centro della riflessione strategica dell’Eteria – per essere pronto a insorgere. Alcuni avvertivano che i notabili del Peloponneso erano diffidenti, e che l’approvvigionamento di armi era ancora scarso. Altri non concordavano, dicendo che se si aspettava il momento ideale, non sarebbe arrivato mai. Il principe si schierò con i secondi e il risultato dell’adunanza di Ismail fu un accordo secondo cui la rivolta sarebbe dovuta scoppiare a breve termine. Seguendo il cosiddetto “grande piano”, si concordò che Ypsilanti sarebbe dovuto salpare per la Maina dove avrebbe guidato i greci del Peloponneso. Alcuni agenti si sarebbero coordinati con Ali Pascià in Epiro per impegnare lì le truppe ottomane, avrebbero sincronizzato le rivolte in altre zone dei Balcani e – l’elemento forse più clamoroso – per seminare il terrore nella stessa Costantinopoli allo scopo di colpire mortalmente la “bestia” alla testa invece che alla “coda” o alle “zampe”. Si parlò di dar fuoco alla flotta ottomana per proteggere le isole e il Peloponneso dalla vendetta del sultano e, secondo versioni più tarde – che cambiarono in continuazione –, addirittura di assassinare il sultano. Tutto ciò sarebbe dovuto essere messo in pratica prima della fine dell’anno, e partirono immediatamente per Spetses delle istruzioni per l’invio di una nave che attendesse Ypsilanti a Trieste. Altri emissari armati di proclami e di lettere di autorizzazione partirono per preparare il terreno per il suo arrivo nel Peloponneso e per avvisare i sostenitori in tutto l’Egeo⁶⁷.

C’era tuttavia un piccolo problema che andava risolto subito. La chiave dei piani dell’Eteria era la Maina, la remota penisola rocciosa semiautonoma nel Sud del Peloponneso da cui sarebbe dovuta essere lanciata l’insurrezione. Chi vi comandava nel sistema di governo ottomano era il bey, Petros Mavromihalis. Era un uomo astuto e prudente che aveva aderito all’Eteria ma aveva anche inviato qualcuno da Capodistria a chiedergli se quanto si diceva sul sostegno russo all’Eteria corrispondesse a verità. A San Pietroburgo Capodistria dette all’emissario di Mavromihalis, un mercante di nome Kamarinos, una lettera in cui si attestava che il governo imperiale non appoggiava una sollevazione e teneva in gran conto la pace col proprio vicino ottomano⁶⁸. Si trattava di un documento potenzialmente esplosivo, e il comportamento di Kamarinos accrebbe le preoccupazioni degli eteristi. Quando Ypsilanti si stava recando verso sud, verso Odessa, nell’estate del 1820, Kamarinos lo tallonava da presso, annunciando indistintamente a tutti di avere prove scritte che lo zar non era favorevole a una rivolta, che Ypsilanti mentiva e che l’Eteria avrebbe finito per sacrificare il popolo greco inseguendo le proprie fantasie rivoluzionarie. Nel corso dell’adunanza di Ismail, Ypsilanti deve aver pensato a come comportarsi con Kamarinos e la decisione adottata di procedere rapidamente verso l’insurrezione rese più cruciale che mai la necessità di avere un sicuro sostegno da parte di Mavromihalis. Quando Ypsilanti chiese di vedere la lettera di Capodistria, Kamarinos, che pure era membro dell’Eteria, si rifiutò di consegnargliela. Allora il principe prese una decisione drastica. Si rivolse a uno degli uomini incontrati a Ismail, un solerte capitano di marina dello Ionio, e gli ordinò di uccidere Kamarinos. Vennero reclutati altri due eteristi fidati che si camuffarono da marinai. Uno era un ex soldato dedito all’alcol di nome Vasilios Karavias, ansioso di dimostrarsi un patriota greco e destinato a rivestire di lì a poco un ruolo ancor più decisivo nella sollevazione; aveva lavorato tempo prima per il padre di Ypsilanti, e all’epoca dei fatti era responsabile della guardia cittadina nel piccolo porto di Galai sul Danubio, nel Sud della Moldavia. I tre eteristi si imbarcarono su una piccola chiatta sul Danubio assieme a Kamarinos, che verosimilmente non sospettava nulla e si stava recando a Galai per prendere la nave che l’avrebbe riportato a casa. Dove però non arrivò mai. Il suo corpo fu presumibilmente gettato in acqua, i documenti che portava con sé furono inviati a Ypsilanti e in tal modo le voci vennero più o meno messe a tacere. Il principe scrisse una lettera a Mavromihalis elogiando il suo coraggio e inviò uno dei suoi più esperti aiutanti per assicurarsi che la Maina rimanesse fedele all’Eteria. Mavromihalis rimase per molti mesi all’oscuro rispetto alla sorte del proprio emissario e all’effettiva politica russa. Nella breve storia dell’Eteria si trattava del secondo assassinio portato a termine dopo una decisione ufficiale⁶⁹.

Più o meno in coincidenza con l’uccisione di Kamarinos, appena due settimane dopo l’adunanza di Ismail, Ypsilanti modificò radicalmente i suoi piani e, senza alcun preavviso, optò per una strategia del tutto diversa. Decise di far partire la rivolta da entro i confini russi invece che dal Peloponneso. Le motivazioni non avevano probabilmente nulla a che fare con la morte di Kamarinos: Ypsilanti disse agli affiliati di temere che il viaggio verso Trieste attraverso i territori asburgici fosse diventato troppo rischioso. Avrebbe invece guidato un corpo di spedizione verso la Moldavia e la Valacchia ottomane e da lì si sarebbe unito ai serbi prima di raggiungere i greci via terra. I tempi, già stretti, vennero ulteriormente compressi: Ypsilanti disse al serbo Miloš Obrenovi, sul cui aiuto contava, di aver dato disposizioni a «tutte le parti della Grecia dalla Morea al Danubio» di essere pronte ad attaccare gli ottomani il 15 novembre, dunque entro meno di un mese. Assicurò a Obrenovi che, per quanto lo riguardava, sarebbe stato in Serbia il 25 novembre; forse progettava ancora di dirigersi a sud in tempo per potersi unire ai greci alla fine dell’anno. Ypsilanti disse che questi avrebbero dovuto muoversi presto; a quanto pare si era convinto che, una volta risolti altri problemi di sicurezza, il sultano avrebbe fatalmente rivolto la sua attenzione verso i greci in primavera⁷⁰.

I due principati semiautonomi di Moldavia e Valacchia, che avevano una funzione così centrale nel nuovo ragionamento di Ypsilanti, si trovavano all’estremo Nord dell’Impero ottomano. Stretti tra gli Asburgo e i russi, occupavano nell’amministrazione imperiale una posizione con caratteristiche di unicità, che si traducevano in evidenti vantaggi dal punto di vista dei progetti eteristi. Per prima cosa, nessun musulmano poteva risiedervi senza un permesso speciale; erano terre a grande maggioranza cristiana. Inoltre, obblighi imposti da trattati prescrivevano che il sultano non potesse inviarvi truppe senza il consenso russo. Aveva la sua importanza anche il fatto che i due principati non fossero governati da pascià musulmani bensì da prìncipi cristiani (ospodari) provenienti dall’élite delle famiglie greche fanariote di Costantinopoli; posizioni che erano state occupate sia dal padre, sia dal nonno di Ypsilanti, il quale conosceva gli attuali detentori delle cariche. I due principati erano stati di fatto occupati da truppe russe nel corso della guerra russo-turca del 1806-1812 e temporaneamente unificati sotto il governo del padre di Ypsilanti, Costantino. Le truppe erano state ritirate, ma il nome Ypsilanti rimaneva. L’unico aspetto negativo era il fatto di non poter contare sull’appoggio della maggioranza della popolazione, contadini o piccoli nobili romeni che vedevano i greci fanarioti come dei corrotti e i greci in generale come stranieri⁷¹.

Il ripensamento di Ypsilanti fu certamente influenzato anche dalla prossimità della Moldavia a quei confini sud-occidentali dell’Impero russo che erano divenuti per lui il centro delle operazioni. Gli ordini che partivano da Mosca e San Pietroburgo potevano impiegare settimane, se non mesi, a raggiungere Kišinëv o Odessa; quindi i funzionari locali e regionali avevano una maggiore indipendenza, come anche una minor conoscenza degli autentici voleri dello zar, rispetto ai loro omologhi che prestavano servizio al centro del potere. La distanza creava un ambiente particolarmente favorevole ad alimentare i sogni di Ypsilanti come dei suoi colleghi russi. Il governatore di Odessa consentì che la città si trasformasse in un terreno di reclutamento per i greci, credendo erroneamente – o almeno così affermò in seguito – che l’Eteria godesse del segreto appoggio dello zar. Gli ufficiali dislocati nella regione guardavano a Ypsilanti come a un amico e un eroe di guerra. Il comandante della 16^a divisione fanteria, Michail Orlov, le cui truppe erano acquartierate ai confini sul fiume Prut, era un radicale il quale accarezzava l’idea di una guerra rapida che avrebbe potuto consentire ai costituzionalisti di prendere il potere in Russia. Il governatore della Bessarabia, Konstantin Katakazis, era un ricco proprietario terriero greco, peraltro marito della sorella di Ypsilanti. La burocrazia locale fornì passaporti, dette agli eteristi informazioni utili e chiuse un occhio sull’aumento del traffico di agenti e munizioni oltre il confine della Moldavia ottomana⁷².

Ad avvertire l’eccitazione che si respirava nell’aria c’era un giovane che lavorava al Ministero degli Esteri, protetto di Capodistria, di nome Aleksandr Puškin. Lo zar ne aveva ordinato la deportazione in Siberia a causa dei versi sovversivi che aveva scritto, ma Capodistria riuscì a destinarlo invece nella sperduta Kišinëv, in Bessarabia, nel frattempo divenuta proprio il centro operativo di Ypsilanti. La lettera di raccomandazione di Capodistria, approvata dall’imperatore in persona, poneva in rilievo i notevoli talenti del giovane poeta ma metteva in guardia sulla sua attrazione per «quel sistema di anarchia che la malafede denomina Sistema dei Diritti Umani, della Libertà e dell’Indipendenza dei Popoli». Kišinëv non rappresentava esattamente un ambiente atto a rabbonirlo. Puškin divenne amico degli eteristi, come anche degli ufficiali russi che si mescolavano con loro, e scrisse addirittura una poesia sull’insurrezione di cui tutti parlavano e a cui intendeva unirsi:

Guerra! Infine levate

stormiscono le insegne del bellico onore!

Vedrò il sangue, della vendetta vedrò la festa⁷³.

Ypsilanti rimase da questo punto in poi convinto dell’opzione moldava. Dev’essere però presto divenuto chiaro che pianificare un’insurrezione complessa in tre settimane alla vigilia dell’inverno equivaleva a candidarsi alla disfatta, quindi il 1° novembre decise di rimandare alla primavera successiva. I mesi in più a disposizione gli avrebbero permesso di garantirsi un sostegno politico e militare all’interno degli stessi principati danubiani, di concedere ai suoi emissari più tempo per i loro preparativi e di reclutare qualche comandante militare dotato di esperienza per la marcia verso sud da compiere in primavera. La sua priorità era guadagnarsi l’appoggio dell’ospodaro di Moldavia, un prudente e scaltro principe fanariota di nome Michalis Soutsos la cui famiglia risiedeva nella capitale imperiale. Essendo circondato da spie, Soutsos non era in condizione di prendersi dei rischi, almeno non senza la prospettiva di ottenere dei vantaggi a tali rischi commisurati. Oinoplouton (Ricco di vino), come gli eteristi soprannominavano Soutsos, esigeva di sapere chi avrebbe protetto la sua provincia una volta che le forze di Ypsilanti si fossero mosse verso le terre greche a sud; voleva essere nominato comandante delle forze operanti in Moldavia e, infine, chiedeva il sostegno di Ypsilanti alla sua richiesta di essere messo a capo della provincia se e quando fosse toccato allo zar deciderne il destino. La trattativa con Soutsos era ancora in corso quando l’ospodaro della confinante Valacchia, un suo parente, morì improvvisamente in dicembre. Soutsos reagì formulando un’ulteriore richiesta: essere creato principe di entrambe le province sotto la protezione russa.

È dall’inizio del 1821 che i documenti dell’Eteria pervenutici iniziano a dare la sensazione di un’accelerazione degli eventi, per non dire di una spirale incontrollabile. Nessuna data precisa era ancora stata fissata per la primavera – o almeno, nessuna è menzionata in alcun documento –, anche se è un luogo comune della storiografia greca che ci fosse un generale e condiviso impegno finalizzato alla festa dell’Annunciazione, a inizio aprile. Ma le possibilità che qualcosa trapelasse erano in rapido aumento, con i reclutamenti di massa a Odessa e in altre parti della Russia meridionale. Nel frattempo i dissidi interni si stavano diffondendo con l’avvicinarsi del passaggio all’azione. Alcuni eteristi che avevano posizioni chiave non si preoccuparono di tenersi per loro la convinzione che i greci fossero terribilmente impreparati; altri a Mosca erano impazienti che Ypsilanti accelerasse i suoi piani.

Anche il contesto balcanico stava cambiando di giorno in giorno. Per prima cosa, adesso non si poteva contare sul sostegno di un’insurrezione serba. Inoltre, una sollevazione capeggiata da un boiaro (esponente della nobiltà minore) romeno di nome Tudor Vladimirescu aveva paralizzato la Valacchia e, nonostante che l’Eteria mantenesse con lui dei rapporti molto stretti e gli promettesse sostegno, i suoi uomini erano in ansia temendo che l’esercito ottomano si sarebbe mosso contro di lui prima che loro fossero pronti⁷⁴. Sembrava soltanto questione di tempo che gli ottomani si rendessero conto di quanto stava bollendo in pentola e si muovessero contro l’organizzazione nel suo complesso, specialmente dopo l’arresto di un agente chiave dell’Eteria nei Balcani che era in possesso di documenti compromettenti. Nel frattempo, nelle locande della capitale moldava, Iai, l’impulso dato al reclutamento dall’Eteria stava creando più di un problema: i combattenti albanesi non si peritavano di dichiarare apertamente che a primavera sarebbero andati a liberare la loro patria e Soutsos era sempre più allarmato per il modo dilettantesco e disorganizzato in cui gli uomini di Ypsilanti stavano arruolando mercenari⁷⁵.

A metà febbraio l’imminente invasione era divenuta di dominio pubblico, il ruolo dell’ospodaro nella trama era apertamente oggetto di discussione e la segretezza era ormai ridotta a una chimera. Il primo ministro di Soutsos scrisse adirato a Ypsilanti che «tutto il segreto della Fraternità è noto ad ognuno qui»⁷⁶. A metà febbraio Ypsilanti prese quella che il segretario di Soutsos definì «una decisione improvvisa», quella di procedere. Fece arrivare a Iai carne per qualche centinaio di soldati, dette a Soutsos il tempo appena sufficiente per avvertire i familiari di lasciare Costantinopoli e ordinò al fidato eterista Vasilios Karavias, che si trovava a Galai sul Danubio, porta della provincia da sud, di «innalzare il vessillo della libertà» di lì a quattro giorni. Ypsilanti medesimo avrebbe passato il Prut il giorno seguente⁷⁷.

E fu così che in un piccolo porto danubiano – a centinaia di chilometri da quel Peloponneso dove si continuava ad attendere l’arrivo di Ypsilanti – iniziò la rivoluzione greca il 21 febbraio 1821. Quella mattina la milizia di Karavias, rinforzata da marinai delle Isole Ionie e da mercenari albanesi, attaccò la sede della ridottissima guardia doganale ottomana di Galai, dandola alle fiamme e uccidendo tutti gli occupanti. Gli eteristi saccheggiarono negozi e magazzini, s’impadronirono di alcune navi ottomane ormeggiate lungo il Danubio e massacrarono i pochi musulmani della cittadina in quello che era probabilmente un tentativo calcolato di provocare rappresaglie ottomane e quindi di ottenere l’intervento russo. Colpisce il fatto che Ypsilanti, fosse o non fosse partito da lui l’ordine di eseguire l’azione, evidentemente non la disapprovò, dato che Karavias ottenne di lì a poco una promozione. I combattenti dell’Eteria avevano giurato di sterminare il nemico e l’eccidio era un segnale: un punto di non ritorno⁷⁸.

Quello stesso giorno, circa centocinquanta chilometri più a nord, Ypsilanti lasciò nel pomeriggio Kišinëv con un piccolo gruppo di collaboratori più stretti e guardie del corpo e poco dopo mezzogiorno del 22 febbraio presentarono i loro passaporti al posto di confine sul Prut, dove i doganieri russi li fecero passare. Al di là del fiume si trovavano sul territorio ottomano. Per raggiungere Iai mancavano solo una ventina di chilometri e sulla via della città furono raggiunti da una scorta di duecento albanesi mandati da Soutsos ad accoglierli. Lo stato d’animo di Ypsilanti, però, era tutt’altro che euforico, e in un messaggio mandato alla direzione dell’Eteria si lamentò di sentirsi abbandonato. Uno strano rimprovero fatto in quel momento e diretto a uomini che per anni avevano rischiato la vita; rivelatore però dello scollamento presente al vertice dell’organizzazione e dei profondi dubbi all’interno di essa sulla strada che il principe aveva scelto d’imboccare. L’ingresso in Moldavia non sarebbe potuto essere più agevole, ma si prospettavano delle complicazioni⁷⁹.

A Iai, Ypsilanti prese il controllo della situazione. Una delle prime cose che fece fu inviare istruzioni ai capi dell’Eteria a Costantinopoli perché s’impadronissero degli arsenali, dessero alle fiamme la capitale e, se possibile, catturassero lo stesso sultano; inviati dal servizievole console russo nella capitale moldava al suo ministro a Costantinopoli, questi ordini non raggiunsero mai i destinatari. Dopo essersi immerso in colloqui confidenziali con l’ospodaro, il suo consigliere e il console russo, il principe riaffiorò per passare in rivista le centinaia di uomini armati provenienti da tutti i Balcani che andavano affluendo per militare ai suoi ordini. Quando si diffuse la notizia del suo arrivo, anche le guardie dell’ospodaro abbandonarono i luoghi in cui stavano prestando servizio per unirsi e l’atmosfera nelle strade di Iai si fece euforica. «Non avete idea dell’entusiasmo qui fra i cristiani», scrisse a suo padre la moglie dell’ospodaro. «In centinaia stanno arrivando da Odessa, molti a piedi, altri da regioni della Germania [...]. Indubitabilmente Dio ha steso la sua mano su tutta l’impresa e provvederà affinché riesca». Nella cattedrale si tenne una messa in cui il metropolita benedisse le bandiere e tutti i presenti sguainarono le spade giurando di difendere la rivoluzione⁸⁰.

Prima di partire, Ypsilanti aveva scritto a Odessa sollecitando i suoi agenti a cercare sostegno non solo tra i greci, ma anche tra i «bravi ufficiali francesi dell’esercito di Napoleone», tra gli italiani dotati di istruzione militare e tra i guerrieri serbi e bulgari. Molti dei greci residenti in Russia stavano inviando denaro o armandosi per partire e combattere. A Odessa, scrisse Puškin, le notizie in arrivo avevano suscitato «estasi». Tutti pensavano all’«indipendenza dell’antica patria [...] tutti parlavano di Leonida, di Temistocle». Stavano vendendo ogni cosa per comprare «sciabole, fucili, pistole» in vista della partenza per Iai. Un agente austriaco nella capitale moldava mandò un rapporto ai suoi superiori a Vienna. «La nazione greca», scrisse, «a quanto pare progettava da molti anni di scuotersi di dosso il giogo turco e di sostituirlo con il proprio Stato, lo Stato dei suoi antenati». Una confraternita segreta, diretta da personaggi di cui era ignota l’identità e protetta da solenni giuramenti di segretezza, si era diffusa tra «gli esponenti più validi della nazione» in «Tessaglia, Macedonia, Serbia, Albania, Bulgaria, Rumelia e nelle Isole Egee». I capi del gruppo erano sconosciuti, ma il loro rappresentante era «il figlio di Costantino Ypsilanti»⁸¹.

La prima dichiarazione di Ypsilanti in terra ottomana fu rivolta alla maggioranza di lingua romena della Moldavia. Il principe aveva progettato di annunciare l’abolizione di tutti gli obblighi feudali nella provincia, ma il segretario dell’ospodaro lo sconsigliò di compiere un passo così pericolosamente radicale. Ypsilanti, quindi, disse semplicemente alla popolazione locale che «tutta la Grecia (apasa i Graikia)» era insorta per scuotersi di dosso «il giogo della tirannia» e che lui e i suoi uomini erano diretti a sud per combattere per la libertà. I moldavi erano esortati a rimanere obbedienti al loro ospodaro. In caso di arrivo dei turchi, Ypsilanti dichiarò che «una forte potenza» era pronta a punirli: chiaro riferimento alla Russia che, sottintendeva, sarebbe intervenuta se l’esercito ottomano avesse violato, entrando nella provincia, gli accordi presi con i trattati. Si trattò di un atto di incredibile follia diplomatica che soffocò nello zar ogni possibile istinto residuo che tendesse all’intervento; compromettendo pubblicamente la Russia in questo modo, Ypsilanti gli aveva reso assolutamente impossibile qualsiasi prospettiva di azione. Ai nobili romeni venuti a rendergli omaggio, Ypsilanti dichiarò di agire nel nome dello zar. Adottò verso di loro modalità di comportamento piuttosto imperiose – come se fosse già il re di Grecia, commentò sarcasticamente un osservatore. Non era esattamente il modo di fare atto ad assicurarsi quel sostegno della popolazione dal quale si sarebbe trovato a dipendere nelle settimane successive, e questa era un’altra precoce indicazione dell’inettitudine politica di Ypsilanti.

Nei confronti dei compatrioti greci, ai quali si rivolse successivamente, il suo tono fu molto diverso. Ypsilanti li esortò a insorgere per la fede e per la patria e disse loro che l’Europa li guardava e si aspettava miracoli, mentre i tiranni tremavano. Promise che si sarebbe accampato «tra la Macedonia e le Termopili», sperando evidentemente di dirigersi a sud per congiungersi ai greci in arrivo dal Peloponneso, e lasciò intendere ancora una volta che i russi li avrebbero protetti tutti⁸². Migliaia di fanti russi avevano in effetti preso posizione sull’altra riva del Prut, e molti ritenevano imminente un’invasione con funzioni di supporto. Secondo alcune voci, gli imperatori della Santa Alleanza, allora riuniti a Lubiana, avevano deciso che fosse giunta l’ora di cacciare i turchi dall’Europa⁸³.

Ma quest’atmosfera euforica si dissipò dopo appena qualche giorno. Sulla carta l’esercito dell’Eteria era stato organizzato dal fratello di Ypsilanti, Nicola, con una gerarchia di comando, un simbolo – la fenice che risorge dalle ceneri – e una bandiera tricolore: bianco per la purezza dell’impresa da compiere; nero perché erano pronti a sacrificare la vita per la libertà; rosso per l’autonomia dei greci e la resurrezione della loro patria. Ma come la storia della guerra d’indipendenza greca avrebbe rivelato in numerose occasioni, tra i piani elaborati sulla carta e la realtà del combattimento c’era un ampio divario, e assai difficilmente quello in questione poteva essere considerato un esercito nel senso moderno del termine. Uomini d’arme e volontari erano accorsi sotto le bandiere eteriste e dopo circa una settimana passata a Iai il principe partì con più o meno 4500 uomini, che aumentarono lungo il cammino giungendo forse a 7000. Nonostante la mancanza di un’artiglieria, non si trattava di un numero insignificante, e inizialmente gli uomini erano ben nutriti ed equipaggiati, grazie ai fondi che erano affluiti dai greci di Russia. Erano però carenti di coesione e disciplina, nonché di un comando autorevole, e si raggruppavano sotto diversi capi, ognuno dei quali con una sua bandiera. Inoltre provenivano da tutta l’area balcanica. Nell’organico iniziale i greci erano solo 2500; il resto era composto da russi e ucraini, serbi, montenegrini, albanesi e bulgari. Ypsilanti aveva indotto i nobili romeni a contare sull’intervento dell’esercito russo, ma a quanto pare non si chiese mai se, in assenza del sostegno dello zar, una provincia abitata in massima parte da genti di lingua romena avrebbe appoggiato una sollevazione fatta in nome della Grecia, soprattutto considerando il fatto che molte delle sue truppe erano davvero mercenarie, uomini che, come scrisse con disprezzo il suo aiutante principe Giorgio Cantacuzeno, erano «esperti in indolenza, intemperanza e saccheggio». Alla fine rappresentarono un inconveniente di proporzioni tali che gli ufficiali dell’Eteria presenti in zona ordinarono loro di evacuare completamente Iai raccomandando di «fare attenzione a lasciare la città senza provocare ulteriori disordini»⁸⁴.

Su sollecitazione di Cantacuzeno fu formata un’unità regolare di volontari greci, il cosiddetto Battaglione Sacro: relativamente disciplinati, vestiti con l’uniforme nera dell’Eteria e dediti alla causa, erano destinati a raggiungere una fama mitica in Grecia dopo l’indipendenza. Ma gli uomini dotati di un’autentica esperienza di comando scarseggiavano: Tsakalof, che non ne aveva alcuna, fu nominato aiutante di campo e a Karavias fu affidata la responsabilità della cavalleria, per cui non aveva particolari competenze. Tra gli irregolari, le ruberie, le sbornie e persino i delitti che si erano visti a Iai e a Galai proseguirono, erodendo qualsiasi forma di simpatia per la rivolta potesse esservi stata da parte dei romeni. Sul loro cammino, ricordava un greco che aveva preso parte agli eventi, «vedevamo sempre gli abitanti dei villaggi e delle cittadine che incontravamo fuggire terrorizzati, in cerca di scampo»⁸⁵.

Ypsilanti aveva perso del tempo a Iai prima di decidersi a marciare verso sud per riunirsi a Karavias, che, con suo grande sconforto, vide accompagnato da soli 360 uomini malamente armati invece che dal migliaio che si era impegnato a reclutare⁸⁶. Nella lenta avanzata verso Bucarest, la determinazione, l’impazienza e l’energia del principe venivano meno e, a quanto pare, capì presto che la spedizione si trovava in difficoltà. Propose a Cantacuzeno prima della fine di marzo di recarsi in incognito insieme a lui a Trieste e da lì imbarcarsi per la Morea, e abbandonò l’idea solo quando il suo aiutante osservò che questo equivaleva ad abbandonare gli uomini che avevano scelto di seguirli. Decisero comunque di mandare il fratello di Ypsilanti, Demetrio, accompagnato dal fratello di Cantacuzeno, Alessandro, garantendosi in tal modo il controllo dei prìncipi sul Peloponneso. Per Ypsilanti la rivoluzione fu, dall’inizio alla fine, una questione di famiglia⁸⁷.

Il colpo mortale per le aspettative della spedizione giunse dall’Europa. Lo zar si era riunito con gli altri membri della Santa Alleanza a Lubiana, nella Slovenia asburgica; gli incontri erano iniziati fin da gennaio e si incentrarono sulle ribellioni antiborboniche scoppiate in Italia e in Spagna. Le paure conservatrici di una rivoluzione dotata di un coordinamento internazionale erano al culmine e Russia, Austria e Prussia avevano emanato una dichiarazione in cui si sottolineava il diritto e il dovere delle grandi potenze di reprimere qualsiasi movimento rivoluzionario che rappresentasse a loro giudizio una minaccia per la pace dell’Europa. La primavera del 1821 era quindi pressoché il peggior momento immaginabile per preparare un’insurrezione e per richiedere l’assistenza russa.

Tuttavia è proprio ciò che Ypsilanti fece in una lettera inviata allo zar da Iai. Era assai difficile elaborare qualcosa che risultasse più allarmante per l’imperatore russo. Una «società segreta» aveva organizzato la campagna che lui si sentiva obbligato a guidare per devozione patriottica e filiale, diceva Alessandro, aggiungendo per buona misura che «i generosi impulsi delle nazioni provengono da Dio» e che l’insurrezione godeva dell’ispirazione divina. Esortava lo zar ad assumere il ruolo di liberatore dei greci. Accompagnava la missiva una più pragmatica lettera di Soutsos, l’ospodaro di Moldavia, che preoccupato del destino della sua provincia richiedeva delle truppe russe a sua protezione⁸⁸.

Capodistria si trovava a Lubiana con lo zar, e rimase stupefatto quando apprese la notizia della spedizione di Ypsilanti; in preda allo sconforto, previde che ciò avrebbe lasciato i greci in balia delle rappresaglie ottomane e che la Russia e l’Europa non avrebbero mosso un dito per dare aiuto. Semmai, incombeva il pericolo di un intervento conservatore a sostegno degli ottomani. Capodistria scrisse al suo aiutante: «Come si può non riconoscere in ciò che è scoppiato nei due principati l’identico effetto degli stessi princìpi sovversivi, delle stesse trame, che attraggono le calamità della guerra [...] la più terrificante piaga del dispotismo demagogico». Lo zar era più che mai furioso perché un ufficiale dell’esercito russo, un suo ex aiutante di campo, si era compromesso agli occhi dei suoi alleati, e la bugia del sostegno russo venne definitivamente e brutalmente messa a nudo quando lo stesso Capodistria, rispondendo a Ypsilanti in nome dello zar, biasimò il principe e i suoi fratelli e ordinò loro di non mettere mai più piede in Russia. «La Russia», affermò il ministro, «è in pace con l’Impero ottomano. Lo scoppio della rivoluzione in Moldavia non giustifica in alcun modo qualsiasi rottura fra i nostri due Stati». Dalle righe della lettera trasudava la rabbia: «Nessun aiuto, diretto o indiretto, vi sarà accordato dell’Imperatore, poiché – lo ripetiamo – non sarebbe cosa degna di Lui minare le fondamenta dell’Impero turco mediante la vergognosa e biasimevole azione di una società segreta». L’unico consiglio fornito era che Ypsilanti cercasse in qualche maniera di rimediare al danno che aveva compiuto. Impossibile immaginare una sconfessione più categorica di questa. Metternich era al settimo cielo. Pareva che proprio l’Eteria con le sue azioni avesse in pratica scongiurato qualsiasi possibilità che si scatenasse una nuova guerra russo-turca⁸⁹.

In Moldavia la popolazione romena si rivoltò compattamente contro i greci, e l’ospodaro Soutsos cercò scampo attraversando il confine russo. Galai fu ripresa dalle forze ottomane dopo un combattimento; un’unità eterista si batté con coraggio ma fu sopraffatta. In Valacchia gli eteristi misero a morte Vladimirescu per tradimento – aveva cercato di mettersi in contatto con il sultano per una resa – e poi le loro forze, in nettissima inferiorità numerica, furono respinte da un esercito ottomano verso i confini austriaco e russo. Alcune centinaia di greci si resero protagonisti di una valorosa, estrema difesa sulle rive del Prut il 16 giugno: alcuni lo attraversarono a nuoto, altri morirono sotto gli occhi dei soldati russi schierati sull’altra sponda, da dove Ypsilanti era partito con grandi speranze quattro mesi prima. Il Battaglione Sacro compì il suo ultimo atto di resistenza nel villaggio di Drgani. Mal comandati, irruenti e coraggiosi, i greci furono fatti a pezzi dalla cavalleria ottomana.

Per Ypsilanti non era certo l’ora più fulgida. Dapprima accusò i suoi uomini di codardia, quindi fuggì oltre il confine asburgico. I russi proposero di permettergli di andare ad Amburgo e da lì verso l’esilio in Nordamerica, ma Metternich lo voleva recluso, e così Ypsilanti iniziò i suoi anni di prigionia che si conclusero solo alla vigilia della morte, avvenuta a Vienna nel gennaio 1828. I residui dell’improvvisato esercito dell’Eteria si dispersero; in molti tornarono in Bessarabia, dove Puškin li vide tranquillamente seduti nei caffè di Kišinëv, muniti dei loro, al momento inutilizzati, yatagan e pistole. Il poeta si era saggiamente astenuto dall’intrattenersi con loro, ma aveva ascoltato con grande interesse le loro storie – i racconti dei tempi passati con Ali Pascià, del feroce annegamento di famiglie musulmane nelle acque del Danubio, dell’euforico arrivo a Iai, della sconfitta finale. Molti di loro morirono di stenti; alcuni alla fine intrapresero un viaggio lungo centinaia di chilometri che li portò, attraverso Polonia, Germania, Svizzera e Francia, a trovare un passaggio per la Grecia⁹⁰.

La prima persona che nella capitale ottomana ebbe notizia della sollevazione fu forse l’ambasciatore russo, il barone Stroganov, che fu raggiunto da un corriere proveniente da Iai con la lettera di Ypsilanti il 3 marzo. Il principe avvisava Stroganov dei suoi «imprevisti movimenti» al di là del Prut, chiedendogli di contestare qualsiasi possibile incursione di truppe ottomane nelle due province danubiane. Evidentemente per nulla preoccupato di compromettere il diplomatico russo, allegava anche lettere da inoltrare a eteristi di rilievo incaricandoli di mettere a fuoco la città e di catturare il sultano. C’erano anche altri messaggi da trasmettere a membri greci dell’élite per invitarli a partire. Stroganov, che riteneva il comportamento di Ypsilanti irresponsabile al massimo grado, fu messo in una condizione impossibile da gestire. Tentò di aiutare con discrezione i greci che si ritrovavano esposti a causa delle azioni di Ypsilanti, mentre allo stesso tempo informava le autorità ottomane della corrispondenza che aveva ricevuto e negava di aver avuto anticipazioni su quanto stava succedendo a nord⁹¹.

Agli occhi del sultano e dei suoi consiglieri, la rivolta nei principati danubiani fu «come un fulmine a ciel sereno». Quando furono raggiunti dalle notizie del massacro dei musulmani a Galai, all’inizio di marzo, la loro incredula congettura fu che il tutto fosse una macchinazione russa. Persino dopo che lo stesso zar aveva denunciato Ypsilanti – notizie che raggiunsero Costantinopoli all’inizio di aprile – i ministri ottomani continuarono a credere che fosse impossibile per un ufficiale russo aver organizzato una tale spedizione senza avere un supporto ufficiale. La loro paura reale era quella di una guerra contro la Russia, che non solo avrebbe rappresentato una minaccia militare per l’impero, ma avrebbe anche messo inevitabilmente a repentaglio i rifornimenti alimentari alla capitale e alla prova le sue difese. Paradossalmente, però, furono proprio le loro azioni a rendere la prospettiva di una tale guerra molto più prossima⁹².

Per due settimane le reazioni della Porta si limitarono in pratica alla decisione di sostituire l’ospodaro di Moldavia e alla notifica data ai russi che truppe ottomane sarebbero state inviate nella provincia. Ma quando le indagini rivelarono le dimensioni della rivolta, l’adirato sultano manifestò impulsi più draconiani. Accarezzò addirittura l’idea di mettere a morte tutti i greci dell’impero, un’idea appoggiata dal suo favorito di lungo corso a corte, Halet Efendi. Ma lo sheykh ul-islam, la suprema autorità religiosa musulmana, fece coraggiosamente obiezione, dicendo che sarebbe stato contrario alla sharia mettere insieme l’innocente con il colpevole, e anche il gran visir sconsigliò una simile decisione. Furono entrambi destituiti, ma il sultano prestò ascolto a quanto dicevano e il 18 marzo si rivolse invece ai musulmani dell’impero: nella tranquillità si erano rammolliti, ma era giunta l’ora di tornare alle virtù dei loro antenati nomadi, di portare le armi costantemente e di comportarsi da difensori della fede pronti a combattere. Era più di un’esortazione morale; era un aperto invito alla violenza indiscriminata, soprattutto dopo che a Costantinopoli alcune migliaia di fucili furono distribuiti a giannizzeri e guardie che iniziarono a fare irruzione in case e locande cristiane alla ricerca di armi. Ogni possibile sollievo legato alla notizia che lo zar aveva denunciato Ypsilanti venne meno quando, all’inizio di aprile, la città apprese che i greci erano insorti anche in Morea⁹³.

Gli illustri fratelli fanarioti Konstantinos e Nikolaos Mourouzis, che occupavano due delle posizioni di maggior responsabilità consentite ai cristiani nell’impero, furono tra i primi ad essere giustiziati. Konstantinos fu accusato di essere coinvolto nella cospirazione. La sentenza capitale emessa per Nikolaos, come affermava il cartello appeso pubblicamente al suo cadavere, era esplicitamente connessa all’eccidio di musulmani innocenti a Iai e Galai. Alla corte del sultano ci si riferiva invariabilmente a Ypsilanti come al «figlio di Ypsilanti il fuggitivo», per insistere sul tema del tradimento fanariota. Il capitolo dell’influenza esercitata dalle famiglie principesche greche nel governo ottomano si andava ormai chiudendo: quelle che non riuscirono a fuggire vennero esiliate e le loro proprietà furono espropriate. In poche continuarono a occupare cariche diplomatiche, ma da allora in poi i fanarioti rappresentarono un misero avanzo di quella che era stata la loro passata gloria⁹⁴.

Il 10 aprile fu il giorno dell’esecuzione più clamorosa, l’impiccagione del patriarca Gregorio V. In quanto capo della comunità cristiana ortodossa nell’impero, il patriarca, che si era tenuto per sé i dubbi che nutriva sull’Eteria, portava su di sé in virtù della propria posizione la responsabilità ultima della fedeltà dei greci; ciò nondimeno, la modalità della sua esecuzione non aveva precedenti quanto a brutalità. Il fragile, settantaquattrenne Gregorio aveva finito di celebrare la messa di Pasqua nella cattedrale quando fu arrestato nella sua residenza, deposto e condannato a morte. Fu lasciato morire in pubblico e con dolore, e il suo corpo penzolò sul portale principale, dove rimase per alcuni giorni. Gli fu legato al collo il consueto cartello, che lo accusava di tradimento e faceva esplicite allusioni al suo essere originario del Peloponneso e alla sua compromissione con i «grandi peccati» compiuti da «mal consigliati briganti» in quella regione. Notizie della sua esecuzione e della spoliazione del suo cadavere, che fu trascinato per umiliarlo sulla battigia, circolarono in tutta l’area del Mar Nero e del Mediterraneo orientale e provocarono costernazione in Europa.

Dopodiché non ci fu tregua. Al contrario, fu nominato un nuovo gran visir con istruzioni esplicite di intensificare la repressione e gli arresti e le esecuzioni si moltiplicarono: il sultano accusò il precedente gran visir di aver tenuto un atteggiamento eccessivamente umano verso i non musulmani, e il patriarcato venne assaltato da una turba. Altri tre ecclesiastici importanti furono impiccati in luoghi pubblici della città lo stesso giorno del patriarca; molti altri vennero arrestati e uccisi nei giorni seguenti. A Costantinopoli diventò pericoloso per gli stranieri avventurarsi per le strade: si rischiava di essere avvicinati, derubati, malmenati e coperti di sputi. In giro per una passeggiata, il cappellano dell’ambasciata britannica vide qualcuno che camminava davanti a lui in un vicolo pugnalare un uomo a morte con noncuranza e con un unico colpo: l’assassino guardò la vittima cadere, ripulì il suo yatagan ed entrò in un caffè dove si mise tranquillamente a fumare. Un altro greco, riccamente abbigliato, lottò con due assalitori, perse turbante e babbucce e fu trascinato nel fango, costretto a inginocchiarsi e decapitato. Constantinos Oikonomos, illustre studioso e docente, riuscì a fuggire per nave a Odessa dopo essersi nascosto per tre giorni, atterrito «in quelle ore tremende» dalle urla nelle strade. Alla fine fu salvato da un mercante di vini eterista che nascose lui e alcuni altri fuggitivi su una delle sue navi. Pochi giorni dopo l’arrivo di Oikonomos, a Odessa attraccò un’altra nave greca che riportava il corpo del patriarca, ritrovato mentre galleggiava sulle acque del Corno d’Oro; alle spoglie fu data solenne sepoltura e Oikonomos pronunciò una potente orazione funebre⁹⁵.

Circa 230 greci morirono nella capitale ottomana ad aprile, seguiti da altri 100 a maggio e altrettanti nella prima metà di giugno; si profilava un’estate di morte. I greci fuggivano dalla capitale, il trasporto marittimo subiva severi controlli e il commercio giunse quasi a fermarsi⁹⁶. A Costantinopoli perdurava uno stato di guerra. «Questo governo persevera nei suoi sforzi per terrorizzare i suoi sudditi greci», riportava l’ambasciatore britannico, Lord Strangford. «Una popolazione armata e sfrenata, che gira per le vie e i sobborghi della capitale, commette quotidianamente eccessi tali da demolire nei reaya ogni possibile certezza sulla salvaguardia delle loro vite e delle loro proprietà»⁹⁷. Nonostante occasionali moniti da parte delle autorità, il bagno di sangue proseguì nelle settimane successive, non solo nella capitale, ma anche a Edirne, Smirne, Salonicco e altrove. Il sultano ammoniva i suoi sudditi perché non assalissero gli innocenti ma intanto si felicitava con gli istigatori di un massacro perpetrato ad Ayvalk in giugno e continuava a mettere sullo stesso piano zelo ed eccidi⁹⁸.

La violenza della reazione ufficiale ottomana colpì profondamente i diplomatici europei. Era una prima indicazione del fatto che la risposta imperiale sarebbe potuta essere, per quanto vedevano, assai peggiore della stessa insurrezione greca. Con tale reazione iniziò una lenta e, in definitiva, irreversibile erosione della legittimazione del sultano nel giudizio dell’opinione pubblica europea. Più di 40.000 rifugiati lasciarono non solo Costantinopoli, ma anche i principati danubiani, dove le truppe ottomane compirono anch’esse dei massacri, mettendo a dura prova la tolleranza della Russia per la loro presenza nella zona. In Russia si organizzò un grosso sforzo umanitario e crescevano le pressioni per far entrare in azione contro gli ottomani il grande esercito di cui il paese disponeva. Alla testa del partito favorevole alla guerra c’era Capodistria, che in febbraio era stato messo ai margini, ma adesso aveva riguadagnato un ruolo influente. A giugno l’ambasciatore russo denunciava ciò che descriveva come l’obiettivo della Porta di «sterminare chiunque porti un nome cristiano in Turchia»⁹⁹. Giorni dopo, Capodistria preparò un ultimatum che accusava il sultano di aver dichiarato guerra ai propri sudditi cristiani e lo avvertiva che «la Cristianità» non poteva essere disposta a rimanere a guardare a tempo indefinito «lo sterminio del popolo cristiano». L’idea di giustificare un possibile intervento negli affari interni di un altro Stato con motivazioni umanitarie veniva espressa forse per la prima volta nella politica internazionale; certamente era la prima volta per un membro di spicco della Santa Alleanza. Alexander Stourdza, il segretario di Capodistria, sostenne che l’estensione dell’insurrezione greca era sufficiente a dimostrare che la rivolta non era affatto simile a quelle di Spagna e di Napoli: non si trattava semplicemente del frutto di una cospirazione giacobina ordita a Parigi, ma dell’espressione di un malcontento profondamente radicato in ampie fasce della popolazione cristiana dell’impero¹⁰⁰.

Ma il sistema delle potenze europee uscito dal Congresso di Vienna fu compatto nel respingere quest’argomentazione. I britannici volevano la pace e i francesi davano valore ai loro tradizionali legami con il sultano. Secondo il cinico Metternich, ciò che accadeva nelle terre ottomane non avrebbe dovuto riguardare affatto l’Europa. «Oltre le nostre frontiere orientali», scrisse in quella primavera, «tre o quattrocento impiccati, strangolati o impalati non contano granché». Parlò diffusamente con lo zar allo scopo di eliminare in lui ogni residua simpatia per la causa greca. «Oggi ho avuto una lunga conversazione con l’imperatore Alessandro», annotò il 9 maggio, pochi giorni prima della fine del Congresso di Lubiana. «Se c’è qualcuno che sia stato autore di un voltafaccia completo, è lui». Ma la notevole fiducia che riponeva nella propria vivace intelligenza lo portava fuori strada, perché lo zar non aveva bisogno di essere persuaso dei pericoli della rivoluzione. Convinto che l’Eteria fosse una perniciosa organizzazione radicale collegata ad altri agitatori operanti altrove, Alessandro disse a Capodistria in agosto di credere che dietro tutte le sollevazioni avvenute nel Sudeuropa ci fosse un «comitato direttivo» a Parigi. L’anno dopo, Capodistria fu escluso dal Ministero degli Esteri. Nonostante rimanesse nel libro paga imperiale, lasciò la Russia e si ritirò a vita semiprivata in Svizzera, dove sarebbe rimasto per i cinque anni successivi¹⁰¹.

Dal punto di vista del sultano, la violenza stava iniziando a produrre gli effetti desiderati. La ribellione nei principati danubiani fu schiacciata, i suoi capi scomunicati, uccisi o esiliati, e l’esercito ottomano riuscì a rioccupare le province senza scatenare conflitti: il ministro russo lasciò Costantinopoli in segno di protesta ma la guerra fu scongiurata e i rifornimenti alimentari alla capitale furono garantiti. In agosto venne emesso un altro decreto imperiale che ricordava ai funzionari di tutti i domini ottomani l’importanza di trattare i cristiani con equità. A Odessa l’Eteria sopravvisse per un certo tempo come organizzazione filantropica ma poi le autorità russe la chiusero. Pareva che tutti coloro che avevano espresso riserve sulla progettata insurrezione nazionale avessero avuto ragione. Avrebbe apportato enormi sofferenze ai cristiani ottomani e non sarebbe riuscita. Dalla città asburgica di Czernowitz un commentatore scriveva quella che al momento era una prognosi plausibile: «la “Carboneria greca” è prossima alla fine»¹⁰².

2.
L’ancien régime di Ali Pascià

«Mio padre», disse Haydée alzando la testa, «era un uomo illustre noto in Europa con il nome di Alì Tebelen, pascià di Giannina; davanti a lui la Turchia ha tremato».

Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo, cap. 76.

Nella primavera del 1821 la cosa che più preoccupava il sultano Mahmud II non era la spedizione greca nei principati danubiani, bensì un pascià albanese ottantenne con la barba bianca lontano centinaia di chilometri che per decenni aveva tiranneggiato i Balcani occidentali. Il problema dell’atteggiamento da tenere verso questo despota, la cui durata al potere nel cuore delle sue province europee costituiva per lui un motivo di sconforto, occupava da lungo tempo i pensieri del sultano. «[Benché] il crearsi di un potere indipendente nel mezzo del suo territorio non fosse nulla di nuovo né di straordinario nell’Impero turco», scriveva un visitatore, «nessuno di questi ha forse mai raggiunto la stabilità e l’estensione del potere che caratterizza il governo di Ali Pascià; così come nessuno ha mai acquisito la medesima importanza nella situazione politica europea». Personaggio astuto, complesso, le sue lacrime di coccodrillo erano familiari per i suoi collaboratori quanto le spaventose punizioni che infliggeva ai nemici; fu soprannominato da Byron «il Bonaparte maomettano», mentre Alexandre Dumas, dotato di un fiuto particolare per le storie capaci di impressionare, lo descrisse come «se non la più brillante, almeno una delle [figure] più singolari della storia contemporanea». Dumas inserì la vita di Ali in una raccolta di criminali famosi e introdusse l’«illustre capo albanese» nella trama del Conte di Montecristo¹⁰³.

Nella storia della rivoluzione greca, Ali Pascià avrebbe svolto un ruolo cruciale; non quello che aveva desiderato, però. Gli agenti dell’Eteria, con i quali, come gli era consueto, faceva il doppio gioco, gli dettero il nome in codice di Suocero, che riassumeva tutte le ambiguità insite nel rapporto intrattenuto con lui. Avevano ben presente la sua importanza per il governo ottomano e il suo valore quale elemento atto a distoglierne l’attenzione. Senza la priorità assegnata dal sultano all’eliminazione di questo parvenu, il destino dell’insurrezione greca sarebbe stato assai diverso. Le autorità ottomane erano fermamente convinte che Ali Pascià fosse per loro la minaccia principale in quella regione e quando ebbero notizia dei piani dell’Eteria per una sollevazione nel Peloponneso credettero che anche dietro di essi ci fosse lui. In tal modo sottostimarono i greci e, finché Ali rimase in vita, l’attenzione e l’impegno militare del sultano rimasero diretti sulle montagne dei Balcani occidentali e sulla base del pascià, nella città di Giannina.

Con la sua placida collocazione lungo un lago ai piedi delle cime innevate dei monti del Pindo, Giannina porta tuttora l’impronta del suo passato ottomano nelle formidabili mura del castello, nelle moschee e in ben conservate dimore d’epoca: siamo a 45 minuti d’aereo da Atene, ma in un altro mondo. Ali Pascià, che negoziava con Napoleone e trattava i diplomatici inglesi come se avesse dignità pari al principe reggente, aveva alle spalle un passato umile trascorso nelle montagne dell’Albania meridionale. Entrato al servizio del sultano in qualità di guardiano di uno dei passi montani del Pindo, alla fine divenne pascià, distruggendo il potere dei suoi rivali e assoggettando al suo dominio vasti territori su ambo i lati delle montagne ed entro il Peloponneso. Eliminò il banditismo che aveva rappresentato per decenni la piaga della regione per i contadini, migliorò la rete stradale e promosse l’istruzione – a Giannina c’erano almeno due rinomate scuole greche. Al contempo i suoi agenti monitoravano ogni potenziale opposizione, aprivano la posta proveniente dall’estero e assassinavano i suoi rivali. Gli scherani del suo capo della polizia confiscavano le proprietà dei mercanti a loro piacimento – furono in molti a fuggire nelle Isole Ionie, a Vienna, a Trieste o in Russia – e imponevano il lavoro coatto ai contadini. Chi lo contrariava doveva aspettarsi la prigione, la tortura e una morte crudele.

Una cosa che sorprendeva chi arrivava per la prima volta nelle sue terre era la buona disposizione che Ali manifestava verso i greci: il suo medico, due dei suoi segretari e diverse guardie del corpo erano greci, così come la giovane moglie, Kyra Vasiliki, il cui fratello Georgios Kitsos avrebbe poi svolto un ruolo significativo nella rivolta¹⁰⁴. Non è chiaro se la sua famiglia fosse originariamente cristiana e si fosse convertita solo poche generazioni prima; ma magari per questo, oppure per l’influenza del bektashismo, Ali manifestò per le divisioni confessionali una relativa indifferenza, che gli consentì di massimizzare efficacemente i benefici offerti dalla società etnicamente fluida dei Balcani occidentali. Governava mediante i suoi figli e anche servendosi di una rete di bey albanesi e di notabili e capiclan greci: noti agli altri greci come “gli uomini di Ali Pascià” (Alipashalides), la loro lunga e intima conoscenza reciproca sopravvisse alla loro morte, travalicò le divisioni religiose e dette la sua impronta al corso della rivolta greca. Ai visitatori europei pareva un vecchio cortese, impellicciato presso un caminetto, curioso e disponibile; ma la sua reputazione di uomo crudele e subdolo era ben nota. Si credeva che avesse accumulato un leggendario tesoro nel suo palazzo di Giannina, e che questa ricchezza fosse il fondamento della sua sicurezza e il segreto della sua permanenza al potere.

All’inizio del 1820 Ali sembrava aver raggiunto il culmine della sua potenza. Quando il governo britannico nominò un nuovo console generale, la sua lettera d’incarico era indirizzata a «Sua Altezza Ali Pascià». Il console William Meyer arrivò carico di doni: un grande servizio da picnic in argento, un telescopio sempre d’argento (con lo stemma reale del principe reggente su un lato e le insegne di Ali Pascià sull’altro), calici di vetro intagliato e alcuni grandi orologi d’argento. Due anelli, uno dei quali adornato da un grande smeraldo, l’altro da un rubino, erano per i due segretari greci del pascià, Manthos Oikonomou e Spiros Kolovos, che erano tra i personaggi più potenti della sua corte¹⁰⁵.

Meyer, però, aveva già udito voci secondo cui le relazioni di Ali Pascià con il sultano erano «in un frangente molto critico e allarmante», ed era vero. Da qualche tempo il sultano guardava con sospetto le sue ambizioni e agognava le sue ricchezze, ma la goccia che fece traboccare il vaso fu quando Ali organizzò l’assassinio di uno dei suoi rivali nella capitale ottomana, e proprio nei pressi del serraglio del sultano. Anche se la vittima predestinata fuggì, furono sparati dei colpi, gli autori del tentato assassinio vennero arrestati e il ruolo di istigatore del delitto svolto da Ali Pascià fu presto scoperto. Si trattò di un’oltraggiosa violazione delle misure di sicurezza e del protocollo, che accelerò la sua caduta¹⁰⁶. Ad aprile o maggio la rottura consumatasi con il sultano era di pubblico dominio. Meyer riferiva che il pascià e la sua famiglia erano «esposti a pericoli più che mai imminenti» e che non erano sicuri del tipo di reazione da mettere in opera. Fu inviata la flotta ottomana allo scopo di riconquistare le fortezze controllate da Ali sulla costa dell’Epiro; posizioni chiave nelle province vennero affidate a uomini fedeli al sultano e un grande esercito si raccolse a Monastir per marciare su Giannina.

Mentre la spaccatura con il sultano si approfondiva, Ali si interrogava su come potesse servirsi dei greci per proteggersi. Alcuni dei collaboratori di Ali erano membri dell’Eteria, e a loro chiese maggiori informazioni sull’organizzazione. A quanto pare credeva, ed era peraltro un’opinione maggioritaria, che l’Eteria fosse uno strumento in mano russa, e così cercò un abboccamento con i russi per capire se potessero prestargli supporto, servendosi di un emissario eterista che si recò a Costantinopoli a riferire sulle sue intenzioni. Tuttavia, com’era tipico del personaggio, anche se stava tentando di conquistarseli, Ali condivideva ciò che sapeva delle trame dei greci con i loro nemici. In quel mese di aprile chiese in una conversazione privata a un funzionario inglese se «avessimo mai sentito parlare di una Società fondata per la liberazione della Grecia, il cui capo era il conte Capodistria, che dopo tale liberazione sarebbe dovuto diventare re di Grecia». Gli fece consegnare dal suo segretario, Kolovos, un elenco con i nomi di una ventina di membri dell’Eteria. Trasmise le stesse informazioni al sultano, sperando di ingraziarselo. Ma l’Eteria non rappresentava una priorità per i britannici, e a Costantinopoli i greci non venivano presi molto sul serio come minaccia¹⁰⁷.

Così, con l’arrivo dell’estate, Ali tornò a concentrarsi sull’opzione russa e quindi sull’Eteria. A quel punto sperava chiaramente di poter essere in grado di resistere contro il sultano e le sue forze finché una nuova guerra con i russi avrebbe cambiato tutto. Una delle sue idee era, presumibilmente, che i russi avrebbero potuto sostenerlo come re dei Balcani occidentali, contemporaneamente alla creazione di un nuovo piccolo Stato greco nel Peloponneso che sarebbe stato posto sotto la sua protezione. Allo stesso tempo Ali tese la mano ai greci che risiedevano nelle sue province: la sua politica nei loro confronti diventò improvvisamente più mite e dette segni di favore verso i capiclan greci e le loro bande. Permise loro di far sventolare la croce sulle loro bandiere e, come atto di speciale cortesia, invitò a cena i capiclan più importanti. A giugno, mentre stava restaurando le fortificazioni intorno a Giannina e immagazzinando armi e viveri per predisporsi a un assedio, il “tema dell’emancipazione dei greci” sotto la sua bandiera era oggetto di ampie discussioni nella regione. A Costantinopoli gli eteristi erano piuttosto interessati a sondarlo¹⁰⁸.

Di fronte al furore del sultano Mahmud II, però, il potere di Ali andava restringendosi con inaspettata rapidità e, con l’arrivo nella regione di migliaia di soldati, la sua presa sulle province si stava allentando. A giugno il suo controllo sul granaio della Tessaglia e sui porti a sud di Parga era divenuto precario: un ultimo convoglio di 8000 some di grano raggiunse Giannina da Trikkala all’inizio di luglio. In città lo stato d’animo contrario al pascià stava prendendo forza, stimolato dalle requisizioni, dall’indisciplina delle sue truppe e dal lavoro coatto che esigeva. Ciò che Ali poteva al massimo sperare era che la volontà del sultano fosse solo quella di lasciarlo, in posizione palesemente indebolita, a capo della regione di Giannina. Ma l’annuncio del sultano, quando arrivò, chiamò i fedeli ad unirsi contro la sua «impudente e scandalosa disobbedienza» e mise in chiaro che il pascià era adesso un fuorilegge¹⁰⁹. Molti dei sostenitori residui di Ali lo abbandonarono e i capiclan armati messi a guardia dei passi montani strategici riportarono a casa la loro gente. Anche la maggior parte degli eteristi presenti nel suo entourage lo lasciarono, alcuni passando addirittura dalla parte del sultano. Dopo qualche ritardo nel reclutamento di soldati nel Peloponneso, una grande flotta ottomana si impadronì di fortezze chiave come Lepanto e organizzò un blocco navale lungo la costa, impedendo l’afflusso di rifornimenti via mare per il pascià. Quando le forze ottomane iniziarono ad assediare Giannina, Ali incendiò la città e si rinserrò nella sua roccaforte sul lago, sostenuto da una guarnigione di alcune migliaia di uomini. Sempre più reparti dell’esercito del sultano entravano in Rumelia diretti verso est: rimaneva soltanto da sconfiggere il vecchio. Scrivendo al Foreign Office a Londra, Meyer sottolineava la rapida «rivoluzione» negli affari della provincia che nel corso di appena tre mesi – da maggio ad agosto – aveva visto Ali passare dal dominio su circa due milioni di persone all’essere dichiarato un ribelle, abbandonato e isolato¹¹⁰.

Tuttavia il pascià rimaneva, pur in queste drammatiche circostanze, un maestro nella conoscenza delle realtà ottomane. Sapeva che mentre una resistenza al sultano in campo aperto non aveva alcuna possibilità di successo, all’esercito assediante rimaneva solo poco più di un mese per far affluire cannoni e fare rifornimento di provviste prima dell’arrivo dell’inverno; a quel punto, se fosse riuscito ad evitare la cattura, le ostilità sarebbero riprese solo in primavera. Impaziente di avere un segnale esplicito dai russi, Alì inviò un altro messaggero a San Pietroburgo per chiedere ancora aiuto. Sapeva che nel frattempo una forza di occupazione aveva bisogno di sopravvivere a spese delle campagne in cui si trovava e per questo rischiava di rendersi impopolare e di provocare reazioni. Conservava buoni contatti con i suoi subordinati sulle colline di entrambi i versanti del Pindo, sia musulmani, sia greci, molti dei quali gli rimanevano fedeli. Infine, aveva a sua disposizione un ingente tesoro, accumulato negli anni, e c’erano voci secondo cui stava corrompendo alcuni comandanti dell’esercito del sultano.

Privo di artiglieria e di munizioni, mal comandato, tale esercito alla fine contava su un numero enorme di uomini ma non era realmente in grado di impaurire la fortezza. I numeri erano ingannevoli; il problema era la motivazione dei soldati, l’organizzazione e il comando. Una famiglia greca in fuga dai combattimenti a Giannina incontrò uno dei reparti ottomani che stavano arrivando in città: prima il suono dei tamburi dei cavalleggeri con le loro uniformi rosse e gli alti copricapi, in due file da trenta cavalli l’una, poi il pascià da solo, e dietro di lui la fanteria. Per lo stupore degli osservatori, i fanti erano tutti greci. A corto di uomini, gli ottomani, come anche Ali, stavano fornendo armi ai greci della regione e portandoli nel conflitto. Si trattava, come rilevato dall’ambasciatore russo a Costantinopoli in un dispaccio, di qualcosa che aveva dello straordinario: in ciò che denominava una guerra civile, entrambi gli schieramenti stavano facendo appello ai greci; non solo Ali, ma, cosa ancor più sorprendente, il sultano, i cui funzionari presenti nella regione stavano adesso chiamando a una rivolta generale dei cristiani contro un musulmano ribelle¹¹¹.

Era un chiaro segno della confusione che regnava nell’impero il fatto che anche l’organizzazione messa in piedi semplicemente per sconfiggere un pascià ribelle costasse uno sforzo tale all’apparato logistico dello Stato ottomano. Decine di bufali morirono nello sforzo di trainare pesanti cannoni dalla costa e ci vollero settimane per costruire le grandi zattere necessarie per pattugliare il lago e impedire agli uomini di Ali di comunicare con i loro alleati. Come prevedibile, anche gli assedianti iniziarono a soffrire per la scarsità delle provviste alimentari disponibili e dovettero mandare i loro cavalli a trascorrere l’inverno nelle pianure. Le gelosie tra i sei pascià che comandavano l’esercito assediante divennero talmente acute che il sultano in persona dovette intervenire spingendoli a cooperare. Alla fine di ottobre del 1820 i capi albanesi della zona stavano aspettando di vedere che piega avrebbe preso il conflitto, a dicembre alcuni di loro stavano iniziando a tornare dalla parte di Ali. Nella popolazione dell’Epiro non erano in pochi quelli che si chiedevano come potesse fare la provincia a sopportare il peso del mantenimento dei soldati del sultano e che iniziavano a guardare con nostalgia al periodo passato sotto il dominio del pascià. Oltretutto, grazie alla guerra, le armi circolavano nella popolazione cristiana in quantità che non avevano precedenti. Scriveva Meyer:

È chiaro che adesso gli albanesi e i greci sono pronti a insorgere in massa al momento che giudicheranno un’occasione a loro favorevole, e a porsi sotto un governo provvisorio da loro formato finché non sarà possibile formulare al sultano opportuni appelli incentrati sulle cause che possono averli costretti, in nome della propria sopravvivenza, a muovere un tale passo [...]. Questo stato di cose è stato determinato principalmente dalle misure inopportune adottate dai pascià che sono stati impiegati per muovere contro Ali Pascià. Il paese è stato vessato dalla rapacità, dalla violenza e dal disprezzo per ogni diritto con cui hanno agito. L’attuale situazione è divenuta intollerabile per il popolo¹¹².

Rendendosi conto che la sua campagna rischiava di avere esiti incerti, il sultano riorganizzò l’intera operazione e si servì dell’intervallo invernale per coinvolgere in qualità di comandante in capo una figura assai più temibile.

Generale brillante ed esperto, alla fine del 1820 Khurshid Pascià aveva raggiunto Nauplia via mare da Aleppo ed aveva appena assunto il suo incarico di governatore della Morea quando il sultano gli ordinò di recarsi a Giannina, alcune centinaia di chilometri più a nord. I bey musulmani del Peloponneso, che lo vedevano prepararsi ad andarsene dopo essere appena arrivato, lo avvertirono di voci su un’imminente sollevazione greca. Khurshid, però, era propenso a seguire la linea data da Costantinopoli, che riteneva ogni altra considerazione in materia di sicurezza nella regione secondaria rispetto alla sconfitta di Ali Pascià. Vedendola a posteriori, se Khurshid fosse rimasto in Peloponneso qualche mese in più, o se fosse riuscito a schiacciare Ali con la rapidità in cui aveva sperato nell’estate del 1821, la storia della guerra d’indipendenza greca sarebbe stata assai diversa: anzi, forse non ci sarebbe stata neppure una vera e propria guerra. Khurshid, invece, procedette verso la città di Larissa per sovrintendere all’approvvigionamento del suo esercito e i suoi reparti avanzati raggiunsero Giannina a marzo, proprio mentre l’insurrezione greca stava deflagrando nel Sud.

Mentre il sultano stava facendo i preparativi per l’offensiva di primavera contro Ali sotto il comando di Khurshid Pascià, l’Eteria sperava di poter sostenere la resistenza del pascià. Alla fine di gennaio partirono da Kišinëv nuove istruzioni per fornirgli appoggio, stabilendo che ciò dovesse essere fatto in modo da dare ai greci accesso alla sua leggendaria ricchezza e da impedirgli definitivamente di riacquisire quella forza che aveva avuto prima della guerra. I greci avrebbero dovuto indurre Ali a pensare che stessero combattendo gli ottomani per suo conto e manifestare il massimo rispetto e la massima fedeltà verso di lui. In tal modo avrebbero potuto espellere le forze ottomane dalla regione per essere in grado, «al primo squillo di tromba», di dichiararsi liberi¹¹³.

Ypsilanti mandò queste istruzioni a Kolokotronis, ma l’ex brigante si trovava già nel Peloponneso. Il compito di eseguirle fu quindi assunto invece da Christoforos Perraivos, che giustamente il console britannico Meyer riteneva «uno dei membri più attivi e importanti dell’Eteria». Rivoluzionario da sempre, docente e intellettuale, prossimo ai cinquant’anni, Perraivos era un anello di congiunzione tra l’Eteria e una prima generazione di radicali balcanici. Era stato compagno del semimitico Rhigas Ferraios prima dell’arresto e dell’esecuzione di questi, nel 1798. Da allora in poi Perraivos aveva stretto un forte legame con i sulioti, le tribù cristiane albanesi che vivevano in esilio e avevano grandemente sofferto per mano di Ali Pascià. Fu per lungo tempo un difensore della loro causa e scrisse la loro prima storia. Attraverso Perraivos l’Eteria sperava di entrare in contatto con i sulioti, di trasformarli da ex vittime di Ali Pascià in suoi alleati e di concretizzare il proprio matrimonio di convenienza con il pascià a Giannina¹¹⁴.

Perraivos lasciò il Peloponneso la settimana precedente allo scoppio dell’insurrezione, arrivò in nave in Epiro e constatò che le cose si stavano muovendo nella giusta direzione: i sulioti erano già tornati sul continente dall’esilio nelle Isole Ionie ed erano adesso pronti a combattere per il loro antico nemico Ali Pascià per riavere indietro le terre dei loro antenati. Dato che i capi sulioti non sapevano nulla dell’Eteria, Perraivos decise di confidare loro quello che chiamò «il grande scopo della stirpe» ed esibì una lettera scritta da Ypsilanti e indirizzata ai «coraggiosi capi degli eserciti greci» in cui, nel suo abituale stile enfatico, il principe esortava i sulioti a dimostrare al mondo che erano discendenti «dei gloriosi eroi di Maratona e delle Termopili». In realtà il nazionalismo era un concetto del tutto estraneo a questi cristiani albanesi che sicuramente non si consideravano a capo di «eserciti greci»: l’anno successivo avrebbero addirittura detto allo zar di Russia – in un messaggio confidenziale che implorava la sua assistenza – che «noi non abbiamo nulla in comune con gli altri greci». In generale si sentivano più vicini agli albanesi musulmani che ai greci, e sicuramente la retorica di Ypsilanti ebbe meno importanza della fiducia riposta dai sulioti in Perraivos¹¹⁵.

L’Eteria non faceva affidamento solo sui sulioti. Anche l’idea che gli stessi greci dovessero ostentare il loro sostegno ad Ali Pascià cadde su un terreno fertile. Dopo anni passati sotto il suo dominio, per molti greci al di qua e al di là del golfo di Corinto era diventato difficile immaginare una vita senza di lui. Prestavano ascolto a voci secondo cui il pascià si era convertito al cristianesimo, oppure aveva promesso una Costituzione che avrebbe liberato i greci dalla tirannia ottomana, o anche che dal suo castello si erano scorte sventolare bandiere con quattro croci. Di fatto, molti greci erano davvero favorevoli all’idea di appoggiare Ali. Un giovane eterista ricordava di aver visitato Patrasso, il porto principale del Peloponneso nordoccidentale, e di essere rimasto stupefatto dinanzi ai sentimenti della popolazione cittadina: «Questa gente [...] voleva che Ali Pascià vincesse e li liberasse: proprio lui! Ali Pascià il tiranno aiutare la causa della Grecia, dare la libertà al nostro paese, quest’uomo che, se avesse prevalso, non ci avrebbe consentito neanche di respirare!». Tali sentimenti venivano incoraggiati dai collaboratori greci di Ali, che erano in costante contatto con i loro connazionali e li esortavano a continuare a sostenerlo¹¹⁶.

Da parte sua, Ali proclamava il suo amore per i greci ma si lamentava perché fino ad allora lo avevano deluso. Ogni sua mossa, scrisse a Perraivos da Giannina, era stata fatta per desiderio «di redimere quella sfortunata razza», ma purtroppo i greci non avevano dato alcun segno di volerlo aiutare. Nonostante la sua età avanzata, aveva compiuto – come Leonida, diceva – una sortita alla testa dei suoi uomini per affrontare il nemico; se i greci avessero seguito il suo esempio, l’assedio sarebbe stato rotto. Ali esprimeva la speranza che adesso tutti avrebbero compreso quale fosse la loro comune esigenza. Uno storico ha descritto l’insurrezione greca come «l’ultima scommessa» di Ali Pascià. E lo fu; ma dimostrò di avere vita propria¹¹⁷.

Infatti la posizione ottomana, come qualche osservatore percepì già all’epoca, non era in realtà più salda di quella di Ali Pascià. Pochi giorni prima dello scoppio dell’insurrezione nel marzo 1821 il console britannico a Prevesa notò che l’influenza dell’Eteria, in precedenza arginata dal clima di terrore instaurato da Ali, si stava ampliando rapidamente – secondo i suoi calcoli contava 200.000 membri, una stima assai esagerata, ma che comunque attestava il suo successo e la sua notorietà – e che l’organizzazione era adesso «attiva al massimo grado». Ovunque circolavano voci sull’imminente insurrezione. «Ciò che mi risuonava sempre nelle orecchie a Giannina, a casa, a Grammenon, ad Arta», ricordava un greco dell’Epiro, «era la frase “Il romeïko verrà”». Il console Meyer non vedeva nel sistema ottomano nulla che fosse in grado di bloccare questo fermento. Qualunque cosa fosse accaduta ad Ali – e Meyer credeva che la sua caduta fosse solo questione di tempo –, la sua idea era che anche nelle terre greche la posizione del sultano fosse ben lungi dall’essere salda. Una crisi che fosse scoppiata improvvisamente avrebbe potuto vedere il suo potere dissolversi «con una velocità assai maggiore di quanto comunemente si pensi»¹¹⁸. Era una valutazione perspicace.

3.
Gli ultimi giorni della Morea ottomana

Mai diventerò reaya, mai mi inginocchierò davanti ai turchi

Né davanti ai notabili e ai kodzabashides.

Stergios, o Il kleftis invitto, canto popolare del Peloponneso¹¹⁹.

Quando Khurshid Pascià si mise in marcia dal Peloponneso per muovere contro Ali Pascià, nell’inverno 1820-1821, pensava che non ci fossero seri motivi di preoccupazione, e in ciò poteva essere giustificato. In confronto con la Serbia, dove era riuscito a domare una ribellione qualche anno prima, per non parlare delle turbolente marche di confine dell’Anatolia, dove stava per scoppiare la guerra contro i persiani, la Morea (nome con il quale il Peloponneso era noto fin dal Medioevo) era un’oasi di tranquillità in un impero sottoposto a minacce costanti. Nel secolo precedente il potere ottomano non vi aveva conosciuto sfide significative, perché pur con la notevole eccezione di una sollevazione ispirata dai russi nel 1770, la penisola era rimasta estranea a disordini di rilevante entità. Gli ottomani avevano ereditato da Venezia una cerchia di ben costruiti castelli che proteggevano la linea di costa. Non prendendo in considerazione la prospettiva di un pericolo che venisse dall’interno, avevano spostato la capitale della regione dalla munitissima Nauplia, sulla costa, alla cittadina di Tripolizza, priva di accesso al mare, situata in comoda posizione al centro della penisola, ma, nel caso in cui fosse stato necessario raggiungerla con dei rinforzi, posta alla fine di una linea di rifornimento lunga, nonché protetta solamente da mura arrangiate¹²⁰.

Anche se Khurshid Pascià cercò di rassicurare i capi musulmani locali sul fatto che non avessero nulla da temere, questi sapevano quanto in realtà il sistema ottomano si reggesse nella regione su un equilibrio precario. Per prima cosa, solo un decimo dei circa 400.000 abitanti erano musulmani nella penisola, che per il resto vedeva la più preponderante concentrazione di cristiani di lingua greca di tutti i Balcani. I musulmani prevalevano a Tripolizza e nelle città costiere veneziane fortificate, ma, con l’eccezione di due regioni nel Sud e nell’Ovest, i villaggi e le campagne erano a schiacciante maggioranza cristiana, il che contribuisce a spiegare perché i greci siano stati in grado di impadronirsi della scarsamente presidiata penisola con tale velocità nella primavera del 1821¹²¹. Anche gli equilibri militari nella regione erano a favore dei greci. Secondo le stime dell’Eteria, nel 1820 c’erano più di 30.000 greci in armi, contro solo 12.800 musulmani. Si trattava di un’esagerazione, perché il divario reale era minore, dato che le truppe musulmane erano molto meglio armate e in maggior parte costituite da soldati di professione, ma comunque rimaneva il fatto che erano numericamente inferiori in quasi tutti i distretti¹²².

In termini economici, una sparuta minoranza di latifondisti musulmani possedeva nella regione un impressionante 60 per cento delle terre, in gran parte nelle mani di solo due famiglie la cui presenza risaliva ai tempi della fine del dominio veneziano. Erano versioni regionali dei grandi potentati provinciali – i cosiddetti ayan – la cui ascesa fu una caratteristica dell’Impero ottomano nel Settecento, esemplificato nel più chiaro dei modi dall’emergere di figure come Ali Pascià di Giannina. Al contrario di Ali, tuttavia, i proprietari terrieri moreoti avevano a loro disposizione forze militari sorprendentemente scarse; perfino il più ricco tra loro, Kiamil Bey – che si diceva controllasse più di cento villaggi dalla sua base a Corinto –, non disponeva di una grande forza combattente sua propria: poteva infatti contare su soli 400 uomini, meno di quelli a disposizione di alcuni tra i notabili cristiani. La relativa debolezza dei bey, che probabilmente rifletteva la carenza di forza lavoro musulmana a buon mercato e disponibile nella regione, venne fuori già nel 1770, quando questi furono agevolmente spazzati via dagli insorti, ed ebbe modo di rivelarsi nuovamente nel 1821. Insomma, il predominio economico dei notabili musulmani mascherava la loro vulnerabilità militare¹²³.

Anche dal punto di vista politico la posizione di questi bey era precaria, perché si trovavano al servizio di un sistema imperiale instabile il cui signore, il sultano, era pienamente consapevole della limitatezza del suo raggio d’azione e perennemente diffidente verso il loro potere, soprattutto verso la tendenza a incorporare interi villaggi nei loro vasti domini. Al contrario, l’apparato amministrativo dello Stato centrale ottomano li proteggeva e sosteneva, soprattutto il Mora valesi, il governatore della regione, che personificava il volere del sultano, la carica alla quale era stato nominato Khurshid: un funzionario di nomina governativa la cui sede era a Tripolizza, responsabile in particolare della disciplina fiscale e dell’ordine pubblico, le due priorità del governo imperiale. Il governatore disponeva di due consigli, uno composto da propri funzionari, l’altro consistente in un piccolo organismo consultivo composto dai maggiori notabili musulmani e cristiani della regione. Erano i membri di quest’ultimo gruppo, i proprietari terrieri cristiani omologhi dei bey, i maggiori rivali e i principali collaboratori di uomini come Kiamil Bey¹²⁴.

I notabili greci della Morea, i kodzabashides, sono tra i maggiori e più ambigui protagonisti dell’intera saga del 1821. Questo perché il tratto davvero singolare di questa regione, che la distingueva dalla maggior parte del resto dei Balcani, era il sorprendente grado di autonomia che fu garantito sotto il dominio imperiale alla sua popolazione cristiana in generale, e alle famiglie più potenti in particolare. Alcune di loro avrebbero avuto ruoli preminenti nella guerra, attestandosi come dinastie politiche destinate a durare fino al ventesimo secolo. I loro memorialisti decantano l’indispensabile contributo di questi «uomini visionari, ponderati, assai competenti, animati da grande patriottismo e da saldissimi princìpi». Altri, però, ne davano una descrizione molto diversa: per molti greci, allora e in seguito, non erano nient’altro che “turcofili” o peggio, vale a dire collaborazionisti, per usare un lessico fortemente connotato proprio di un’epoca successiva¹²⁵.

L’importanza di questi notabili cristiani per il sultano derivava dalla loro capacità di riscuotere proventi fiscali dalla terra e da chi la lavorava. Il Peloponneso era diviso in ventiquattro distretti chiamati kazas, ognuno dei quali affidato all’autorità di un governatore distrettuale musulmano e di un kodzabashi; quest’ultimo, tra l’altro, era incaricato di determinare e di incassare per conto del governo ottomano le tasse dovute dai cristiani. Il kodzabashi veniva scelto annualmente in ogni distretto da un’assemblea che riuniva i capi dei villaggi. A loro volta i kodzabashides si riunivano per scegliere due o tre di loro che avrebbero fatto parte assieme ai loro omologhi musulmani del consiglio del pascià. Le stime sul numero delle famiglie di notabili greci da cui provenivano i kodzabashides variano tra ottanta e circa duecento, ma circa venticinque di esse erano destinate a svolgere un ruolo politico chiave nell’insurrezione, e due di queste – i clan dei Londos e dei Deligiannis – capeggiavano le fazioni dominanti negli anni precedenti. Il potere di tali famiglie era dinastico, garantito dai matrimoni e sottoposto all’autorità complessiva di un paterfamilias che era a capo di un’ampia rete di parenti. Kanellos Deligiannis aveva otto tra fratelli (in maggioranza) e sorelle; Petros Mavromihalis, il bey della Maina (noto come Petrobey), aveva cinque figli e sei fratelli, che tutti – a quanto ci dice uno dei suoi accoliti – «si sottomettevano religiosamente ai suoi ordini». Grandi famiglie come queste potevano facilmente contare decine di membri e un numero equivalente di servi¹²⁶.

Questa insolita forma di governo locale aveva permesso ai greci della regione di sviluppare una tradizione significativa di deliberazione collettiva sotto il dominio ottomano: nella Maina, che aveva un’amministrazione distinta dal pashalik (pascialato, ovvero provincia) della Morea, essa si configurava in pratica come autogoverno sotto il loro bey, che proveniva sempre da una delle grandi famiglie della penisola. I greci moreoti avevano anche altri diritti, come il privilegio di mandare loro rappresentanti a manifestare le loro lamentele a Costantinopoli, alla corte del sultano (cosa che ai musulmani non era consentita); il loro sistema giudiziario era in gran parte autonomo da quello dello Stato ottomano, veniva gestito dai loro vescovi secondo la legge ecclesiastica bizantina: avevano persino il diritto di scegliere il giudice musulmano (kadi) e il governatore (voyvoda) del loro distretto. Alcuni osservatori erano talmente colpiti da questi meccanismi e dal potere da loro conferito ai capi della comunità cristiana che, come scrisse il console francese a proposito della città di Kalamata nel 1788, li vedevano come una forma di «democrazia aristocratica subordinata al sultano»¹²⁷.

Questa «democrazia aristocratica», tuttavia, era parte di una struttura sociale gerarchica che vedeva in basso i poveri abitanti dei villaggi dediti alla semina e alla raccolta: i contadini cristiani della Morea, che rappresentavano la categoria sociale più numerosa, erano quelli che sarebbero insorti nel 1821, avrebbero costituito la massa delle prime formazioni combattenti e sostenuto la rivolta negli anni a seguire. Facevano una vita che nel migliore dei casi era faticosa, perché il Peloponneso era in gran parte montuoso e relativamente povero di terreni agricoli. Negli ultimi decenni del Settecento, poi, la crisi fiscale dello Stato ottomano, specialmente durante le guerre napoleoniche, portò con sé un crescente fardello di tasse che molti abitanti dei villaggi non erano semplicemente in grado di sopportare. Una via d’uscita consisteva nel brigantaggio, un’altra nell’emigrazione, ed è per questo che molti contadini abbandonarono le terre ottomane alla ricerca di una vita più agevole e più prospera altrove, e ciò facendo lasciarono interi villaggi vuoti di abitanti. Per coloro che rimanevano l’indebitamento era in pratica inevitabile; il prestito di denaro divenne un’attività redditizia quanto l’appalto delle tasse per i notabili musulmani e cristiani, che strinsero così la presa sugli abitanti dei villaggi. C’era anche una quarta via d’uscita: convertirsi all’islam. Questa pratica si affermò nel tardo Settecento specialmente nell’Ovest, nei villaggi di lingua albanese intorno a Gastouni e Phanari, e nel Sud, nella zona di Mistrà. Una rete complessa di negoziazioni teneva quindi assieme notabili e contadini, musulmani e cristiani¹²⁸.

In queste circostanze, che vedevano un predominio numerico dei greci controbilanciato da un predominio politico dei musulmani ottomani, non può destare sorpresa il fatto che vi fosse un’ampia interazione fra le due comunità. Come avrebbe potuto essere altrimenti? La vita trascorsa lavorando i campi creava legami che scavalcavano le divisioni confessionali. Nell’entroterra di Malvasia, ci dice un cronista greco, agricoltori musulmani e cristiani vivevano «in pace». I primi si erano «più o meno grecizzati», parlavano greco e non portavano più abiti musulmani. «E la loro dominazione non era neanche tirannica e barbarica». Le maniere ottomane modellarono in modo particolare le abitudini e il comportamento dei notabili greci, che si vestivano e si atteggiavano in modo talmente simile a quello dei maggiorenti musulmani che i greci più poveri non ravvisavano tra gli uni e gli altri grandi differenze. Il combattente Fotakos, che proveniva personalmente da un ambiente umile, ci dice: «Il notabile imitava il turco nel vestire, nel portamento e nell’abitazione. La sua vita agiata era come quella del turco; solo il nome era diverso, magari si chiamava Gianni invece di Hasan e andava in chiesa e non alla moschea»¹²⁹. L’epiteto usato dai contadini per questi notabili era to gounariko – la “gente impellicciata” –, ovvero quelli che indossavano abiti eleganti di foggia ottomana. Uno dei principali atti simbolici compiuti dai notabili nei primi giorni dell’insurrezione sarebbe stata la dismissione dello sfarzoso abbigliamento “asiatico” in favore di abiti contadini greci, quasi a voler aggiungere validità alle proprie credenziali nazionali¹³⁰.

Le famiglie cristiane e musulmane erano legate tra loro anche con intrecci in seguito dimenticati o passati sotto silenzio. Quando Petros Mavromihalis fu nominato bey della Maina nel 1816, divenendo così il responsabile ottomano ufficiale per quel territorio, circolarono voci secondo cui aveva ottenuto la carica solo perché il funzionario imperiale inviato per procedere alla nomina, Sukur Bey, era in realtà il figlio di suo zio Ioannis, Georgios, che decenni prima, da ragazzo, era stato portato a Costantinopoli come ostaggio e si era convertito all’islam. Scendendo nella scala sociale, due dei fratelli minori di Theodoros Kolokotronis vennero catturati e venduti come schiavi durante l’incursione dell’esercito ottomano che prese di mira il clan e uccise il loro padre nel 1780. Kolokotronis – per il quale la famiglia rivestiva la massima importanza – ci dice di essere riuscito in seguito a riscattare i fratelli. Ciò che non è detto nelle sue memorie, ma viene riferito dal suo segretario, è che anche una sua sorella era stata catturata nello stesso frangente e finì in Albania, convertita all’islam e maritata a un imam. Quando Kolokotronis andò a farle visita, più di vent’anni dopo, si abbracciarono in lacrime ma la comunicazione tra loro non fu agevole, dato che lei aveva dimenticato il greco¹³¹. Kolokotronis aveva anche con i musulmani albanesi della zona legami molto stretti, cementati perlopiù tramite fratellanze di sangue (adelfopoiisi). Così suo nonno si era legato a un bey albanese in Morea, e lo stesso Kolokotronis era così intimo del nipote del bey, un notabile di nome Ali Farmakis, da rischiare la vita due volte per lui: la prima per aiutarlo a combattere le truppe ottomane, e poi, dopo la sua morte, per essere andato a fare le condoglianze personalmente alla vedova di Ali. C’erano canti popolari che celebravano la loro amicizia¹³².

Queste storie di coesistenza interconfessionale non devono però oscurare le asimmetrie molto pronunciate del potere sotto il dominio ottomano. I musulmani possono essere stati in minoranza, ma i cristiani si trovavano senza alcun dubbio su un piano di inferiorità. Fotakos ci dice che ogni cristiano che incontrasse sulla sua strada un musulmano era tenuto a smontare da cavallo in segno di rispetto. Gli amministratori ottomani erano in generale preoccupati di mantenere l’ordine pubblico, quindi appoggiavano la Chiesa e tendevano a disciplinare i funzionari musulmani corrotti o impopolari. Ma mentre la violenza cristiana contro i musulmani veniva sempre trattata con rigore, lo Stato musulmano era meno attento rispetto all’inverso, né considerava la violenza operata da cristiani contro altri cristiani come una questione di cui doversi necessariamente occupare: in questo senso, le vite dei cristiani, agli occhi dello Stato, contavano semplicemente di meno. «Perennemente armati, [i turchi] trattavano i miserabili greci come un popolo conquistato», scrisse l’autore di una delle prime analisi della rivoluzione. Non disponendo di una forza schiacciante, lo Stato ottomano faceva affidamento per garantirsi l’obbedienza ai propri voleri su tecniche di altro tipo, quali la presa di ostaggi e la minaccia di punizioni collettive draconiane¹³³.

La natura precaria di questi dispositivi fu dapprima evidenziata nel 1770, quando, dietro incoraggiamento russo, i greci si sollevarono, ponendo così fine a ciò che Kanellos Deligiannis descriveva nelle sue memorie come «un’era di grande tranquillità e letizia [che] i nostri antenati chiamavano [...] i bei tempi»¹³⁴. L’insurrezione fallì perché i rinforzi russi erano troppo scarsi per fare la differenza a favore dei greci, ma per reprimerla gli ottomani della Morea furono costretti a chiamare migliaia di mercenari albanesi che calarono dal Nord e misero il paese a ferro e fuoco. Per i russi l’insurrezione rappresentò un episodio in un più ampio conflitto che alla fine produsse guadagni rilevanti; per i greci del Peloponneso fu una tragedia senza precedenti e decine di migliaia di persone persero la vita negli anni di massacri, pestilenze e saccheggi che seguirono. La memoria di questi eventi era ancora fresca mezzo secolo dopo, e fu uno dei motivi per cui la gente accolse con sospetto quanto l’Eteria affermava sull’appoggio russo: «Caro amico, che cosa pensano di fare», facevano notare dei notabili musulmani a un ecclesiastico greco all’inizio dell’insurrezione. «Guardate, c’è la Rumelia, due salti più in là [...]. In venti giorni centomila turchi sono in grado di invadere la Morea. Ricordate loro l’altro fiasco [la rivolta del 1770], quello che fecero e quello che patirono»¹³⁵.

Una volta repressa la rivolta del 1770, lo Stato ottomano si era trovato di fronte a un problema più grave, ossia quello di ristabilire la propria autorità sui combattenti albanesi. Resi consci della sostanziale debolezza dell’impero in un frangente di crisi, i turchi compresero che l’unico modo per poterli cacciare era proprio quello di richiedere l’aiuto dei greci. Come in altre zone dei Balcani, predoni e banditi, cristiani e anche musulmani, continuavano da molti decenni a svolgere le loro attività, depredando agricoltori e viaggiatori e talvolta passando dall’altra parte della barricata, ovvero a un genere di lavoro più stabile e legale, mediante l’accettazione di incarichi che li ponevano a guardia dell’ordine pubblico. Questi briganti, noti come kleftes, divennero il nerbo di quelle forze greche che combatterono per un certo tempo dalla parte degli ottomani per schiacciare gli albanesi¹³⁶.

Così i decenni dopo il 1779 si trasformarono in una sorta di età dell’oro per i kleftes di Morea, un periodo che avrebbe poi conosciuto un’idealizzazione quale momento di resistenza al dominio ottomano. In realtà, la libertà a cui i kleftes tenevano era in primo luogo la propria. «Tre villaggi si lagnano di noi, / tre cittadine», inizia una ballata popolare su Zacharias Barbitsiotis, forse il più temuto capo kleftis in assoluto. Vi si dà un’immagine tutt’altro che romantica del brutale comportamento dei suoi uomini verso i contadini e vi si trasmette il misto di terrore e ammirazione che il suo nome evocava:

E un prete di Agios Petros,

cosa gli ho fatto, a quel cornuto, che sbraita contro di me?

Gli ho macellato i buoi o le pecore?

Ho dato un bacio alla sposa, a due sue figlie,

gli ho ammazzato un figlio, l’altro l’ho preso

e ho voluto 502 fiorini per restituirlo.

Tutto distribuito in paghe per i soldati, per i pallikaria,

e nulla tenuto per me¹³⁷.

«Svelto, di buona complessione e di altezza media», con capigliatura nera e riccia, una ferita sul sopracciglio destro «che lo rendeva bello» e una voce tonante, Zacharias era «indipendente a un punto tale che mai nella sua vita riconobbe qualcuno come suo superiore», o almeno così ci dice un notabile greco che scrisse un suo ricordo. Le storie che si raccontavano su di lui spaziavano dalla sua prestanza fisica – nella lotta riusciva ad atterrare qualunque membro della sua banda – alla sua bandiera, su cui era scritto «Libertà o morte». Probabilmente estorceva denaro ai kodzabashides greci come ai bey musulmani, anche se si diceva che il ricco Kiamil Bey intrattenesse con lui rapporti amichevoli. Le imprese di Zacharias erano leggendarie, ma persino alcuni dei suoi cronisti sentirono di non poter tacere la sua passione per la bottiglia, la sua tristemente nota crudeltà e la tendenza a maltrattare le donne. Quando venne tradito e ucciso da un capoclan mainota, si disse che la cosa fosse stata stimolata in parte dalla pressione ottomana e in parte dalle libertà che Zacharias si stava prendendo con una parente di questi¹³⁸.

Lo spavaldo disprezzo mostrato dai kleftes per la società sedentaria dei villaggi, l’uso della razzia per finanziare la sopravvivenza delle loro bande, il loro non-conformismo e l’ardimento furono tutti aspetti che si resero evidenti quando la rivoluzione del 1821 iniziò e che contribuirono più tardi a farne degli eroi nazionali. Tra di loro c’era il padre di Kolokotronis, che apportò alla famiglia una certa rinomanza poi passata a Theodoros, diventato a sua volta un kleftis. Quando questi aveva dieci anni, suo padre fu ucciso; in seguito combatté sotto Zacharias. Alla fine, però, il governo ottomano coordinò una campagna contro le bande che si avvalse del sostegno del patriarca di Costantinopoli, il quale emise un veemente decreto dove si ordinava a tutti i buoni cristiani di aiutare a ripulire la provincia dai «malfattori e kleftes». Molti di questi furono spazzati via. Lo stesso Kolokotronis riuscì a fatica a scampare, si nascose e si mise in salvo sulle Isole Ionie, dove avrebbe trascorso la maggior parte del quindicennio successivo, tornando nel Peloponneso solo occasionalmente e a rischio della propria vita¹³⁹.

Nel 1806 i kleftes erano quasi sgominati, e il potere dei notabili era più grande che mai. Quando si trovarono a dover fronteggiare aumenti delle tasse e dei controlli a causa delle guerre napoleoniche, si opposero e, dopo la trovata di Ali Pascià che nominò suo figlio, Veli Pascià, governatore della Morea, i notabili cristiani e musulmani iniziarono insieme a tramare allo scopo di cacciarlo. In un’iniziativa eclatante fecero anche collettivamente appello a Napoleone affinché portasse il Peloponneso sotto la protezione francese, impostando uno schema di condominio politico in cui avrebbero governato insieme la regione. La proposta non ebbe esito alcuno ma rimase, agli occhi stupiti di storici greci posteriori, «una combinazione insensata e sbagliata» di Croce e Mezzaluna. Un modo migliore per guardare ad essa sarebbe il considerarla espressione della solidarietà di classe di un’élite regionale, più potente di qualunque divisione religiosa¹⁴⁰. Questo forte sentimento di classe era tuttavia accompagnato da intense rivalità e lotte intestine. Esistevano due fazioni consolidate di notabili – una sosteneva Veli Pascià, l’altra lo avversava – e in entrambe si riscontravano strette alleanze fra clan cristiani e musulmani. Tale modo di far politica portò a esiti sempre più drammatici: i capi greci delle due fazioni furono entrambi giustiziati in ragione delle attività che avevano svolto. Nel 1820 i notabili del Peloponneso si trovarono così bloccati in un gioco mortale che richiedeva una costosa attività di lobbying presso la corte imperiale per ottenere benefici sempre più incerti.

Tornando ai kleftes sopravvissuti, banditi dalla terraferma, fecero buon uso dell’esilio trascorso nelle Isole Ionie durante le guerre napoleoniche. Al di fuori della Maina erano in pochi i cristiani capaci di usare le armi, ma alcune migliaia di loro acquisivano adesso un addestramento militare e un’esperienza di combattimento da volontari in reggimenti allestiti nelle isole a varie riprese da francesi, russi e britannici. Fu servendo in questi reparti che i kleftes di Morea incontrarono i loro omologhi delle zone più a nord, greci e albanesi, cristiani e in qualche caso musulmani, ponendo le basi per quei legami personali che alcuni anni dopo avrebbero contribuito alla rapida crescita dell’Eteria. Furono in molti a ritrovarsi sotto il comando di un militare di carriera britannico, Richard Church, al quale piaceva posare indossando la sua fustanella (gonnellino bianco) da ufficiale comandante del 1° reggimento fanteria leggera greca. Kolokotronis era un ufficiale subalterno della stessa unità e i suoi rapporti con Church rimasero stretti anche dopo lo scioglimento del reggimento, alla fine delle guerre napoleoniche: un decennio dopo avrebbero combattuto ancora insieme quando Church fu invitato ad assumere in Grecia la carica di comandante dell’esercito rivoluzionario.

Ma nel 1816-1817 questi uomini d’arme greci si trovavano in una specifica situazione di stallo: erano tra i circa due milioni e mezzo di veterani congedati in tutta Europa alla fine della guerra. Church andò a combattere per i Borboni a Napoli, mentre alcuni greci si recarono in Russia per riscuotere gli arretrati loro dovuti e si affiliarono poi all’Eteria. Tenendosi l’elmo rosso da ufficiale del suo reggimento, simile a quello dei dragoni, Kolokotronis si stabilì malvolentieri a Zante, in una piccola casa, con la moglie e i figli, dove faceva il macellaio e a volte approfittava delle lezioni impartite al figlio dal suo insegnante privato. Altri compagni d’armi tornarono ai loro rifugi sul continente, ma per Kolokotronis il Peloponneso rimaneva rischioso. Scriveva con invidia dall’esilio a un altro capo tornato sui monti: «Tu sei riuscito a raggiungere la tua patria e mangi carne senza doverla pesare [...] io non l’ho trovata, ed è improbabile che ci possa andare». Inadatti alla vita in borghese, uomini come lui risposero entusiasti alla chiamata dell’Eteria perché dava loro una possibilità non soltanto di tornare, ma di farlo in una veste nuova e più virtuosa, quella del patriota¹⁴¹.

Tra le figure meno note che tornarono nel Peloponneso prima del 1821 c’erano il nipote di Kolokotronis, Nikitaras, e suo cugino, Dimitris Koliopoulos, comunemente chiamato Plapoutas. Nel 1818 Plapoutas era un kapos (armigero) della famiglia Deligiannis, dotata di immenso potere, che, come gli altri maggiori clan, teneva decine di armati a libro paga. Quell’estate, nel giorno della festa di Agia Paraskevi, fu coinvolto assieme a Nikitaras in una zuffa di paese tra ubriachi nelle colline a ovest di Tripolizza, che costò quasi la vita a Kanellos Deligiannis e rappresentò un’eloquente illustrazione dei rapporti sociali esistenti nel Peloponneso prerivoluzionario tra quattro gruppi chiave: i funzionari del governo ottomano, i notabili greci, gli uomini d’arme e, non meno importanti, i quasi anonimi contadini.

Plapoutas, Nikitaras e altri stavano scortando Deligiannis e un altro notabile per vie montane verso un incontro col governatore ottomano a Tripolizza; lasciati i loro capi da soli per l’ultimo tratto che portava in città, erano tornati indietro passando per il villaggio di Alonistaina, noto per essere luogo di ritrovo di fanatici musulmani. Prevedendo guai, tanto più in coincidenza con una festività, Deligiannis aveva messo in guardia Plapoutas dal farvi ingresso, un ordine che lui e i suoi uomini disattesero puntualmente; come prevedibile, i balli e le bevute nel caldo estivo portarono presto a una rissa che finì con due dei facinorosi musulmani colpiti a morte e altri feriti. Gli abitanti del villaggio entrarono nel panico, consci com’erano che sarebbero stati ritenuti responsabili dell’accaduto dalle autorità ottomane, e misero in fuga Plapoutas e i suoi uomini, sparando loro mentre scappavano e ferendo a un piede Plapoutas, che Nikitaras portò in salvo nei boschi caricandoselo sulle spalle.

Quando a Tripolizza arrivò la notizia che due musulmani erano stati uccisi da cristiani in un villaggio sulle colline, si radunò di fronte alla moschea una folla che invocava vendetta. Si profilava una carneficina e un grave pericolo incombeva su Kanellos Deligiannis e il suo compagno di viaggio, che avrebbero alloggiato in città quella notte. Per fortuna erano già stati avvisati da un messaggero che si era precipitato da loro prima dell’alba, e l’amicizia con i notabili musulmani del luogo permise loro di guadagnare tempo. Fu proprio il pascià a nascondere i suoi due importanti ospiti greci nei pressi degli appartamenti delle donne del suo palazzo, a ordinare alla folla inferocita di disperdersi e ad annunciare che i responsabili sarebbero stati identificati e puniti. I due notabili greci furono protetti da una numerosa scorta musulmana, mentre un’unità di cinquanta uomini lasciò la città con l’incarico di riportare le teste dei colpevoli.

Ma Plapoutas era il braccio destro di Deligiannis e il figlio del kapos più forte e intrepido della regione, un kapobashi (capo di un gruppo di kapoi) e kleftokapetanios (capo di una banda di kleftes), un rude ex pastore la cui massiccia torre è tuttora visibile nella sua roccaforte di Paloumba. Legami annosi univano le due famiglie, solo pochi anni prima quella di Plapoutas aveva aiutato alcuni uomini dei Deligiannis a trovare rifugio in un frangente di pericolo: l’idea di consegnare Plapoutas alle autorità, che lo avrebbero fatto ammazzare, era quindi inconcepibile per Deligiannis. Come prevedibile, quando il piccolo reparto ottomano tornò a Tripolizza due giorni dopo con un paio di teste tagliate per mostrare alla folla che i responsabili erano stati uccisi, le teste in questione non appartenevano agli assassini ma a due sventurati pastori cristiani che si trovavano al lavoro nelle campagne. Quasi nessuno in città era in grado di riconoscere l’aspetto di Plapoutas; l’onore era salvo, la questione si chiudeva così. Nelle sue memorie Deligiannis dice che i due innocenti erano stati uccisi dai turchi. Altre fonti ipotizzano che fossero stati invece soppressi su suo ordine e consegnati al comandante ottomano assieme a una mazzetta per comprare il suo silenzio. Sicuramente il denaro era entrato nella questione: anni dopo Deligiannis esprimeva scrivendo la sua rabbia non solo perché le azioni compiute dal suo braccio destro stavano per costargli la vita, ma anche perché era stato costretto a spendere personalmente 20.000 grossi come “prezzo del sangue” versato alle famiglie dei due turchi morti, più altri 50.000 in doni per il pascià, i suoi funzionari e altri notabili musulmani¹⁴². Deligiannis avrebbe poi svolto un ruolo cruciale di leader nella guerra nel Peloponneso; lo stesso Plapoutas divenne un capo militare di rilievo, e in seguito senatore e aiutante del re. Quanto ai due campagnoli che avevano perso la vita, i loro nomi rimasero noti localmente e le tombe in cui giacevano i loro corpi senza testa sopravvissero fino alla fine dell’Ottocento. Nelle sue memorie Deligiannis si riferisce a loro semplicemente come a «due poveracci» (dyo ptochous), degli sventurati capitati nel posto sbagliato al momento sbagliato¹⁴³.

Gli emissari dell’Eteria nella regione avevano perlopiù un’esperienza da combattenti e reclutarono nell’organizzazione molti kleftes e kapetanioi provenienti dai reggimenti delle isole, uomini che avrebbero formato la spina dorsale della struttura militare di comando durante l’insurrezione. Tuttavia i notabili liquidavano questi uomini come loro inferiori da un punto di vista sociale. Deligiannis, ad esempio, descrive l’emissario Anagnostaras come «un opportunista e una nullità» e afferma che i suoi approcci venivano respinti da altri notabili¹⁴⁴. Nonostante questa ambivalenza, che persistette da entrambe le parti, quasi tutte le grandi famiglie non solo aderirono, ma fecero anche opera di reclutamento, e se non lo avessero fatto la rivoluzione non sarebbe mai decollata: questa conclusione, almeno, viene suggerita dal coinvolgimento molto più lento e più parziale di altre regioni, come la Grecia occidentale o le isole di Idra e di Chio, i cui notabili erano molto più cauti e schivi di quelli della Morea. Nell’estate del 1820 esisteva in tutto il Peloponneso una rete dell’Eteria che era ampia e in espansione. Ciò creava tra i kodzabashides un’inquietudine notevole dovuta alla loro relativamente debole capacità di controllo su un’organizzazione cospirativa la cui mera esistenza aveva, se scoperta dai musulmani, la potenzialità di rovinarli e di distruggere la posizione di cui disponevano. Non conoscendo con sicurezza le dimensioni dell’organizzazione, l’identità dei suoi capi e neppure i progetti che aveva, si attivarono per preservare la propria tradizionale autorità. Nei Pensieri dei peloponnesiaci intorno alla formazione di un sistema – un documento da loro inviato all’Eteria in Russia nella primavera del 1820 e destinato alla sua ancora anonima dirigenza che vi si trovava – proponevano che l’Eteria consentisse loro di creare un’amministrazione regionale per gestire i fondi da loro raccolti in Morea e per imporre l’obbedienza tra i suoi membri. Ypsilanti, da poco svelato quale capo dell’Eteria, si dichiarò d’accordo, sottolineando però che i loro rappresentanti – articolati secondo uno schema che vedeva la presenza di tre vescovi e di almeno cinque notabili – avrebbero dovuto riconoscere la sua autorità suprema. Su questa base andarono avanti¹⁴⁵.

Il più importante emissario di Ypsilanti nel Peloponneso era un prete di nome Grigoris Dikaios, meglio noto ai greci come Papaflessas. Nipote di un kleftis della Messenia, Papaflessas era un uomo astuto, mordace, indiscreto e ambizioso la cui vita era consistita in una lunga serie di beghe. Gli insulti rivolti a un funzionario turco quando andava ancora a scuola avevano indotto la famiglia a mandarlo in un convento per salvaguardare la sua incolumità; per uno scontro avuto con l’abate aveva poi dovuto spostarsi in un altro. Alla fine si recò a Costantinopoli con una lettera di raccomandazione che, come scoperse quando la aprì, lo qualificava come dissoluto e inaffidabile. Gettò via la lettera e di lì a non molto si ritrovò archimandrita al servizio del patriarca nella capitale ottomana, nonché membro dell’Eteria¹⁴⁶.

Fatto per mandare avanti le cose con qualsiasi mezzo si richiedesse, Papaflessas fece per molti mesi ampia opera di proselitismo per l’Eteria nei principati danubiani e tornò poi a Costantinopoli, dove costrinse l’uomo che lo aveva reclutato ad ammetterlo al rango più elevato, puntandogli un coltello e minacciando di andare dal sultano se non lo avesse accontentato. Il genere di comportamento che aveva portato Galatis alla morte valse invece a Papaflessas la promozione e, quando Ypsilanti fu messo a capo dell’Eteria, Papaflessas impressionò il principe con la sua energia e la sua risolutezza. Al raduno di Ismail dell’ottobre 1820 era uno dei più espliciti sostenitori di un’azione immediata nel Peloponneso – regione che non visitava da tre anni – e Ypsilanti gli dimostrò la sua approvazione con doni preziosi e incaricandolo della missione di informare i greci del Peloponneso del suo imminente arrivo.

L’indole collerica di Papaflessas prese un’ultima volta il sopravvento prima della sua partenza per Costantinopoli. Una mattina, mentre si insaponava la barba, si infuriò a un punto tale con il suo servitore, che aveva proceduto troppo presto al risciacquo, da colpire l’uomo in pieno viso. Il servitore, un tataro musulmano, andò dal locale capo della polizia e disse che il suo padrone era al centro di un complotto contro il sultano e che in casa c’era un frequente andirivieni e si parlava di atti di violenza. «Che genere di uomo siete, che avete schiavi musulmani e girate di qua e di là, aizzando i cristiani contro il mio signore?», rimproverò a Papaflessas il funzionario. Papaflessas protestò di essere semplicemente un monaco che viaggiava per diffondere la parola di Dio e di aver tentato di fare un atto di carità prendendosi cura di un povero. «Queste sono le mie armi», disse, tirando fuori dal cappotto un libro di preghiere. Una bustarella gli garantì il rilascio, ma l’episodio incoraggiò la dirigenza dell’Eteria, nonché il patriarca, ad avviarlo verso sud per portare il messaggio dell’arrivo di Ypsilanti¹⁴⁷.

Quando s’imbarcò, alla fine del 1820, portando con sé una somma considerevole prelevata dai fondi dell’Eteria, Papaflessas doveva già essere al corrente del fatto che l’insurrezione non avrebbe avuto luogo prima della primavera. Inspiegabilmente, però, non aveva ancora appreso che Ypsilanti si era nel frattempo impegnato nell’opzione danubiana, e quindi si aspettava ancora che il principe arrivasse nel Peloponneso per assumere il comando. Papaflessas fece vela verso le coste dell’Asia Minore per commissionare un carico di munizioni, passò da Idra e Spetses per stimolare il sostegno alla rivoluzione e giunse al largo del Peloponneso poco prima di Natale, calcolando che Ypsilanti si trovasse non troppo lontano dietro di lui. Mentre i notabili moreoti discutevano tra loro su chi dovesse incaricarsi di coordinare le attività e di garantire i contributi finanziari, Papaflessas mandò loro un programma del tutto fantasioso chiedendo loro di formare un esercito di «soli venticinquemila uomini» esperti nell’uso delle armi e organizzati in reparti inquadrati da ufficiali, che fossero pronti ad agire all’arrivo di Ypsilanti. Ciò era tipico della mancanza di realismo che lo contraddistingueva. Venendo a sapere chi fosse il nuovo emissario dell’Eteria, un kodzabashi che lo conosceva rimase atterrito: «Papaflessas? Oddio, siamo spacciati!»¹⁴⁸.

Un incontro segreto di cruciale importanza ebbe luogo alla fine di gennaio 1821 tra Papaflessas e i membri più rappresentativi dell’Eteria nel Peloponneso. Riuniti a Vostitsa, sul golfo di Corinto, i maggiori notabili e i vescovi della regione appresero per la prima volta che Ypsilanti era atteso di lì a poco per assumere il comando. Non ne furono lieti per molte ragioni. Per prima cosa, non avevano alcuna voglia di mettersi agli ordini di un principe fanariota. Poi, rimanevano profondamente preoccupati e incerti sulla questione del sostegno russo. L’incontro riuscì solo ad acuire le loro preoccupazioni. Papaflessas era grossolano, non convincente, rude e cocciuto, incapace di rispondere alle, peraltro non facili, domande rivoltegli: il piano dell’Eteria era quello di insorgere solo nel Peloponneso o anche altrove? Perché adesso che l’Europa era in pace? Quale sarebbe stato l’atteggiamento delle potenze europee? La Russia sarebbe intervenuta, e come? C’erano in corso dei preparativi militari, o no? Non rimasero impressionati dalle roboanti risposte di Papaflessas né dalla minaccia che se si fossero rifiutati di obbedirgli avrebbe usato i fondi di cui disponeva per arruolare mercenari della Maina al fine di iniziare una guerra e lasciarli poi da soli a difendersi dai turchi¹⁴⁹. Non credendo alle sue assicurazioni sul sostegno russo, aspettavano dai propri emissari a Mosca conferma di quanto aveva detto

Grecia 1821

L'autore

Mark Mazower

Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.

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