Prefazione alla presente edizione
di Walter Veltroni
Era il 1989. Questo libro fu pubblicato per la prima volta in un anno destinato a
racchiudere in sé, simbolicamente, l’idea stessa del cambiamento, persino dello sconvolgimento.
Di vecchi assetti, di equilibri internazionali che sembravano immutabili. Il crollo
del muro di Berlino, il mondo non più diviso in blocchi contrapposti, le ideologie
senza più il peso terribile di un tempo e l’ingresso in un’altra epoca. Qualcuno parlò
persino di «fine della Storia», ritenendo che la tendenza a livello globale non potesse
che essere rivolta a conformare i sistemi politici ai principi della democrazia liberale.
I primi due decenni del nuovo secolo, iniziato di fatto con il ripiegarsi su se stesse
di quelle due Torri, nel modo più terribile che si potesse immaginare, si sarebbero
poi incaricati di dimostrare quanto le cose siano in realtà molto più complesse e
per nulla lineari. Ed oggi una pandemia che, oltre a fare milioni di vittime e ad
avere pesantissime conseguenze economiche e sociali, ha privato per la prima volta
le nostre generazioni di aspetti relazionali importanti, di una libertà che credevamo
acquisita per sempre, fa sentire ancora più lontano l’anno, il tempo, in cui questo
libro fu dato alle stampe. Eppure...
Eppure, ha ragione, Eugenio Scalfari, quando dice che nulla si è perso della sua attualità.
Merito della straordinaria bravura, della profondità dello sguardo e della scrittura
sapiente di Giuseppe Fiori. E merito di una vita, quella di Enrico Berlinguer, che
continua a parlare a chi voglia mettersi in ascolto e riflettere sul passato con occhi
attenti e mente libera.
A leggere, o rileggere, queste pagine, c’è una domanda che inevitabilmente ad un certo
punto ci si arriva a porre: la vicenda politica di Berlinguer, gli anni della sua
segreteria, rappresentarono una rottura con la tradizione comunista oppure no?
Perché è vero, di Berlinguer qui viene ripercorso il cammino fin dall’inizio: il suo
ambiente familiare, le lotte giovanili a Sassari nell’immediato dopoguerra, l’arrivo
a Roma e il lavoro nel partito. Ma questo libro è soprattutto un’analisi dell’attività
di Berlinguer come massimo dirigente del più grande partito comunista occidentale,
e di come il Pci abbia svolto un ruolo centrale nelle vicende politiche del nostro
paese. Proprio per questo si può anche dire che in fondo questa di Fiori è una storia
del Pci di quegli anni, e se si vuole una storia anche dell’Italia di quegli anni.
Sì, dal punto iniziale è difficile sfuggire: soffermandosi sulle parole di Berlinguer,
sugli avvenimenti che lo videro protagonista, sulle decisioni che fu chiamato a prendere,
sembra sia passato un secolo, tanti sono i cambiamenti intervenuti da allora. E però,
non è certo inutile riflettere su di lui, sulle sue idee, sulla fatica e sulle difficoltà
della sua ricerca, sulle vicende di cui fu protagonista. E non è certo fuori luogo
porsi quella domanda. Se, cioè, Berlinguer fu un innovatore o meno rispetto alla tradizione
alla quale apparteneva.
Per cercare una risposta si potrebbe intanto partire da un aspetto fondamentale, che
il racconto di Fiori aiuta a ben comprendere. Quello dell’idea della politica che
animava Berlinguer. Un’idea permeata di integrità assoluta, di intransigenza ideale,
di attenzione costante e tenace all’interesse generale, al bene pubblico. Convinzioni
profonde, inamovibili, che lo portarono a sollevare il grande tema della moralità
nella politica e a vedere, senza timore e prima degli altri, cosa stava accadendo
nelle pieghe più profonde del nostro paese: la degenerazione della vita pubblica,
la diffusione dei poteri occulti, l’ipertrofia del sistema dei partiti e la trasformazione
di alcuni di essi in puri strumenti di consenso e di potere. Ci volle coraggio per
tenere la barra ferma su queste posizioni. Essendo consapevole, peraltro, di essere
pressoché inascoltato.
Questo non vuol dire che fu sempre pronto a capire i cambiamenti, che ebbe in ogni
occasione la necessaria capacità di innovazione. Ci sono scelte, compiute in quegli
anni, che oggi appaiono segnate da elementi di conservatorismo. E anche allora, senza
ricorrere al senno di poi, è vero che a diversi di noi, dirigenti più giovani, sarebbe
piaciuto vederlo spingere di più sull’acceleratore. Mentre invece succedeva che a
volte le sue intuizioni, i suoi passi in avanti, fossero seguiti da affermazioni più
rassicuranti. Dipendeva dalla sua preoccupazione, quasi un assillo, di dover portare
con sé il grande corpo del partito, evitando lacerazioni e rotture. Per questo il
solco restava quello di una «continuità» che poteva prevedere il rinnovamento, ma
non la cesura, non la messa in discussione dei tratti identitari più profondi.
Dopo di che, sapeva battersi contro i ritardi culturali e le resistenze ai mutamenti
radicate nella sua stessa parte politica, senza paura e con la capacità di mettere
in moto, anche affrontando il peso della solitudine, i processi politici che riteneva
necessari. In questo senso, per tornare alla nostra domanda, non si può certo dire
che fu prigioniero della tradizione. Fu un innovatore, che si muoveva nel suo tempo,
capace di portare il Pci ben oltre le colonne d’Ercole del consenso elettorale che,
dal dopoguerra, non era mai arrivato oltre il 28 per cento. Con la sua segreteria
i comunisti italiani raggiunsero la percentuale del 34, una cifra che, nella sua storia,
la sinistra italiana conoscerà solo in un’altra occasione. Il Pci in quegli anni diventò
un luogo politico al quale guardavano anche persone non «ideologicamente» comuniste,
che non accettavano la dittatura del proletariato né la nazionalizzazione dei mezzi
di produzione e tantomeno il partito unico. Persone che amavano più l’Occidente che
i paesi socialisti, più la giustizia sociale che l’egualitarismo. Ma che consideravano
il Pci il partito che si batteva dalla parte degli ultimi, che aveva una concezione
sana della politica, che difendeva diritti civili e sociali. E che, con Berlinguer,
avviava la necessaria separazione, fino al finanziamento, dall’orbita sovietica. Nella
quale, seppur con tutta l’originalità e la sapienza dell’originalità nazionale, i
comunisti italiani, fino alla segreteria di Berlinguer, erano rimasti sostanzialmente
imbrigliati.
Sul piano internazionale infatti, al di là di una visione anticipatrice come quella
del «governo mondiale» o dell’impegno per il disarmo e la pace, la partita più importante
giocata da Berlinguer fu evidentemente quella del rapporto dei comunisti italiani
con l’Unione Sovietica, con l’obiettivo di accelerarne la separazione e di accettare
in pieno il vincolo rappresentato dalla presenza dell’Italia nella Nato. Una sfida
che in un certo senso partì nel 1968, l’anno dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia,
della repressione sanguinosa della «primavera di Praga». Un momento in cui il gruppo
dirigente del Pci fece sentire la sua voce critica, più che in passato, ma non tanto
quanto avrebbe dovuto. Il «grave dissenso» rispetto all’invasione di un paese sovrano
e alla brutale repressione della «primavera» di Dubek era qualcosa di inadeguato. Fu quella la seconda grande occasione storica per giungere
alle conclusioni dovute.
La prima, mastodontica, fu fornita dall’invasione dell’Ungheria nel 1956. Ho sempre
detto che la scelta sbagliata di Togliatti compromise la possibilità di costruire
in Italia una sinistra riformista e democratica che avesse una ambizione maggioritaria.
Psi e Pci separarono le loro strade, che non si incrociarono mai più. Era quello il
momento in cui una scelta di rottura avrebbe potuto creare le condizioni per una grande
forza unitaria della sinistra italiana. Disse Giuseppe Di Vittorio nella drammatica
riunione della Direzione del Pci: «L’insurrezione è un fatto storico e dobbiamo trarne
le lezioni. Bisogna modificare radicalmente i metodi di direzione nei paesi di democrazia
popolare e cambiare anche la politica economica». Non molto di più, ma non era poco.
Togliatti gli rispose così: «Di Vittorio non ha avuto fiducia nel partito sulla posizione
del partito e gli ha sostituito un proprio giudizio sentimentale e settario. Non è
vero che la libertà deve essere al di sopra delle riforme economiche. Noi sappiamo
che per costruire il socialismo ci vogliono sacrifici e anche restrizioni che debbono
essere comprese e accettate dalle masse». Italo Calvino scrisse, nell’agosto del 1957,
una sincera e dolorosa lettera di dimissioni dal partito: «Insieme a molti compagni,
avevo auspicato che il Partito comunista italiano si mettesse alla testa del rinnovamento
internazionale del comunismo, condannando metodi di esercizio del potere rivelatisi
fallimentari e antipopolari…». Circa duecentomila militanti abbandonarono il partito,
dopo il sostegno ai carri armati sovietici.
C’era ancora la guerra fredda, eccome, quando, otto anni dopo l’invasione di Praga,
a febbraio, Berlinguer arrivò a Mosca, al XXV Congresso del Pcus, a dire che la via
al socialismo a cui il Pci pensava significava rispetto del pluralismo, «rispetto
di tutte le libertà individuali e collettive, delle libertà religiose e della libertà
della cultura, dell’arte e delle scienze». Basta andare a rileggere i giornali di
allora, il rilievo internazionale che fu dato alle sue parole, per capire quanto fossero
importanti quei giudizi espressi in quel luogo, in quel momento, dal segretario di
quel partito. E poi, l’anno successivo, rieccolo in una grande sala del Cremlino,
ad affermare di fronte ad una platea decisamente gelida «il valore storicamente universale»
della democrazia e ancora «il carattere non ideologico dello Stato, la possibilità
dell’esistenza di diversi partiti, il pluralismo nella vita sociale, culturale e ideale».
D’altra parte, non poteva avere un’accoglienza calorosa, a Mosca, chi appena qualche
mese prima aveva dichiarato, nella famosa intervista a Giampaolo Pansa, di sentirsi
più sicuro «stando di qua», sotto l’ombrello della Nato, piuttosto che sotto quello
del Patto di Varsavia. Ormai era solo questione di tempo: il celebre «strappo» nei
confronti dell’Unione Sovietica arrivò nel 1981, all’indomani dei fatti di Polonia,
quando nel corso di una «Tribuna politica» televisiva Berlinguer affermò che effettivamente
la «capacità propulsiva» di rinnovamento delle società dell’Est europeo era venuta
esaurendosi.
Sul piano interno, la grande sfida di Berlinguer fu quella di rompere l’immobilità
di una situazione – la famosa conventio ad excludendum – che voleva il Pci sempre e comunque all’opposizione, sia lavorando pazientemente
per far assumere al partito la cultura e l’identità di una forza di governo, sia intervenendo
sul piano dei rapporti e delle alleanze tra le forze politiche e sociali del paese,
per preparare in prospettiva, nel tempo, la possibilità di un’alternativa anche in
Italia.
La strategia del compromesso storico fu, di questa sfida, senz’altro il punto più
alto. Fu il momento della ricerca dell’incontro tra le grandi componenti popolari
della società italiana. Fu una politica che doveva passare attraverso l’interlocuzione,
essenziale, con la Democrazia cristiana e con Aldo Moro, convinto anch’egli della
necessità di aprire una nuova stagione. Non sarebbe stato facile. Di questo Berlinguer
era convinto. E in effetti si trattò di un cammino lungo e contrastato, che di fatto
si esaurì politicamente, in modo drammatico, con il rapimento e la morte di Aldo Moro
da parte delle Brigate rosse. Perché i due leader avevano sfidato le logiche di quella
guerra fredda dalla quale l’idea della collaborazione tra le grandi forze popolari
voleva distaccarsi. Era troppo presto. O troppo tardi.
Furono, quelli, i giorni più difficili della esperienza politica di Berlinguer e dell’Italia
di quegli anni. L’atteggiamento del Pci fu, come è noto, quello riassunto nella «linea
della fermezza», ispirata dalla convinzione che lo Stato non potesse piegarsi, trattare,
cedere. Una linea che Berlinguer portò avanti probabilmente sapendo che quella vicenda
sarebbe stata la pietra tombale della politica per la quale, negli ultimi anni, aveva
speso le sue migliori energie intellettuali e politiche.
Il Pci aveva pagato in quei mesi un prezzo alto. Aveva suscitato una grande spinta
popolare, quella delle vittorie del ’75 e del ’76, ma poi aveva riversato quel credito
nel sostegno a tre governi monocolori democristiani, persino guidati da Andreotti.
C’è da pensare cosa direbbe di questa scelta chi assurdamente stravolge l’identità
di Berlinguer in senso ideologico, rappresentandolo come il puro difensore di una
identità chiusa. Berlinguer scelse la via forse obbligata, in quel momento. E lo fece
guardando al pericolo di strappi alla democrazia, che in Italia non erano fanfaluche.
Erano le bombe di piazza Fontana e di Brescia, la strategia della tensione, i tentativi
di golpe. Berlinguer sacrificò consenso elettorale al perseguimento di quelli che
gli apparivano, ed erano, gli interessi nazionali in gioco. Se dopo le elezioni del
1976 il paese fosse precipitato nell’ingovernabilità, con l’inflazione alle stelle
e forti condizionamenti finanziari esterni, con il sangue nelle strade, forse la democrazia
avrebbe vacillato. Come fu nei 55 giorni di Moro. La cui morte, voluta da molti, interruppe
quella stagione di apertura.
Si chiuse così la stagione che avrebbe dovuto aprire una fase diversa della vita politica
italiana. Il Pci rimase, per usare un’espressione ormai consolidata, in mezzo al guado:
la linea dell’alternativa democratica, annunciata da Berlinguer a Salerno alla fine
del 1980, fu portata avanti senza aver completato l’indispensabile passaggio della
legittimazione comunista attraverso una partecipazione al governo e con l’enorme limite
della mancanza degli interlocutori necessari a realizzarla, visto che il Psi di Craxi
aveva ormai scelto la strada della «collaborazione conflittuale» con la Dc all’interno
del pentapartito e aveva avviato una aperta e dura competizione politica e ideologica
con il Pci in vista di un riequilibrio all’interno della sinistra italiana. Una sfida
politica e culturale che forse si sarebbe dovuta accettare a viso aperto.
Di Berlinguer restano, in questi anni, da una parte le preoccupate analisi sullo «scadimento
di livello» della politica italiana – al cui interno vedeva i segni di un grave impoverimento
culturale, il venir meno del respiro ideale, il prevalere della lotta tra correnti
e gruppi rivali che non si curavano degli interessi generali – e dall’altra lo scontro
sul decreto del governo Craxi che rivedeva il meccanismo di funzionamento della scala
mobile. Fu questa, insieme a quella per le elezioni europee del 1984, la sua ultima
battaglia politica. Una battaglia prevalentemente «difensiva», senza la piena comprensione
dei mutamenti economici e sociali e dei processi di modernizzazione in atto nel paese,
che proseguì senza di lui e si concluse con la sconfitta nel referendum dell’anno
successivo. Nello stesso periodo Berlinguer cercò di estendere i confini anche culturali
della sinistra guardando ai movimenti ambientalisti, alla cultura della differenza,
alle conseguenze antropologiche delle nuove tecnologie, all’interdipendenza nel mondo
globale.
Berlinguer, insomma, fu tutto questo. Si può dire che portò al massimo livello possibile
il mutamento e l’apertura del Pci, in quel tempo storico e nei recinti di quella identità.
Fu la consapevolezza dell’esigenza del mutamento e al tempo stesso il tentativo, fino
all’ultimo, di far coincidere continuità e trasformazione, tradizione e innovazione.
In alcuni aspetti e momenti prevalsero le prime caratteristiche, i vincoli e i limiti
che gli venivano da una identità, dalla sua storia, dal suo tempo. Ma nella maggior
parte dei casi brillò la sua capacità di guardare lontano, di produrre le accelerazioni
che riteneva necessarie e che poi hanno permesso alla sinistra italiana di proseguire
il cammino fino ad incontrare le diverse famiglie del riformismo italiano. E per questo
il suo pensiero e il suo modo di intendere la politica sono, a quasi quarant’anni
dalla sua morte, ancora vivi e pieni di significato.
maggio 2022
Prefazione
di Eugenio Scalfari
Di tanto in tanto si torna a parlare di Enrico Berlinguer, dentro ma anche fuori di
quello che fu il suo partito e che ora, sotto nuove sigle e con nuovi contenuti, ne
conserva ancora la memoria al servizio di una diversa identità.
«Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise»:
questa massima che si legge nella Scienza Nuova di Giambattista Vico è ormai classica e sancisce in due righe l’immutabilità dei
caratteri sia degli individui sia dei soggetti collettivi. Ma è una massima che sopporta
parecchie eccezioni. Una di esse si è verificata nel Partito comunista italiano e
nelle derivazioni politiche che si ebbero in seguito alla sua trasformazione, la quale
ha avuto origine propriamente durante la leadership di Enrico Berlinguer.
Fu in quegli anni infatti che si consumò lo strappo tra il Pci e il Pcus; fu allora
che l’appartenenza dell’Italia alla Nato fu valutata dal Partito comunista italiano
anche come un fattore di stabilità democratica pur mantenendo ferme le distinzioni
e le critiche di quell’organismo in cui si esprimeva la politica europea degli Stati
Uniti.
Fu infine in quella fase che furono tentate varie e alquanto eterodosse iniziative
politiche da parte del Pci, tra le quali vanno ricordate l’eurocomunismo, cioè una
sorta di collaborazione rafforzata tra i partiti comunisti italiano francese spagnolo;
il compromesso storico con la Dc; la politica di unità nazionale della quale furono
artefici Moro e Berlinguer. Infine l’atteggiamento del Pci durante le drammatiche
vicende delle Brigate rosse, del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro e la «blindatura»
della classe operaia contro il terrorismo brigatista, adottata di conserva dal Pci
di Berlinguer e dalla Cgil di Luciano Lama.
Quest’evoluzione impressa da Berlinguer alla linea politica del suo partito e in qualche
modo anche alla sua più profonda natura aveva naturalmente dei precedenti. Alcuni
remoti, che risalgono al congresso di Lione che – in piena clandestinità antifascista
– dette luogo ad una vera e propria rifondazione del partito sulle ceneri di quello
bordighiano uscito dalla scissione di Livorno del 1921. Altri assai più recenti, emersi
durante la crisi del ’56 con l’invasione dell’Ungheria da parte delle forze armate
sovietiche e poi durante l’analoga crisi del ’68 con l’invasione della Cecoslovacchia
e la sconfitta della «primavera» di Dubek.
Fu Berlinguer a raccogliere questi precedenti e a farne strumento per affrontare i
nodi che impedivano al Pci di considerarsi (prima ancora d’esser considerato dai suoi
interlocutori) come una forza disponibile per la democrazia italiana.
Non vorrei essere frainteso. Ho conosciuto bene, anche con un rapporto di privata
amicizia, Enrico Berlinguer e so dunque che egli non ha mai cessato di ritenersi comunista
e non ha mai pensato ad abiure della propria militanza né della storia del suo partito.
Il suo rifiuto dello stalinismo, degli errori e dei crimini di quel regime, fu denunciato
con chiarezza, ma quei crimini ed errori furono imputati alla degenerazione d’un sistema
creato da un uomo, dal gruppo dirigente da lui guidato, dal terrore da lui usato come
prassi di governo.
Questa denuncia, del resto resa inevitabile dopo il rapporto Chrušëv dei primi anni Sessanta, non risaliva però alla matrice leninista, interpretata
ancora in chiave sostanzialmente positiva. Essa rappresentò l’ultimo filo tra il Pci
e la Rivoluzione d’Ottobre; filo sempre più esile, che fu di fatto reciso con la solenne
dichiarazione di Berlinguer sulla «fine di ogni capacità propulsiva dell’Ottobre Rosso»
sulla sinistra mondiale, europea, italiana.
Quella dichiarazione prevedeva la rottura completa e definitiva del Pci con il proprio
passato «terzointernazionalista»?
Credo di sì, ma non subito. Il centralismo democratico di cui Berlinguer fu l’ultimo
rappresentante escludeva le scissioni. Il suo incubo, che accompagnò tutti gli anni
della sua segreteria, fu che il passo dell’avanguardia fosse troppo più veloce di
quello della retroguardia, intendendosi con queste due definizioni il tasso di revisionismo
innovativo che il gruppo dirigente doveva gradualmente introdurre nel corpo del partito.
Nei fatti questa sua costante e quasi ossessiva preoccupazione fu la causa della (a
volte esasperante) lentezza con cui procedette la svolta berlingueriana. Luigi Longo,
di cui Berlinguer fu vicesegretario prima di prenderne il posto, aveva avuto a sua
volta lo stesso problema e l’aveva risolto proprio scegliendo lui come successore
designato, con il consenso di tutto il gruppo dirigente. Longo decise di tagliar fuori
dalla successione sia Amendola sia Ingrao che, rappresentando specularmente due diverse
e contrapposte concezioni della linea del partito, approssimativamente definite come
destra e sinistra, avrebbero rischiato di accelerare nell’uno o nell’altro senso la
dislocazione del Pci, creando come inevitabile conseguenza proprio quella cesura tra
l’avanguardia e la retroguardia che era lo spauracchio temuto da tutti. Berlinguer
fu scelto proprio per la sua posizione centrale tra le due contrapposte ali, perché
forniva per il suo modo d’essere tutte le garanzie d’una evoluzione lenta e compatibile
con l’unità.
Così avvenne, ma i dirigenti del Pci non avevano probabilmente messo nel conto che
l’epoca che dovevano fronteggiare e nella quale anche il loro partito doveva collocarsi
avanzava invece con un’accelerazione drammatica in tutti i campi: nei saperi, nelle
tecnologie, nella globalizzazione dei bisogni e delle aspettative, nella percezione
dei diritti umani, nel desiderio di partecipazione e in quello strettamente connesso
della visibilità. Infine stava cambiando il rapporto con la felicità individuale,
che nessuno era più disposto a rinviare troppo a lungo nel tempo consolandosi con
il miraggio di preparare in quel modo la felicità dei figli e dei nipoti.
Da questo punto di vista il Sessantotto rappresentò una drammatica frattura generazionale
e una rivalutazione netta del presente (tutto e subito) rispetto sia alla memoria
del passato sia agli investimenti per il futuro.
Il movimento sessantottino spiazzò il Pci, abituato da sempre alla cultura dei doveri
individuali e non dei diritti, che pure sentiva vivissimi ma soltanto come diritti
del partito e della classe, non già degli individui.
A me è capitato molte volte di discutere di questi argomenti così connessi tra loro
sia con Longo e poi con Berlinguer, sia con Amendola, con Ingrao, con Pajetta, con
Reichlin, in interviste pubblicate su «Repubblica» ed anche nel corso di incontri
di natura più privata. Ne discussi anche con Franco Rodano, che nei primi tempi della
segreteria di Berlinguer ebbe con lui un rapporto particolare, in seguito diventato
molto più distaccato.
Questi incontri mi hanno persuaso che il tema della «diversità comunista» che Berlinguer
pose alla base della sua linea politica e del suo pensiero fu motivato dalla convinzione
che bisognasse trovare un comune legame capace di tenere insieme il popolo comunista
nel momento in cui si attenuava, fin quasi a scomparire del tutto, il cemento ideologico.
Il partito stava cambiando natura sotto l’incalzare dei fatti e di fronte all’inarrestabile
implosione del comunismo sovietico; la vera e propria mitologia che aveva rappresentato
per la classe operaia e per la base del Pci una sorta di religione laica era ormai
divenuta un guscio vuoto. Lo sforzo di Berlinguer per tenere unita la sua gente nel
passaggio più difficile, e cioè nel guado dalla sponda comunista a quella democratica,
fece leva sul concetto di diversità morale, e la questione morale diventò appunto
il terreno etico-politico sul quale il Pci combatté l’ultima sua battaglia.
Ridurre la questione morale, così come Berlinguer la pose, al solo aspetto della corruzione
di uomini politici, imprenditori, amministratori locali, burocrati, significa non
aver compreso i termini veri della questione. Quell’aspetto c’era, naturalmente, e
rappresentò la parte più vistosa e «popolare» della stagione di «Mani pulite», quella
che fu percepita dalla gente e determinò l’ondata di vero e proprio giustizialismo
che dominò l’affondamento della Prima repubblica e dei partiti che l’avevano governata.
Ma la concezione di Berlinguer andava molto al di là delle ruberie da parte delle
persone e dei partiti; poneva il problema dell’uso delle istituzioni, del contrasto
divaricante tra la Costituzione scritta nella Carta e quella «materiale» invalsa nell’uso
che la partitocrazia ne aveva fatto per quarant’anni. Infine assegnava al Pci il ruolo
di partito della Costituzione, cercando di realizzare attraverso di esso quella legittimazione
democratica che l’affiliazione al comunismo sovietico aveva fino a quel momento resa
impossibile.
Il compromesso storico fu l’ultimo mito del Pci, così come la questione morale era
stata la sua ultima battaglia politica. Per entrambe queste uscite dal ghetto degli
intoccabili l’interlocutore privilegiato, il solo disponibile nel campo opposto, fu
Aldo Moro, la cui sanguinosa fine rappresentò un colpo tremendo per il Pci di Berlinguer.
Credo che il leader comunista sopravvalutasse la visione politica di Moro, la cui
statura intellettuale non andava molto al di là delle convenienze tattico-strategiche
del suo partito. Moro era ben consapevole del degrado della Dc, della progressiva
perdita di contatto con il popolo, dell’ipocrisia del potere democristiano e del cinismo
con cui veniva amministrato. Da questo punto di vista la sua personale preoccupazione
non fu mai quella di tentare un rinnovamento profondo del partito, ma soltanto quella
di farlo durare nella gestione del potere ampliandone il sistema di alleanze fino
ad includervi anche il Pci. La «grande coalizione» rappresentava ai suoi occhi lo
strumento per il Pci di acquisire la legalizzazione tanto necessaria, e per la Dc
almeno un altro decennio di perduranza al vertice del governo e dello Stato. Moro
aborriva la tesi del compromesso storico, cioè della proposta berlingueriana di procedere
insieme – Pci e Dc, masse comuniste e masse cattoliche – per trasformare lo Stato
e farne strumento di trasformazione della società. Credo avesse ragione: il compromesso
storico era infatti una formula vaga quanto illiberale, escogitata da Berlinguer per
superare il fossato che gli si parava dinanzi.
Al compromesso storico Moro contrapponeva la formula dei governi d’unità nazionale,
ancorati all’emergenza dominante in un paese dilaniato da una crisi economica latente
e da fenomeni di terrorismo devastanti. Questo era il suo orizzonte operativo: limitato
ma concreto, comunque accettabile e infatti accettato da tutte le componenti democristiane
anche prima del suo rapimento e della sua uccisione. La prova dello scetticismo con
cui Moro affrontò questo difficile passaggio fu nel fatto che la prima realizzazione
di quel governo fu da lui affidata a Giulio Andreotti, vero e proprio prototipo del
cinismo politico e delle capacità digestive con le quali per quasi mezzo secolo la
Dc aveva assorbito e metabolizzato i suoi alleati, trasformandoli in paletti di sostegno
per reggere le sempre più pericolanti arcate del potere cattolico in Italia.
Berlinguer si rese conto del rischio di seguire con qualche anno di ritardo la stessa
esperienza che il Psi di Pietro Nenni aveva vissuto con il centrosinistra. Il rapimento
di Moro gli tolse però ogni possibilità di manovra. Alla fine si divincolò mandando
in scena la svolta di Salerno.
Era la seconda volta che la città campana teneva a battesimo un’ardita operazione
politica del Partito comunista. La prima volta era stata nel ’44, con l’appoggio di
Togliatti – appena rientrato da Mosca in Italia – al governo Badoglio, contestato
invece dai socialisti e dal Partito d’Azione. La seconda fu la fine della politica
di unità nazionale e la scelta che Berlinguer fece dell’alternativa democratica. Secondo
il leader del Pci la rottura con Mosca era già stata interamente consumata e questo
rendeva il Pci disponibile come forza di governo. La linea dell’unità nazionale non
aveva più ragion d’essere; bisognava invece costruire l’alternativa alla Dc aggregando
le forze laiche e cattoliche disponibili e accentuando le caratteristiche costituzionali
del Pci e la forza dirompente della questione morale.
Questa linea portava dritti allo scontro frontale con Craxi e con l’ala moderata della
Dc. L’incontro con De Mita – in qualche modo erede della politica di Moro – era alle
porte.
Il tempo però era scaduto in tutti i sensi: la società italiana era cambiata, la delega
alla partitocrazia era stata ritirata e lo si vide poi dai referendum promossi da
Mario Segni; il sordo e montante malumore della società era arrivato ai livelli di
guardia; la stagione di «Mani pulite» era ormai alle porte.
In questo contesto sopravvenne la morte di Enrico Berlinguer, con il suo partito a
metà del guado ma ormai irrevocabilmente in marcia verso la sponda democratica.
Il libro di Giuseppe Fiori che ora Laterza ripropone rivisita questi fatti, questi
problemi e quel personaggio con una finezza di analisi, una dovizia di riscontri ed
una partecipazione intensa quanto contenuta dal ruolo del ricercatore, sì da farne
un testo cui il tempo non ha tolto nulla della sua attualità. Debbo anzi dire che
il passar del tempo quell’attualità l’ha accresciuta: una tempra morale e politica
come quella di Enrico Berlinguer come avrebbe reagito alle condizioni dell’Italia,
dell’Europa e del mondo di oggi?
Naturalmente la domanda non è proponibile. Resta però il rimpianto della mancanza
di figure del suo carisma, della sua tempra, della sua qualità.
Si continuerà a discutere a lungo della politica di Berlinguer, con passione e disparità
di opinioni; ma un fatto è certo: di uomini del suo stampo il paese avrebbe oggi più
che mai bisogno, e invece sono proprio figure di quella statura che ci mancano. Ogni
epoca produce classi dirigenti rappresentative delle società che le esprimono. A giudicare
da ciò che vediamo sotto i nostri occhi, le società attuali debbono essere di assai
scadente qualità se i gruppi dirigenti sono quello che sono.
maggio 2004
I.
Da San Sebastiano a Salerno
1. Tumulti per fame. Sassari, sera ventosa di mercoledì 12 gennaio 1944. Al numero 4 di vicolo San Sisto,
un budello fradicio con odore di cavoli e lardo a spina sul Corso, ha da poco la sede,
una stanza spoglia, il movimento giovanile comunista. Nella luce rossiccia d’una lampadina
debole, una ventina di ragazzi dei rioni popolari – Sant’Apollinare, San Donato, le
Conce – ascoltano il segretario, uno studente di ventidue anni prossimo alla laurea
in legge, non alto, dimagrito dentro l’abito di sempre, che gli casca largo, le orecchie
ad alettoni, i capelli neri corti, a spazzola, la fronte corrugata in faccia liscia:
Enrico Berlinguer, d’una famiglia della piccola nobiltà agraria e professionale, avvocato
repubblicano legato a Garibaldi il nonno, deputato dell’Unione amendoliana nel ’24
il padre, Mario, ora leader del Partito d’Azione. Discutono animatamente d’una manifestazione
in piazza per l’indomani giovedì 13 gennaio1.
È un inverno di fame dura. Ogni mattina, torme di popolane escono dalle città e dai
villaggi per raccogliere erbe selvatiche, mangiate senza condimento, companatico di
soli centocinquanta grammi di pane a testa per l’intera giornata. Nell’Italia divisa
in due – la parte occupata dai tedeschi, Roma compresa, e il Mezzogiorno liberato
dagli anglo-americani – la Sardegna è separata dagli uni e dagli altri. Chiusi i traffici,
nessun approvvigionamento. L’isola deve bastare a sé (con in più i centocinquantamila
soldati non sardi che vi si trattengono come ingabbiati). E l’annata è stata rovinosa:
deludente il raccolto del grano, le ortaglie invernali risentono dei geli e della
siccità, l’oliva è magra, dà poco olio, e pesa l’impoverimento del patrimonio zootecnico
per le requisizioni in quattro anni di guerra. Un’agricoltura già povera che l’isolamento
ha ridotto al collasso. Mancano i concimi, le macchine e gli attrezzi agricoli. Manca
il foraggio per le bestie da lavoro. In aggiunta è un problema serio anche trasportare
agli ammassi e poi ai mercati il poco che si produce. Complessivamente non circolano
in Sardegna che trecento automobili e quattrocento camion sempre sul punto di fermarsi
per l’indisponibilità dei pezzi di ricambio e il logoramento delle gomme. Inevitabile
che in queste condizioni il meccanismo del razionamento salti. Dal novembre del ’43
non sono più distribuiti carbone, olio, zucchero, pasta, riso, legumi e sapone. D’altri
generi tesserati, indumenti, tessuti, calzature, stoviglie, s’è perso il ricordo.
Rarissimi i medicinali. Per il resto, il commercio è di merce scambiata con merce
(la lira è senza valore) ed ha le ristrette dimensioni d’un mercato delle pulci; significativa
la piccola pubblicità del quotidiano di Sassari «L’Isola»: «Industria surrogati di
caffè acquista ghiande fresche o essiccate», «Compransi fonografi valigia con dischi»,
«Cerco camioncino con o senza gomme».
Nel pieno della calamità, qual è la preoccupazione dei rinascenti partiti antifascisti?
Totalmente privi di potere e appiattiti in un ruolo di garanzia della nuova gestione
politica ed amministrativa, tutta affidata peraltro ai militari ed ai prefetti badogliani,
essi badano in primo luogo alla propaganda, a martellare su un punto: la catastrofe
di cui le angustie presenti sono la naturale conseguenza non ha che un responsabile:
il fascismo. «È Mussolini il responsabile, è il fascismo, che bisogna ancora battere
[...]. Se non arrivano aiuti è perché molta parte dell’Italia – annota “L’Isola” –
è occupata dai fascisti italiani e tedeschi, che debbono essere cacciati con ogni
sacrificio, con tutte le forze...»2.
Un’altra preoccupazione è di dissuadere le plebi da «impazienze e nervosismi», parole
di Mario Berlinguer, cinquantatré anni, penalista di buona cultura il cui prestigio
di oppositore s’è accresciuto a partire dalla breve esperienza dell’Aventino. «Vi
è il pericolo – ammonisce sul quotidiano di Cagliari “L’Unione Sarda” – che dalla
crisi possano sorgere (sia pure sporadiche) manifestazioni incomposte di malcontento
o pretese assurde da parte di qualche nucleo di popolazione o inconsapevole o egoista
che ha la singolare sensazione che la guerra sia finita e si sia tornati alla normalità
ed all’abbondanza». Attenti, perché «l’inconsulto vociare in qualche piazza [...]
non risolverebbe alcun problema». E allora «bisogna reagire subito, dire al popolo
parole chiare, frenare ogni demagogia [...]. E se occorre – ecco la conclusione severa
– bisognerà reprimere le eventuali agitazioni inconsulte* e sempre colpire prontamente, inesorabilmente, quei fascisti, palesi o travestiti,
che tentano di alimentarle aggravando così la crisi di cui essi sono i primi corresponsabili
per la loro politica rovinosa e per la guerra che essi solo hanno voluto ed esaltato»3.
Fascisti «palesi o travestiti» tutti gli «insofferenti» pronti al tumulto? Non i giovani
operai e manovali riuniti nella stanza nuda di vicolo San Sisto, sicuramente. Il fatto
è che essi, meno attenti degli antifascisti anziani al quadro politico generale, sentono
in modo più acuto, per l’esperienza di vita in famiglie povere o per slancio generazionale,
una contraddizione non risolta: giacché le privazioni sono estreme nei tuguri, dove
ci si vende per fame, e la malnutrizione stronca i vecchi, e la tubercolosi ha terreno
di propagazione, e cresce la mortalità nella prima infanzia; quando altrove si incetta
con la tolleranza o la distrazione delle questure, e nel giro alto-borghese le provviste
non scarseggiano, e c’è, alimentato da scorte abusive, tutt’un mercato nero infrequentabile
da chi non abbia mezzi cospicui. Sarà tempo di carestia; ma soprattutto per le classi
strumentali, chiamate, esse molto più dei ceti benestanti, a sacrificarsi... Che fare?
I giovani comunisti scenderanno in piazza...
Il compito di indurre alla mobilitazione le donne delle Conce, un rione con tanfo
di miseria, è affidato da Enrico a uno scaricatore di carbone, Cicito Mura. Uno dei
presenti, l’aiutante autista Francesco Spanu, vent’anni, è un infiltrato al servizio
della questura...
Così l’indomani, in un mattino chiaro dopo una nottata d’acqua, i dimostranti, cinquecento
tra donne e ragazzi scalcagnati che innalzano stracci rossi attaccati a bastoni, sono
fronteggiati in piazza d’Italia, davanti al Palazzo del Governo, da un nutrito schieramento
di carabinieri a cavallo, con un rinforzo di autoblindo dell’artiglieria. Succede
poco: grida ostili all’indirizzo del prefetto, ne chiedono la cacciata (fascista,
gridano), la risposta alle cariche della forza pubblica è qualche sassata. Poi tutti,
Enrico in testa, davanti agli uffici della Commissione Alleata per chiedere a gran
voce la distribuzione di pane, pasta e zucchero. Nessun incidente. Uno ha in tasca
bombe a mano, ma non le usa. La manifestazione è sciolta anche qui senza difficoltà.
Solo più tardi piccoli gruppi si riformano in punti diversi della città e la percorrono
puntando al Municipio, al Mercato civico, ai forni. Donne infuriate assaltano e saccheggiano
il pastificio Arru-Fadda, ed è il solo momento di violenza. Già nel primo pomeriggio,
il tono in giro è di normalità...
Arriva alla sezione giovanile di vicolo San Sisto il segretario dei comunisti adulti,
Andrea Lentini, sessantun anni, gallurese di Luras, organizzatore dei minatori nel
Sulcis, sindaco di Gonnesa nel 1920, un passato di arresti, deportazioni alle isole
e condanne al carcere, e nei momenti di libertà mestieri precari, custode al sanatorio
e poi affittacamere. È contrariato. I giovani comunisti – dice – non possono dimenticare
che l’Italia liberata e gli alleati anglo-americani sono ancora impegnati duramente
nella guerra per liberare dall’oppressione tedesca i compagni e i fratelli dell’Italia
occupata. I giovani comunisti, ripete, debbono tirarsi fuori da questi torbidi che
fanno solo il gioco dei fascisti... Esortazione ben motivata. Solo che, nei tristi
accampamenti di periferia e nei vicoli del centro, l’inasprimento degli animi per
la troppa fame spinge al subbuglio come sfogo necessario: ormai il malcontento rifiuta
guida e freno.
Il primo mattino dell’indomani venerdì 14 gennaio 1944, alle 7.30, due commessi di
panificio che portano alle rivendite cesti con ottanta chili di pane sono assaliti
e depredati da popolane esasperate. Un’ora più tardi, alle 8.30, in Porta Sant’Antonio,
nella città vecchia, insieme alle donne tumultuano uomini maturi, non più soltanto
i ragazzi, e c’è la bandiera rossa con falce e martello, e sono in molti, cresciuti
dai cinquecento di ieri a duemila. Il programma è di assalire e saccheggiare case,
forni, negozi. Urlano. La forza pubblica, dislocata a presidio dei palazzi pubblici,
è altrove. In corteo i dimostranti si muovono, tempestosi, verso Sant’Apollinare.
Un ciclone con risonanze di schianti. Assaltano il mulino Farbo-Masedu, irrompono
nel magazzino Fara e nel Mercato civico. Il poco che trovano, semola, pasta, zucchero,
carbone, è immediatamente distribuito. Ecco i carabinieri e gli artiglieri. Ci sono
scontri: cariche, sassaiole. La massa cenciosa preme sui portoni dei frantoi, rompe
vetri, devasta. Da San Giacomo al Duomo a piazza Tola non un magazzino di grano, di
farina, di pasta è risparmiato. Solo a distribuzione terminata (ma è stato magro il
bottino), i dimostranti lasciano il campo...
In serata, secca è la sconfessione del comitato provinciale di Concentrazione antifascista,
che naturalmente rappresenta anche il partito di Enrico Berlinguer e il Partito d’Azione,
dove il vecchio parlamentare Mario Berlinguer è in assoluto il dirigente più ascoltato.
«I disordini ed i torbidi – leggiamo nel documento unitario subito diffuso – non rispondono
ad alcuna iniziativa né finalità di partiti politici, che apertamente li sconfessano».
Poi qualche parola sugli istigatori, «elementi irresponsabili»4.
Per Enrico e i giovani comunisti, sostanzialmente accusati di estremismo infantile
con punte di avventurismo, è una legnata che duole. Di più, scotta la repressione,
incursioni armate in vicolo San Sisto, negli abituri delle Conce, in luoghi di lavoro;
gli arresti sono indiscriminati, finiscono in galera in quarantatré. A Enrico tocca
la mattina di lunedì 17 gennaio 1944. Vengono a prenderlo in casa verso le 10, l’ammanettano,
e per lui è consolazione minima che la caserma in cui inizialmente è trattenuto sia
intitolata a un antenato con medaglia d’oro, Gerolamo Berlinguer, capitano della Gendarmeria
sarda, sbaragliatore nel 1835 del terribile fuorilegge Battista Canu. Dalle domande,
non gli è difficile capire subito che lo giudicano «l’istigatore ed il maggiore responsabile
dei torbidi», come scriverà due giorni appresso, il 19 gennaio, un funzionario proveniente
dall’Ovra, il questore Dino Fabris. Al quale dobbiamo un ritratto di Enrico a spigoli:
«Comunista convinto, studioso delle teorie leniniste, dopo la caduta del fascio fu
uno dei promotori e fondatore del Partito Comunista a Sassari. Nominato segretario
della sezione giovanile, si assunse il compito di spiegare le nuove idealità alla
massa impartendo periodiche lezioni di comunismo ad un certo numero di gregari, spiegando
le finalità che si proponevano, organizzando cellule eccetera. Fanatico dell’idea,
credette giunto il momento di applicare alla pratica le teorie più spinte del partito,
quantunque ne fosse sconsigliato dai compagni più anziani facenti parte del direttorio.
Approfittando del generale disagio economico, volle promuovere moti di piazza allo
scopo di mostrare la forza del partito, di eccitare disordini, di far compiere violenze,
sabotaggi e vandalismi, e quindi, qualora la forza pubblica non fosse riuscita a dominare
la situazione, di impadronirsi degli uffici pubblici e per primo del Palazzo del Governo,
facendo gettare dalla finestra il Prefetto stesso».
Esagerazioni calcolate, conseguenti a un’intenzione persecutoria. La denuncia al Tribunale
militare di guerra è, per il suo impianto, piuttosto che un doveroso atto di giustizia,
il segnale delle persistenze in questura d’abitudini del tempo fascista, un episodio
di rappresaglia politica, con bordate d’imputazioni in parte anacronistiche in stagione
di libertà e per il resto gravissime, da sentenza capitale: manifestazione sediziosa,
violenza e resistenza a pubblici ufficiali, devastazione e saccheggio, insurrezione
armata contro i poteri dello Stato. Come dire, stanti le pene vigenti, la consegna
di Enrico non in mani del carceriere, bensì ai moschetti del plotone d’esecuzione...
2. Zio Fanuccio. È in galera, a Regina Coeli, braccio tedesco (il terzo), anche uno zio di Enrico,
l’avvocato Stefano Siglienti, Fanuccio per gli amici, quarantasei anni, vicedirettore
generale del Credito Fondiario Sardo, a Roma da una ventina d’anni, quattro figli5. È una figura di spicco del Partito d’Azione. Ha sposato una sorella di Mario Berlinguer.
Discende da un Pietro Sillent che nel 1468 è stato magnifico governatore di Sassari
e del Capo di Logudoro.
D’origine spagnola al pari dei Berlinguer, i Siglienti, signori di Thiesi, nel Sassarese,
sono agrari solidi, medici, monsignori, avvocati, docenti di Sacra Scrittura, ingegneri,
artigiani, generali, un capo della polizia, artisti. Fanuccio nasce nel 1898 a Sassari
da un avvocato che è anche suonatore di violino, verseggiatore trasognato, favolista,
fioricultore, cavalleggero, allevatore di colombi e di cani da caccia, un debole per
le carrozze eleganti. Un’infanzia felice. Ma il padre è portato a una dissipazione
innocente, e per rovesci familiari il ragazzo Siglienti deve impiegarsi, nel ’14,
ancora liceale, al Comune, in biblioteca, e in seguito alla Provincia.
Un’estate ha conosciuto a Stintino, breve insenatura d’acque turchesi tra spiaggiole
coralline e dune bianche nell’estremità nord-ovest della Sardegna, dirimpetto all’isola
dell’Asinara (colonia penale), l’ultima figlia dell’avvocato Enrico Berlinguer senior,
Ines, una bambina. La corteggia, ricambiato (le loro prime lettere risalgono al giugno
del 1913).
Va in guerra, ufficiale d’artiglieria. È schierato sull’altopiano d’Asiago e sul Montello.
Torna in Sardegna soltanto nel febbraio del 1920. Si laurea in legge con la lode.
Poi l’esame d’avvocato, l’assunzione al Credito Fondiario Sardo (ufficio legale),
il matrimonio. È il 4 settembre 1924. A Ines, che intanto s’è diplomata maestra, fa
da paggetto il nipotino Bibì Berlinguer, figlio di due anni del fratello Mario. In
tutina di seta bianca con jabot plissettato e merletto, il futuro leader comunista
l’accompagna all’altare contegnoso, senza inciampare né pestare il lungo strascico.
È Cagliari la prima sede di Stefano Siglienti; quindi Sassari e nel 1925 Roma.
Abitano per otto anni al 102 di via Ripetta, Palazzo Valdambrini, accanto all’Augusteo.
Nel 1933, il trasferimento in casa propria, con giardino, al 2 di via Carlo Poma,
quartiere Prati. Di grande finezza intellettuale (giurista ed economista), Fanuccio
vive in una cerchia di oppositori dell’area sardista, liberaldemocratica e repubblicana.
Non s’iscriverà mai al fascio, a dispetto delle pressioni. Anzi, per tutti gli anni
Trenta e durante la guerra, il Credito Fondiario Sardo, in via in Arcione, è «il centro
quasi quotidiano del conforto e della resistenza morale»6 e la casa di via Carlo Poma luogo di cospirazione, punto di riferimento degli antifascisti
di Giustizia e Libertà, e dopo il 25 luglio 1943 approdo sicuro di quelli che mano
a mano lasciano le carceri e le isole o tornano dall’esilio: Emilio e Joyce Lussu,
Francesco Fancello, Pier Felice Stangoni, Bruno Visentini, Ernesto Rossi, Vincenzo
Calace, Federico Comandini, Riccardo Bauer. Da lui, la sera dell’8 settembre 1943,
trovano un primo rifugio l’ex ministro della Guerra e primo ministro Ivanoe Bonomi
ed i più giovani Ugo La Malfa, Bruno Visentini e Giorgio Amendola. L’occupazione nazista
spinge subito tutti alla clandestinità. Vita dura, di rischio continuo.
La mattina buia del 19 novembre 1943 l’avvocato Siglienti è arrestato dalla Gestapo.
«Entravo per andare da lui in via in Arcione – racconterà Bruno Visentini – nel momento
in cui egli scendeva le scale fra le SS che lo portavano a via Tasso. Mi guardò con
sguardo affettuoso e fermo, che esprimeva il rammarico del distacco ma insieme la
virile accettazione di una conclusione e di una fine (per fortuna non fu tale) la
cui eventualità e probabilità egli non aveva mai nascosto a se stesso ed a ciascuno
di noi»7. È trascinato alle stanze di tortura. Scriverà Antonello Trombadori: «I tedeschi
dovettero desistere dal tentare di farlo parlare, poiché al primo cenno di violenza
egli era balzato in piedi brandendo la seggiola sulla quale era seduto e con presenza
di spirito pari all’acutezza dell’intuizione psicologica aveva ammonito: “Sapete che
non parlerò mai! Ve lo dico da ufficiale a ufficiale!”»8. Trasferito a Regina Coeli, vi incontra figure alte dell’antifascismo, Leone Ginzburg,
Sandro Pertini, Giuseppe Saragat, Manlio e Gastone Rossi Doria, Carlo Muscetta. Il
2 marzo 1944 arriva Trombadori.
La prigionia si prolunga. Un’estenuazione di mesi. Tormenta Fanuccio anche il pensiero
dei due figli, Sergio, diciottenne, e Laura, tredicenne, andati a studiare nella più
quieta Sassari in casa dei cugini Enrico e Giovanni Berlinguer. Non ne ha notizie
da tempo. Nemmeno sa che il nipote più caro, Enrico, è anch’egli, pur in un pezzo
dell’Italia liberata, prigioniero politico...
3. Missione a Bari. L’aeroplano sul quale mercoledì 26 gennaio 1944, nove giorni dopo l’arresto di Enrico,
Mario Berlinguer vola da Cagliari a Bari, passando per Palermo, è un trabiccolo militare
instabile, vecchiotto, tutto scricchiolii, ululii da fessure e beccheggi. Normalmente
adibito al trasporto d’armi, non ha posti a sedere. Dunque, una traversata di tre
ore non precisamente confortevole. Per non sbattere contro le fiancate, i rappresentanti
sardi dei partiti antifascisti (Antonio Segni, Dc, Francesco Cocco Ortu, Pli, Gonario
Pinna, Pri, Salvatore Sale, Partito Sardo d’Azione, Giuseppe Tamponi, Pci, Angelo
Corsi, Psi, Mario Berlinguer, Partito d’Azione) debbono starsene seduti a terra, ammanigliati
a traversoni di ferro laterali. Gli hanno dato l’aereo di malavoglia all’ultimo momento,
dopo incertezze9.
Due giorni appresso, venerdì 28 gennaio 1944, s’apre a Bari – al «Niccolò Piccinni»,
un teatro bomboniera di stile borbonico al centro della città – il primo convegno
nazionale dei partiti risorti dopo il fascismo nelle quindici province finora liberate
(e tutti rimasti fuori dal governo)10. C’è tensione. Se gli anglo-americani guardano all’assise diffidenti, manifesta è
l’ostilità del re e di Badoglio, ancora imboscati a Brindisi. Arriveranno figure quali
Benedetto Croce, Carlo Sforza, Vincenzo Arangio Ruiz, Giulio Di Rodinò. Ma il clima
è come di vigilia di una marcia su Bari di sovversivi capaci di ribalderie. Forse
a Brindisi, allarmati dalla lettura di qualche mozione radicale, temono che i centoventisei
delegati dei Comitati di liberazione, attribuendosi a sorpresa i poteri d’una assemblea
costituente, facciano il colpo di proclamare la repubblica. Un’insensatezza, nell’Italia
sotto il comando alleato. Nondimeno Vittorio Emanuele III è sospettoso, e i suoi pretoriani
esagerano in zelo poliziesco. A un generale d’armata, Pietro Gàzzera, sono affidati
i pieni poteri per l’ordine pubblico. Bari ha le sembianze d’una città in stato d’assedio.
Dappertutto «densi plotoni armatissimi»11; intorno al teatro, mezzi corazzati. La cittadinanza – traumatizzata ancora dall’eccidio
di sei mesi prima, quando, il 28 luglio ’43, caduto Mussolini da tre giorni, la truppa
aveva sparato su dimostranti festosi, uccidendone venti – se ne sta rinchiusa in casa
o s’è rifugiata da parenti in campagna. I partecipanti alla prima grande assemblea
dell’Italia liberata (tra essi Adolfo Omodeo, Tommaso Fiore, Giuseppe Laterza, Vincenzo
Calace, Velio Spano, Alberto Cianca, Silvio Gava) sono pedinati; la polizia li fotografa
per schedature.
Alle 10.21 di venerdì 28 gennaio, in un teatro gremito, apre i lavori un magistrato
barese di trentun anni, Michele Cifarelli, azionista, liberato dal carcere dopo il
25 luglio. Dalla platea, grida ripetute: «Abbasso il re», «Via i traditori». I molti
striscioni dicono: «W le Nazioni unite», «W Benedetto Croce», «W il conte Sforza»,
«W la Repubblica». Ai liberals inglesi e americani curiosi della manifestazione (ufficiali e soldati) era stato proibito,
anche su pressione dei badogliani, d’assistervi. Si sono procurati, come hanno potuto,
vestiti borghesi, ed ora è facile distinguerli in mezzo al pubblico, dentro abiti
striminziti o troppo abbondanti...12. Sul tavolo della presidenza, un drappo tricolore non stemmato. Ci sono anche i microfoni
per la diretta radiofonica. Ma le autorità l’hanno vietata.
Ecco infine tutti in piedi, acclamanti. L’uomo chiamato a parlare, patriarca severo,
è Benedetto Croce, settantotto anni. Si fa un silenzio carico d’attesa. Il discorso
è pacato, ma non accomodante. Al passaggio saliente, un’ovazione. Croce ha detto:
«Fin tanto che rimane a capo dello Stato la persona del presente re, noi sentiamo
che il fascismo non è finito, che esso ci rimane attaccato, che continua a corroderci
e a infiacchirci, che risorgerà più o meno camuffato e, insomma, che così non possiamo
respirare e vivere»13.
Momenti e sensazioni in qualche modo memorabili. Per l’ex deputato Berlinguer, è una
reimmersione ristoratrice nella grande politica. Vive queste giornate di resurrezione
appassionatamente; ma un pensiero spesso lo trafigge: Enrico e i compagni trattenuti
in prigione. Sa di poter incontrare a Lecce un avvocato di Potenza intimo del Nitti,
già deputato sino al ’24, nominato il 16 novembre 1943 sottosegretario «tecnico» all’Interno,
Vito Reale, uno di quei «semiministri, sottosegretari di ministri inesistenti» di
cui ha parlato Croce nel suo discorso (il potere ministeriale è di Badoglio, presidente
d’un gabinetto di sottosegretari). Facendosi accompagnare da altri della delegazione
sarda, lo va a trovare. Dei fatti di Sassari, il sottosegretario sa poco. Mario gli
parla della rappresaglia sproporzionata dopo le «chiassate» irresponsabili ma non
canagliesche di masse affamate; e la risposta è l’impegno a un intervento immediato
per la chiusura del caso. «Al ritorno a Sassari – dice rassicurante – troverai Enrico
a casa».
Niente di vero. A Sassari Mario Berlinguer trova che nessuno s’è mosso: c’è contro
i «sovversivi» animosità, non s’intravedono spiragli. Amareggiato, scrive al sottosegretario:
«All’arrivo in Sardegna, contavo di trovare a casa mio figlio Enrico, scarcerato.
Ricorderai che ti parlammo di un gruppo di giovanissimi comunisti di Sassari arrestati
tra il 15 e il 17 corrente. Tu ci assicurasti che avresti subito telegrafato a S.E.
Magli, comandante delle forze armate della Sardegna, per tale scarcerazione. Ti sarei
infinitamente grato se volessi insistere con un nuovo marconigramma. Credi pure che
non dimenticherò questo gesto di amicizia e di giustizia»14. Scrive anche, il 2 febbraio 1944, all’ingegner Calace, dirigente del Partito d’Azione:
«Io ho trovato a Sassari una nuova amarezza. Mio figlio Enrico, laureando in legge,
di salute cagionevole, è ancora in carcere. A Lecce il Comitato di Liberazione sardo
aveva protestato col governo per l’assurdo procedimento contro un gruppo di giovani
comunisti ingiustamente accusati di aver fomentato una delle solite spontanee dimostrazioni
per le note restrizioni alimentari [...]. Le rappresaglie colpiscono specialmente
i comunisti, ma indignano tutti i partiti liberi [...]. Mostra pure a Tedeschi [Velio
Spano] questa lettera [...]. Pensa che io, durante il fascismo, ebbi persecuzioni
ma non fui mai arrestato (se non nel ’25 a Bari); dopo il 25 luglio fui arrestato
due volte, e ora è in carcere mio figlio perché, senza che io abbia voluto oppormi
ai suoi ideali, è comunista!»15.
4. Roma, marzo ’44. A Regina Coeli, tristi entrate e qualche uscita. Dagli ultimi di gennaio (1944), Siglienti
non ha più compagni di cella due socialisti colti, il coetaneo Giuseppe Saragat quarantasei
anni, mezzo conterraneo (sardo di Sanluri il padre; una Garau la nonna paterna) e
Sandro Pertini, quarantotto anni, in carcere dal 15 ottobre 1943. Sono tornati in
libertà. Fuggiti, a dirla tutta: messi fuori con fogli di scarcerazione falsificati.
Era stata un’idea di due giovani ufficiali e giuristi, Giuliano Vassalli e Massimo
Severo Giannini, capi dell’organizzazione militare clandestina socialista. S’erano
procurati, trafugandoli da un ufficio di via degli Acquasparta, i moduli originali
dei fogli di scarcerazione e i timbri. Bel colpo. Il mattino di martedì 25 gennaio
1944 cinque prigionieri, Pertini, Saragat, il medico Luigi Andreoni e due socialisti
di Piombino, Lunedei e Allori, escono di cella. Sono venuti ad annunziargli la liberazione.
Non sanno – meno Saragat e Pertini – che in realtà si tratta d’una fuga. Lunedei fa
storie: non vuole uscirsene di prigione senza che prima gli abbiano restituito i polsini
d’oro; e Pertini, teso e spazientito, gli deve scalciare sullo stinco per spingerlo
finalmente fuori dall’ufficio matricola. Passeranno la prima notte di libertà in una
casa di Vassalli al numero 5 di via degli Avignonesi, dietro il «Messaggero»...16.
L’altro che non c’è più, ma per fine tragica, è l’amico più caro di Siglienti, Leone
Ginzburg, trentacinque anni, ebreo russo di Odessa, studioso di letterature contemporanee,
già in galera nel ’34, al confino in Abruzzo durante la guerra, direttore de «L’Italia
Libera» all’indomani del 25 luglio 1943, nuovamente arrestato, con Siglienti, in novembre.
I pestaggi (una mascella spezzata) e la mancanza di cure l’hanno ucciso. È morto nell’infermeria
del carcere la sera di sabato 5 febbraio 1944. Dieci giorni dopo, il 15 febbraio,
Ines scriverà a Siglienti: «Non ho mai potuto dirti che a suo tempo avevo consegnato
a Natalia il testamento spirituale di Leone e, data la terribile notizia, ci siamo
abbracciate. Lei è molto forte. Sono poi dovuta andare dalla zia di Leone per dare
anche a lei questa mazzata. Povera gente!»...17.
Passa un mese, e il 18 marzo 1944 arriva a Siglienti una comunicazione che l’inquieta
non poco: i tedeschi l’hanno precettato per lavori forzati. Gli altri della squadra
sono un ragazzo romano di diciotto anni, Aristide Iaccatuni, un parmense di quarantun
anni, Guglielmo Parmigiani, due professori, Valentino Marafini, trentasette anni,
messinese, e Carlo Muscetta, trentadue anni, avellinese, critico letterario studioso
del De Sanctis e dei quattrocentisti, il dottor Vindice Cavallera, trentatré anni,
figlio del primo socialista eletto in Sardegna a Montecitorio, e una donna di quarantacinque
anni, la genovese Ada Pivetta. Li caricano, incatenati, su un camion. Li rinchiudono
alla Cecchignola, fuori Roma. Dovranno scavare trincee sul fronte di Anzio. Una fatica
da bestie. Tornano tutti i giorni al dormitorio sfiniti e infangati. Non possono immaginare
che a questo lavoro forse debbono la vita...
... Il pomeriggio di giovedì 23 marzo 1944, assolato, caldo per scirocco, un po’ di
foschia sospesa nell’aria, si mescolano ai passanti, tra piazza Barberini, il Tritone
e via del Traforo, ragazzi ben vestiti, d’aspetto fine, guardinghi, un po’ tesi, non
in gruppo, ognuno per sé, tutti comunisti. Bighellonano o fingono di mostrare interesse
alle vetrine o s’intrattengono a leggere i giornali esposti all’edicola del «Messaggero».
Vicina c’è un strada stretta, via Rasella, che sale, parallela al Tritone, dall’uscita
del Traforo Umberto I a Palazzo Barberini, in via Quattro Fontane. Ci passano tutti
i giorni in assetto di guerra (mitraglia sul ventre, elmetti d’acciaio), provenienti
dal Flaminio e diretti al Viminale e a via Tasso, gli uomini della Feldpolizei, centosessanta SS del battaglione «Bozen». Perché non attaccarli? La giunta militare
del Cln (Amendola, Pertini e Bauer; De Gasperi è tenuto al corrente nel suo rifugio
di «Propaganda Fide», in piazza di Spagna) ha dato la direttiva di colpire il nemico
con ogni mezzo e ovunque. Ai Gap (Gruppi d’azione patriottica) il compimento degli
atti di guerra. Un reparto partigiano è ora sul punto di muoversi. Sfiderà questa
potente formazione tedesca preceduta sempre da una pattuglia di SS con mitra spianati
e seguita da una mitragliatrice pesante su un carretto. È l’anniversario della fondazione
dei Fasci. C’è rischio, e tanto, nella sfida. Ma non pochi italiani di carattere pensano
di non doversi ritirare davanti al rischio. Nel tratto solitamente percorso dai tedeschi,
i «gappisti» s’aggirano in apparenza svagati, in realtà ben vigili e risoluti. Sono
tre giovani studiosi di letteratura italiana, Carlo Salinari, venticinque anni, lucano
di Montescaglioso, il figlio di Piero Calamandrei, Franco, ventisette anni, fiorentino,
e il romano Franco Ferri, ventidue anni, normalista a Pisa. Con essi, ma separati
per non dare nell’occhio, due sardi, Francesco Curreli, quarant’anni, ex pastore di
Austis, ex muratore fuoruscito in Algeria, sergente «garibaldino» in Spagna, nel maquis in Francia, e lo studente cagliaritano Silvio Serra, vent’anni, poeta. Poi un taxista
romano, Raul Francioni, e una ragazzina bionda, sottile, bella, Carla Capponi, ventidue
anni, studentessa in legge, d’una famiglia alto-borghese, la casa nel Palazzo Roccagiovine,
con finestre sulla colonna Traiana. Infine, intento a spingere in via Rasella un carretto
per la spazzatura, un «netturbino» in camice blu-scuro di tela grezza, il berretto
alto a visiera. Un travestimento riuscito: lo studente in medicina Rosario Bentivegna
(prossimo marito di Carla Capponi), ventidue anni, romano, ha l’aria giusta. Ferma
il carretto dell’immondizia all’altezza di Palazzo Tittoni, sede del primo governo
Mussolini, e non l’ha fatto a caso: il posto e il giorno, annuale dei Fasci, significano
pur qualcosa. Dentro il carretto, c’è una cassetta di ferro, preparata dall’artificiere
dei Gap, Giulio Cortini. Dentro la cassetta, l’esplosivo, diciotto chili, un detonatore
al fulminato di mercurio e una miccia di mezzo metro, tempo per l’esplosione 50 secondi.
Non resta ora che aspettare la truppa nemica. Ognuno dei patrioti ha un ruolo. Il
capo è Salinari. Tra il Babuino, piazza di Spagna e il Tritone, funzionano punti d’avvistamento.
Ed ecco la testa della colonna. Mancano pochi minuti alle quattro. Calamandrei si
toglie il berretto. È il segnale convenuto. Calmo, lo «spazzino» Bentivegna accende
con la brace d’un mozzicone di sigaretta la miccia e al profilarsi delle SS all’imbocco
di via Rasella scaglia il carretto nella discesa. Un uragano di schegge, vampate di
fuoco, fumo denso. E altre esplosioni. Scattati da via del Boccaccio, traversa di
via Rasella, Ferri, Curreli, Serra e Francioni proseguono l’azione lanciando sul contingente
d’occupazione bombe di mortaio «Brixia» modificate in bombe a mano. Azione di guerra,
confronto militare. L’unità nemica ne esce schiantata, trentatré morti e settanta
feriti...18.
... Violenta è la ripercussione a Regina Coeli (Siglienti, comandato per sua fortuna
alla Cecchignola, non c’è da cinque giorni): un frenetico andirivieni d’ufficiali
tedeschi, invettive, trasferimenti di cella, un’agitazione prolungata, botte, intensificata
la vigilanza. I carcerati non sanno ancora che è stata decisa una rappresaglia feroce:
la fucilazione di dieci «criminali comunisti e badogliani» per ogni tedesco caduto,
trecentotrenta da scegliere a Regina Coeli e nelle stanze di tortura di via Tasso.
Ricorderà Trombadori: «Il 24 marzo, quando cominciò la furibonda chiamata delle Fosse
Ardeatine e le celle si aprirono (e io tentai persino di accodarmi ai chiamati, convinto
che fossero condotti ai lavori forzati, e perciò a possibile salvamento), cercai Fanuccio,
chiesi se era stato chiamato anche lui, mi fu risposto di no»19. La sera di venerdì 24 escono in colonna dalla Lungara furgoni chiusi, scortati da
autoblinde. Trasportano uomini stivati come bestie, le mani legate dietro la schiena.
Sono trecentotrentacinque: nella fretta, ne hanno presi cinque in più. Destinazione
l’Ardeatina, alle porte di Roma. Esistono lì, fra le catacombe di Domitilla e San
Callisto, cave abbandonate di arenaria. I furgoni si fermano. Gli ostaggi scendono
a gruppi di cinque, ed è subito l’inizio d’una mattanza di molte ore. Li trascinano
in fondo alle fosse, li spingono in ginocchio, li abbattono sparandogli a bruciapelo
sulla nuca. Spara anche Kappler...
... L’indomani, ad Anzio, Siglienti e il professor Muscetta scavano trincee. Improvvisa,
un’incursione aerea alleata. Fumo e scompiglio, nel campo tedesco. I guardiani fuggono.
È il mattino di sabato 25 marzo 1944. Rimasti soli, i coatti capiscono di potersela
battere, liberi. Già in serata Siglienti e Muscetta rivedono, a Roma, i familiari...
5. Il ritorno di Togliatti. A conclusione d’un viaggio che si prolunga ormai da cinque settimane (il 18 febbraio
1944 la partenza da Mosca, soste forzate a Baku, Teheran, Il Cairo e Algeri), Correnti-Ercoli-Togliatti,
cinquantun anni, fuoruscito dal ’26, personalità di rilievo del Komintern, arriva
con la nave da carico inglese «Tuscania» in vista della costa di Napoli. È il pomeriggio
di lunedì 27 marzo 1944, tre giorni dopo il massacro delle Fosse Ardeatine. «Già da
molte ore – ricorderà – una enorme massa di fumo che si addensava sul mare per decine
di chilometri annunciava l’Italia e il Vesuvio. Questo era in eruzione, e una pioggia
di cenere sottile vagava sul golfo, copriva i campi e le strade. La notte i bombardieri
tedeschi si facevano guidare dai bagliori di fuoco del cratere. Il volto della patria,
di nuovo raggiunta dopo anni di esilio, aveva qualcosa di apocalittico»20.
Gli si presenta un paese dove «i corpi e gli animi – dirà – erano malati, come per
una febbre in cui si mescolavano la stanchezza e l’affanno per il presente e per il
futuro, la ricerca ansiosa del necessario per vivere»21. C’è la guerra, l’Italia è tagliata in due, e un’anomalia segna l’Italia liberata:
da una parte «un’autorità senza potere», la Giunta esecutiva del Cln, dall’altra «un
potere senza autorità», il governo Badoglio22.
È una contraddizione che il leader comunista – mosso a una politica di unità nazionale,
la sola efficace, egli pensa, per la liberazione e la ricostruzione del paese – si
propone fin da subito di risolvere. Due i cardini del ragionamento. 1°: la lotta di
liberazione richiede un governo che soltanto l’adesione dei grandi partiti di massa
può rendere forte e autorevole, quale occorre. 2°: l’opera di ricostruzione richiede
l’ampliamento delle basi del governo Badoglio in senso democratico. Ovvia la conseguenza:
il rinvio della questione istituzionale (che non significa definitivo accantonamento).
A guerra vinta e a nazione riunificata, sarà il popolo intero a decidere liberamente,
con plebiscito ed elezione a suffragio universale diretto e segreto di un’Assemblea
costituente, la forma istituzionale dello Stato. Al momento urge che i comunisti,
non trattenuti dalla giusta posizione antimonarchica, partecipino al potere (del resto,
il governo Badoglio è stato riconosciuto il 14 marzo anche dall’Urss).
Una linea nuova: di svolta, rispetto agli atti compiuti fin qui dai comunisti (il
20 gennaio 1944 Velio Spano ed Eugenio Reale, in un incontro con Badoglio a Villa
Taiani, a Vietri sul Mare, avevano opposto un rifiuto fermo al suo invito a entrare
nel governo). Una correzione di linea (e una ripresa di movimento nel paesaggio politico
bloccato dal rifiuto dei partiti di collaborare col re) che Benedetto Croce intende
subito con precisione: «È venuto il Morelli a informarmi di un improvviso cambiamento
di scena politica, perché un comunista italiano, giunto dalla Russia, che ha il nome
convenzionale di Ercoli, ma è un Togliatti, ha convocato i comunisti, ha esortato
essi e gli altri partiti a collaborare col governo Badoglio, saltando la questione
dell’abdicazione del re, per intendere unicamente alla guerra contro i tedeschi, e
ha dichiarato che i comunisti avrebbero senz’altro collaborato»23.
Le consultazioni sono rapide. L’iniziativa di Togliatti ha indotto anche gli altri
partiti ad accantonare la questione monarchica ed a partecipare a un governo transitorio.
Sabato 22 aprile 1944 Badoglio può annunziare a Salerno, dove s’era trasferito da
Brindisi già a metà febbraio, la nascita (dopo i governi di «tecnici») del primo governo
dei partiti. Vi hanno un ministero senza portafoglio, con prevalente funzione di rappresentanza
politica, oltre a Togliatti, il democristiano Giulio Di Rodinò, il socialista Pietro
Mancini, Benedetto Croce e Carlo Sforza. Significativa anche l’assegnazione della
Giustizia al professor Vincenzo Arangio Ruiz, azionista. Dirà uno studioso: «In fondo
alla città, il Quartier generale della Commissione alleata di controllo, allogato
nel nuovo Palazzo di Giustizia, cinto da reticolati di filo spinato, sotto la guardia
di robusti Mp, vigilava su quel governo minorenne»24.
6. I cento giorni a San Sebastiano. Enrico Berlinguer e i suoi compagni hanno passato in galera anche il 9 aprile 1944,
domenica di Pasqua. Nel mondo grande e terribile si susseguono con velocità accelerata
eventi memorabili. Qui una piccola istruttoria è trascinata con lentezza esasperante
e ristagna. A nulla sono valse le pressioni dei partiti, il tono mutato, ora incline
all’indulgenza, dei due quotidiani sardi, «L’Isola» e «L’Unione Sarda», il rilievo
nazionale dato alla vicenda in febbraio da «l’Unità», edizione meridionale (Repressione fascista in Sardegna: ed è la prima volta che il nome di Enrico compare sull’organo del Pci, un foglietto
di due pagine)25, il prestigio del collegio difensivo, nove tra i migliori avvocati dell’isola, e
il gran brigare di Mario.
Quale che sia stato il suo grado di partecipazione ai moti di gennaio, Enrico non
si discosta dalla linea probabilmente suggeritagli dal padre. Detta a verbale: «Dichiaro
di professare teorie comuniste e di essere iscritto al partito comunista di Sassari;
ricopro la carica di segretario della sezione giovanile, con sede in via San Sisto,
numero 4. Escludo di avere dato in qualsiasi modo istruzioni ai giovani comunisti
di fare le note dimostrazioni. Dichiaro che non ho nemmeno vietato le dimostrazioni,
appunto perché non erano volute dal partito comunista. Dichiaro anzi che personalmente
ero contrario a tali dimostrazioni, anche in conformità alle direttive del mio partito».
Non trascura gli esercizi ginnici, ai quali s’applica tenacemente, seguendo regole
apprese dal nonno Lòriga, il «metodo Müller». E legge molto (ha avuto in mano anche
Il Capitale).
È a un valico decisivo. Aveva fatto una buona università (tutti trenta e trenta e
lode, gli mancano pochi esami, già avviata la tesi di filosofia del diritto) con un
traguardo sicuro: l’esercizio dell’avvocatura nel fiorente studio di famiglia; e a
lato, al pari del nonno e del padre, l’attività politica. Ha cambiato idea. Gli andrebbe
di fare del lavoro nel partito il centro della sua vita, l’impegno esclusivo.
Enrico e i compagni escono dalle carceri di San Sebastiano, prosciolti in istruttoria,
domenica 23 aprile 1944, all’indomani dell’entrata di Togliatti e Arangio Ruiz nel
governo (post hoc? propter hoc?). Un’avventura conclusa, un pezzo di vita – cento giorni – che èstato momento di svolta da un progetto, la professione con il padre, a una prospettiva
diversa, meno rassicurante sul piano del tornaconto ma più avvincente, l’attività
a tempo pieno nel partito. La sola volta che gli capiterà di accennare in pubblico
ai cento giorni, Berlinguer non dirà che cinque parole; asciuttamente: «La galera
era stata formativa»26.
7. Salerno. Venerdì 2 giugno 1944, alla vigilia di avvenimenti in rapida successione, Mario Berlinguer
ènominato da Badoglio alto commissario aggiunto per la punizione dei delitti fascisti.
E di seguito: la domenica l’entrata degli americani a Roma, il lunedì l’uscita di
scena del re (che si ritira delegando a Umberto i poteri di Luogotenente), il martedì
le dimissioni del ministero Badoglio, il sabato l’annunzio d’un nuovo governo di unità
nazionale presieduto da Ivanoe Bonomi e comprensivo di personalità del Cln romano:
ai ministeri senza portafoglio, politicamente i più significativi, Giuseppe Saragat,
Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Alberto Cianca, Meuccio Ruini, Carlo Sforza
e Benedetto Croce. Nuovo ministro delle Finanze è il vicedirettore generale del Credito
Fondiario Sardo Stefano Siglienti, meno di tre mesi prima ancora in galera.
Andranno tutti a Salerno. S’è convenuto che, per ragioni di sicurezza, i dicasteri
restino lì, distanti dal fronte di guerra, almeno sino al ritorno di Roma alla normalità.
Apparecchi dell’aeronautica militare vi trasportano presto i ministri e le famiglie:
con Siglienti, Ines e le figlie Lina e Cicci (Sergio e Laura sono ancora bloccati
in Sardegna). Li accoglie Mario, arrivato da poco per il suo nuovo lavoro di giudice
nei processi d’epurazione, e dopo la lunga separazione è un incontro festoso. Ultimo,
il 23 giugno 1944, giorno d’insediamento del nuovo Consiglio dei ministri, arriva
da Sassari Enrico, in libertà da due mesi precisi. Il lungomare è animato da ragazzi
di colore in eleganti divise mal portate, soldati americani che si lanciano con forza
pallette di cuoio, frotte di ubriachi, e i più irrequieti la «Military Police» li
carica in furgoni olivastri.
Ai membri del governo e familiari è data Villa Guariglia, un palazzo barocco in vista
del mare, a Raito, frazione di Vietri. Sta in mezzo al verde, e per la circostanza
ha un’impronta di casa-albergo: a ognuno le camere da letto necessarie, il refettorio
in comune. C’è in un punto del parco una dependance a forma di torretta, al pianoterra un soggiorno che ha l’aria di una galleria di alabarde
e trofei di guerra e, in cima a una scala con molte armi antiche appese a una parete,
le stanze per dormire. Ci vengono a vivere i Siglienti ed Enrico (Mario no, ha casa
altrove).
Il falansterio-Guariglia. Dalle verande pendono robe stese ad asciugare. L’angustia
dei tempi ha una sua fisicità anche in questo che pure è luogo popolato da governanti:
robe povere, ai balconi dei Ruini, dei Tarchiani, degli Sforza, dei Soleri, dei De
Gasperi (è venuto con la figlia Maria Romana). Il vento muove mutandoni pieni di rattoppi,
camicie con rammendi sopra rammendi, brandelli d’ogni cosa, d’asciugamani, di lenzuola,
di vestaglie.
Al refettorio, la tavolata dei ministri è unica. Se la cucina passa polpette, il cameriere
alza le dita, per indicare quante ne spettano a ognuno, due o tre. Capita a volte
che facciano cucina anche la signora Soleri, Ines Berlinguer, Maria Romana De Gasperi.
Il conte Sforza arriva con fragole da dividere fra tutti: porzioni di due-tre, come
per le polpette. Un governo a dieta.
Fuori Villa Guariglia, gode fama non usurpata di minore frugalità, se non proprio
di trimalcionica opulenza, la caserma della Guardia di Finanza, alla mensa ufficiali.
Siglienti, in quanto ministro delle Finanze, vi è ammesso con i suoi e con ospiti,
e uno che sempre l’accompagna volentieri è Croce, d’appetito robusto: curvo su piatti
seducenti, si tinge i baffi di sugo. Cicci, sette anni, l’osserva, tocca il braccio
di Enrico: «Ma guarda questo, come mangia!». Il cugino sorride, le sussurra: «Zitta,
non lo sai che è l’uomo più intelligente del mondo?»27.
Il personaggio che tuttavia l’attrae più di ogni altro e vorrebbe incontrare è Togliatti,
non residente a Villa Guariglia, pendolare da Napoli, dove ha preso casa (in via Broggia,
dietro il Museo). Mario lo conosce fin da quando, ragazzi, frequentavano lo stesso
liceo «Azuni», negli anni in cui Palmiro e la sorella Maria Cristina, figli dell’economo
del convitto nazionale Canopoleno, vivevano a Sassari, fra il 1908 e il 1911. Può,
senza disagio, parlargli di Enrico e presentarglielo. Ma lo farà con amarezza. Non
ha mai minimamente tentato di dissuadere i figli dall’iscrizione al Pci. Ciò che gli
pare inspiegabile e l’affligge è la rinunzia di Enrico a farsi avvocato nello studio
che fu d’un altro Enrico ed ora è suo. Dirà a Togliatti il desiderio del ragazzo d’essere
ricevuto, ma con qualche pena...
8. Il partito nuovo. Il 1944, ha scritto efficacemente Paolo Spriano, è «l’anno I del “partito nuovo”»28. Togliatti sa quel che vuole. È tornato da Mosca ed ha ripreso in mano la direzione
del partito avendo in mente un processo al termine del quale sia non la dittatura
del proletariato, non una variante all’italiana del modello sovietico, ma niente di
più (e non è dir poco) d’un regime democratico e progressivo, una buona repubblica
parlamentare. Lo ha detto senza giri di parole al «Modernissimo» di Napoli, l’11 aprile
1944, appena dopo lo sbarco, ai quadri del partito, che forse, almeno nella componente
più radicale, s’aspettavano discorsi diversi: «L’obiettivo che noi proporremo al popolo
italiano di realizzare, finita la guerra, sarà quello di creare in Italia un regime
democratico e progressivo. Questo vuol dire che noi non proporremo affatto un regime
il quale si basi sull’esistenza e sul dominio di un solo partito. In una parola, nell’Italia
democratica e progressiva vi dovranno essere e vi saranno diversi partiti corrispondenti
alle diverse correnti ideali e di interessi esistenti nella popolazione italiana»29. Altro che scatto insurrezionale e repubblica dei Soviet. In un modo, se possibile,
ancora più esplicito, Togliatti ha aggiunto: «Oggi non si pone agli operai italiani
il problema di fare ciò che è stato fatto in Russia»30. Anche uno sviluppo della riflessione avviata già da Gramsci (la guerra di posizione
in luogo della guerra di movimento); ma non soltanto questo. Le cose del mondo vanno
in un senso prevedibile, e realismo comanda di tenerne conto. Scriverà Gastone Manacorda:
«Togliatti era troppo abituato ad esaminare le situazioni da un osservatorio internazionale
come il Comintern, per non tener conto di ciò che cominciava ad apparire ormai chiaro
ad ogni osservatore politico: che, cioè, l’Italia non era semplicemente un paese temporaneamente
occupato dalle truppe anglo-americane, ma anche un paese vinto assegnato alla zona
d’influenza occidentale. Il che portava alcune decisive conseguenze politiche per
quanto riguardava la nazione italiana e il suo avvenire e per quanto riguardava la
posizione che avrebbe assunto in essa il Pci. Si doveva scartare infatti, anzi attivamente
impedire, la trasformazione della rivoluzione antifascista in rivoluzione socialista
e mantenere invece la prospettiva di una repubblica democratica parlamentare»31.
Ma per questo fine occorre che il Pci muti composizione e cultura, divenga partito
di massa e di governo, dunque nuovo, molto cambiato da com’era (piccola avanguardia
chiusa). Togliatti vi insisterà in tutte le occasioni. 24 settembre 1944: «Prima di
tutto, e questo è l’essenziale, partito nuovo è un partito della classe operaia e
del popolo il quale non si limita più soltanto alla critica e alla propaganda, ma
interviene nella vita del paese con una attività positiva e costruttiva [...]. La
classe operaia, abbandonata la posizione unicamente d’opposizione e di critica che
tenne nel passato, intende oggi assumere essa stessa, accanto alle altre forze conseguentemente
democratiche, una funzione dirigente nella lotta per la liberazione del paese e per
la costruzione di un regime democratico»32. 3 ottobre 1944: «Ecco perché noi diciamo ai vecchi compagni, i quali avrebbero la
tendenza a rimanere un piccolo gruppo, il gruppo di coloro che sono rimasti puri,
fedeli agli ideali, ed al pensiero, noi diciamo loro: voi sbagliate, voi sarete un
gruppo dirigente a misura che sarete capaci di fare del nostro partito un grande partito
di massa, una grande organizzazione la quale abbia nelle proprie file tutti gli elementi
necessari per stabilire dei contatti con tutte le categorie del popolo italiano»33. Maggio 1945: «Non possiamo essere un partito di pochi ma buoni, dobbiamo accogliere
nelle nostre file gli elementi che accettano il nostro programma»34. Riassumerà bene Giuseppe Mammarella: «Scartata la rivoluzione, la conquista del
potere attraverso il metodo democratico richiedeva una base di consenso più larga
di quella del proletariato. Da ciò un’opera di proselitismo chiaramente indirizzata
a rassicurare le classi medie»35.
... L’auto di servizio sulla quale l’alto commissario per l’epurazione e lo studente
suo figlio vanno al Consiglio dei ministri, in Palazzo del Municipio, attesi da Togliatti,
è un rottame con fibrillazioni, una Fiat 1.100 dell’esercito targata RE 02249 che
ha questa singolarità: le mancano le portiere. Ma è fine giugno, e in queste giornate
d’afa la ventilazione può anche far piacere. Sono ricevuti nell’anticamera del Consiglio.
Un incontro breve. Enrico se ne sta intimidito, un po’ goffo, assolutamente incapace
di parole che impressionino. Nessun danno. Togliatti ha fatto un calcolo, e questo
giovane che si candida con impaccio a lavorare per il partito vi rientra. Sono arrivati
al Pci, venendo da famiglie di tradizione liberale, dopo il figlio di Giovanni Amendola,
Giorgio, tant’altri ragazzi di talento, colti, alacri, i nipoti di Giovanni Giolitti,
Antonio, e del grande germanista Paolo Emilio Pavolini, Luca, e ancora i nipoti dell’umanista,
musicologo e drammaturgo Guido Manacorda, Gastone, Mario Alighiero e Giuliano, i figli
del pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, Lucio, dell’avvocato e scrittore Mario Ferrara,
Maurizio, del pittore Francesco Trombadori, Antonello, tutti «elementi necessari per
stabilire dei contatti con le più diverse categorie del popolo italiano». Anche il
ragazzo Berlinguer, figlio dell’ex deputato amendoliano e nipote del ministro Siglienti,
ha radici nella borghesia liberale, in quel ceto umanistico e delle professioni cui
ora Togliatti guarda con attenzione viva...
II.
I Berlinguer
A questo punto del racconto, conviene dire qualcosa di più sulle radici di Enrico.
Se ne capiranno meglio lati del carattere, sentimenti, ispirazione ideale.
1. Gli antichi. Il trapianto in Sardegna, ad Alghero, dei catalani Belengher (o Belenguer) risale
alla seconda metà del Cinquecento. Il cognome avrà trascrizioni variate: Belingher,
Berengher, Berenguer, Berlenguer, Berlinguer. Se ne trovano richiami frequenti nelle
carte d’archivio. Un Berlenguer figura tra i gesuiti esaminati, nel 1690, a conclusione del secondo anno di logica.
Quattro anni dopo, il 17 agosto 1694, tra quelli che firmano una dichiarazione congiunta
di «doctores con entrambos los derechos», che vuol dire avvocato, leggiamo il nome
di Nicola Berenguer. Alla fine del Seicento, è eletto fra i Calvari tesorieri che tengono le chiavi un
Domenico Berlinguer. Più tardi entra nelle cronache, per vertenze a suon di botte, l’irrequieto Sebastiano
Berlinguer: che il 20 agosto 1700 è schiaffeggiato, mentre giocano a Pilota, da don Antonio
Pilo di San Severo; e nel 1714, in Palazzo reale, salta su una scrivania e sguaina
la spada per una piattonata su Francesco Tomas Fondoni. Ancora nel 1714, il sacerdote
Angelo Berlinguer ha la carica di segretario del segreto dell’Inquisizione. Professionisti, padroni
di terre, monsignori: borghesia emergente1.
Poi, il 27 marzo 1777, l’evento: il «dottore in ambe leggi» Giovanni Berlinguer y
Calsamiglia, sessantaquattro anni, sassarese, riceve da Sua Maestà il Re di Sardegna
Vittorio Amedeo II i titoli (trasmissibili ai discendenti nati e nascituri) di cavalierato
e di nobiltà, con il diritto alla particella Don e all’uso dello stemma gentilizio,
così disegnato e colorato: uno scudo azzurro sparso di stelle d’argento, in campo
un braccio d’armatura di ferro che impugna un ramo d’olivo verde e sul bordo alto
destro un sole d’oro; e sopra lo scudo, un elmo bordato d’argento e graticolato con
tre affibbiature. Ma perché il sovrano s’è compiaciuto di concedere ai Berlinguer
di cingere la spada e di portare tutte le divise e gli armamenti proprii della dignità
equestre e di godere delle onorificenze, uffici, ragioni, libertà, insegne, distinzioni,
privilegi, indulti e grazie di cui possono e sogliono godere gli altri nobili del
Regno di Sardegna? L’avvocato Giovanni Berlinguer è un proprietario terriero capace
d’iniziativa. Nel suo olivario ha introdotto una macchina (popolarmente detta lavatoio)
unica nel Regno: un mulino importato da Nizza che spreme le olive sino all’ultima
goccia e così riempie gli otri anche dell’olio che prima andava perduto. Essendovi
la possibilità d’ascendere al cavalierato e alla nobiltà, «per l’avere intrapreso
ed eseguito qualche oggetto riguardante al pubblico vantaggio», nel 1773 ne ha fatto
supplica alla Corte. Istanza accolta dopo uno studio di quattro anni: nel corso dei
quali l’ormai anziano avvocato Berlinguer ha anche patito grandi dolori: com’è stato
quando, il 27 gennaio del 1776, gli hanno assassinato il figlio Gerolamo, di trentacinque
anni. Annoterà in un libro di fine Ottocento uno storico locale, Enrico Costa: «Se
in quei tempi esistevano i favoreggiatori dei banditi, non mancavano pure i cittadini
benemeriti, che si adoperavano con ardore per dare i rei in mano alla giustizia [...].
Nel 1773 l’avvocato Giovanni Berlinguer veniva fatto segno (come i suoi antenati)
a speciale benemerenza per lo zelo spiegato nella persecuzione dei banditi, dai quali
era stato più volte ferito. Gliene colse però danno; poiché, tre anni dopo, nel gennaio
del 1776, gli venne ucciso in campagna, con trentatré stoccate, l’unico figlio Gerolamo.
L’assassino – certo Antonio Capponi – fu arrestato e impiccato»2. L’ucciso lascia due bambini, Giovanni, di sei anni, e Francesco Matteo, di due.
2. Ramo Francesco Matteo Berlinguer. Nasce da don Francesco, nel 1802, Antonio (bisavolo di Enrico). Militare di carriera,
capitano della Guardia Sarda, combatte le guerre d’indipendenza. E in un ritorno a
Sassari sposa il 26 giugno 1833 Maria Marogna Satta, d’una famiglia benestante di
Sorso, alle porte della città. Avranno sei figli (Enrico, nato il 9 agosto 1850, è
il secondo: lo ritroveremo presto in questa nostra storia). In principio, una vita
serena; poi il dissesto. Don Antonio è un buon uomo, dolce in famiglia e con gli umili,
amico del suo attendente, ma ingenuo e di non grande senso pratico. Per altruismo
non controllato, avalla cambiali di conoscenti inaffidabili e ci rimette del suo.
Poco a poco il patrimonio se ne va. Uomo d’armi esemplare, amministratore incauto.
Resteranno a Enrico e agli altri cinque figli i terreni portati in dote da Maria Marogna
e, di tutta l’argenteria, sei cucchiaini e, a memoria delle battaglie risorgimentali,
una pistola di bell’impugnatura con canna lunga ad avancarica.
In una famiglia numerosa, un po’ di poderi, sei cucchiaini d’argento e una pistola
ad avancarica non sono propriamente ciò che si dice un patrimonio robusto, ed è escluso
che il capitano Antonio Berlinguer ce la faccia, così ridotto, a mantenere i figli
all’Università. Fortunatamente, agli studenti poveri delle antiche province dell’ex
Regno sardo è offerta l’occasione di proseguire gli studi nell’Università di Torino
con una borsa del Collegio Carlo Alberto. Enrico vi concorre e vince. (Quarant’anni
dopo, nel 1911, alla stessa fondazione albertina arriveranno da licei della Sardegna
altri due giovani di talento, Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti). S’iscrive a matematica.
È tempo di scapigliatura. I suoi compagni, Maurizio Quadrio, Clementino Serena, Amedeo
Ferralis, Domenico Dasar, sono bohémiens di temperamento ribelle, agitatori dell’ideale repubblicano. Anche Enrico è ispirato
da Mazzini. Schierarsi contro l’autoritarismo l’appassiona, e volentieri si lascia
coinvolgere in riunioni organizzative e in cortei, ma non distraendosi dai libri.
Matematico nato, chiude il corso con voti eccellenti.
A questo punto, inspiegabilmente, abbandona. Nessuno degli amici sa spiegarsene il
motivo. Fatto sta che torna in Sardegna, pronto a ricominciare da capo. L’Università
di Sassari non gli offre che medicina o giurisprudenza. Fa legge, si laurea, entra
in avvocatura. («Ah, saresti diventato un ottimo matematico. Come avvocato sarai mediocre»,
lo schernisce l’amico Clementino Serena scrivendogli da Parigi il 19 gennaio 1877).
Ha fondato, appena di ritorno a Sassari, un circolo e un periodico, «La Giovane Sardegna»:
Garibaldi, avendone ricevuto un numero, gli ha scritto incoraggiandolo. La lettera
è del 30 gennaio 1872. Vi si raffigura il papato come «un monticello di limo e di
sangue». Poche altre parole: «Vi ringrazio per la Giovane Sardegna, nuovo robusto campione del vero e della giustizia, di cui saluto l’alba con entusiasmo».
Alto uno e ottanta, magro, l’andatura dinoccolata, i grandi occhi sognanti, la barba
da cospiratore, sempre un po’ trasandato, fissa in bocca la pipa di terracotta, Enrico
ha successo. Frequenta una coetanea di Ploaghe, donna Antonietta Ferrà, e nel 1878,
a ventotto anni, la sposa; ma è felicità breve: lei muore di morte improvvisa, resta
vedovo che non ha trent’anni, il dramma ne marcherà il carattere. Incupisce. Estraniato
a qualsivoglia svago nei salotti, al Circolo sassarese, in teatro, si scarica febbrilmente
nella professione e nell’impegno politico.
In quest’era di transizione dal primato della Destra alle stagioni del Depretis e
di Crispi, Sassari è sui 40.000 abitanti, l’agricoltura base portante della sua economia,
qualche industria molitaria del grano e pastifici, oleifici, saponifici, e in cima
per importanza le concerie di pellami. Si dividono la città due «partiti», monarchico-moderato
l’uno, repubblicano-progressista l’avversario. Alla leadership del blocco progressista è emerso, negli anni Ottanta, un piccolo gruppo di giovani
agguerriti ed omogenei, tutt’e quattro discepoli del capo storico repubblicano Pietro
Soro Pirino, amico personale di Mazzini, e tutt’e quattro avvocati: Filippo Garavetti,
anche professore universitario, docente di diritto commerciale e di statistica, nato
nel 1846, Enrico Berlinguer, 1850, Pietro Moro, 1860, e Pietro Satta-Branca, 1861.
Il maggiore, Garavetti, aspira alla rappresentanza nazionale ed è eletto deputato
nel 1887. Ai «triunviri», legati da «profonda amicizia e stretta concordanza di idee»3, resta (e basta) il potere locale (saranno assessori in più giunte comunali, e il
più giovane, Pietro Satta-Branca, intraprendente, duro, incorruttibile, anche sindaco).
La cultura politica del gruppo è nulla più «dell’ideale cavallottiano di democrazia
avanzata, con punte di umanitarismo sociale»4.
3. Ramo Giovanni Berlinguer. Nasce da don Giovanni nel 1791 Gerolamo. Come per vendicare il nonno assassinato,
don Gerolamo sceglie di gettarsi a combattere il malandrinaggio. È militare di carriera,
faccia lunga d’aspetto fine, folti baffi a manubrio all’ingiù e bel pizzo a punta.
Nel 1811, a vent’anni, fa la sua vigilia d’armi, da luogotenente, nella Milizia Barraccellaria,
una polizia campestre locale creata dalla monarchia sabauda. Più avanti è capitano
dei Cavalleggeri di Sardegna, un reggimento che rifluirà nei Reali Carabinieri quando
l’Arma sarà istituita. Infestano le campagne bande di grassatori e assassini. Il capitano
Berlinguer «conosce in questi anni l’insidia della macchia, le febbri palustri per
i prolungati addiacci, l’orrore della sanguinosa guerriglia»5. Nella notte tra il 24 e il 25 giugno del 1835, a quarantacinque anni, l’impresa
epica. Terrorizza l’isola ed ha fama d’imprendibilità un predone, Battista Canu, inseguito
per un’infinità di delitti, il più efferato dei quali l’assassinio d’un mite viandante
in calesse, il dottor Felice Sini-Corda. Don Gerolamo ha un’idea, sfidarlo pubblicamente
a duello. La proposta, fatta circolare perché in qualche modo arrivi al bandito, è
d’un combattimento a due, con pistola e coltello. Gli uomini di scorta dell’uno e
dell’altro dovranno tenersi distanti dal luogo dello scontro almeno un chilometro.
Al vincitore è data certezza che tornerà tra i suoi senza molestie. Punto nella sua
vanità, il latitante accetta. Ed eccoli infine farsi incontro nella notte di prima
estate. A un segnale, si gettano a terra, l’occhio che trapassa il buio, l’orecchio
esercitato a distinguere il fruscio delle foglie per vento e il cespuglio smosso dall’uomo.
Echeggiano gli spari; i riflessi dei falò accesi dalle scorte per fare luce non sono
più che lampi. Il combattimento è selvaggio, ma leale. Feriti entrambi (tre volte
il capitano Berlinguer), Canu è il più stremato. S’accascia, l’ufficiale gli è svelto
sopra, lo disarma, l’ammanetta, se lo carica sulle spalle e lasciando lungo il tragitto
la traccia del loro sangue perduto a fiotti torna fra le pattuglie in trepida attesa.
All’arrivo, cade svenuto. Il bandito Canu è issato sul dorso di un cavallo... La medaglia
d’oro per questa impresa, ricevuta (in presenza del reggimento di guarnigione) dal
Governatore Grotti il 16 gennaio 1836, è il momento felice d’un seguito con anche
risvolti amari, perché le tre ferite hanno lasciato un segno, e il 1° aprile 1843,
a cinquantatré anni, don Gerolamo deve rassegnarsi a passare nel Battaglione degli
Invalidi, paga annua lire 1.500.
Ha una figlia nata nel 1815, Giovannica, ispettrice delle scuole normali e scrittrice
(«Fin dalla prima giovinezza – dirà di lei Enrico Costa – dimostrò inclinazione alla
poesia e scrisse versi affettuosi, specialmente d’occasione»)6. Non ha fortuna. Sposata a Francesco Segni (prozio del futuro presidente della Repubblica
Antonio Segni), resta vedova molto giovane con cinque figli da crescere.
L’ultima, donna Marietta Segni, nata nel 1839, s’unisce giovanissima a un ufficiale
garibaldino esuberante e buontempone, Giuseppe Falco, classe 1841, pugliese di Ischitella.
Eccoli, dopo il congedo, questi bisnonni di Enrico (per un intreccio che sarà più
facilmente comprensibile tra qualche pagina), nella loro casa di Sassari, con il cane
Flik e gatti, canarini, tartarughe, e alle pareti tutt’un repertorio di cimeli militari,
spade, pistole, fucili, bossoli, speroni e trofei di guerra e di caccia, e in bell’evidenza
la camicia rossa di garibaldino. Lei tabaccona, fiutatrice di tabacco in polvere,
il colonnello caffeinomane. Se lo tosta e lo miscela secondo regole fisse: per sé
e per gli ospiti di riguardo caffè-caffè; per gli usi comuni di casa metà caffè, un
quarto d’orzo, un quarto di polverina nera; per le serve orzo e basta. Ha il pianoforte
e lo suona. L’accompagna una figlia, la bellissima Caterina, nata a Foggia l’anno
di Porta Pia, 1870, bionda, gli occhi azzurri.
4. I nonni paterni. Una sera di carnevale del 1889, il vedovo Enrico Berlinguer, vicino ai trentanove
anni, penalista alla voga e professore comunale, è trascinato al Civico, dove le famiglie
del notabilato cittadino si sono date convegno per un veglione in maschera. C’è una
banda-orchestra fracassona, dai palchetti sfrecciano coriandoli, movimentano la serata
maschere spiritose. Enrico ne è stordito. Se ne sta solitario in un palco. Osserva.
Non sa divertirsi. Quand’ecco, presenza improvvisa, una figurina minuta che gli si
rivolge dicendo «ciao, Enrì». La maschera di raso, bordata di merletto, le lascia
scoperti solo la bocca e gli occhi, azzurri. Dice ancora «ciao, Enrì», e ride, ride...
Lui è preso dal gioco. Curioso, l’ha spiata. Inutilmente, il mistero resta. Allora,
incapace di riconoscerla, prende lui l’iniziativa: «Bene, deliziosa mascherina. Arreso.
Se ti scopri il viso, t’accompagno al buffet e prenderai cioccolatini e paste a piacimento».
L’esca rende, si toglie la maschera, è Caterina Falco, l’incantevole figlia di Marietta
Segni. Stanno ancora a lungo insieme, ora don Enrico non s’annoia.
Ripenserà intensamente, nei giorni successivi, alla serata felice. Ha scoperto d’essersi
innamorato, ed è un guaio. Intanto, la parentela: è cugino di donna Giovannica, la
nonna di lei. Poi la forte differenza d’età: Caterina ha diciannove anni, la metà
dei suoi. In effetti, qualche perplessità, a dir poco, il colonnello Falco, di soli
nove anni più grande del futuro genero, la manifesta. E tuttavia...
Alle 9.20 del 1° maggio 1890, testimoni don Alberto Manca dell’Asinara e il deputato
Garavetti, il sindaco Giuseppe Basso unisce in matrimonio don Enrico Berlinguer, di
anni trentanove (ma ne compirà quaranta in agosto), e donna Caterina Falco-Segni,
di anni venti, e all’uscita li saluta una pioggia di grano e petali di rosa. Avranno
otto figli: Mario l’11 marzo 1891, Jole nel 1892, Ennio nel ’93, Lidia nel ’96, Sergio
nel ’97, Aldo nel ’98, Ines nel ’99, Ettore nel 1903. Il che vuol dire che la bella
Caterina è madre già di sette figli a ventinove anni, e le nascerà l’ottavo a trentatré.
L’assistono tre domestiche e un’istitutrice (fatta venire dalla Germania una prima,
svizzera la seconda).
La nuova responsabilità di marito e padre non distoglie Enrico dalla politica, alla
quale continua a dedicare, spinto da passione civile, parte del suo tempo. Due i fatti
salienti. Nell’agosto del 1891, cinque mesi dopo la nascita di Mario, la fondazione
(con un gruppo di professionisti: Pietro Satta-Branca e Pietro Moro fra essi) d’un
settimanale, «La Nuova Sardegna» (quotidiano dal 17 marzo 1892). Nel dicembre del
1899 la fondazione (con il calzolaio Federico Mioni e il contadino Filippo Pinna)
dell’Unione Popolare, istituita per promuovere l’apertura della Camera del Lavoro,
del Segretariato del Popolo, di scuole serali per adulti e di un ricreatorio popolare.
Iniziative fruttuose. L’avvento nel 1902 della prima giunta comunale interamente progressista
(sindaco Pietro Satta-Branca; Berlinguer e Moro assessori) si deve anche alle nuove
associazioni ed al giornale.
Spensierata è la vita della borghesia sassarese nell’età giolittiana. Balli al Circolo,
concerti e prosa al Civico e al Teatro Verdi. L’agosto a Stintino (o ad Alghero e
Portotorres). Il resto dell’estate in gita alle ville dei signori. E dopo l’8 settembre
(festa della Marie), il giro dei ricevimenti: dai Cugia di Sant’Orsola il sabato,
dai conti Ledà d’Ittiri la domenica, in casa Roth il lunedì, martedì con i Sorcinelli,
venerdì in via Cavour, dai Berlinguer: dove la gioiosa, imperturbabile Caterina è
l’anima, e ognuno dei figli, i grandicelli, ha un ruolo preciso... All’ora canonica,
splendente, l’abito nero lungo dal cui centro parte a raggiera una cascata di paillettes, gli orecchini di turchese (il colore dei suoi occhi), lei scende nell’atrio a ricevere
gli ospiti, professionisti, la nobiltà, ufficialetti, i Segni, i Falco, i Pilo, lo
scrittore Enrico Costa, il poeta Sebastiano Satta (che a Enrico ha dedicato versi
dialettali, chiamandolo «Bellingherra», prode in guerra), il compositore Luigi Canepa,
il prefetto, il sindaco, il generale comandante del distretto e il comandante dei
carabinieri. Soli esclusi, per volontà di Enrico, il questore e i commissari di polizia.
Circolano in sala cameriere in vestina nera, la crestina e il grembiule con pizzi,
bianco. A mezza serata, la musica. Pianista è la zia Carmelia, e Mario, l’abito fresco
di stiro, le siede accanto, per voltare, a un segno, le pagine dello spartito. Arriva,
chiuso lo studio, don Enrico. È il momento della politica: conversazioni accese, dispute...
Nascosti dietro le tende, i piccoli Berlinguer ascoltano, scherzano. Un loro gioco
è mettere nelle tasche degli ospiti fichi secchi appiccicosi. Un altro, lasciare nelle
scale palline di vetro. Le risate, quella volta che il solenne generale ci mise un
piede sopra e fece tutta la rampa ruzzolando...
È una famiglia rispettata. Ha scritto, dell’avvocato Berlinguer, la polizia, in un
suo rapporto del 10 settembre 1902: «Riscuote ottima fama sul pubblico. È di carattere
buono e di squisita educazione, di ingegno assai svegliato, e di coltura profonda.
[...] È un assiduo lavoratore, e per sé e la famiglia, che mantiene con decoro, trae
i mezzi di sussistenza dalla professione, essendo tenuto in conto di ottimo avvocato.
Egli mena vita piuttosto ritirata, dedicando molte ore della giornata allo studio
e alla composizione di articoli che pubblica sul giornale locale “La Nuova Sardegna”.
Frequenta però più specialmente la compagnia di distinte persone appartenenti al partito
repubblicano, fra i quali l’on. Filippo Garavetti. [...] È dai suoi giovani anni iscritto
al partito repubblicano, sul quale esercita moltissima influenza [...]. Ha la parola
facile e un forbito e insinuante fraseggiare [...]. Verso le autorità tiene contegno
deferente». E il 4 maggio 1910: «È sempre uno dei più influenti capi del partito repubblicano
di Sassari. Ma in tutte le sue manifestazioni si è comportato in modo corretto ed
anche conciliante». Il rafforzamento («Sempre più temperato e conciliante») è dell’anno
dopo, 3 luglio 19117.
5. I nonni materni. Loscienziato Giovanni Lòriga è d’una famiglia di proprietari terrieri benestanti. Nato
i primi giorni dell’Italia unita, il 18 aprile 1861, ha studiato, con profitto, medicina,
ma non rinchiudendosi poi dentro interessi esclusivi. Geniale, curioso del mondo,
socialistoide, fra gli anni Ottanta e Novanta ha frequentato all’Università di Roma
le lezioni di filosofia teoretica e di filosofia della storia di Antonio Labriola.
Ed è forse dall’investigazione della realtà e dall’intreccio di interessi per la medicina
e per il socialismo che gli è venuta la spinta a pensare e fondare una disciplina
nuova, l’igiene del lavoro. L’insegna all’Università di Roma. Nel suo campo, è una
celebrità. Ha scoperto una vibropatia, l’alterazione delle arterie in mani e braccia
per l’uso del martello pneumatico. Gira il mondo, invitato a congressi. Al caffè Aragno,
punto di convegno dell’intellettualità progressista, l’ascoltano con rispetto. Ma
è colpito presto da una sventura. Ha sposato una sorella del leader repubblicano Pietro
Satta-Branca, Giuseppina, avendone il 4 novembre 1894 una figlia, Maria Anatolia (Mariuccia
in famiglia), molto bella, diligente a scuola, sensibile, timida. Abita-
no al numero 24 di via Genova, non distante dal Viminale. Giuseppina ha una malattia
di cuore (ed è il professor Lòriga a diagnosticargliela). Se ne va prima dei quarant’anni...
Alla sofferenza per la perdita d’una compagna tenera, s’aggiunge il problema di Mariuccia,
che nel 1912 ha diciotto anni e non può crescere sola. Andrà a Sassari, dalle zie
Gavina e Gerolama Satta-Branca. La sua migliore amica è una compagna di scuola, Lidia
Berlinguer, quarta dei figli di don Enrico.
Serve a completare il quadro delle parentele quest’altro dato. Il professor Lòriga
ha un fratellastro di nove anni più grande, Antonio Zanfarino, nato nel 1852, medico
oculista, massone venerabile della Loggia di Sassari, esponente del «partito» moderato,
più volte consigliere comunale. Da una figlia del dottor Zanfarino, Mariuccia, nascerà
il 26 luglio 1928 il presidente della Repubblica Francesco Cossiga: imparentato dunque
a Enrico e Giovanni Berlinguer per linea materna (i nonni fratellastri).
6. I genitori. Una domenica d’inquietudine, in casa Berlinguer, il giorno che (28 giugno 1914) a
Sarajevo è assassinato l’arciduca d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando. A dirci
il clima di quel giorno e degli anni seguenti, restano le lettere di Ines all’innamorato
Siglienti. 30 giugno 1914: «Figurati, papà ha parlato del regicidio per tutto il pranzo
– discussioni con Mario ed Ennio e tutti noi che dicevamo i nostri pareri. Papà è
molto pessimista...». 28 luglio 1914: «Oggi papà ha detto che ha l’impressione che
cominci un’era di tragedia per l’Europa e che il cerchio si allarghi fino a comprendere
tutti gli Stati europei. Papà è molto preoccupato e spera che l’Italia non si schieri
mai con i vecchi alleati». 7 maggio 1915: «A pranzo s’è parlato molto del discorso
di D’Annunzio. Papà anche lui è interventista, anche se dovrà avere lo strazio, in
caso di guerra, di vedere partire parecchi dei figli. Intanto Mario sta seguendo il
corso di ufficiale a Modena, Ennio è imbarcato, e così ognuno segue la sua sorte».
Nel 1915, Mario ha ventiquattro anni. Uscito nel 1909 dal liceo classico «Domenico
Alberto Azuni» con la media dell’otto (frequentavano l’«Azuni», in quegli stessi anni,
Palmiro e Maria Cristina Togliatti, figli dell’economo del Convitto nazionale Canopoleno),
s’è laureato in legge, nel ’13, svolgendo una tesi di filosofia del diritto e nel
’14 ha superato a Cagliari l’esame d’avvocato. Non alto come il padre, castano d’occhi
e di capelli, lenti tonde a pince-nez sul naso piatto, un principio di calvizie, ricorda, per molti lati del carattere,
nonno Falco. Gioviale. Ricercato nel vestire. Assiduo a balli e convivi. Corteggiatore
discreto. Di buona cultura musicale. Arguta la conversazione. Combattivo. Nel 1911,
a vent’anni, s’è battuto a duello con un Ulderico Rossi, e il 30 dicembre il pretore
lo ha condannato a cinque giorni di prigione. Altra condanna (a 50 lire) due anni
dopo, nel 1913, per una scazzottata dalla quale un Giovanni Masala è uscito con lesioni.
Ha una scrittura spigliata e manda alla «Nuova Sardegna», diretta da Medardo Riccio,
note politiche, soggetti di letteratura, novelle. Fa pratica legale. Amoreggia (sguardi
durante il passeggio, telefonate furtive, lettere) con una ragazza di quattro anni
più giovane appena giunta da Roma, compagna e amica della sorella Lidia, Mariuccia
Lòriga, di bellezza fine, un viso che incanta, d’artista di cinedrammi. È stato scelto
fra più corteggiatori, ed uno era il figlio dell’avvocato Celestino Segni, Antonio,
anche lui del 1891, anche lui licenziato dall’«Azuni», ma con la media del nove (fa
la carriera universitaria, allievo prediletto di Giuseppe Chiovenda).
Crescono rumori di guerra. Gli studenti s’agitano. Su «La Nuova Sardegna» del 16-17
marzo 1915 Mario ha scritto: «Si va! Tutto l’elemento giovane e intelligente è concorde,
tutta la generazione nuova, non oppressa da pregiudizi di setta o di tornaconto elettorale,
non bacata, non pusillanime, ha sicura coscienza della via da percorrere». Due mesi
dopo, il mattino del 21 maggio 1915, dalle finestre della «Nuova Sardegna», sono il
direttore Medardo Riccio e l’anziano Enrico Berlinguer a infiammare i manifestanti
dicendo: «Un solo proposito: alla frontiera! Un solo grido: Italia!».
Ancora dalle lettere di Ines Berlinguer. 25 maggio 1915: «Finalmente la dichiarazione
di guerra. In casa siamo tutti euforici, per quanto ognuno per conto proprio abbia
il suo problema intimo e la sua pena. Papà e mamma pensano di certo ai figli, Jole
al fidanzato, io al mio innamorato. Sarà una guerra breve, e auguriamoci che finisca
con la vittoria nostra e dei nostri alleati». 1° ottobre 1915: «A giorni verrà Ennio,
per salutarci prima dell’imbarco. Mario è sempre alla scuola di Modena e poi andrà
al fronte. Verrà anche Guido, il fidanzato di Jole, che è lontano da oltre sette mesi!
Quando finirà, questa orribile guerra?». 14 novembre 1915: «Siamo tutti occupatissimi
ad ultimare gli indumenti invernali per Mario, che parte domani per il fronte. Cerchiamo
di apparire indifferenti per papà e mamma che, pur non dimostrandolo, sono, io credo,
disperati. Mario è contentissimo, e pensare che ha l’innamorata anche lui. Ennio è
già imbarcato, ma per ora è a Taranto. Così, anche la nostra bella felice famiglia
comincia a dividersi». 16 novembre 1915: «È stata una giornata terribile e indimenticabile.
Abbiamo lasciato a casa mamma disperata, che s’è abbracciata Mario come può solo una
madre che vede il figlio partire per la guerra [...]. Alla stazione un’infinità di
volontari [...]. Mario sorrideva, ma credo con molta commozione. Papà ad un certo
momento stava per crollare, forse ha avuto un leggero capogiro. Poi s’è ripreso, ci
ha sorriso ed ha pure scherzato per consolare gli altri padri e madri [...]. Papà
non è più lo stesso, a tavola non riesce a guardarci con il suo solito sguardo sicuro
e sereno, i due posti vuoti gli pesano».
Donna Caterina è ancora giovane e fresca, quarantacinque anni vissuti serenamente.
Ora tutto le accade di colpo. Ennio, ufficiale di marina mercantile, va per mare e
non dà notizie. Lunedì 15 novembre è partito Mario. Un vuoto. Metteva in casa allegria.
Passano soltanto cinque giorni, all’alba di sabato vengono a chiamarla: il padre,
il colonnello Falco, le dicono, s’è aggravato. Lo trova morto. L’indomani domenica
21 novembre il funerale. Rincasa: Enrico è a letto, gli cede il cuore. Una notte agitata.
Non resiste. Muore a sessantacinque anni lunedì 22 novembre 1915, alle dieci («La
partenza di Mario di certo gli aveva minato il cuore», annota Ines il 18 dicembre).
In una famiglia che era stata gioiosa, entra la disperazione. Parte anche Sergio,
il quinto dei figli, e un giorno arriva l’agghiacciante notizia: il 24 maggio 1917,
alle 13.30, a Cagliari per un esame d’ammissione al corso allievi sottufficiali dei
carabinieri, Sergio si è tolta la vita. Non aveva che vent’anni. («Mamma è completamente
annientata», scrive Ines il 26 maggio). Parte infine Aldo. Da una lettera di Ines
del 16 agosto 1917: «Mamma, ammalata di malaria con febbri altissime, non fa che delirare,
e nel delirio cerca disperatamente chi non c’è più. Di Mario ed Ennio nessuna notizia».
Mario ha avuto da Cadorna un permesso speciale dopo la morte del padre. S’è trovato
sulle spalle a ventiquattro anni il peso d’una famiglia numerosa. Ha esercitato. Era
un cercatore di svaghi. S’è rinchiuso tra studio e casa, senz’altro interesse che
la cura della famiglia (Mariuccia Lòriga non c’è più, tornata a Roma dal padre). Il
permesso speciale scade, non è congedo illimitato: nel giugno 1917 deve ripartire.
Potrà dedicarsi alla professione con regolarità solo a metà del 1919.
Riprendiamolo giovedì 30 giugno 1921, quando, a trent’anni, nella chiesa parrocchiale
di San Giuseppe, sposa Mariuccia Lòriga (imparentandosi ai Satta-Branca). Non ha abbastanza
soldi per trasferirsi in casa di proprietà (ancora gli sta a carico la famiglia d’origine).
Ha affittato un alloggio in aperta periferia, al numero 7 di viale Dante, le finestre
su uno stradone che scende ai giardini pubblici, e l’ha arredato con gusto, poltroncine
in vimini nel salottino, la sala da pranzo in mogano comprata a Roma da Ducrot, in
camera da letto i mobili antichi che erano stati di Giuseppina Satta-Branca, la madre
di Mariuccia. Una vita senza affanni, in partenza. L’anno dopo le nozze, alle 3 del
25 maggio 1922 nasce il primogenito. Lo battezzano il 9 luglio a San Giuseppe, dandogli
il nome del nonno repubblicano, Enrico. Il vezzeggiativo è Bibì. Fra nonna Caterina
Falco-Segni, che a cinquantadue anni conserva un po’ dell’esuberanza di un tempo,
la mamma e le molte ziette, gli sta sempre attorno, a fargli coccole, una piccola
folla di donne.
L’estate, tutti a Stintino, il villaggio di pescatori dove s’arriva solo con un barcone.
Vi si ritrovano, a far vita comune, uomini di correnti politiche diverse: con i Berlinguer,
i Segni, i Satta-Branca, i Siglienti, i Lòriga, i Pilo: una specie di famiglia allargata,
dentro la quale l’animatore nuovo è l’ultimo dei Berlinguer, Ettorino, vent’anni,
un bel ragazzo alto, corporatura d’atleta, ribelle, bizzarro, brillante, studi chiusi
alla quinta ginnasiale, giornalista alla «Nuova Sardegna», il poker la sua inclinazione,
velista dominatore di venti, organizzatore di tornei di calcio (gioca e si fa chiamare,
alla maniera del tempo, Berlinguer V), voce intonata e suonatore di chitarra: è lui
che ha lanciato le canzoni più canticchiate quest’anno a Stintino, la Violetta di Parma, Ivonne, Salomè...Ma l’aria invelenita che è in Italia entra ormai anche in questo fiordo. Tensioni,
poca voglia di far festa. Dalle lettere di Ines a Fanuccio: 3 agosto 1923: «Quest’anno
Stintino offre poco. In famiglia poi, chi più chi meno, siamo tutti nervosi. La grande
gioia di tutti è Bibì che cresce bene e si fa sempre più bellino». 27 agosto 1923:
«Tutte le notizie che mi dai circa questo fascismo, che sta creando attorno a sé un’atmosfera
sempre più infuocata, mi preoccupano; e penso che noi non saremo mai dalla loro parte
[...]. Bah, non voglio fare della politica [...]. Oggi andremo, con Agostino il marinaio,
a Punta Lunga».
S’annunziano elezioni anticipate. La Camera è sciolta in gennaio e il voto fissato
per il 6 aprile 1924. Varrà una legge elettorale nuova, pensata a misura dei listoni
fascisti: in pratica, per ciò che riguarda la circoscrizione sarda (comprensiva delle
due province di Cagliari e Sassari), otto seggi al listone governativo e solo quattro
alle opposizioni, oltretutto divise in ben cinque liste, il Partito Sardo d’Azione,
il Partito Popolare, i socialisti riformisti, i liberali conservatori di Democrazia
sociale e i liberaldemocratici di opposizione costituzionale, un’alleanza guidata
dal leggendario Francesco Cocco Ortu, ottantadue anni, cagliaritano d’elezione, più
volte sottosegretario nei ministeri Cairoli e Crispi, a lungo ministro con Di Rudinì,
Zanardelli e Giolitti. Dietro Cocco Ortu è candidato, con minime possibilità di riuscita,
Mario Berlinguer. L’attende (attende gli oppositori) una campagna elettorale difficile
e rischiosa: impunite le violenze dei fascisti; i poteri dello Stato, prefetture,
polizia, carabinieri, schierati con i sopraffattori. Ma il giovane Berlinguer, battagliero
fin da quando, ragazzo, si scontrava alla sciabola e faceva a pugni, non si tira indietro.
A Ploaghe l’accoltellano; a Ittiri l’assediano armati. Va avanti come può, allontanato
spesso dalla forza pubblica, che gli vieta di far comizio per accampati motivi d’ordine
pubblico. Alla fine il risultato riserva sorprese: la caduta di Cocco Ortu e l’elezione
di Mario Berlinguer, deputato a trentatré anni, un’esperienza politica e culturale
decisiva. S’avvicina a Giovanni Amendola, frequenta «Il Mondo» di Alberto Cianca,
conosce il conterraneo Gramsci, suo coetaneo, incontra spesso Lussu, vede anche Turati
e Modigliani e dopo la scomparsa (e l’uccisione) di Giacomo Matteotti partecipa attivamente
all’Aventino.
Il piccolo Enrico avrà presto un fratellino. Nasce alle 6.20 di mercoledì 9 luglio
1924. Lo chiamano Giovanni, il nome di nonna Lòriga (ma anche del «dottore in ambe
leggi» Berlinguer y Calsamiglia, l’antenato che per primo, nel 1777, aveva ricevuto
da Vittorio Amedeo II i regi diplomi di cavalierato e nobiltà).
All’orizzonte, un’avanzata di nubi nere. Da una lettera di Ines a Fanuccio, 6 agosto
1924: «Qui i dispetti e le seccature che ci procurano i fascisti non accennano a finire.
L’altro giorno stavano dando fuoco a “La Nuova Sardegna”, e poi volevano venire a
casa nostra. Ci hanno avvisato in tempo, perché chiudessimo porte e finestre».
Nel 1926, sciolta dal fascismo la massoneria, Mario vi aderisce.
III.
La prima formazione
1. Sui trent’anni, a breve distanza dalla nascita del secondo figlio, Mariuccia comincia
a patire malesseri oscuri, che si manifestano in forme gravi di sonnolenza e d’insonnia,
inversione del ritmo del sonno e della veglia, febbricole di breve durata, contrazioni
muscolari brusche, paralisi di nervi motori dell’occhio, apatia per turbe psichiche
e, nei momenti acuti, stato confusionale. È per primo lo sventurato padre (dopo che
altri hanno stentato a venirne a capo) a interpretare i sintomi correttamente; diagnosi
infausta: un male che il professor Lòriga sa terribile, encefalite letargica.
La demolizione del fisico è progressiva, irreparabile. Però, almeno all’inizio, vi
sono anche arresti, fasi di tregua, e Mariuccia può uscire, ha relazioni sociali,
persino viaggia. La troviamo nella primavera del ’26 in vacanza a Roma, con Mario,
attivo nell’Aventino. Scrive Siglienti a Ines il 27 aprile 1926: «Siamo stati con
Mario e Mariuccia a sentire la Gramatica, spettacolo veramente bello. Poi, oggi, al
Supercinema».
Recuperi momentanei. La malattia è devastante, e presto Mariuccia è presa da rigidità
muscolare e scosse continue in tutto il corpo, le dita tremule, in un movimento come
di sbriciolare il pane, e il volto – appena ieri così bello – inespressivo, una maschera
stupita e fissa: tutti segni del morbo di Parkinson, ultimo stadio dell’encefalite
letargica. Non comunica più, è caduta in uno stato di permanente apatia, non esce,
non riceve, sragiona. Il primo ricordo che i bambini hanno della mamma è d’una donna
molto malata, vecchia.
Sono venuti ad abitare al centro, in casa d’affitto al 19 di via Manno, quattro stanze
piccole, al primo piano, con balconcino di marmo e una veranda. Crescono privati dell’affetto
materno; peggio, testimoni impotenti di una tragedia che si prolunga negli anni, la
mamma ridotta a struggente immagine di sofferenza. Stanno attenti a non far chiasso.
I compagni evitano di venire a studiare o a giocare insieme: la faccia deformata della
signora Berlinguer e il tremito del corpo e l’espressione assente li impressionano.
Assiste i ragazzi una domestica di Bessude, Mariangela Rassu, un’aria di contadina
energica, la gonna e la blusa di foggia antica, alfabetizzata, lettrice di due libri
canonici, il Messale e l’Artusi. (Per sua influenza, il 15 aprile 1934, a dodici anni,
nella parrocchia di San Giuseppe, Enrico riceve la cresima e la prima comunione dal
vescovo Mazzotti).
L’atmosfera in famiglia, se non mesta neanche allegra, spinge i ragazzi fuori casa,
e la propensione di Enrico al gioco ne è rafforzata. Giochi all’aperto, gare d’atletica
fra compagni, salti e corse, e le partite di pallone, lunghi pomeriggi in periferia,
al campo «dei puledri», o nel piazzale delle carceri, davanti allo studio paterno,
in via Mazzini. E altre ore al biliardo o a un tavolo di carte. Non gli avanza e non
cerca in ogni caso che gli avanzi molto tempo per lo studio. Col risultato di un andamento
a scuola catastrofico: promozione stentata alla seconda ginnasiale a giugno, dopo
medie trimestrali insufficienti; in seconda, avvio disastroso, la versione dall’italiano
in latino è classificata col 3 al primo trimestre e col 2 nel secondo: altra promozione
a fatica; in terza non ce la fa, i voti trimestrali del latino sono 2, 3, e 4, è rimandato;
è rimandato ancora in quarta, deve ripetere latino e greco.
Un anno, quel 1936, che resterà nella memoria dei Berlinguer per l’atto finale d’uno
sfacelo: a quarantadue anni (la stessa giovane età della madre Giuseppina Satta-Branca),
al compimento d’un’agonia che, suscitando tenerezza e pena, è durata più di dieci
anni, Mariuccia muore. È il 15 giugno. Enrico ha quattordici anni. Li ha vissuti in
una casa marcata dal dolore.
Ormai adolescente, si lega a pochi, e quando si lega è amicizia profonda. Con i più
comunica poco. Agli uni appare dolce, loquace, allegro; agli altri non socievole e
triste. Due immagini a contrasto, entrambe reali. Gioca e scherza in un giro ristretto.
Al di fuori è chiuso, persino spigoloso, indocile.
2. Finalmente Mario ha potuto costruirsi una casa di proprietà al numero 4 di via
Alghero, non distante da dove hanno vissuto gli ultimi dieci anni, e nel 1937 vi si
trasferiscono. È un villino con due appartamenti luminosi. I Berlinguer occupano il
piano alto. Al pianterreno, sul giardino, viene ad abitare l’unica sorella di Mario
rimasta a Sassari, Lidia, che ha sposato un dirigente di banca, Andrea Pintus. Sarà
lei, negli anni della prima giovinezza di Enrico e Giovanni, a far loro da madre.
Mario è impegnato in processi che anche lo trattengono in altre città. Prendersi cura
dei ragazzi non gli è facile. Li segue come può. S’era sostituito a Mariuccia quando,
bambini, li addormentava narrandogli fiabe e gli leggeva racconti per l’infanzia,
alcuni in francese, perché imparassero la lingua. L’intensa attività di studio e le
relazioni mondane normali in un uomo ancor giovane ne hanno fatto un padre assente;
non alla lettera beninteso. Ha o si crea momenti liberi per portarli con sé a teatro,
concerti nella sala del Museo Sanna, all’opera. La musica è passione comune. Avevano
già in via Manno la radio e un grammofono a manovella, regalo d’una cliente difesa
gratis. Col trasloco nel villino di via Alghero, c’è stato un cambio in meglio. Nella
stanza da pranzo, ad angoli tondeggianti, in mezzo a mobili vecchi, due sono di recente
acquisto, identici: un monumentale radiogrammofono Marelli modello «Nilo Azzurro»
e un contenitore di dischi di pari imponenza. Il lunedì sera, tutti a casa. L’Eiar
trasmette da Torino il concerto Martini e Rossi. Un gioco abituale dei Berlinguer
è spegnere la radio all’annuncio del pezzo, ascoltare, cercare di capire cos’è, dirlo,
poi aspettare il riannuncio a pezzo eseguito per sapere chi ha indovinato. Ragazzi,
ricevono un’educazione musicale insolita a questa età. Una sera a Roma – ricorderà
Lina Siglienti – Enrico, loro ospite dopo la morte della madre, sui quattordici anni,
ha l’idea d’invitare i cuginetti al «Costanzi» per una serata wagneriana, in tedesco1.
La confidenza che Enrico non ha con il padre (stima e affetto sì, non di più) è presente,
al contrario, nel rapporto con lo zio Ettorino, Berlinguer V, quasi un fratello maggiore,
o comunque uno zio al quale non è dovuta obbedienza. I diciannove anni che li separano
sono accorciati dall’inclinazione di Ettorino a qualsiasi gioco ed a comportamenti
trasgressivi e dalla sua disponibilità a farsi complice dei ragazzi nelle loro veniali
devianze. Non fa storie se fumano e passano le serate al bar Secchi, intorno a un
tavolo di biliardo. Gli insegna il tressette e la mariglia, gioco di carte sassarese
nel quale eccelle. Non lavora. È una combinazione di interessi culturali e di scioperataggine,
un personaggio che si è trovato spesso in pagine di romanzi russi, un intreccio di
Oblomov, del giocatore e dell’intellettuale di provincia. Vive scapolo con la madre,
Caterina, soli nella grande casa di via Cavour, angolo via Mazzini, che è vuota, ma
sino alla Guerra Mondiale era stata lieta, luogo di feste il venerdì. C’è la biblioteca
del padre, Enrico. I ragazzi, frequentatori assidui della casa di nonna Caterina,
vi prendono libri senz’ordine e disciplina. «In famiglia – testimonierà Giovanni –
circolavano, insieme ai grandi romanzi dell’Ottocento (noi preferivamo Verne a Salgari),
i vecchi libri della biblioteca politica di nonno Enrico conservati da zio Ettorino:
l’edizione del Manifesto dei comunisti accompagnata dal saggio di Antonio Labriola, le Memorie di Garibaldi, I doveri dell’uomo di Mazzini, i testi anarchici di Bakunin e di Max Nordau. Di questi ci colpì Le menzogne convenzionali della nostra civiltà [...]. A queste letture Enrico aggiungeva (io ero più pigro in materia) i libri di
filosofia acquistati e divorati con grande passione. Prediligeva i dialoghi di Platone,
l’opera monumentale di Kant (“una costruzione talmente perfetta da far pensare ad
una ispirazione divina”, mi disse una volta) e fra i contemporanei la Storia del liberalismo europeo scritta da Guido De Ruggiero nel 1925, quando la libertà entrava in eclisse»2.
Non lasceremo in ombra, ora che riandiamo a momenti significativi della formazione
di Enrico, un altro zio strambo, Ennio. Capitano di lungo corso, dopo la guerra è
sbarcato a New York, s’è dimesso, ha cambiato mestiere, ha fatto il muratore e il
piccolo impresario edile, s’è sposato. La crisi del ’29 l’ha gettato in rovina. Imbarca
la famiglia e se ne torna a Sassari. In località «Fangazzu», alle porte della città,
c’è una campagna con casetta, proprietà di Luigi Pilo, suocero del fratello Aldo.
L’avvocato Pilo è un esponente della nobiltà agraria sassarese, primo segretario provinciale
del fascio, podestà di Sassari nel 1930-31. La figlia Mariuccia ha sposato l’avvocato
Aldo Berlinguer (un loro figlio, Luigi, sarà deputato comunista e rettore dell’Università
di Siena, e un altro, Sergio, segretario generale della presidenza della Repubblica
con Cossiga). Ennio s’insedia dunque a «Fangazzu», ma non per starci a lungo. Artigiano
fantasioso, ha trasformato la soffitta di via Cavour in un alloggio indipendente e
vi si trasferisce con la moglie, Eva Parson, e i figli, George e Joan Mary. Fa l’assicuratore
e altri piccoli mestieri. Eva insegna l’inglese a Enrico e Giovanni. Cinque anni di
lezioni. Poi Ennio, annoiato di Sassari, riprende la via dell’America e vi si ferma
sino alla morte, nel maggio del 1969, a Bristol (nel 1951 George Berlinguer, marine Usa, andrà alla guerra di Corea e qui sarà colpito da crisi mistica).
Nei soggiorni a Roma Enrico ha l’occasione di rinsaldare legami con altri parenti
che l’influenzano: nonno Lòriga e zio Fanuccio Siglienti, entrambi antifascisti pur
negli anni del consenso di massa al «costruttore dell’Impero». Ripetendo il costume
che era stato di nonna Caterina, il venerdì zia Ines apre il salotto di via Carlo
Poma agli amici, e ad Enrico in vacanza capita d’incontrare intellettuali d’orientamento
liberaldemocratico, il bibliotecario del Senato Fortunato Pintor, zio di Giaime e
di Luigi, il giornalista Raffaele Ferruzzi, l’avvocato Antonio Gessa, il letterato
Angelandrea Zottoli, Guido De Ruggiero, e un comunista, il solo del gruppo, il matematico
Lucaroni.
È il rifiuto del fascismo – con riferimenti ideali non uniformi, socialista positivista
nonno Lòriga, liberaldemocratico zio Fanuccio, anarcoide zio Ettorino, giellista-liberalsocialista
il padre – l’elemento naturale in cui i ragazzi Berlinguer vivono e si formano. Certo
è un antifascismo «nutrito più di dignitosa estraneità che di solerte opposizione
al regime», ricorderà Giovanni3; ma, anche con questi limiti, in tempi di gioventù in divisa e di giornali vigilati
dalla tirannide e di scuola ridotta alla propagazione della verità di Stato, la carica
pedagogica che gli resta è forte abbastanza per lasciare un segno. Enrico ha in mano
Bakunin, Marx, Romain Rolland e Max Nordau in anni nei quali l’orizzonte di molti
coetanei è ristretto alle avventure di Cino e Franco e di Dick Fulmine4.
Le avventure i Berlinguer hanno il «privilegio» di viverle in casa; come la volta
che Mario ha scelto di schierarsi, patrono di parte civile, contro un capomanipolo
e tre agenti della milizia processati per l’assassinio di due torronai di Pattada.
L’episodio ha molto emozionato i sardi. I due torronai tornavano da una fiera con
un barroccio. Sono stati abbattuti sullo stradone di «Campu ’e Mele». Pesano sui militi
prove schiaccianti. Il tentativo della difesa è infine di politicizzare la causa con
una rappresentazione dei fatti aggiustata: nient’altro è avvenuto a «Campu ’e Mele»
che uno scontro fra tutori dell’ordine fedeli servitori della patria e due esecrabili
sovversivi. In aula, gli schieramenti di parte civile e della difesa hanno un’impronta
politica evidente. Affiancano i militi un gerarca fascista venuto da Cagliari, Francesco
Caput, l’eminente penalista Bruno Cassinelli e il federale di Napoli Francesco Saverio
Siniscalchi. I familiari degli uccisi sono assistiti da Berlinguer, dall’ex deputato
sardista Pietro Mastino e da un cugino di Antonio Segni, Nino Campus. S’infittiscono,
sui muri del centro, le scritte intimidatorie: «Chi tocca la Milizia / avrà piombo»,
«Quando passa la Milizia stradale / passano le leggi della Rivoluzione». All’udienza
d’apertura, il pretorio è occupato interamente da militi in camicia nera. Accolgono
gli imputati con applausi, acclamazioni. Gli avvocati della difesa scoprono le carte
subito: mirano al trasferimento del processo in un tribunale fuori dall’isola, accomodante.
Perciò ricercano la provocazione: e Mario ci casca. Ha sentito il federale Siniscalchi
gridare, rivolto alla parte civile: «Voi speculate su due cadaveri!». Gli si scaglia
addosso, lo rovescia sul banco, lo getta a terra, lo gonfia di pugni. L’udienza è
sospesa, il processo rinviato. In casa Berlinguer, i ragazzi s’eccitano, orgogliosi
del padre. Non indovinano il seguito. Tutte le mattine Mario esce con la sciabola;
la spiegazione data in famiglia è questa: vuole soltanto tenersi in esercizio. Non
dice di più. In realtà Berlinguer e Siniscalchi, entrambi ufficiali in congedo, hanno
il dovere di battersi. L’arma scelta è la sciabola. Si scontrano un mattino alle 5
in campagna Prunas, dentro un bosco a Rizzeddu, in prossimità della grotta «la Crocetta»,
e il federale fascista ne esce distrutto, un ruscello di sangue. Più tardi in mattinata
grande è l’esaltazione di Enrico e Giovanni quando il padre torna a casa e racconta
per filo e per segno tutto, concludendo: «Saprà maneggiare il manganello, quello lì,
ma con la sciabola è zero».
3. Il rendimento di Enrico a scuola, nel passaggio dal ginnasio al liceo, non presenta
novità se non per questo: continua a trascurare le materie che non l’attirano (e non
sono poche), però i libri trovati nella biblioteca di nonno Enrico – e letti non per
obbligo – gli facilitano la riuscita nelle altre: arrivano i primi 7, in italiano
e in storia, e il primo 8, in filosofia. È promosso a giugno sul filo della sufficienza,
meno quei tre voti al di sopra.
In seconda, ancora partenza fiacca. Restano in pagella, alla chiusura del primo trimestre,
persino un 2, in scienze, e un 3, in storia dell’arte. Il fatto è che, letture personali
a parte, studia di malavoglia. Dopo mangiato, i compiti di corsa, e via al poker.
C’è a qualche isolato da casa, in via Roma, strada centrale d’uffici, di negozi e
di passeggio, un «vindiolu», Apollo, infima mescita di vino con soppalco; e lì su,
nascosti alla vista, un paio di tavoli in penombra, semiclandestini. Giocando a carte,
Enrico ci fa le ore tarde. È rimandato a settembre, deve riparare in scienze (4 il
voto).
Non i rabbuffi dei professori e le note sul registro, non le sgridate severe del padre
e i richiami dolci di zia Lidia valgono a correggerlo. Fa di testa sua, il modello
è zio Ettorino, cresce anarcoide. «Fin da ragazzo – dirà a un giornalista inglese,
Peter Nichols – ero mosso e guidato da un sentimento naturale di ribellione che investiva
gran parte di ciò che mi circondava. All’età di tredici-quattordici anni non riconoscevo
più alcuna autorità. La religione, lo Stato, le convenzioni sociali, tutte le concezioni
che avevo imparato erano state a quell’età respinte e in seguito sottoposte a una
critica spietata e imparziale»5. Con parole sostanzialmente uguali, ripete a Enzo Biagi: «Da ragazzo c’era in me
un sentimento di ribellione. Contestavo tutto, la religione, lo Stato, le frasi fatte
e le usanze sociali. Avevo letto Bakunin e mi sentivo un anarchico»6.
Terza liceo: il tunnel di sempre, con chiarore solo alla fine. Da una parte l’8 fisso
in filosofia e il 7 in storia, dall’altra una raffica di insufficienze. Al primo trimestre,
2 in matematica e 4 in scienze, greco e fisica; al secondo sale al 5 in matematica,
greco e fisica, ma in scienze regredisce dal 4 al 3. Voti secondo tradizione. Ai libri
scolastici continuano a far concorrenza, nell’ora dei compiti, le carte, giocate adesso
in un posto nuovo, anche questo in via Roma, il bar dei fratelli Rubattu. C’è una
prima sala, una pasticceria ben frequentata; e al di là, due retrobottega: il biliardo
a buche e i tavoli. Alla chiusura serale, pasticceria e biliardo si svuotano; la sala
per le carte no: solo che ai giochi leciti del pomeriggio, mariglia, tressette, ramino,
subentra di notte il gioco d’azzardo. È in questa «second’ora» di rilanci e fumo e
vermentino che Enrico fa amicizia con tipi nuovi, di estrazione proletaria, popolani
delle Conce e di Sant’Apollinare, operai, artigiani, gente con un passato di confino
e di galera, oppositori irriducibili, anarchici, comunisti: non più i coetanei compagni
di scuola, ma uomini fatti: il marmista Andrea Pittalis, il verniciatore Pietro Sanna,
il falegname Giovanni Santus, il camionista Bazoni... Succede spesso che, fermato
il gioco, erompa da essi la politica (è l’estate del 1940, e l’Italia è entrata in
guerra): discussioni accese, un sogno di rivoluzione. Enrico ascolta: ha letto Mazzini,
Romain Rolland, De Ruggiero, Marx, Bakunin, Nordau; adesso apprende storie di vita
vissuta, s’affaccia su un mondo così diverso dagli ambienti finora frequentati. Ed
è un’esperienza decisiva. Dirà a Biagi: «Conobbi degli operai, degli artigiani che
avevano seguito Bordiga e che anche col fascismo conservavano i loro ideali. C’era
nelle loro vicende molta suggestione»7. E in un compendio minuzioso dell’insieme di influenze ricevute: «Fin da bambino
sono cresciuto in un clima di opposizione al fascismo, e questo per i discorsi in
famiglia non soltanto di mio padre e di zio Stefano Siglienti. Ricordo anche il nonno
materno, il professor Giovanni Lòriga, socialistoide, uno dei fondatori dell’igiene
del lavoro in Italia, specializzazione che adesso è di mio fratello Giovanni [...].
Ma l’antifascismo non basterebbe, esso da solo, a spiegare il mio orientamento. Vi
hanno influito in larga misura la frequentazione, da ragazzo, di operai sassaresi
comunisti della prima ora, bordighiani, e i libri trovati nella biblioteca di un fratello
di mio padre, zio Ettore. Aveva il Manifesto e poi anche Il Capitale, che però ho letto molto più tardi, in carcere»8.
Esce dal liceo nel 1940, promosso a giugno senza esami (c’è la guerra, e il governo
li ha sospesi): filosofia 8, storia 8, storia dell’arte 7. Il 5 novembre s’iscrive
all’Università, giurisprudenza. Dà il primo esame il 17 giugno 1941, istituzioni di
diritto romano. Il voto è trenta: l’inizio della svolta da una vita disordinata all’equilibrio.
4. L’opposizione al regime è in Sardegna «di scarsissimo rilievo» e totalmente priva
di volontà (e di possibilità) d’iniziativa. Sul versante borghese, «circoli ristretti»
a connotazione «sostanzialmente notabiliare», medici, ingegneri e soprattutto avvocati
ai quali «una relativa indipendenza economica ha consentito di sfuggire al ricatto
quotidiano della tessera di partito». Sul versante popolare, nuclei dispersi, decapitati,
senza più guide ormai da tempo, dopo che la repressione fascista ha costretto i migliori
all’esilio (i comunisti Luigi Polano e Velio Spano e i «giellisti» Emilio Lussu e
Dino Giacobbe) o li ha deportati alle isole (Andrea Lentini, Carlo Manunza, Antonio
Dore) o li ha rinchiusi in galera (Antonio Gramsci, Giovanni Lay, Giovanni Agostino
Chironi, Francesco Fancello, Cesarino Pintus, Michele Saba)9. Così ridotto a minimi gruppi slegati, l’antifascismo è nulla più che fronda. E fronda
è l’antifascismo di Enrico. Diversamente dai colleghi universitari, non fa parte del
Guf e va agli esami non in camicia nera. La prima volta che i popolani di Rubattu
sono entrati in casa «Piringhieri» (storpiatura, nella parlata dialettale, del cognome
Berlinguer) è stato per ascoltare Radio Londra.
In capo al letto di Enrico, sul comodino, cresce la pila dei classici del marxismo,
e un compagno di stanza, il cugino Sergio Siglienti, ricorderà: «C’erano le opere
di Marx, naturalmente. C’era molto Lenin, con tante sottolineature, e la Breve storia del PC (b) di Stalin. Un libretto più agile degli altri, Estremismo, malattia infantile del comunismo di Lenin, era tutto macchiato di sangue. Lo usavamo a turno per ammazzare le zanzare»10.
Il fatto nuovo, rispetto agli anni del ginnasio e del liceo, è che ora i testi scolastici
non l’annoiano. Al contrario: dispensato dal servizio di leva per una leggera malformazione
ai piedi, è assorbito dagli studi, segue con interesse le lezioni di Antonio Segni
(procedura civile e diritto commerciale), dà gli esami a scadenze regolari e sempre
sta sul trenta e lode e il trenta. Da studente scapestrato a bravo studente. Annunzia
il 5 luglio 1943 a Sergio Siglienti, in vacanza a Teti, un paesino in Barbagia: «Ho
dato tre esami: storia del diritto italiano, 30; diritto penale, 30 e lode; diritto
finanziario, 30. Domani e dopo ne darò altri due. Poi mi metterò a fare la tesi, che
richiederà la lettura d’un centinaio di volumi. L’argomento sarà: filosofia e filosofia
del diritto da Hegel a Croce ed a Gentile. Ho scritto a Fanuccio perché si rivolga
a De Ruggiero per qualche indicazione bibliografica»11.
In questa fase di attenzione rivolta prevalentemente allo studio del diritto in vista
dell’avvocatura, far politica è, per Enrico, null’altro che approfondire la teoria,
ascoltare Radio Londra, e la sera, a saracinesche abbassate, incontrarsi e discutere
con i sovversivi di Rubattu, i soli suoi amici (gli universitari, tutti gufini, li
tiene a distanza). A quel po’ d’antifascismo d’azione che comincia a manifestarsi,
al momento non partecipa. Il 3 giugno 1943, una settimana prima dello sbarco alleato
a Lampedusa, Linosa e Pantelleria, il padre ha fatto uscire alla macchia il primo
numero d’un periodico unitario di mobilitazione antifascista, «Sardegna Avanti!»,
scritto da azionisti, sardisti, repubblicani, comunisti e socialisti (fra gli altri
il romanziere Giuseppe Dessì, provveditore agli studi di Sassari)12. Giovanni vi ha avuto una parte; Enrico, molto preso dallo studio, no.
25 luglio 1943: finisce Mussolini, il fascismo continua. Pochi i cambiamenti reali.
La stagione che s’apre è di «inerte continuità», di fatto una specie di «fascismo
senza Mussolini»13. Il 28 luglio questurini vengono a prelevare Mario, che ha promosso una modesta manifestazione.
Fugge da una finestra, cade male, lo prendono. Resterà in prigione un solo giorno.
Ma è un segnale. I partiti rispuntano guardinghi. Il Pci resta pattuglia chiusa in
clandestinità.
«Alla caduta del fascismo la consistenza numerica ed organizzativa dei comunisti è
in Sardegna estremamente ridotta e limitata a pochi centri»14. A Sassari non arrivano a trenta, organizzati per gruppi di quattro-cinque. Praticando
la cospirazione, si vedono solo in un punto nascosto. C’è alle porte della città,
in contrada San Pietro, una tenuta agricola con serra di fiori e vivaio e una grande
stalla. Il fattore che ci lavora è un vecchio comunista pistoiese, Renato Bianchi.
Da lui, riparati nella stalla, i sassaresi già iscritti tengono le prime riunioni.
Il più istruito è il figlio d’un pellicciaio, Bruno Mura, trentaquattro anni, laureato
in veterinaria. Ha saputo delle idee di Enrico e l’invita a questi incontri. Enrico
ascolta curioso. È indeciso. Non s’iscrive subito, vuol pensarci. «Devo dire – testimonierà
Bruno Mura – che quel raduno nella stalla lo lasciò perplesso. La riunione successiva
lo lasciò addirittura contrariato. Forse gli eravamo apparsi troppo tiepidi, mentre
lui avrebbe voluto passare subito all’azione»15.
S’iscrive a metà agosto; il racconto è di Sergio Siglienti: «Sapevo che Enrico già
vedeva i comunisti e lo tempestavo di domande. Una mattina mi disse, con aria misteriosa:
“Puoi accompagnarmi da loro, in campagna”. Mi caricò sulla canna della bicicletta
e pedalò con fatica, sotto il sole, fino alla serra. Avrei voluto entrare anch’io
a tutti i costi, per iscrivermi; ma Enrico all’ultimo momento non me lo permise: “Tua
madre si arrabbierebbe troppo”. Così lo aspettai nella campagna assolata, tra le pecore
e le cicale, tutto il pomeriggio. Quando finalmente uscì a sera, non mi volle dire
una sola parola, ma capii lo stesso che il grande passo era stato fatto»16.
L’incaricano di formare un gruppo giovanile, e vi si dedica uscendo allo scoperto
quando ancora gli anziani esitano a mettere fine alla pratica semi-cospiratoria. Istituisce
la Gioventù comunista in agosto; sono chiamati nell’esecutivo due studenti, Lucio
Mùndula e Piero Salaris; hanno sede provvisoria nel panificio del padre di Mùndula,
in via Bellieni. «L’attività preliminare – sappiamo dal primo rapporto politico di
Enrico – si svolse piuttosto lenta, specialmente per il fatto che militavano nelle
nostre file pochissimi giovani della classe operaia. Essa fu dedicata soprattutto
alla propaganda individuale, che dette buoni frutti»17. Vengono a iscriversi il fornaio Nino Pinna, i fratelli Masala, muratori (Peppino,
ventisei anni, e Giovanni, ventitré), il muratore Nino Manca, ventiquattro anni, i
manovali Antonio Carta e Lorenzo Ruiu, diciannove anni entrambi, il fabbro Carmine
Dasara, ventidue anni, lo studente Giuseppe Fiori, diciotto anni, l’aiutante meccanico
Salvatore Ledda, diciassette anni, l’ortolano Raimondo Pilo, diciotto anni, l’operaio
Giovanni Cossu, diciotto anni, lo studente Paolo Achenza, sedici anni... A metà novembre
sono già sulla cinquantina: un gruppo raccogliticcio e turbolento, non facilmente
governabile, essendo in cima ai pensieri dei più l’incursione al centro, nei caffè
meglio frequentati, per rompere le ossa ai giovani «fascisti». Nasce un nuovo comitato
rappresentativo di tutte le categorie degli iscritti: per gli studenti universitari,
Enrico Berlinguer e Luigi Carta; per gli studenti medi, Lucio Mùndula; per gli operai,
Giovanni Masala e Antonio Pòddighe; per gli impiegati, Mario Santini. L’attività del
circolo può partire: tema della riunione inaugurale, convocata per il 25 novembre
1943, la spiegazione del programma comunista. Ma nel pomeriggio, prima ancora che
la seduta cominci, irrompono in forze, come non ci fosse stato il 25 luglio e non
si viva nell’Italia liberata, questurini comandati da un commissario. Sono aggressivi.
A tutti chiedono le generalità, confiscano le chiavi, sequestrano l’elenco degli iscritti
e altri documenti e mandano d’imperio tutti a casa. Proibito far politica? Enrico
non si piega. Nell’anglo-americano insegnatogli da zia Eva Parson, racconta i fatti,
in una lettera, alla Commissione militare alleata per la Sardegna; e non soltanto
protesta: chiede anche, per le riunioni dei giovani comunisti, il teatro della ex
Gil. Non l’ottiene. Trova una stanza in vicolo San Sisto, vi convoca i compagni e
finalmente può leggergli e spiegargli, dando sbirciate a un pacchetto di Turmac, dov’è
scritta la scaletta, due capitoli della Costituzione sovietica del 1936. È fine dicembre.
Ha formato un collettivo che ormai supera il centinaio di aderenti. A metà gennaio
’44, i moti per il pane.
S’iscrive al partito anche Giovanni. Uscito di clandestinità, il Pci comincia ad avere
un seguito. Il 19 aprile 1944, pochi giorni prima del ritorno di Enrico in libertà,
il questore di Sassari riferisce alla direzione di polizia: «Nell’opera di propaganda
si è distinto il partito comunista, il quale già conta, specie nei comuni di Sassari,
Tempio e Bonorva, numerosi iscritti, specialmente operai di tutte le categorie attratti
dal miraggio di un miglioramento delle loro condizioni economiche e alimentari, e
contadini che sperano nella assegnazione delle terre che dovrebbero essere tolte ai
ricchi. Pochi sono gli iscritti fra gli intellettuali»18.
Usciti da San Sebastiano domenica 23 aprile 1944, i giovani comunisti si ritrovano
in vicolo San Sisto mercoledì 26, ma non è un’assemblea completamente di festa. Enrico
è un capo severo. Sospettando cedimenti di compagni fragili, solleva la questione
apertamente. «Berlinguer – apprendiamo da un verbale inedito – rileva che è necessario
procedere a un esame sul comportamento durante gli interrogatori e la detenzione di
tutti i comunisti imputati per i fatti del 13 e 14 gennaio»19.
Poi il viaggio a Salerno e il fuggevole incontro con Togliatti. Non va in vacanza.
Ancora il 12 agosto 1944 è in vicolo San Sisto. Il verbale della seduta ci dice la
profondità delle radici di un’ispirazione che avrà proiezione esterna più tardi: «Fadda
propone che vengano puniti i compagni Ledda Gavino e Carta Antonio perché sono andati
pubblicamente contro la religione. Manca rammenta che il comunismo è anticlericale.
Crobu: “I preti fanno propaganda anticomunista”. Berlinguer ricorda che la massa italiana è cattolica»20.
In settembre il trasferimento a Roma. Enrico e Giovanni sono rimasti soli. Non c’è
più neanche zia Lidia Pintus Berlinguer, morta in giugno (otto anni dopo la scomparsa
di Mariuccia) a quarantotto anni per cisti da echinococco al fegato. E Mario è stabile
a Roma per il suo lavoro di pubblico ministero nei processi contro i criminali fascisti.
Dal verbale del 7 settembre 1944: «Berlinguer riferisce che deve andare a Roma il
giorno 9 corrente mese, perché la famiglia si stabilisce in quella città e perché
chiamato dalla sede centrale del Partito. In ogni caso farà presente alla Centrale
che la sua presenza in Sardegna è necessaria»21.
IV.
Funzionario
1. A Roma l’ultimo inverno di guerra è rigido, anche nevica, e i termosifoni sono
freddi e le stufe spente e i bracieri vuoti, il carbone è razionato. Buio dappertutto:
in strada, per l’oscuramento, niente fari e insegne; in casa la poca elettricità la
danno a turni. A ognuno spetta una candela stearica al mese, ma il 2 dicembre 1944
c’è stato a Napoli un furto di 325 quintali di cera, e la distribuzione delle candele
s’è fatta irregolare. Chi mangia a volontà e chi patisce la fame. Ogni giorno, da
qualche parte della città, dopo irruzioni in botteghe d’alimentari, colonne di popolane
con infiltrazioni di teppisti ne escono innalzando come trofei caciotte, scatolame,
salumi. I teatri funzionano, si ride all’Excelsior con Totò e Lucy D’Albert, al Quattro
Fontane con Peppino De Filippo, al Valle con Macario. Voglia di vivere, il gusto di
stare insieme, sbornie di libertà, come un ritorno di naufraghi a riva, e a tutti
i crocicchi (manganelli a mulinello) la «Military Police». In balera è il boogie-woogie il nuovo ballo. All’Adriano i concerti dell’Accademia di Santa Cecilia. Qualche rischio,
di notte, nel tragitto per casa. Imperversano razziatori di scarpe, in viale delle
Milizie è rimasto in mutande l’11 gennaio 1945 l’attore Massimo Serato. Delinquenza
minuta e criminalità aggressiva. Arrivano ad ammazzare al bivio delle Capannelle un
noleggiatore di furgoncino solo per portargli via i quattro copertoni. Altrettanto
succede, lo stesso giorno, al conducente d’un camioncino che all’Esedra ha caricato
due uomini... Un giovanissimo immigrato calabrese, Giuseppe Albano, diciotto anni,
storpio (lo chiamano «il gobbo del Quarticciolo») ha organizzato una banda d’un centinaio
di gregari che assalta, saccheggia, uccide. Aggiungono violenza a violenza i disertori,
i profughi allo sbando, i soldati Usa avvinazzati. La stazione Termini è un bivacco.
I treni viaggiano per Napoli tre volte la settimana, nasce un nuovo mestiere, l’occupatore
di posti (1.500 lire per un posto a sedere). E ancora, tra via Veneto, il Tritone
e piazza Navona sciamano lustrascarpe a frotte, shoe shine, «sciuscià». L’arte di arrangiarsi, mercato nero, nuove ricchezze e povertà antiche.
Il Pci ha preso in affitto, per la Direzione, due appartamenti in via Nazionale 243,
al terzo piano d’un palazzo umbertino con facciata grigia, abitato da famiglie della
buona borghesia, sulla sinistra verso l’Esedra, ben più su del Palazzo delle Esposizioni.
L’appartamento di sinistra è piccolo, l’occupa la sezione propaganda (in cucina il
ciclostile). A destra, altre sezioni di lavoro, l’ufficio di Togliatti, un refettorio
e, attraverso una scala interna elicoidale, ancora cinque stanze un po’ buie, comunicanti
fra loro, per il movimento giovanile. Converrà chiarire subito che il movimento è
guidato da giovani, ma non tutti i comunisti giovani stanno con i giovani. Quelli
per così dire di prima scelta, già «con una biografia», intellettuali vivaci provenienti
dalla Resistenza, Carlo Salinari, Fabrizio Onofri, Antonello Trombadori, Marisa Musu,
Valentino Gerratana, Franco Calamandrei, Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Mario
Spinella, Roberto Bonchio, Lucio Lombardo Radice, Maurizio Ferrara, hanno «saltato»
la sezione giovanile e cominciano ad avere notorietà nel partito per la loro posizione
di rilievo alla propaganda (con Celeste Negarville) o nella Federazione romana.
Dirigono il movimento giovanile un tunisino di famiglia italiana ironico e gioviale,
Michelino Rossi, ventisette anni, studi giuridici alla Sorbonne, responsabile dei
giovani comunisti italiani in Francia, arrivato in Italia con Loris Gallico e Maurizio
Valenzi nell’aprile 1944, e Giulio Spallone, venticinque anni, abruzzese di Lecce
dei Marsi, studente in legge arrestato nel 1940 e condannato dal Tribunale speciale
fascista a diciassette anni. Il movimento ha un settimanale, «Gioventù Nuova», che
esce dal 30 luglio 1944. Lo firma Giulio Spallone. In realtà, a farlo è un giovanottone
romano lungo e smilzo, Carlo Lizzani, ventidue anni, con precedenti di critico cinematografico,
qualche saggio su «Cinema», di cui è redattore, un’esperienza a fianco di Luchino
Visconti al tempo di Ossessione. (Scrivono per «Gioventù Nuova» Alberto Jacoviello, Gianni Corbi, Luca Trevisani,
Andrea Pirandello, Gianni Toti e Lucio Lombardo Radice). Un quarto giovane alla testa
del movimento è Cesare Fredduzzi, ventiquattro anni, romano, d’una famiglia di tipografi
(il nonno, il padre, i fratelli, una sorella), egli stesso operaio-compositore al
Poligrafico dello Stato: è cresciuto ed ha fatto la Resistenza in uno dei quartieri
rossi della capitale, il Quadraro.
Un mattino di novembre 1944 il ragazzo Spallone vede capitargli nell’ufficio uno studente
bruno, di tratto aristocratico, che sfila di tasca un biglietto e, dopo un saluto
sobrio, timidamente glielo porge. Ricorderà: «Arrivò un giovane sardo e, quasi senza
dire una parola di spiegazione, mi mise in mano un biglietto scritto a mano. Appena
vidi la firma di Ercoli mi raddrizzai sulla sedia. Il biglietto diceva: “Questo è
il compagno Berlinguer, che viene dalla Sardegna. Utilizzatelo nella vostra organizzazione”»1. Comincia così, a ventidue anni, il garzonato di Enrico nell’apparato del Pci, funzionario
a 400 lire al mese (uguali a un pasto al giorno in refettorio e qualche film).
I Berlinguer (e la governante Mariangela Rassu) abitano dai Siglienti, via Carlo Poma,
dieci in quattro stanze con lenzuola per tende divisorie, accampati. Il fatto è che
– dopo il blocco dell’edilizia per anni, i bombardamenti, le requisizioni di Enti
militari e l’afflusso di moltitudini di nuovi inurbati – trovar casa a Roma è impresa
disperata. C’è un Commissariato alloggi. Mario, investito d’una funzione alta, e il
cognato Siglienti, sino al 12 dicembre 1944 ministro e poi gran commis, uomo di banca alla guida dell’Istituto Mobiliare Italiano, pensano di potersene
aspettare una qualche attenzione. Infatti l’attenzione c’è, persino esagerata, fuor
di misura. È stata requisita in via di Porta Latina, sul Parco degli Scipioni, tra
le Terme di Caracalla e il viale Metronio, la splendida villa dell’ex ministro fascista
Dino Grandi: i Berlinguer e i Siglienti se la vedono assegnare. Ma è inquilinato breve.
Affiora il disagio, e dopo tre sole settimane tornano tutti, con delusione di Mariangela
Rassu, all’accampamento di via Carlo Poma; sino alla nuova assegnazione, una casa
del matematico e accademico d’Italia Francesco Severi, all’angolo di viale Bruno Buozzi
e via Monte Parioli. Stavolta vi si trasferiscono soltanto i Berlinguer, con la governante:
anche qui di passaggio, alcuni mesi appena. Hanno trovato qualcosa in Prati e senza
drammi s’adattano a vivere in brutti alloggi provvisori. Avranno abitazione stabile
solo nel ’47, in via Simon Boccanegra, dietro piazza Bologna.
Enrico esce di casa che ancora fa buio e torna al buio, tutt’una giornata in via Nazionale.
Il culto della collegialità genera riunioni frequenti, lunghi dibattiti – che fare
in risposta ai fascisti che rialzano la testa e gli è di sponda un giornale nuovo,
«L’Uomo Qualunque»; come reagire all’evasione del generale fascista Mario Roatta,
fuggito per oscure collusioni dall’ospedale dov’era trattenuto in stato di detenzione
– ed Enrico meticolosamente verbalizza. Carta e poi altra carta. Stende relazioni,
risponde a quesiti. Dalle province dell’Italia liberata vengono i responsabili dei
nascenti circoli giovanili, li ascolta, prende appunti, polemizza (ci sono circoli
con vizi di settarismo, orientati alla soluzione insurrezionale, ed è un estremismo
che lui non si stanca di contraddire). Scrive per «Gioventù Nuova». Vi esordisce il
14 gennaio 1945: «Lo Stato deve utilizzare una gran parte dei fondi provenienti dagli
illeciti arricchimenti fascisti per creare delle scuole professionali»2. Dirà Lizzani: «Era un vero uomo politico, mentre io non lo ero. Io ero pieno di
fantasie dispersive, mentre lui non ne aveva affatto, procedeva in un’unica direzione
e con un solo scopo nella testa»3.
Fuori dalla politica ci sono i concerti all’Adriano, i primi film americani, le serate
in pizzeria, le partite a pallone, giovani contro adulti. Vanno in uno spiazzo dietro
via Nazionale, verso la Questura. Le giacche posate a terra delimitano l’ampiezza
delle porte... Spesso Enrico esce con i cugini Siglienti. In ufficio – amico di tutti,
aperto a pochi – ha legato con Michelino Rossi e la segretaria di «Gioventù Nuova»,
una figuretta aggraziata e sveglia d’origina irpina, Elina De Lipsis, figlia d’un
medico comunista buon conoscente di Bordiga e lei stessa iscritta a medicina a diciassette
anni (è la ragazza di Rossi). Soprattutto lavorano, ma anche si prendono svaghi, il
cinema, le serate danzanti (Enrico assiste e basta, lui non balla). Via via al giro
s’aggiungono parioline dei gruppi studenteschi. «Enrico – sappiamo da Lizzani – piaceva
molto alle ragazze, forse per una specie di mistero che si portava addosso, per il
suo stile di vita e anche, così, fisicamente. Aveva un viso che piaceva. A volte ci
si trovava insieme alle nostre compagne, si andava a cena da qualche parte e io avevo
la netta sensazione che questo suo modo di essere suscitasse nelle ragazze molta curiosità»4. C’è nel gruppo una studentessa in lettere fine e colta, Tonia Canova, figlia d’un
generale, gli occhi azzurrissimi e una gran massa di capelli biondi. Non si cura di
Lizzani, che ne è segretamente innamorato. Ha simpatia per Enrico, e lui con lei s’illumina,
scherza, è ironico, tenero...
A metà giugno arriva da Milano, chiamato a dirigere l’organizzazione, «un uomo di
media statura, una folta capigliatura nera, gli occhi un po’ allucinati dietro gli
occhiali»5. È Pietro Secchia. Di lì a poco Enrico parte. Dovrà misurarsi, a Milano, con una
realtà nuova, e tanto diversa.
2. A Milano è stagione «di maniche corte e rimboccate, di gambe nude, di frutta matura,
di cieli luminosi»6, prima estate di pace dopo cinque di guerra, è sabato 14 luglio 1945, giornata festiva
nuova, la Festa della fraternità, fiumane di milanesi accorrono intorno al palco sotto
l’Arco della Pace per ascoltare il sindaco Antonio Greppi e i direttori dell’«Avanti!»,
Guido Mazzali, dell’«Unità», Gian Carlo Pajetta, e dell’«Italia Libera», Fernando
Schiavetti, in veloci discorsi introduttivi a una serata di baldoria. «Tutta la città
sembrò impazzita. La guerra era finita, il fascismo era morto, la popolazione delle
“cinque giornate” scese ancora una volta nelle piazze per festeggiare se stessa nel
nome della Bastiglia, che sembrava essere di nuovo uscita dalla storia pochi mesi
prima, con l’insurrezione di aprile. Manifesti eccezionali costellavano le mura della
città, invitando i milanesi a “ballare in piazza, come a Parigi”. Tutta la notte i
sobborghi operai milanesi invasero la città, si ballò fino all’alba nelle vie del
centro, alla periferia, da Sesto San Giovanni, che si ribattezzò la Stalingrado d’Italia,
a Porta Nuova, dal Parco di Monza al Parco Lambro. I giornali popolari venivano lanciati
sulla folla da camion in corsa che dagli altoparlanti gridavano: “Ballate, milanesi,
è il vostro giorno, Hitler e Mussolini sono morti”»7.
Sedativo breve, in un corpo, qual è Milano, dolente di molte piaghe. Si cammina in
un paesaggio di macerie con nidiate di topi e lezzo di cose decomposte, le fogne scoperchiate,
i tubi dell’acqua e del gas attorcigliati. I vani d’abitazione distrutti sono 114.000,
e altri 50.000 gravemente danneggiati. In più, l’estensione degli edifici pubblici
e degli stabilimenti industriali interamente distrutti è pari a 45.000 vani. E le
fabbriche salvate hanno vita stentata, scarseggiano i fondi, la mancanza di pezzi
di ricambio costringe a fermi prolungati. In un anno l’inflazione è salita del 259
per cento: il che vuol dire che dall’ottobre del ’44 all’ottobre del ’45 il costo
della vita è aumentato di due volte e mezzo, e i salari sono di fame, e le decine
di migliaia di disoccupati ricevono sussidi infimi. Cresce, per furti e rapine, l’insicurezza.
Dopo una cert’ora, meglio rinchiudersi in casa. La sera di lunedì 17 dicembre 1945,
alle 19, in piazzale Lotto, banditi hanno assaltato la carrozza a cavalli di Emma
Gramatica. L’indomani martedì è rapinato della sua vettura in corso Matteotti il professor
Francesco Carnelutti. Niente gas, carbone e legna da ardere. Contro il freddo non
c’è difesa. Nelle algide aule di giustizia, avvocati e giudici fanno i processi in
cappotto e guanti. Il provveditore agli studi non ha potuto far altro che sospendere
le lezioni – nelle scuole elementari e medie inferiori, infrequentabili – sino all’11
febbraio 1946. Parte per Roma un solo treno al giorno, con 320 posti, e alla stazione
centrale si fa bagarinaggio di biglietti ferroviari. La Scala è chiusa. L’«Allied
Government Military» ha vietato la produzione di panettoni. L’epurazione non morde.
Hanno ripreso a mostrarsi in giro persone di notorio zelo al servizio del fascismo...
In chi, volto a mete di palingenesi istantanea, s’era aspettato già per l’indomani
della Liberazione un ordine nuovo, il termine dei privilegi, dei dislivelli di classe
e di ogni ingiustizia sociale, questa precaria normalità non può produrre altro che
delusione, amarezza, sconforto, rabbia. Gli impazienti reagiscono duramente. C’è nel
popolo gente che non ha rinunziato all’azione armata. S’incontrano ancora squadre
di partigiani con il fazzoletto rosso delle Brigate Garibaldi annodato sulle spalle
e il mitra a tracolla. In qualche modo la guerra civile continua. «Di notte, a luci
spente, si celebra nel Nord una giustizia che non conosce né avvocati né tribunali.
A Milano gruppi di partigiani cercano i fascisti più noti, i torturatori che non sono
riusciti a fuggire in tempo, e li finiscono in un prato o in una strada isolata alla
luce della luna. Se qualche operaio, passando all’alba in bicicletta, intravede tra
la ghiaia e l’erba un cadavere, commenta, senza emozione, “l’era un fazzulet...”,
un fascista, e accelera l’andatura»8. Alla Casa del popolo di Lambrate c’è un circolo, la Volante rossa, con un livello
legale, di attività sportiva e ricreativa, e un nucleo addestrato a spedizioni punitive.
Prelevano l’avversario e lo gettano nel Lago Maggiore con una pietra al collo, oppure
lo fucilano dalle parti del campo Giuriati, una zona tutta prato.
Il Pci sa? Nel maggio del ’45 Luigi Longo e i suoi collaboratori hanno raccomandato
nelle sezioni la consegna delle armi agli Alleati. Modesti tuttavia i risultati, la
direttiva è in larga misura inascoltata: nel senso che «si fa una consegna pro forma, si danno i ferrivecchi, i fuciloni modello 91, ma mitra e bazooka finiscono ben
oliati nei depositi clandestini dentro e fuori le fabbriche»9. Non sono pochi i comunisti reduci dalla lotta partigiana che scelgono di tenersi
pronti per l’ora X, «ma un’ora che nessuno prepara e che nessuno dei dirigenti può
seriamente volere»10.
Questa «doppiezza» Enrico la sente, arrivando a Milano. Rispetto a Roma – dove ormai
da più d’un anno i comunisti fanno politica partecipando a ministeri di coalizione
(adesso con De Gasperi) e dal 25 settembre 1945 sono parte attiva, a Montecitorio,
d’un’assemblea di specie parlamentare, la Consulta nazionale (presidente il conte
Sforza) – qui al Nord è tutt’un’altra temperie...
Hanno dato ad Enrico un alloggio d’emergenza: una brandina in uno stanzone scuro e
spoglio della Direzione comunista per l’Alta Italia, che ha sede in un vecchio palazzo
d’abitazioni di via dei Filodrammatici, dietro la Scala. Poco distante, in via Conservatorio
9, a due passi da San Babila, è la palazzina dell’ex Gil che il 27 aprile 1945 le
Brigate giovanili hanno occupato per metterci il Fronte della gioventù, «prima grande
esperienza, anche rispetto al periodo prefascista, di organizzazione giovanile unitaria»11.
L’ispirazione di fondo del Fronte è l’incontro e l’azione comune di giovani di varia
tendenza, collegati a partiti ma anche senza partito, ancora alla ricerca d’una identità,
liberali, marxisti, cristiano-popolari e post-fascisti mossi a unirsi per obiettivi
chiari, l’indipendenza nazionale e un regime di libertà. Elastica la struttura, di
movimento a sé, per adesioni individuali, non una federazione di organizzazioni giovanili
antifasciste: cosa diversa insomma da un Cln dei movimenti giovanili. L’aveva promosso
e costruito nella clandestinità, fin dai primi fuochi di guerriglia partigiana, un
gruppo intorno a Gian Carlo Pajetta: Gillo Pontecorvo, Raffaele De Grada, Elio Vittorini,
Aldo Tortorella, Mario De Micheli, Ernesto Treccani, Vittoria Giunti, Quinto Bonazzola,
Paolo Cinanni. Dal novembre del ’43 ne aveva preso la direzione un intellettuale triestino
di trentun anni, Eugenio Curiel, studi in ingegneria, poi una laurea in fisica, l’arresto
e il confino a Ventotene. I fascisti l’hanno assassinato a Milano, in piazza Baracca,
il 24 febbraio 1945, a trentatré anni. Aveva dato evidenza nove giorni prima su «l’Unità»
(15 febbraio 1945) a quello che gli era parso un esito d’un anno e mezzo di lavoro:
«L’unione del popolo non si fa senza le masse cattoliche. Quest’anno e mezzo di lotta
è stato ricco di fecondi incontri in ogni campo. Sul terreno dell’azione partigiana,
come nella fabbrica e nel villaggio, il cattolico si è incontrato forse per la prima
volta con un comunista e nella fraternità degli sforzi e delle sofferenze comuni sono
cadute incomprensioni e diffidenze, si è dissolto il fardello di menzogne accumulato
dal fascismo». Vero solo in parte. In realtà faticoso e corto è stato il tragitto
sulla via dell’unità organizzativa delle masse giovanili. Incomprensioni e diffidenze
persistono, ogni partito i suoi giovani vuol tenerseli per sé. Verso la fine del 1945,
a due anni dall’avvio d’attività, la base del Fronte è quasi esclusivamente di comunisti12.
Nel partito dirige la commissione giovanile un compagno «con biografia», Giuliano
Pajetta, trent’anni (di quattro più giovane di Gian Carlo), attivo ormai da quindici,
fuoruscito a diciassette anni in Francia, due anni di scuola di partito a Mosca, responsabile
dal 1934 al 1936 del movimento giovanile comunista italiano in Francia, la guerra
di Spagna a ventidue anni nel battaglione «Garibaldi», il ritorno in Francia, l’arresto
e l’internamento al Vernet e poi nel campo di Les Milles, la fuga, lo prendono ancora
a Cannes nel maggio 1942, ventidue mesi di galera, la resistenza nel maquis, il passaggio clandestino nell’Italia occupata, la caduta in mano delle SS il 26
ottobre ’44, sette mesi nel lager di Mauthausen, e d’estate, a guerra finita, il rimpatrio
a Milano. Un suo stretto collaboratore è il vice di Curiel, uno studente universitario
ebreo, Gillo Pontecorvo, ventisei anni, pisano, studi in chimica, esule in Francia
nel ’39 dopo le leggi razziali ma pendolare con l’Italia per missioni delicate (nel
giugno del 1942 ha portato al professor Edoardo Volterra a Roma e ad Ugo La Malfa
a Milano il testo dell’appello unitario antifascista di Tolosa)13, infine destinato stabilmente al Nord per la lotta contro le coscrizioni fasciste
e il rafforzamento delle file partigiane. Enrico lavora e vive con loro, vicini di
branda. Racconterà Pontecorvo: «Eravamo costretti a dormire completamente vestiti,
avvolti nei cappotti. Ricordo ancora Enrico Berlinguer rannicchiato nella branda con
una lunga sciarpa beige attorno al collo, tremante di freddo come me. Qualche volta, per riscaldarci, facevamo
delle corse per la stanza e un po’ di ginnastica. Una ginnastica speciale alla quale
Berlinguer credeva molto e che non doveva servire soltanto a riscaldarci ma anche,
e soprattutto, a tenerci in esercizio. Era il metodo Müller, di cui, se non ricordo
male, Berlinguer aveva il manuale»14.
Un buon numero dei giovani comunisti che Enrico incontra al Nord è di due specie.
Gli uni hanno difficoltà a cambiare le abitudini di vita e di lavoro. Nell’attività
nuova, spesso grigia, non trovano stimoli. In qualche misura gli si attaglia un giudizio
di Curiel: «Le lotte rivendicative delle masse operaie e contadine, le agitazioni
economiche delle grandi masse urbane e rurali finivano spesso con l’essere trascurate,
quando addirittura non venivano considerate compiti bizantini da coloro che non comprendevano
altra azione che non fosse quella condotta con lo Sten o col Thompson al braccio»15. Poi gli intellettuali, che hanno immagine di «uomini pieni di slanci e di entusiasmi,
capaci anche di grandi sacrifici personali, ma scarsamente affidabili nel lavoro quotidiano»16.
Diversamente da questi e da quelli, nel grigio lavoro di tutti i giorni Enrico non
prova disagio. È costante, paziente. Tesse, annota, riflette. Un suo punto di riferimento
è Curiel. Ne studia i rapporti. Ha la sua stessa persuasione che «l’unione del popolo
non si fa senza le masse cattoliche». Ricorderà Pontecorvo: «Enrico pensava fin d’allora
che un grande sforzo dovesse essere fatto in direzione dei giovani cattolici. E dietro
questa idea c’era già il convincimento che le grandi trasformazioni necessarie nel
nostro paese e nel mondo intero richiedessero l’apporto della forte tensione morale
presente non solo nel movimento socialista ma anche nel mondo cristiano. Pur essendo
così giovane, si sentiva già in lui la profonda convinzione che una politica senza
etica è ben misera cosa»17.
3. La settimana a cavallo del 1945-46 tutti a Roma per il V congresso del Pci, il
primo dopo vent’anni di clandestinità. È l’assise d’un partito in espansione impetuosa:
appena 5-6.000 i tesserati alla caduta di Mussolini, già 501.960 nel 1944, un balzo
a 1.770.896 nel 1945 (e l’organizzazione è capillare nell’intero paese: 7.000 sezioni
articolate in 30.000 cellule)18, «unico controaltare partitico dell’infrastruttura cattolica, parrocchiale e democristiana»19. Dei 1.626 delegati che il pomeriggio di sabato 29 dicembre 1945 s’accalcano festosi
nell’aula magna dell’Università di Roma – uomini mitici del movimento operaio, ammirati
capi partigiani, donne, ragazzi – 465 vengono dalle galere e dalle isole di confino,
e due, Velio Spano e il veneziano Mario Balladelli, sono sfuggiti all’esecuzione di
sentenze capitali. «Una sola donna, nell’ufficio di presidenza del Congresso. Parecchie
delegate brontolano, e forse non a torto, se si pensa al numero delle donne che militano
nelle nostre file»20, annota «l’Unità». Alle 15.36 l’esordio di Togliatti, il capo.
Parla per quattro ore; e ad un giornale infastidito dalla lunghezza del discorso replicherà:
«Ci hanno fatto stare muti per vent’anni. Abbiano la pazienza di ascoltarci ora almeno
per quattro ore»21.
In queste quattro ore, l’accento è battuto sui tratti salienti del «partito nuovo»,
«nazionale», gradualistico, incardinato su una politica di unità democratica antifascista
(corrispondente all’unità delle tre grandi potenze, Urss, Usa e Gran Bretagna). Il
socialismo – è il senso del discorso – può essere preparato da forme di democrazia
progressiva, in una repubblica retta con regime rappresentativo parlamentare. Tre
le condizioni essenziali:
1. la forma repubblicana dello Stato;
2. una Costituzione che seppellisca per sempre un passato di conservazione sociale
e di tirannide;
3. riforme profonde nella struttura economica per disarmare i gruppi reazionari e
distruggere le radici del fascismo.
Come lavorare per questi fini? Intanto non cedendo alla tentazione di restringersi
a partito operaistico. Al contrario, il Pci deve aprirsi ai più larghi rapporti con tutti gli strati progressivi della nazione: l’ideologia che guida la sua politica resta il marxismo-leninismo, ma un qualsiasi
altro orientamento filosofico o religioso dei singoli non sarà un motivo per non accettarli
nel partito. È in sostanza la riproposizione per la prima volta in una sede congressuale,
di una linea – non improvvisata né strumentale – di radicale rifiuto d’una posizione
di attesa messianica dell’ora X: la via dell’incontro e dell’accordo fra i partiti
antifascisti a base popolare (comunisti, socialisti, azionisti e democristiani) come
la sola utilmente percorribile. Già prima della Liberazione, il 9 dicembre 1944, Togliatti
aveva insistito con Longo: «... Di qui i nostri compiti fondamentali ora: accentuare
il carattere nazionale della nostra politica, rinsaldare il legame con i socialisti,
arrivare a un accordo politico concreto fra i tre grandi partiti di massa (Pci, Psi,
Dc), cioè continuare a muoverci, ma più speditamente, sulla via già da noi indicata,
e che è la sola che possa portare alla creazione di un solido regime democratico in
Italia. [...] Devi reagire seriamente nel partito a ogni tendenza che ancora esistesse
a considerare la nostra politica di unità come un giuoco. Essa è la via maestra per
la creazione di un regime di libertà e di progresso»22.
Il dibattito si prolunga fin dopo l’Epifania. Da nessuno – neanche da Secchia – vengono
obiezioni all’indicazione strategica di Togliatti. Racconteranno Marcella e Maurizio
Ferrara: «Chi si attendeva discorsi barricadieri e incendiari restò deluso. E del
resto, fin dal suo ritorno in Italia, la presenza di Togliatti e il successo personale
che ebbe dimostrarono che nel Pci l’estremismo verbale e il settarismo erano eredità
del passato che gli stessi comunisti mettevano al bando»23. Magari le cose sono un tantino più complicate, e bene le rende Giorgio Amendola
quando scrive: «La politica di unità nazionale era accolta per l’autorità di Togliatti
e della Direzione, ma scarsamente compresa e malamente attuata. Al Nord sussistevano
centri che coltivavano l’illusione di un possibile ritorno a forme di lotta partigiana»24.
È composto in conclusione di congresso, registi Togliatti, Longo e Secchia, un Comitato
centrale non largo: 57 effettivi e 13 candidati (alla sovietica: presenti nell’organismo
ma senza diritto al voto): 31 operai, 15 artigiani e impiegati, 2 contadini, 23 intellettuali
(«sono definiti intellettuali molti compagni che hanno seguito nella loro giovinezza
determinati studi e che in realtà da più anni hanno dedicato intera la loro attività
alla vita del partito»25). Un po’ a sorpresa, ancora al suo noviziato e generalmente sconosciuto, entra già
nella nomenklatura, a ventiquattro anni, membro candidato, Enrico Berlinguer, «intellettuale, dirigente
giovanile». Da un promemoria di Secchia: «Il Cc era interamente composto dei compagni
anziani del periodo clandestino. Delle leve più recenti vi erano soltanto Mario Alicata
e Enrico Berlinguer»26.
V.
Alla guida dei giovani
1. Al ritorno a Roma, sul finire dell’estate 1946, Enrico è segretario nazionale del
Fronte della gioventù. Lo ricordano in sella a una «Harley Davidson», una moto ingombrante
con manubrio alto allungato all’indietro che porta a guidare impettiti.
Il Fronte della gioventù, contestato e abbandonato da democristiani e liberali, s’avvicina
ormai ad essere poco più che una sigla: inevitabile conseguenza ultima d’un intreccio
di tensioni interne e, in campo mondiale, dei mutati rapporti tra ex alleati. Il dialogo
tra diversi s’è fatto difficile. Con la rottura della solidarietà antifascista del
tempo di guerra e l’avvio del processo di formazione di blocchi ostili, una fase storica
finisce, e la nuova è marcata dallo scontro politico-economico-ideologico aspro e
a tutto campo che Walter Lippmann chiamerà «guerra fredda». Una svolta epocale.
2. Il 13 maggio 1947 il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi apre la crisi.
Ha deciso di escludere dal governo socialisti e comunisti. Ve lo spingevano circostanze
diverse: la sua personale riserva nei confronti della «coabitazione forzata», che
aveva sempre giudicato necessaria ma temporanea; l’irritazione delle forze interne
conservatrici; l’inquietudine di pezzi significativi della Dc dopo il deludente esito
delle elezioni amministrative autunnali (le sinistre in ascesa, flessione Dc a vantaggio
di un movimento di estrema destra, l’Uomo Qualunque); i toni ultimativi di Pio XII.
In gennaio, per dieci giorni, dal 5 al 15, è stato in America. Due avvenimenti di
rilievo gli suggeriscono infine che è giunto il momento di passare alla cacciata dei
socialcomunisti con minimo rischio e danno contenuto. Il partito socialista, smembrato
dalla secessione saragattiana, s’è indebolito. La Costituente ha approvato il 25 marzo
1947, con anche il voto dei comunisti, l’articolo 7, che include nella carta fondamentale
della Repubblica i Patti lateranensi. Il nuovo governo – privo dei socialcomunisti
per la prima volta dopo tre anni – è annunziato il 31 maggio 1947.
Erano temute le barricate. Non accade niente, né turbolenze di piazza né scioperi
dimostrativi. Anzi, quello stesso 31 maggio la segreteria del Pci s’affretta ad ammonire:
«I comunisti respingono le forme di lotta che creerebbero nel corpo della nazione
fratture insuperabili e denunciano come una provocazione l’azione di tutti coloro
i quali contribuiscono a dar loro in qualsiasi modo anche solo una parvenza di giustificazione».
Quattro mesi dopo, il 22 settembre 1947, nasce in Polonia il Cominform. Un giorno
freddo e buio che annunzia l’inverno danubiano arrivano a Szklarska Poreba, una cittadina
con fabbriche di vetro a breve distanza da Wroclaw, l’antica Breslavia, nella Bassa
Slesia ex tedesca, i delegati dei partiti comunisti al potere in Europa e dei due
principali all’opposizione, l’italiano e il francese. Sede della Conferenza, una grande
villa già nobiliare adibita ora a casa di riposo per funzionari di polizia, dentro
un parco di betulle. Stalin vi ha mandato un uomo di sperimentata rigidezza, Andrej
Zdanov, cinquantun anni, generale dell’Armata rossa a Leningrado, e il più bonario
Georgij Malenkov, quarantacinque anni, membro dell’ufficio politico. Ci sono anche,
fra gli altri, Wladislaw Gomulka, quarantadue anni, segretario del partito polacco
e vicepresidente del Consiglio dei ministri, «carattere difficile e angoloso ma onesto
e leale»1, Rudolf Slanski, quarantasei anni, segretario del partito ceco, «un bell’uomo alto
e magro, con la testa leonina e il portamento fiero»2, la rumena Anna Pauker, cinquantaquattro anni, colonnello dell’Armata rossa3, l’ungherese Mihaly Farkas, operaio tipografo di famiglia israelita, maresciallo
e capo delle forze armate ungheresi e ministro aggiunto dell’Interno, «uomo rozzo
e volgare»4, il francese Jacques Duclos, cinquantun anni, da garzone pasticcere a vicepresidente
della Camera dei deputati all’epoca del Fronte popolare, e gli jugoslavi vicepresidenti
del Consiglio dei ministri Edvard Kardelj, quarant’anni, e Milovan Gilas, trentasei
anni5. Non c’è Togliatti. Sapiente di bufere, ha calcolato conveniente non muoversi dall’Italia.
Rappresentano il Pci il vicesegretario Luigi Longo, quarantasette anni, ed il medico
napoletano Eugenio Reale, quarantadue anni, sottosegretario agli Esteri sino all’esclusione
dei comunisti dal governo.
Ed ecco, nella relazione introduttiva di Zdanov, il perno dell’anti-«dottrina Truman»:
«Nel mondo si sono formati due campi: da una parte il campo imperialista e antidemocratico,
che ha come scopo essenzialmente il ristabilimento della dominazione mondiale dell’imperialismo
americano e la distruzione della democrazia; e dall’altra il campo antimperialista
democratico, che ha lo scopo essenziale di distruggere l’imperialismo, rafforzare
la democrazia, liquidare i resti del fascismo»... In nome della pace minacciata dall’imperialismo
Usa, l’Urss si ripropone con forza Stato-guida del mondo comunista... In gennaio,
alla conferenza d’organizzazione di Firenze, Togliatti aveva parlato (ed era la prima
volta) di «vie nazionali al socialismo». Ora è innalzato da Stalin alla dignità di
teorema il punto che per le «vie nazionali» non esiste il benché minimo spazio. E
qui a Szklarska Poreba sono chiamati da Zdanov a rimarcarlo, secondo regola, precisamente
i delegati dei partiti più attenti alla questione delle specificità nazionali, in
primo luogo gli jugoslavi Kardelj e Gilas, ignari dell’imminente attacco a Tito, e
– in appoggio – l’ungherese Farkas.
Le «illusioni parlamentari» di Thorez e di Togliatti sono ridicolizzate e beffeggiate.
I comunisti italiani – sostiene Farkas – avrebbero dovuto opporre le masse alla maggioranza
parlamentare e fare un governo di minoranza che sciogliesse il Parlamento e indicesse
nuove elezioni. L’errore principale – insiste Gilas – è stato di proclamare che i
comunisti non avrebbero mai lasciato le vie legali, che sarebbero restati, sempre,
sul terreno parlamentare.
«Longo e Reale – sappiamo da Secchia – furono al primo momento colpiti dall’asprezza
delle critiche inattese; ma poi le accettarono»6. Solo che l’autocritica di Longo non pare al fiduciario di Stalin «nel suo complesso,
sufficiente»7. «Non si tratta – è la secca ingiunzione conclusiva di Zdanov – di apportare piccoli
cambiamenti, ma di cambiare radicalmente la linea del Pci»8.
Un alt a Togliatti; un richiamo brusco. La sua linea (il «carattere nazionale» della
politica comunista, «l’accordo politico concreto fra i tre grandi partiti di massa,
Pci, Psi, Dc») ne esce seccamente sconfessata, e quelli che l’avevano mal digerita,
i duri, i militaristi con l’idea frustrante della rivoluzione «tradita», i sognatori
del ritorno a forme di lotta partigiana si rinfrancano, ed il loro punto di riferimento
naturale è Secchia: «Alcune delle obiezioni di Zdanov trovavano me e altri compagni
completamente consenzienti»9.
Ma Togliatti ha attraversato altre tempeste, sopravvivendo ai pogrom degli apostati e dei dubbiosi. E (come nel 1929, dopo il VI Congresso dell’Internazionale
e la svolta del «socialfascismo») non rinunzia a guidarla lui, quest’inversione di
marcia. Ha detto a Reale: «Ce la siamo cavata in momenti più difficili e ce la caveremo
anche ora»10. Il che vuol dire che obbedirà destreggiandosi, preparato a «una “lunga notte” di
prudenza, di conformismo e di silenzio, in attesa che lo sfondo generale cambi e gli
fornisca un nuovo margine di manovra»11.
E il ragazzo Berlinguer? S’adegua, naturalmente. E non avendo la duttilità del maestro,
parla e scrive, ora che è venuto il tempo dello scontro, per slogan di piombo.
Il 5 gennaio 1948 s’apre a Milano il «congresso dell’obbedienza al Cominform»12, il VI. Togliatti vi gestisce la correzione della rotta combinando allineamento e
pur prudenti riserve13. Non esita ad accogliere e a svolgere con veemenza l’indicazione zdanoviana dell’attacco
frontale dell’imperialismo Usa e della fedeltà assoluta all’Urss, «baluardo di pace».
È pronto all’autocritica («Una debolezza evidente vi è stata quando siamo stati esclusi
dal governo; in quel momento non abbiamo saputo giustamente combinare l’azione parlamentare
con quella extra-parlamentare»). Ma anche dice: «Vi sono compagni i quali, dopo la
riunione dei Partiti comunisti in Polonia, hanno pensato che ormai non ci fosse più
altro da fare che prepararsi all’insurrezione armata [...]. Come si vede, vi è qui
un pericolo di estremismo infantile e parolaio contro il quale dobbiamo combattere
senza per ciò mettere da parte la lotta contro il pericolo dell’opportunismo. La lotta
su due fronti è sempre stata fondamentale per la formazione di un partito comunista».
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