Edizione: 2022, II rist. 2023 Pagine: 336 Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788858149294 ISBN digitale: 9788858150856 Argomenti: Attualità culturale e di costume, Viaggi, turismo e sport
L’Italia è una penisola dalle mille tonalità di verde. Il verde delle querce, quello delle pinete e quello, ancora diverso, della macchia mediterranea. Questo Atlante ci accompagna in un viaggio straordinario alla scoperta di 58 boschi speciali, di cui racconta storia e caratteristiche peculiari. Un libro unico, uno strumento straordinario per conoscere il nostro paese.
I boschi italiani hanno caratteristiche uniche al mondo, affascinanti da conoscere. A differenza del resto d’Europa, gran parte della loro biodiversità è legata alla secolare influenza di attività come il pascolo, la produzione di legname, di legna da fuoco, di carbone o di alimenti. La lunga coevoluzione tra uomo e natura ha creato un binomio inscindibile. Le abetine delle Alpi, le faggete appenniniche, i querceti delle colline interne, le pinete litoranee e le macchie di arbusti delle coste e delle isole, sono elementi di un paesaggio bioculturale che già dal medioevo ha attirato studiosi e visitatori stranieri e che ancora oggi mostra persistenze storiche in grado di rappresentare l’identità ambientale e paesaggistica dell’Italia. Questo Atlanteidentifica 58 boschi, distribuiti dal Sud al Nord della penisola, e ne racconta le principali caratteristiche, offrendo una chiave di lettura originale che integra storia e natura.
Mauro Agnolettiinsegna Storia del paesaggio e Pianificazione forestale alla Scuola di Agraria dell’Università di Firenze ed è titolare della Cattedra UNESCO sui paesaggi del patrimonio agricolo. È vice presidente della Società Internazionale di Ecologia del Paesaggio, è stato presidente del Comitato Scientifico del programma FAO sui Sistemi Importanti del Patrimonio Agricolo, dell’Osservatorio del Paesaggio della Regione Toscana, coordinatore del gruppo di ricerca sulla storia forestale dell’Unione Internazionale degli Istituti di Ricerca Forestale (IUFRO) e del Catalogo Nazionale dei Paesaggi Rurali Storici del Ministero dell’Agricoltura. Nel 2024 gli è stato assegnato dalla IUFRO il “Distinguished Service Award”. Per Laterza è, tra l’altro, autore di Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano (2020).
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[...] Ora in queste cose, una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente.
Giacomo Leopardi, Operette morali - Elogio degli uccelli
Introduzione
L’Italia è caratterizzata da una grande varietà di formazioni boschive, ma pochi sanno
che nell’ultimo secolo l’estensione dei nostri boschi è più che raddoppiata. Si tratta,
per certi versi, di un dato in controtendenza rispetto alla deforestazione che caratterizza
molti paesi del mondo e alla sensazione di forte rischio ambientale derivante dalle
frequenti notizie di incendi o di eventi atmosferici estremi, come tempeste e alluvioni.
Nonostante il notevole e costante aumento, non a tutti i boschi si può riconoscere,
per il solo fatto di esistere, un’alta qualità dal punto di vista paesaggistico. Con
ciò, non si vuole negare rilevanza ai boschi in quanto tali; come afferma la Convenzione
europea del paesaggio, infatti, tutto il paesaggio è degno di attenzione. Si vuole
solo evidenziare che, come per ogni altro elemento del paesaggio, anche i boschi
assumono un valore particolare se possiedono determinate caratteristiche. Ma se per
i centri storici, per le opere d’arte e anche per alcuni paesaggi agrari esistono
i criteri per individuarne e stabilirne il valore, più difficile è valutare il paesaggio
forestale.
In passato si giudicava il valore di un bosco soprattutto in base ad aspetti legati
alla qualità della produzione legnosa, oggi invece lo si associa per lo più al maggiore
o minor grado di naturalità, o alla capacità di assorbire più o meno anidride carbonica.
Si tratta di elementi di valutazione che risentono dei diversi periodi storici in
cui sono stati formulati, ma che da soli non consentono la piena comprensione del
nostro paesaggio forestale, che è, essenzialmente, una componente del paesaggio culturale
che caratterizza l’Italia. Il valore di patrimonio culturale associabile al paesaggio
non è il risultato di processi di breve periodo. Infatti perché un fenomeno diventi
rappresentativo dell’identità culturale di una nazione deve passare attraverso un
lungo processo di sedimentazione storica. Non basta che una generazione individui
un nuovo valore da associare ad un bene perché questo automaticamente sostituisca
quelli risultanti da secoli di storia.
Lo scopo di questo volume è illustrare, attraverso schede sintetiche, una serie di
formazioni boschive collocate in tutte le regioni italiane, in diverse condizioni
ambientali e geografiche. Descrivendo boschi noti e meno noti non solo si intende
documentare la grande varietà di paesaggi forestali presenti nel nostro paese, ma
anche evidenziare che le loro caratteristiche sono il risultato dell’integrazione
di fattori sociali, economici e ambientali nello spazio e nel tempo. E si può infine
comprendere anche una parte importante della storia dell’Italia.
Boschi e paesaggio
Fin dal periodo preromano il paesaggio italiano è stato caratterizzato da un processo
di continua trasformazione dell’ambiente naturale per rispondere ai bisogni della
popolazione. Il passaggio da una società di cacciatori e raccoglitori di frutti a
insediamenti agricoli temporanei e poi ad aree permanentemente coltivate, in grado
di fornire raccolti stabili, è stato alla base del processo di civilizzazione. A questo
processo si accompagna anche la domesticazione dei boschi, che sono stati modificati
nelle loro caratteristiche di estensione, densità, struttura e composizione di specie,
allo scopo di fornire una vastissima gamma di prodotti e servizi. Fino ai primi anni
del secondo dopoguerra non era pensabile l’agricoltura senza una sufficiente dotazione
di alberi, sia in forma di boschi, sia di alberature sparse. Allo stesso modo, per
il riscaldamento domestico, per cuocere i cibi o per le costruzioni civili e militari,
oltre che per produrre alimenti era necessario utilizzare e gestire il bosco. Si trattava
di un bene insostituibile, strategico, oggetto di conflitti locali ed extranazionali.
La combinazione fra esigenze della popolazione e caratteristiche ambientali dell’Italia
ha consentito la coltivazione di boschi molto diversi in territori altrettanto diversi.
La forma della penisola italiana la proietta dal centro della piattaforma continentale
europea verso quella africana, con climi che variano da quelli glaciali a quelli subtropicali
e semiaridi, secondo la classificazione di Köppen, ai quali si aggiungono le varianti
altitudinali. Inoltre, con il 35,2% di montagne, il 41,6% di colline e solo il 23%
di pianure, il nostro paesaggio appare contraddistinto da uno sviluppo «verticale»
che lo rende diverso da quelli del Centro e del Nord dell’Europa. A questa diversità
di ambienti, si aggiungono particolari fenomeni legati alle variazioni climatiche
di lungo periodo. Ad esempio, la situazione della regione alpina insubrica, corrispondente
alla zona dei laghi lombarda – oggi caratterizzata da vegetazione tipica della zona
mediterranea, poco legata al tradizionale ambiente alpino e prealpino –, è frutto
dell’immigrazione di elementi vegetali termofili e sud-orientali nel periodo postglaciale
(terminato circa 10.000 anni fa). Le particolari condizioni climatiche di questa regione
hanno quindi facilitato non solo lo sviluppo di insediamenti umani, ma anche una vegetazione
tipica di aree mediterranee poste molto più a sud: ne sono esempi attuali le colture
dell’olivo e degli agrumi in campo agricolo e del leccio in ambito forestale. Allo
stesso modo, nell’Appennino meridionale le correnti calde occidentali consentono la
presenza alle stesse quote di specie teoricamente legate a fasce altitudinali diverse.
Superficie occupata dai boschi nel 1936 (5.279.895 ha circa). I boschi descritti in
questo volume sono tutti all’interno di tali aree
Il clima, l’altimetria, il suolo hanno giocato dunque un ruolo importante nel determinare
i caratteri dei boschi e la presenza delle diverse specie arboree, ma dobbiamo considerare
che spesso si tratta di aspetti secondari rispetto alle necessità della popolazione.
La necessità di coltivare alcune specie per scopi alimentari ne ha determinato la
diffusione anche in ambienti lontani dalle loro ideali esigenze ecologiche, come nel
caso, ad esempio, del castagno, che troviamo dal livello del mare fino a circa 1500
metri di altitudine. Ugualmente, rispetto alla composizione dei boschi alpini del
Nord-Est, dove prima del XVI secolo vi era una proporzione simile fra conifere e latifoglie,
l’attuale situazione a larga prevalenza delle conifere è stata determinata dalle esigenze
di produzione di legname da costruzione che le ha progressivamente favorite.
Tutti i territori colonizzati da tempo dall’uomo possono dirsi contrassegnati da un’impronta
storica, ma la complessità dei caratteri storici del paesaggio boscato della nostra
penisola va oltre questa generica caratterizzazione. La molteplicità e la stratificazione
delle impronte di tante civiltà nei nostri paesaggi si riflette anche nei boschi,
che sono stati influenzati in modo profondo e pervasivo dalle attività umane. Tuttavia
rispetto all’evidenza di un paesaggio antropico fornita da colture agricole o da aree
urbane, la matrice antropica di un bosco è più difficilmente riconoscibile. Ma è proprio
la maggiore semplicità e persistenza delle forme di governo dei boschi, rispetto alle
tecniche agricole più soggette a frequenti innovazioni, che ha consentito ai caratteri
storici delle formazioni forestali di perpetuarsi nel tempo e giungere fino a noi.
Superficie occupata dai boschi nel 2018 (11.000.000 ha circa). Si osserva come i nuovi
boschi siano cresciuti soprattutto in montagna e in collina, sviluppandosi naturalmente
su aree agricole e pascoli un tempo coltivati e poi abbandonati, salvo quelli risultato
delle attività di rimboschimento da parte di Stato e Regioni
La ceduazione è una pratica selvicolturale rimasta inalterata da millenni, è cambiato
semmai lo strumento con cui si esegue – si è passati dalla scure alla motosega, apparsa
in Italia solo negli anni Cinquanta del secolo scorso. Ciononostante, il paesaggio
del bosco ceduo è sempre riconoscibile, anche se molte pratiche ad esso associate
sono state abbandonate o addirittura – come accade oggi – sono spesso proibite, riducendo
la diversità dei boschi che deriva dall’applicazione di differenti tecniche di ceduazione.
Allo stesso modo, la presenza di boschi coetanei, quindi con piante della stessa età,
è spesso indicativa di un bosco che si è sviluppato in uno stesso periodo, rispetto
a un tempo precedente in cui quel bosco magari non esisteva, o perché era stato tagliato,
oppure perché il nuovo bosco si è sviluppato dopo l’abbandono di una precedente coltura
agricola.
È dunque necessario comprendere non solo che il bosco è un’entità dinamica all’interno
dell’ecosistema terrestre, ma che le piante hanno un ciclo vitale: nascono, crescono
e muoiono. Tale ciclo può essere alterato dalla gestione attuata dall’uomo, che può
allungare o accorciare la vita di una specie arborea o mutarne le forme. L’eliminazione
di una porzione del fusto di una pianta – come avviene con la tecnica della ceduazione
che si utilizza nei boschi di latifoglie – non distrugge il bosco, anche se per un
certo periodo di tempo il bosco potrà apparire, ad un occhio inesperto, senza alberi.
Ciò che rimane dopo il taglio del fusto vicino alla base della pianta, cioè la «ceppaia»,
dà luogo a nuove gemme, le quali porteranno allo sviluppo di nuovi individui arborei
che ricostituiranno il bosco. Capita spesso che il pubblico e alcuni organi di tutela
paesaggistica confondano il taglio con cui si rimuove il legno prodotto dal normale
accrescimento della pianta, con l’eliminazione permanente del bosco, che invece ricresce,
così come ricresce un olivo dopo la potatura. Se così non fosse, trattandosi di pratiche
forestali esistenti almeno dall’inizio dell’epoca storica, non avremmo più boschi.
Un bosco scompare se si estirpano le radici delle piante e si trasforma quel terreno
in un altro tipo di coltura, e infatti l’attuale aumento dei boschi è legato all’interruzione
delle pratiche agricole e pastorali. Nemmeno il passaggio del fuoco elimina per sempre
un bosco: per secoli il fuoco è stato il metodo con cui si gestiva l’alternanza fra
bosco, pascolo e coltivi.
Da questo punto di vista, in Italia non abbiamo boschi scientificamente definibili
come «naturali», cioè non toccati dall’uomo, bensì formazioni arbustive e arboree
che nel tempo sono state tutte utilizzate per qualche scopo e che, quindi, sono parte
integrante del paesaggio culturale italiano. La costruzione di un paesaggio culturale
è ben spiegata dal geografo Carl Sauer1, secondo il quale «il paesaggio culturale è forgiato da un paesaggio naturale ad
opera di un gruppo culturale. La cultura è l’agente, gli elementi naturali sono il
mezzo, il paesaggio culturale è il risultato». In ambito agricolo, forestale e pastorale,
le diverse culture che si sono alternate sul territorio italiano nel corso della storia
hanno sviluppato altrettanti sistemi di adattamento all’orografia, ai suoli e ai climi,
dando origine a paesaggi diversi, ma per rispondere alle stesse esigenze. I boschi
rappresentano quindi formazioni forestali originate dai diversi rapporti con le popolazioni
locali che sono stati influenzati da importanti attività economiche: estrazione dei
minerali, produzione di legname da costruzione, produzione di legna da ardere e carbone,
costruzioni navali, produzione di frutti o di essenze. Tutte attività realizzate dalle
popolazioni locali, ma spesso regolate da entità statali o anche da istituzioni religiose,
come gli ordini monastici. In effetti numerosi sono i boschi descritti in questo volume
abbinati a monasteri, in omaggio al rapporto speciale che nel nostro paese ha legato
gli ordini monastici al bosco e alle attività forestali.
Abbiamo dedicato un’attenzione particolare ai castagneti da frutto. Il ruolo che ha
avuto la «civiltà del castagno» in tutta la penisola non poteva essere ignorato, come
pure la multifunzionalità di queste formazioni forestali che assicuravano una vasta
gamma di prodotti alimentari, legnosi e non legnosi, oltre a integrarsi perfettamente
con il pascolo. Il castagneto da frutto – molto rappresentativo della storia forestale
italiana – è un bosco di impianto artificiale, composto da una sola specie, ma che
abbina qualità estetiche a quelle produttive, sociali e ambientali. A causa della
sua vocazione produttiva, il castagneto è spesso considerato una coltura agricola
e non una formazione forestale, ma non è in questo diverso da altre formazioni arboree
quali i frassineti da manna e i noccioleti, che, al di là della possibilità di essere
oggetto di coltivazione intensiva, esistono anche in natura come specie arboree.
Non solo formazioni dense e omogenee trovano spazio in questo volume, ma anche tipologie
assimilabili a boschi da pascolo e pascoli arborati, largamente prevalenti nel paesaggio
italiano fino alla metà del XX secolo. Il rapporto con il bosco, nella civiltà greca
e romana da cui la nostra cultura trae le sue origini, si identificava molto spesso
con lo sfruttamento delle risorse forestali per l’alimentazione del bestiame. I termini
pascolo e bosco erano infatti usati come sinonimi – secondo alcuni autori, bosco deriva
infatti dal greco βοσκ che significa pascolo – e, almeno fino al XII secolo, quando si parlava di pascolo
ci si riferiva a un bosco concedente diritto di pascolo.
La diversificazione del paesaggio boscato avviene spesso attraverso l’alternanza di
coperture arboree e spazi aperti, che possono essere aree coltivate e pascolate, sia
in forma di pascoli arborati che di pascoli nudi, oppure creati da forme particolari
assunte dalle diverse piante per assolvere alla produzione di foglie utilizzate come
foraggio. Contrariamente a quanto generalmente si pensa, i paesaggi silvo-pastorali
montani erano caratterizzati da un alto livello di complessità, rispetto ai paesaggi
collinari e di pianura, proprio per la notevole diversificazione delle forme di bosco.
Purtroppo oggi sono quasi scomparse forme di gestione a livello di singola pianta
– ad esempio la capitozzatura o lo sgamollo, per citarne alcune –, spesso addirittura
vietate per presunti danni alle piante. Se a ciò si aggiunge la tendenza a favorire
boschi estesi, densi e compatti, ben si comprende una certa divaricazione fra alcuni
attuali indirizzi di tipo ambientale e quelli della conservazione del paesaggio culturale
– anche se alcuni temi, quali la biodiversità, tendono ad avvicinare questi due mondi
più di quanto si pensi.
La biodiversità
La diversificazione del bosco in termini di densità, struttura e composizione specifica
è fondamentale per capire i caratteri del paesaggio forestale italiano. La biodiversità
che caratterizza i nostri boschi non è particolarmente significativa se confrontata,
ad esempio, con quella di altri paesi o zone del mondo, quali ad esempio l’Amazzonia,
dove il numero di specie arboree presenti per unità di superficie è notevolmente superiore.
La biodiversità dell’Italia – complessivamente la più elevata in Europa – è legata
alla diversità del mosaico paesaggistico, la cosiddetta «gamma diversità» in termini
scientifici, o diversità a scala di paesaggio, che crea un’alta variabilità di habitat
per molte specie animali e vegetali. Essa non è quindi legata a superfici di boschi
estese, dense, omogenee, tipiche di altri paesi, ma che nel nostro territorio sono
più spesso il risultato dell’abbandono delle attività agricole e pastorali. Inoltre,
non vi sono in Italia boschi interamente «naturali», intendendo con questo termine
ecosistemi non influenzati dall’uomo, che non esistono più da alcuni millenni: tutte
le formazioni forestali sono state, in varia misura, influenzate dall’opera dell’uomo.
È poi molto comune parlare di biodiversità confondendo l’aumento del numero di esemplari
di alcune specie con la varietà di specie presenti in un dato territorio. Non è necessario,
ad esempio, che vi siano migliaia di esemplari di poche specie per avere un’alta biodiversità,
ma serve che vi siano molte specie diverse nei giusti rapporti fra loro e con una
dotazione di habitat in equilibrio con le altre funzioni di un territorio. Dobbiamo
poi considerare che il territorio italiano ha un’estensione limitata ed è densamente
popolato (189 ab./km2); inoltre ha una forma stretta e allungata ed è circondato per tre lati dal mare,
una caratteristica che costituisce un limite al numero e alla circolazione delle specie
animali, dato che per tre lati non ci sono paesi confinanti dove poter diluire l’eccesso
di carico animale – e ciò crea problemi alle attività agricole e pastorali, e fenomeni
anomali come gruppi di lupi residenti sulla collina di Firenze o cinghiali nei giardini
di Roma. La ricostruzione dell’ideale piramide alimentare, che gerarchicamente vedrebbe
in alto i predatori carnivori, al di sotto i predati erbivori e al livello più basso
i produttori primari (cioè le componenti vegetali) – idea che ha guidato le scelte
che hanno spesso portato a eccessi nella reintroduzione di specie animali –, è impossibile
in un paese di soli 300.000 chilometri quadrati di estensione e con sessanta milioni
di abitanti senza creare danni o conflitti. A parte i danni all’agricoltura, gli erbivori
divorano anche la rinnovazione naturale dei boschi se il loro numero non viene tenuto
sotto controllo.
Inoltre, ormai più della metà dei boschi italiani è il risultato delle cosiddette
«successioni secondarie», cioè formazioni forestali che si sono sviluppate su aree
un tempo coltivate e poi abbandonate. Tali boschi non possono considerarsi, a rigore,
naturali. L’ecologia insegna che le specie che si insediano dopo l’abbandono di colture
agricole e pastorali, così come dopo l’incendio, sono condizionate da quanto avvenuto
in precedenza su quel suolo. È necessario mantenere un equilibrio nei vari usi dei
territori che compongono il paesaggio e diversificare le strutture forestali, senza
cercare di ricreare ecosistemi naturali artificiali poco adeguati alle caratteristiche
del nostro paese.
Da questo punto di vista, la varietà del paesaggio boschivo negli ultimi decenni si
è molto ridotta; ormai la montagna e gran parte delle colline sono occupate da boschi
con formazioni compatte e omogenee che riducono la biodiversità e aumentano i rischi
di incendio. L’integrazione con le attività agricole e il pascolo si è ormai interrotta,
salvo esempi importanti come in Sardegna, uno dei paesaggi silvo-pastorali più importanti
d’Europa. Queste tendenze hanno contribuito a una polarizzazione del paesaggio italiano,
oggi suddivisibile in tre grandi sistemi – bosco, agricoltura e aree urbane –, con
poche zone in cui essi si interconnettono creando matrici paesaggistiche più diversificate,
una tendenza rafforzata dagli indirizzi e dall’applicazione degli attuali strumenti
di tutela.
La tutela
Nonostante i caratteri storici dei boschi descritti in questo volume, nella maggior
parte dei casi si osserva che sugli stessi luoghi insistono molteplici vincoli – quali
parchi naturali, riserve integrali, aree naturali protette, siti europei della rete
Natura 2000, ecc. – che spesso si sovrappongono fra loro. Tali vincoli sono tutti
formalmente rivolti a conservare e ricercare il massimo grado di naturalità. Le descrizioni
di queste aree trascurano, nella maggior parte dei casi, di raccontare la loro storia.
Pertanto non è semplice ricostruire le vicende storiche che hanno interessato i boschi
e le loro forme di gestione, aspetti che sono al centro di discipline come la storia
forestale o l’ecologia storica. In virtù dei prevalenti vincoli naturalistici i boschi
vengono infatti definiti come boschi «naturali» o «seminaturali», mentre invece, secondo
un approccio storico, potrebbero essere classificati come culturali o semiculturali.
Per questo motivo abbiamo cercato di fornire sempre notizie storiche nelle descrizioni
presenti in questo volume. L’attuazione di orientamenti rivolti a limitare le pratiche
forestali tradizionali porterà, in un tempo più o meno lungo, a ridurre i caratteri
culturali del paesaggio forestale: uno degli scopi di questo volume è darne almeno
una testimonianza.
Entrando nel merito dell’idea di ritorno alla natura che guida gli attuali indirizzi
di conservazione, non è chiaro a quale natura ci si riferisca, dato che anche il paesaggio
definito «naturale» si è modificato durante la storia della terra, ma soprattutto
la naturalità non è mai stata sinonimo di «stabilità». Nessun ecosistema naturale
è stabile nel tempo, come dimostrano le cinque estinzioni di massa della biodiversità
che hanno caratterizzato la storia del pianeta e gli eventi catastrofici che regolarmente
si verificano. È invece necessaria l’azione dell’uomo per mantenere le condizioni
ambientali che ci consentono di sopravvivere, soprattutto in aree densamente popolate
e con territori molto fragili dal punto di vista ambientale come il nostro. I boschi
documentati dimostrano che vi sono assetti forestali che si sono mantenuti stabili
nel tempo, o comunque in un equilibrio dinamico, senza essere caratterizzati dalla
«naturalità» ma mantenendo in ogni caso un buon livello di biodiversità.
Non è poi necessario avere un bosco non contaminato dall’uomo per usufruire dei servizi
ecosistemici che il bosco può offrire: tipologie diverse di boschi derivanti da vari
modelli gestionali possono garantire un’alta gamma di servizi. Soprattutto, il paesaggio
non è un servizio fornito dall’ecosistema ma è una costruzione antropica da cui dipendono
i servizi che ecosistemi modificati dall’uomo possono fornire. Dobbiamo poi essere
realisti e non pensare che l’assorbimento della CO2 sia così strategico, vista la ridotta estensione dei boschi italiani in rapporto
a quelli mondiali e il loro conseguente limitato contributo alla mitigazione del riscaldamento
climatico. Peraltro, vi sono sistemi agricoli, e altri sistemi ambientali, che assorbono
quantità maggiori di CO2 rispetto ai boschi, e sono gli ecosistemi marini quelli che assorbono più del 90%
della CO2 atmosferica.
Le tendenze a disconoscere il valore culturale dei boschi, a favore di una visione
naturalistica, hanno origini antiche, che in Italia hanno a che fare anche con l’assenza
di attenzione alla «cultura materiale» e, quindi, con la mancata valorizzazione dell’opera
delle popolazioni rurali nella costruzione del paesaggio, tipica invece dell’esperienza
storiografica della scuola francese delle «Annales» fondata fra le due guerre mondiali.
Purtroppo l’opera di Emilio Sereni sul paesaggio agrario, molto più attenta al lavoro
dei contadini, non ha lasciato tracce significative negli strumenti di tutela paesaggistica
e ambientale correnti. Oltre ai recenti vincoli europei, anche l’evoluzione delle
normative di tutela paesaggistica nazionali – a cominciare dai «quadri naturali»
citati nella legge di Benedetto Croce del 1922 (n. 778/1922), nei quali si comprendeva
il paesaggio agricolo e forestale – conferma questa tendenza. Sia la legge Galasso
del 1985 (legge n. 431/1985), sia il Codice dei beni culturali del 2004 (d.lgs. n.
42/2004), sia le recenti modifiche dell’articolo 9 della Costituzione (legge cost.
n. 1/2022) hanno trasformato il vincolo paesaggistico in un vincolo sostanzialmente
ambientale. Vi è però da osservare che se il legislatore ha ritenuto necessario aggiungere
la tutela dell’ambiente, della biodiversità e dell’ecosistema assieme a quella del
paesaggio, si ammette implicitamente che si tratta di temi diversi fra loro. Bisogna
osservare che il vincolo protegge automaticamente il bosco, senza alcuna distinzione
qualitativa, tuttavia la sua applicazione spesso limita le attività selvicolturali.
È sintomatico che il paesaggio agricolo e forestale italiano, celebrato fin dal rinascimento
da centinaia di viaggiatori europei che ne hanno esaltato i caratteri culturali, sia
stato sostanzialmente poco riconosciuto nelle normative di tutela. È facilmente comprensibile
che se l’ideale stato verso cui far tendere un bosco è la sua naturalità, non c’è
alcuna possibilità di conservare quelle infinite variazioni che sono state determinate
dall’opera dell’uomo. Cinicamente, dobbiamo anche rilevare che abbandonare un paesaggio,
rinviandolo allo stato di naturalità, costa molto meno che gestirlo per conservarne
le caratteristiche.
In realtà, il Codice dei beni culturali del 2004, all’articolo 131, afferma che la
tutela del paesaggio «è volta a riconoscere, salvaguardare e, ove necessario, recuperare
i valori culturali che esso esprime». Tale affermazione dovrebbe suggerire il mantenimento
dei caratteri storici dei nostri boschi. Purtroppo l’interpretazione di tale articolo
spesso tende a suggerire che la «natura» – e quindi la difesa della «naturalità» –
rappresenta la nostra cultura e, in quanto tale, è oggetto di tutela, equiparando
così il paesaggio italiano a quello della penisola scandinava o del Nord America.
Contrariamente a queste interpretazioni, nello stesso articolo 131 si specifica che
per paesaggio «si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva
dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni». In sostanza,
ci sono tutte le premesse per tutelare i caratteri dei nostri boschi, che sono il
risultato del rapporto storico con le popolazioni locali, e quindi l’identità culturale
di cui essi sono espressione. Purtroppo, l’attuale società urbana, ormai quasi estranea
al contesto rurale, favorisce le interpretazioni del concetto di tutela in senso naturalistico,
secondo orientamenti nord-europei e concezioni mutuate dalla storia dell’arte che
hanno condizionato la cultura della conservazione. Si tratta, peraltro, anche del
risultato di un processo a scala mondiale: il progressivo aumento dell’abbandono delle
aree rurali determina la perdita dei saperi legati alle attività agricole e forestali
che consentono di «leggere» quel tipo di paesaggio. Il bosco nel passato era infatti
un luogo «vissuto» dalle popolazioni rurali, non un luogo abbandonato.
Oggi i boschi coprono quasi il 36% del territorio italiano, rispetto al 10% di appena
cento anni fa. L’aumento del bosco è speculare alla riduzione delle superfici agricole,
pari a più di 10.000.000 di ettari, sintomo di una trasformazione che riflette il
ruolo assolutamente dominante dei fattori socio-economici nelle trasformazioni del
paesaggio italiano. Nel periodo fra il 1936 e il 2015 sono stati abbandonati più di
66.000 ettari all’anno indipendentemente dagli incendi o da altri eventi meteorici,
che non incidono in modo significativo su tale incremento. L’aumento del bosco non
è il risultato di politiche di conservazione della natura, o di politiche di rimboschimento,
né dell’aumento della CO2 – uno dei principali «alimenti» delle piante, che contribuisce a favorirne la crescita
–, ma solo dell’abbandono delle aree rurali, fenomeno che si è verificato in concomitanza
col forte aumento delle aree urbanizzate.
È interessante confrontare questo incremento del bosco con gli scenari di deforestazione
e desertificazione previsti nel 1990 dall’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento
climatico), il panel delle Nazioni Unite che elabora le analisi e le proiezioni relative al cambiamento
climatico. Negli ultimi trent’anni – cioè più della metà dei cinquant’anni indicati
dall’IPCC nel 1990 come riferimento per le sue prime proiezioni sugli effetti dei
cambiamenti climatici – abbiamo assistito a un continuo processo di forestazione,
con un ribaltamento delle previsioni iniziali. Il fenomeno avviene in tanti paesi
del mondo, soprattutto in Europa, sebbene non venga pubblicizzato, mentre in altre
parti del mondo vi sono processi di deforestazione. Nonostante i boschi siano raddoppiati,
le frequenti siccità e il crescente numero di frane dimostrano che solo il semplice
aumento del bosco non può risolvere la questione climatica, o il problema del dissesto
idrogeologico.
Il risultato combinato dell’aumento del bosco, della ridotta percentuale di boschi
gestiti e dell’interpretazione delle normative di tutela influenza negativamente la
conservazione dei caratteri culturali del paesaggio forestale favorendone l’abbandono.
Colpisce inoltre il fatto che ancora oggi importiamo circa l’85% delle risorse legnose
dall’estero, come alla fine dell’Ottocento.
Per la verità, non sono mancate iniziative rivolte alla conservazione dei valori culturali
legati ai boschi nell’ambito della ricerca e degli indirizzi per la sostenibilità,
un tema già presente nella Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo del
1992. Nell’Unione internazionale degli istituti di ricerca forestale (IUFRO), fin
dal 1960, esiste un gruppo di ricerca dedicato alla storia delle foreste che si occupa
di valori culturali. Dal punto di vista della gestione forestale sostenibile, la Conferenza
ministeriale paneuropea sulla protezione delle foreste in Europa (MCPFE) già nel 2003
aveva affermato l’importanza del valore sociale e culturale dei boschi, definendolo
come il terzo pilastro della gestione forestale sostenibile, accanto al pilastro ecologico
e a quello economico. Nel 2005 UNESCO e MCPFE organizzarono un incontro sul tema,
seguito poi da un altro convegno internazionale a Firenze nel 2006. Purtroppo, nessuna
iniziativa concreta è stata portata avanti su questo argomento.
Anche per quanto riguarda la biodiversità vi sono state iniziative rivolte a valorizzare
gli aspetti culturali. La dichiarazione di Firenze redatta da UNESCO e CBD (Convenzione
per la diversità biologica) nel 2014 ha sancito il carattere bioculturale del paesaggio
italiano ed europeo, ed è significativo che tale dichiarazione sia stata concepita
in Italia. Il concetto di diversità bioculturale – cioè un tipo di biodiversità che
è il prodotto del rapporto uomo-natura – è stato inoltre recepito ufficialmente dalla
FAO nel suo programma mondiale di conservazione del patrimonio agricolo e forestale
(GIAHS) nel 2016. Fra i paesaggi iscritti al programma GIAHS vi sono infatti paesaggi
forestali a carattere culturale, inclusi quelli soggetti al periodico uso del fuoco.
In Italia il ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali ha istituito
nel 2012, all’interno dell’Osservatorio nazionale del paesaggio rurale, il registro
nazionale dei paesaggi rurali di interesse storico, delle pratiche agricole e conoscenze
tradizionali. Il mantenimento della diversità bioculturale è fra gli obiettivi definiti
dall’osservatorio e alcuni dei boschi descritti in questo volume sono fra quelli ufficialmente
iscritti nel registro. Nell’ambito più strettamente legato alle politiche forestali,
anche il Testo unico delle filiere forestali (TUFF) del 2018, nella definizione di
foreste vetuste, annovera i valori culturali. Nonostante tutto ciò, la possibilità
di includere questo tema nelle strategie di conservazione è effettivamente delegata
ai piani di gestione delle aree protette in cui i boschi sono inseriti. Tale eventualità,
per la verità, si verifica in alcuni casi, ma solo laddove esiste la volontà degli
organi di gestione di operare in questo senso.
Non vi è dubbio che una buona qualità dell’ambiente sia necessaria ad assicurare la
vita, ma la definizione di un modello di paesaggio verso cui tendere non può che tener
conto delle caratteristiche di ogni singolo territorio e non può essere oggetto di
semplificazioni che tendono ad assorbire tutto all’interno di un’unica visione del
rapporto uomo/natura. Spesso si sottovaluta il fatto che la definizione di modelli
di gestione rivolti a mantenere la salute di un pianeta dove ormai vivono quasi otto
miliardi di esseri umani, passa prima attraverso la cultura e non si risolve con la
riconsegna della terra alle forze della natura. L’Italia è spesso poco capace di riconoscere
i propri valori ed è incline a rincorrere quelli proposti da culture più forti; è
questo anche il caso di alcuni indirizzi in campo ambientale propensi a non riconoscere
che la nostra «natura» è stata modellata dalla «cultura». Il paesaggio è un tratto
inconfondibile della nostra identità nazionale, fattore essenziale di attrazione e
punto di forza anche nel contesto internazionale; i nostri boschi ne fanno parte,
con la stessa dignità degli altri beni paesaggistici. Speriamo che i boschi raccontati
in questo volume suscitino la curiosità del lettore, invitandolo a guardarli e percorrerli
con uno sguardo diverso.
Ringraziamenti
Questo volume è stato realizzato nell’ambito delle attività della cattedra UNESCO
sui Paesaggi del patrimonio agricolo istituita presso l’Università di Firenze. Alla
sua stesura hanno collaborato vari ricercatori che vogliamo ringraziare: Giulia Rinaldini
e Sofia Pasqualini per le ricerche bibliografiche e l’organizzazione materiali di
ricerca; Beatrice Fiore e Francesco Piras per la realizzazione del materiale grafico.
La scheda I boschi di Scanno è stata curata dal professor Luigi Hermanin de Reichenfeld. Le informazioni necessarie
alla stesura delle schede La lecceta di Montes e Il bosco di Marganai sono state fornite da Marcello Airi dell’Agenzia Forestale Regionale per lo sviluppo
del Territorio e dell’Ambiente della Sardegna (FoReSTAS) di Cagliari.
Localizzazione dei boschi descritti in questo volume
01. I boschi di Scanno
Il patrimonio forestale di Scanno è costituito da un complesso articolato di boschi
situati sui versanti della Valle del Sagittario, fra la Montagna Grande e il Monte
Godi in Abruzzo. Si tratta per lo più di faggete, che occupano la parte alta del territorio,
e solo in minor misura di boschi misti a base di querce e carpino nero; ancora meno
sono i rimboschimenti. Nel 1976, a seguito del decreto di allargamento dei confini
del Parco nazionale d’Abruzzo, una superficie di 2480 ettari del territorio di Scanno
rientrò nel territorio del parco. Nelle vicinanze è presente il lago di Scanno, uno
dei più belli e frequentati d’Abruzzo e il più grande lago naturale della regione.
Scanno incomincia ad essere abitata sin dal Paleolitico, tuttavia le prime tracce
di abitazioni risalgono all’età dei metalli. L’area è stata per secoli, già da epoca
preromana, un importante centro per la pastorizia transumante. Nelle cronache e storie
di Scanno, che riportano fatti e dati certi a partire dal 1100, si fa riferimento
all’università degli uomini di Scanno, forma di associazione per il promiscuo godimento
di terre, in base a cui la popolazione del paese esercitava in comune le attività
di pascolo, tagliar legna, raccogliere erba, costruire capanni sulle terre non assegnate
in proprietà. Diversamente da altre università, quella di Scanno mantenne e via via
poté accrescere le prerogative, nel corso di ripetuti conflitti legali con i feudatari
– in ciò favorita dalle caratteristiche del territorio, stretto tra alte montagne,
isolato rispetto alle vie di comunicazione, ma estremamente adatto alla pastorizia,
cardine durante i secoli della floridezza economica basata su attività collegate,
come la produzione casearia, l’industria della lana e la concia delle pelli.
Secondo i dati dei censimenti, a metà del Seicento nel territorio di Scanno vi erano
oltre 67.000 pecore, e 87.000 a metà del Settecento. Storici locali indicano, nel
periodo di maggiore ricchezza (o pressione sul territorio), un patrimonio di 120-130.000
capi. Questa straordinaria fonte di ricchezza cominciò a contrarsi a partire dal 1806
– quando si iniziò il censimento del Tavoliere delle Puglie – e così si ridussero
le condizioni estremamente favorevoli per la pastorizia transumante.
Il carico di animali ha esercitato una forte influenza sul paesaggio, in particolare
nelle parti più alte, dove ampie aree coperte da boschi di faggio vennero progressivamente
trasformate in pascoli. A tale influenza si aggiungeva quella direttamente esercitata
dalla popolazione, la quale fruiva di diritti di uso civico: oltre che di pascolare,
anche di raccogliere legna da ardere (lignare) destinata principalmente agli usi domestici. Nelle parti più basse dei boschi si
verificava una riduzione della superficie dovuta a dissodamenti effettuati per ottenere
piccoli appezzamenti agricoli (cesinati).
Per quanto riguarda le utilizzazioni legnose, esse hanno influito principalmente sulla
struttura dei boschi, più che sulla loro distribuzione. E le condizioni strutturali
attuali derivano da quanto fatto in un periodo non più ampio di 150 anni. In questo
arco di tempo le finalità delle utilizzazioni boschive sono state essenzialmente l’approvvigionamento di combustibile, l’approvvigionamento di materiale da opera e da
costruzione, tagli a uso commerciale.
Foglie e ghiande della quercia rovere
A partire dall’Unità d’Italia si susseguirono tentativi di porre ordine nella gestione
dei boschi, dopo un periodo di relativa anarchia dovuta al brigantaggio. Ordinanze
del prefetto venivano emesse al fine di regolare l’uso civico della legna con vendite
all’asta (1866), e imponevano alle amministrazioni comunali di «provvedere direttamente
al taglio dei boschi assegnati per l’uso civico dai tecnici forestali» (1869). Nel
1884 il Comune di Scanno confermava antichi capitolati dell’università, come il divieto
del commercio dei prodotti boschivi, emanando diversi provvedimenti mirati a un più
razionale sfruttamento dei boschi.
Fino al secondo dopoguerra l’approvvigionamento di combustibile si svolgeva in tre
forme principali:
– raccolta di legna secca, taglio e raccolta di legna verde da parte delle donne per
il fabbisogno familiare;
– taglio e raccolta di legna dei vetturali (mulattieri) per conto terzi o uso commerciale;
– taglio e trasformazione di legna in carbone.
Nel primo e nel secondo caso non vi era quasi nessuna possibilità di controllo su
modalità ed entità del materiale raccolto. La facoltà di raccogliere in qualsiasi
parte del bosco la legna secca garantiva sia alle donne sia ai mulattieri la possibilità
di entrarvi alla ricerca di seccumi e preparare e accatastare legna in attesa di portarla
in paese una volta stagionata. Per quanto riguarda le utilizzazioni per approvvigionamento
di materiale da opera, da costruzione o per usi dell’artigianato locale, nei registri
della Stazione forestale di Scanno sono annotati, in modo non continuo: assegni di
piante di alto fusto (faggio) da impiegare nella costruzione di stazzi, per travi
o per casse da morto (1917); assegni di piante di alto fusto di cerro e «quercia»
da impiegare in una miniera di lignite (1921); assegno di 100 piante destinate a pali
per l’elettrificazione ferroviaria.
I tagli ad uso commerciale riguardano sia tagli dell’alto fusto, sia tagli del ceduo
per legna o carbone destinati alla vendita. La trasformazione in carbone, con la quale
si potevano ridurre i costi di trasporto a dorso di mulo, consentiva di utilizzare
anche i cedui più lontani dall’abitato. Dalla tradizione orale, ma anche da resoconti
di tecnici forestali, risulta che ancora nel 1930 esistevano, nelle aree di bosco
più alte e più lontane dal paese, estese fustaie con «numerose piante ultrasecolari
mature e stramature», utilizzate saltuariamente dai mulattieri per ricavarne legname
da opera, e da pastori e garzoni per usi negli stazzi. Qui iniziarono pesanti tagli
alla fine degli anni Quaranta, in parallelo con le vaste utilizzazioni boschive in
tutto l’Appennino centro-meridionale, e proseguirono fino al 1966, dopodiché furono
sospesi.
Circa l’entità delle utilizzazioni forestali, dei prelievi per uso civico realizzati
per i focolari domestici dalle donne non si hanno stime particolari. È significativo
però che nei documenti contenenti stime della popolazione del paese si facesse riferimento
al numero di «fochi», per intendere quello delle famiglie. Da quando si incominciano
ad avere registrazioni, anche non regolari, degli assegni di legna da ardere per l’uso
civico, ovvero dopo la prima guerra mondiale, si può sinteticamente affermare che
questi ammontassero mediamente 2000 metri cubi annui. Per i tagli a uso commerciale,
i valori massimi di prelievo si ebbero nel decennio 1949-1958, con una media di oltre
7000 metri cubi annui, e un picco di 13.000 nel 1951. Da diversi indizi risulterebbe
però che quanto registrato rappresenti solo una parte dell’ingente massa legnosa utilizzata.
A partire dalla fine dell’Ottocento furono avviate azioni di miglioramento del patrimonio
forestale, che furono interrotte soltanto dalle pesanti utilizzazioni post-belliche
che interessarono anche i patrimoni forestali dei comuni vicini. Attualmente la superficie
dei boschi comunali è di circa 3800 ettari, quasi equivalente a quella dei pascoli,
e occupa meno della metà della proprietà comunale. Di essi, circa 2500 ettari sono
costituiti da boschi puri di faggio, di cui 1850 ettari derivati da ceduo. Rilevanti
dal punto di vista paesistico e storico sono i boschi misti di conifere e latifoglie
derivati da una possente opera di rimboschimento realizzata dal Consorzio provinciale
dei rimboschimenti dell’Aquila, che hanno trasformato ulteriormente il paesaggio.
Pino nero di Villetta Barrea e pino silvestre furono piantati nei terreni più poveri
e più assolati; nelle pendici più fredde fu piantato abete rosso. Al confine con il
territorio comunale di Pescasseroli, in alta quota, esiste un tratto di bosco la cui
proprietà è stata a lungo contesa tra i due comuni; il contenzioso comportò la sospensione
di ogni precedente attività. È in questo bosco che nell’ultimo decennio sono stati
trovati alcuni faggi, che a seguito di indagine dendrocronologica sono stati classificati
tra i più vecchi d’Europa, con età fino a 500 anni.
Bibliografia
A. Brengola, Piano di riordinamento e di governo dei boschi comunali di Scanno, copia d’ufficio, Sulmona 1932.
P. Caranfa, Dal medioevo ai giorni nostri. L’età antica in Scanno, in Scanno.Guida storico-artistica alla città e dintorni, Carsa Edizioni, Pescara 2001, pp. 122-132.
A. Colarossi Mancini, Storia di Scanno e Guida alla Valle del Sagittario, Biblioteca Comunale, Scanno 1983.
P. Corona, M. Coppini, M. Di Bartolo et al., Criteri di analisi e ipotesi gestionali per una faggeta appenninica della Rete Natura
2000, in «Annali dell’Accademia italiana di scienze forestali», LVI, 2007, pp. 173-190.
L. Hermanin, Aspetti della rinnovazione naturale del pino nero in una zona dell’Appennino abruzzese, in «Annali dell’Accademia italiana di scienze forestali», XXIX, 1980, pp. 31-64.
L. Hermanin, Piano di riordinamento colturale dei boschi e dei pascoli del Comune di Scanno (1981-90), Centro Stampa Palagi, Firenze 1981.
02. Il bosco di Sant’Antonio
Immerso tra i monti abruzzesi, su un piano carsico al centro di grandi montagne disposte
in duplice ordine da nord-ovest a sud-est, quasi da ponente a levante, si trova il
bosco di Sant’Antonio. Si tratta di un bosco di faggio che si estende per circa 500
ettari nel comune di Pescocostanzo, di proprietà in parte comunale e in parte privata,
oggi inclusa nel Parco naturale della Maiella. Il paesaggio è dominato dagli imponenti
massicci del Gran Sasso e della Maiella, verso il mare Adriatico, e verso il Tirreno
da quelli del Velino del Silente e dai Monti della Marsica e della Meta. In queste
pieghe orografiche si trovano vasti altopiani in cui, probabilmente già dall’età del
bronzo, si sviluppano le lunghe piste erbose che in gran parte solcano queste valli.
Su questi percorsi si è svolta la vicenda della transumanza, durata oltre tre millenni,
che vedeva lo spostamento stagionale di milioni di ovini dai pascoli estivi della
montagna abruzzese a quelli invernali delle pianure sub-appenniniche, soprattutto
in Puglia. Si trattava di un vero e proprio ciclo biologico che regolava la natura
e la vita della popolazione, caratterizzando il paesaggio.
Il bosco è particolarmente rilevante quanto a composizione delle specie arboree presenti
e dimensione delle piante; vi si trovano infatti faggi, cerri, aceri campestri e di
altre specie, ciliegi, peri e agrifogli di dimensioni fuori dall’ordinario. Esso rappresenta
uno dei migliori esempi di quella relazione secolare fra le attività antropiche e
le formazioni forestali, fra uomo e bosco, che contraddistingue il paesaggio del nostro
paese.
In epoca romana veniva considerato un «lucus», ossia un bosco sacro: dedito al culto
di Giove e situato sul valico di un’importante via tra Sulmona, la Valle del Volturno
e l’Alto Sannio, ne restano tracce all’interno della parte nord. I luchi erano boschi
di solito consacrati a una divinità e affidati alla custodia di un sacerdote. Benché
tagliare i boschi sacri o danneggiarli fosse considerato sacrilegio, si permetteva
comunque di coltivarli e utilizzarli. Infatti, non tutti i boschi e beni che si dicevano
sacri erano tali in termini di legge: l’imperatore Giustiniano dichiarava le cose
sacre, religiose e sante non essere proprietà e di uso di nessuno, se non in maniera
comune ai membri d’un municipio, d’una corporazione e di un collegio legalmente autorizzato.
Il nome del bosco di Sant’Antonio risale invece a una congregazione religiosa degli
«Antoniani» dedita ad attività ospitaliera e devota appunto a sant’Antonio Abate,
protettore degli animali, a cui è dedicata una chiesetta sul margine orientale del
bosco.
Il bosco rappresenta anche un esempio, forse uno dei più significativi, dei boschi
chiamati «difese». Riservati esclusivamente al pascolo di soli equini e bovini, ovini
esclusi, i boschi di questo tipo avevano la funzione di meriggio e si presentavano
spesso nella forma di pascoli arborati, ossia di boschi caratterizzati da una non
elevata densità arborea. Questa struttura nel tempo permetteva di avere alberi di
grandi dimensioni che, crescendo liberi senza competizione di altre piante troppo
vicine, potevano svilupparsi in larghezza con chiome ampie e ramificate. Nelle «difese»
era bandito il diritto di tagliare al piede l’albero, mentre era possibile tagliare
a capitozza, per legna da ardere e per frasca. Tuttora il termine «difesa» ricorre
frequentemente come toponimo di varie località dell’Italia meridionale e, come indica
il significato stesso della parola, questi boschi venivano particolarmente tutelati
dalle popolazioni locali.
Nelle «difese» abruzzesi, come quelle di Pescasseroli, di Opi e di Pescocostanzo,
gli unici animali a cui era concesso il diritto di pascolo erano i bovini e gli equini,
mentre vigeva l’assoluto divieto d’accesso alle capre e alle pecore, così come erano
proibiti i tagli di qualsiasi tipo tranne le capitozzature. Sono infatti caratteristiche
della «difesa» le forme delle piante «a capitozza», risultanti da una potatura del
fusto a circa due metri di altezza dal suolo, per dare luogo allo sviluppo di polloni,
in pratica un ceduo «aereo» adatto alla produzione di foglia per l’alimentazione del
bestiame, protetto dal morso degli animali pascolanti trovandosi ad una certa altezza
dal terreno. Si tratta di una forma di gestione storica presente anche in altre regioni
d’Italia e all’estero. In Toscana nell’Ottocento rappresentavano la terza tipologia
di bosco ceduo per diffusione territoriale. Alcune descrizioni rinvenibili sul web
e in alcune pubblicazioni descrivono gli alberi capitozzati di Sant’Antonio come alberi
con forme «bizzarre», ma in realtà si tratta appunto di pratiche tradizionali storiche,
oggi spesso vietate. Alcuni esemplari monumentali di piante capitozzate sono sopravvissuti
e caratterizzano il bosco; purtroppo molte di esse sono morte per incuria.
Forme della chioma degli alberi risultanti dalla pratica della capitozzatura
I centri abitati di Pescocostanzo, Rivisondoli, Roccaraso e le «masserie» presenti
sul margine della piana testimoniano l’importanza dei pascoli e delle attività agricole
nell’area. Nei millenni furono ampliate le aree di prateria di altitudine per esercitarvi
il pascolo legato alla transumanza, con una intensificazione nel corso del XIX secolo,
mentre le aree pianeggianti erano destinate a prato-pascolo per bovini ed equini e,
non continuativamente, a coltura di cereali. Questo uso del territorio ha consolidato
un paesaggio di alto valore scenico fatto di alternanze tra bosco e aree aperte che
consente di spaziare sui più importanti rilievi dell’Appennino. Il paesaggio del piano
carsico circondato da pendici coperte da bosco è un frammento ancora ben conservato
del complesso degli altopiani dell’Abruzzo interno. L’articolazione in diversi altopiani
limitati da rilievi contribuisce alla percezione dell’integrità paesistica, che deriva
innanzitutto dalla conservazione delle funzioni produttive tradizionali.
Le caratteristiche del bosco si sono in parte mantenute nel tempo, anche se con variazioni
dei rapporti fra le componenti arboree e pascolive e delle caratteristiche dei singoli
elementi arborei. È stata principalmente la presenza delle capitozze che ha motivato
la protezione del bosco attuata nel secondo dopoguerra. Il bosco – efficacemente definito
da Elena Croce «santuario della natura e della civiltà pastorale» – fu infatti l’oggetto
di una delle prime battaglie per la conservazione del paesaggio della repubblica italiana.
Per proteggerlo da utilizzazioni boschive che ne avrebbero snaturato l’assetto alle
quali si oppose la popolazione locale, e su sollecitazione di diversi intellettuali
(Gaetano Salvemini scrisse un veemente articolo sul settimanale «Il Mondo»), in data
27 gennaio 1953 sul bosco di Sant’Antonio fu posto il vincolo paesaggistico a norma
della legge n. 1497/1939. Nel 1985 la Regione Abruzzo ne ha fatto una riserva regionale
di 550 ettari (l.r. n. 66); dal 1991 fa parte del Parco nazionale della Maiella. L’area
è classificata come sito di importanza comunitaria con il n. IT711039 Pizzalto-Bosco
di S. Antonio.
Oggi le caratteristiche del bosco sono minacciate dal piano e dal regolamento del
parco. La carta della zonizzazione del parco indica che le aree di bosco sono comprese
in Zona A (riserva integrale). Proprio questo tipo di tutela, certamente adatto a
formazioni forestali di origine naturale, appare non idoneo alla conservazione di
questa tipologia di bosco dai connotati antropici. Da un’analisi accurata del bosco
di Sant’Antonio risulta infatti che nel tempo sta venendo meno la particolare conformazione
degli alberi legata alla capitozzatura per via dell’interruzione di tale pratica storicamente
attuata dai pastori. Il parco ha vietato l’esercizio del pascolo per proteggere un
ambiente naturale che in termini scientifici non è tale, dato che si tratta di un
bosco modellato interamente dall’uomo, ragion per cui il bosco è destinato a perdere
le sue caratteristiche risultato di secoli di pratiche silvo-pastorali. Sarebbe necessario
che il bosco fosse oggetto di una pianificazione di grande dettaglio che tenga conto
della imprescindibile necessità di conservare i caratteri identitari di quest’area.
Putroppo il problema riguarda molte aree forestali italiane che stanno perdendo le
loro principali valenze storico-paesaggistiche.
Bibliografia
M. Agnoletti, Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano, Laterza, Bari-Roma 2018.
L. Bortolotti, Problemi di conservazione dei pascoli arborati («difese») d’Abruzzo, in «Annali dell’Accademia italiana di scienze forestali», XXXIII, 1984, pp. 107-114.
L. Hermanin, Bosco di Sant’Antonio, in Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale, a cura di M. Agnoletti, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 391-393.
D. Luciani, P. Boschiero, F. Sabatini (a cura di), Il bosco di Sant’Antonio, Fondazione Benetton Studi e Ricerche, Treviso 2012.
03. I pascoli arborati di Salten
L’area riguarda una zona sommitale dell’altopiano del Monzoccolo, estesa per circa
1000 ettari, dove sono presenti pascoli e prati arborati caratterizzati dalla presenza
del larice. Posta nel comune di San Genesio, si accede all’area dall’uscita di Bolzano
Sud dell’autostrada del Brennero, prendendo la strada per San Genesio. L’altopiano
di Monzoccolo, che ha un’estensione di circa 3600 ettari con quota massima di 1500
m s.l.m., è costituito da rocce appartenenti all’unità porfirico-quarzifera di Bolzano.
Essenzialmente si tratta dei rilievi montuosi compresi tra la Valle dell’Adige e la
Val Sarentino con le circostanti zone di pendio.
Larice
La significatività dell’area è legata non solo al fatto di trovarci in quello che
viene considerato uno dei più grandi pascoli arborati di larici d’Europa, un paesaggio
in netto regresso in tutte le Alpi, ma anche alla sua persistenza storica, abbinata
alla grande panoramicità del sito da cui si ammirano le Dolomiti. Il toponimo Salten
deriva infatti dal latino saltus, con cui si indicava un paesaggio misto di pascoli, alberi sparsi e bosco che il
toponimo conferma esistente da almeno duemila anni, con esemplari di larice centenari.
Il Testo unico in materia di foreste e filiere forestali del 2018 (d.l. n. 34/2018)
per la prima volta ha definito queste forme di bosco legate al pascolo come segue:
– prato o pascolo arborato: le superfici in attualità di coltura con copertura arborea
forestale inferiore al 20%, impiegate principalmente per il pascolo del bestiame;
– bosco da pascolo: le superfici a bosco destinate tradizionalmente anche a pascolo
con superficie erbacea non predominante.
Questo tipo di formazioni in Italia sono state da sempre oggetto di poche attenzioni.
Dal punto di vista forestale si è sempre temuto il pascolo come un nemico del bosco,
mentre dal punto di vista naturalistico la relativa scarsità di alberi di un pascolo
arborato o dei boschi da pascolo li fa spesso considerare come ecosistemi di importanza
minore, spesso da indirizzare a una riforestazione al fine di aumentarne la densità
arborea. In realtà, si tratta di paesaggi forestali che hanno una lunghissima storia
e spesso sono molto più interessanti dei boschi densi sia dal punto di vista paesaggistico
che naturalistico, visto che anche i prati hanno una grande biodiversità e offrono
rifugio a vari tipi di fauna. Il saltus è un tipo di bosco essenzialmente legato al pascolo brado del bestiame, che combina
elementi di naturalità e di antropizzazione che sono poi gli ingredienti tipici del
paesaggio italiano. Al saltus corrispondeva, secondo la definizione di Elio Gallo, un paesaggio multiforme «ubi
silvae et pastiones sunt», cioè di selve e pascoli, solo interrotto da qualche piccolo
appezzamento a coltura ad uso dei pastori. Varrone lo descrive come un terreno che
non si coltiva perché boscato e adatto al pascolo. Il termine saltus fu spesso usato per indicare un intero bosco destinato al pascolo, come fece Virgilio.
Livio chiama saltus Citheronis il monte di Citerone, saltusManlianus la selva Manliana, saltusGermanici la selva Ercinia e altri boschi della Germania. Fin dall’epoca preromana, i terreni
che giuridicamente appartenevano ai villaggi erano organizzati in modo da tenere separate
le aree agricole e il pascolo del bestiame domestico – le prime denominate vidazzone,
il secondo paberile – da quelle chiamate saltus, che erano situate lontano dal centro abitato e raggruppavano le terre incolte e
i boschi riservati al pascolo del bestiame e alla raccolta della legna. Il paesaggio
del saltus occupava grandi estensioni di terre, era legato all’importanza dell’economia pastorale
e all’accumulazione di enormi ricchezze che contribuirono a creare estesi patrimoni
terrieri.
Nella zona alpina il larice, in piccoli gruppi o piante isolate, crea paesaggi di
grande interesse, anche perché si tratta dell’unica conifera che perde gli aghi durante
il periodo invernale, cambiando lentamente i suoi colori durante l’autunno e creando
un’alternanza cromatica di grande fascino estetico nell’ambiente alpino – ciò grazie
anche alla sua permeabilità alla luce che consente la forte luminosità del bosco di
larice. Soprattutto laddove il governo dei prati alberati con larice si fa più estensivo,
essi rappresentano autentiche oasi di biodiversità vegetale e animale e paesaggi colturali
a elevata valenza ecologico-paesaggistica, rappresentando autentici biotopi del paesaggio
rurale.
Le superfici di media e alta quota dell’altopiano si presentano, sotto l’aspetto paesaggistico,
come vaste zone di pascoli arborati inframezzati da boschi, nelle quali si inseriscono
le zone insediative intorno a San Genesio, Valas, Montoppio e Cologna di Sopra, nonché
masi singoli con le loro superfici ad uso agricolo. L’alternarsi di prati e pascoli
alberati, caratterizzati dai bei larici radi, di aree boschive e di prati da sfalcio
intensivamente utilizzati per l’agricoltura crea un affascinante susseguirsi di paesaggi
che non manca di sorprendere in tutte le stagioni. Il profilo dolce e pianeggiante
del terreno e la vicinanza ai centri abitati favorisce la frequentazione dell’altopiano
da parte di persone di ogni età e rende la zona un importante spazio ricreativo per
gli insediamenti urbani della Val d’Adige e per il turismo locale. Altra caratteristica
interessante della zona è la grande diffusione dei cavalli Aveglinesi – noti localmente
come «cavalli di Hafling» o «Haflinger», nome derivato dall’omonimo paese di Hafling,
situato vicino a Merano –, frutto di incroci fra piccoli cavalli di montagna e razze
più pesanti realizzati nell’Ottocento.
L’integrità del paesaggio locale si presenta ancora molto elevata. Le regolari attività
di sfalcio dei prati, anche se ormai completamente meccanizzate, e la presenza di
bestiame pascolante assicurano la conservazione della struttura del pascolo e del
prato arborato. All’interno di questa zona devono essere messe in evidenza alcune
tipologie costruttive di particolare interesse come fienili con tetto di paglia e
alcuni mulini, suggestivi esempi di architettura rurale locale. In tale contesto la
presenza di strutture turistiche con caratteristiche architettoniche non in sintonia
con l’architettura rurale rappresenta l’unico elemento che incide negativamente sull’integrità
del paesaggio. La Provincia autonoma di Bolzano, con l’individuazione di una zona
di tutela paesaggistica, cerca di garantire la conservazione di queste superfici anche
per le future generazioni. Il piano paesaggistico di Monzoccolo è stato deliberato
già nel 1981, con l’obiettivo di tutelare i lariceti residuali sull’altopiano e il
bosco più in generale. Per mezzo del programma di sviluppo rurale vengono erogati
premi incentivanti per il mantenimento di queste forme tradizionali d’utilizzo del
suolo.
Circa la vulnerabilità, va segnalato che i prati-pascoli alberati sono minacciati
da due tendenze opposte, ma ugualmente pericolose. Da una parte, i profitti non sempre
soddisfacenti degli agricoltori spingono alcuni di essi ad abbandonare l’attività
contadina, esponendo i prati all’invasione da parte della vegetazione naturale boschiva.
Dall’altra, la volontà di meccanizzare l’agricoltura alimenta il diffondersi di una
mentalità che vede nell’albero un ostacolo fastidioso da eliminare e nel prato estensivo
un’area scarsamente concimata la cui produttività si vorrebbe aumentare. Altre influenze
negative sulla zona possono essere individuate nella circolazione di veicoli, nel
disturbo della vita del bosco da parte delle grandi masse di escursionisti che li
attraversano e nella realizzazione di «miglioramenti» fondiari che hanno spesso come
conseguenza il prosciugamento di piccoli ma preziosi depositi d’acqua. Un ultimo punto,
ma non secondario, è il fatto che quasi tutte le guide turistiche confondono il termine
saltus con «bosco», così come la zona viene spesso presentata come esempio di paesaggio
naturale. Non riconoscere l’origine culturale del sito influenza la percezione del
pubblico e gli strumenti di tutela.
Bibliografia
M. Agnoletti, Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano, Laterza, Bari-Roma 2018.
P. Kasal, Prati e pascoli arborati di Salten, in Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale, a cura di M. Agnoletti, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 230-232.
Tipologie forestali dell’Alto Adige, Provincia autonoma di Bolzano-Alto Adige, vol. 1, Bolzano 2010.
La Val Fiscalina è lunga solo 4,5 chilometri ma è caratterizzata da boschi di abete
rosso e lariceti pascolati, cioè quel tipo di pascoli arborati tipici delle regioni
alpine particolarmente interessanti dal punto di vista paesaggistico. Il larice è
l’unica conifera italiana che perde gli aghi d’inverno. Con l’arrivo dell’autunno,
questa specie passa dal colore verde al giallo oro creando, con il verde dei prati,
paesaggi di grande fascino, per poi mutare ancora con l’inverno. La Val Fiscalina
parte da Moso, attraversa il Parco naturale delle Tre Cime di Lavaredo e arriva fino
al rifugio di Fondovalle. Il parco si estende sui territori dei comuni di Dobbiaco,
Sesto e San Candido per 11.891 ettari, è collocato nel settore nord-orientale delle
Dolomiti ed è delimitato dalla Val Pusteria a nord, dalla Val di Sesto a est, dal
confine con la provincia di Belluno a sud e dalla Val di Landro a ovest, ed è quindi
parte della Rete ecologica europea Natura 2000. Nel 2009 le Dolomiti sono state inserite
nel patrimonio naturale dell’UNESCO e anche la Val Fiscalina ne fa parte.
Dal punto di vista geologico le Dolomiti di Sesto sono parte delle Alpi meridionali.
Esse costituiscono la parte nord-est delle Dolomiti, che qui confinano con le Alpi
Carniche. A nord un’importante linea di frattura nota come Lineamento Periadriatico
o Linea della Pusteria le separa dalle Alpi orientali. Le Dolomiti di Sesto sono composte
prevalentemente da rocce dolomitiche che si sono formate nelle calde acque delle basse
lagune dell’antico mare della Tetide. Localmente sono inoltre molto diffuse rocce
vulcaniche, arenarie e rocce argillose. La valle di Sesto Pusteria è in effetti il
luogo migliore per comprendere la geologia delle Dolomiti. Sul basamento cristallino,
composto da scisti quarziferi, poggiano i conglomerati di Ponte Gardena e di Sesto,
dai quali per molto tempo sono state ricavate macine per i mulini. Seguono le formazioni
a Bellerophon, contenenti zolfo, e fino a un’altitudine di 2000 metri i colorati strati
di Werfen argillosi e calcarei. I fertili terreni sopra gli strati di Werfen sono
utilizzati dagli agricoltori come prati alpini e pascoli d’alta montagna (Prati di
Croda Rossa, Prati di Monte Casella). Al di sopra di questi strati si ergono le imponenti
e frastagliate pareti della Dolomia dello Sciliar. Esse conferiscono alla Rocca dei
Baranci, ai gruppi dei Tre Scarperi e della Croda dei Baranci, alla Croda Rossa di
Sesto, alla Cima Undici e al Monte Popera il loro aspetto bizzarro. Nella parte meridionale
delle Dolomiti di Sesto, la Dolomia dello Sciliar forma solamente lo zoccolo per i
veri «monumenti» di questo gruppo montuoso: la Cima Dodici (3094 metri), il Monte
Paterno (2744 metri) e le Tre Cime di Lavaredo (2999 metri). Il paesaggio odierno
delle Dolomiti di Sesto, caratterizzato dalle forme particolari delle loro vette,
dagli altopiani e dalle profonde valli, fu modellato principalmente dalle acque meteoriche
e dai ghiacciai. Questi ultimi, durante le ere glaciali, coprivano buona parte del
territorio attuale del parco naturale; da circa 10.000 anni il territorio delle Dolomiti
di Sesto è privo di ghiacci.
Il toponimo Sesto è attestato come «Sexta» nel 965 in un diploma imperiale, come «Sextum»
nel 1208 e poi come «Sechsten, Sexten» nel 1298 e nel 1365; deriva dal latino ad horam sextam, «alla sesta ora», anche se non è sicuro cosa volesse indicare. È più probabile,
anche perché il nome è essenzialmente medievale, che si tratti di un’indicazione geografica,
coniata dal convento di San Candido (la «sesta ora» benedettina infatti indica il
mezzogiorno, sinonimo di sud), che non di una sesta pietra miliare della strada romana
diretta da Littamum al Passo di Monte Croce di Comelico. Durante la prima guerra mondiale il paese di
Sesto si è trovato nel mezzo del conflitto subendo molti danni. L’esercito italiano
e quello austro-ungarico si fronteggiarono per il dominio delle vette principali della
zona, come la Croda Rossa di Sesto, il Monte Covolo, le Tre Cime di Lavaredo e il
Monte Paterno, con cruente battaglie spesso combattute da pochi uomini, ma anche con
ingenti interventi del genio militare italiano e di quello austro-ungarico, che realizzarono
una fitta rete di gallerie scavate nella roccia, postazioni di artiglieria, trincee
e reti di sentieri in quota di cui ancora oggi si mantengono le tracce.
La descrizione dell’unità territoriale definita Val Fiscalina, nel piano di gestione
del Parco delle Tre Cime, vede come specie animali tipiche di questi boschi montani
la civetta nana e la civetta capogrosso, il picchio nero e il picchio tridattilo.
Il capriolo vive in zone aperte e nel bosco montano ricco di sottobosco, mentre in
estate si spinge fino alla regione degli arbusti. Gli arbusti bacciferi molto fitti
del bosco montano costituiscono la principale risorsa alimentare per il gallo cedrone
e il forcello. La matrice del paesaggio forestale è dominata dal pino mugo che forma
estesi arbusteti a copertura continua lungo il fondovalle e la sinistra idrografica,
nonché soprassuoli pionieri su balze rupestri e salti di roccia. Le mughete (pino
mugo) sono la formazione forestale più rappresentativa con il 57,87%, seguite dalle
foreste di Picea (abete rosso) che occupano il 22,87%, della superficie; seguono i
boschi di larice e pino cembro che occupano il 6,4% della superficie, per un totale
di circa 185 ettari.
Nonostante la ridotta estensione, in Val Fiscalina il paesaggio è particolarmente
caratterizzato dai luminosi prati alberati a larici, che assumono un fascino particolare
non solo in autunno ma anche durante il periodo della fioritura. All’inizio dell’estate
i prati sono ricoperti di crochi, primule e più tardi dalle genziane. In estate spiccano
i colorati fiori di campo e il giglio martagone, aquilegie e fiori di arnica. Il ciclo
vegetativo si conclude a fine estate con la fioritura del croco autunnale. Nei vecchi
fienili di legno che si trovano tra i lariceti, i contadini conservano il fieno. I
boschi di abete rosso sono tutti oggetto di piani di gestione; in Alto Adige infatti
vi è storicamente un’importante produzione di legname da costruzione. Il larice è
una specie di conifera secolare che può vivere fino a 800 anni, che può anche raggiungere
i 40 metri d’altezza e viene tagliata quando raggiunge 80-100 anni di vita. Il legno
di larice è menzionato fin dal periodo romano: veniva infatti portato fino a Roma
dalle Alpi per fluitazione fino a Ravenna e poi in nave fino a Roma. Legname da sempre
apprezzato per la sua resistenza agli agenti atmosferici, oltre che per la robustezza,
veniva utilizzato anche per la realizzazione delle coperture dei tetti delle malghe,
mentre i pali di larice sono stati usati anche per la edificazione di Venezia, come
pure per palizzate e paleria per i vigneti. La resina del larice è conosciuta da secoli
per le sue particolari proprietà anti-infiammatorie. Dal punto di vista ambientale,
i larici sparsi creano un microclima che favorisce la crescita di molti vegetali,
perché frenano l’azione del vento e contribuiscono a equilibrare le condizioni abiotiche
durante i periodi più caldi e aridi.
Le misure di conservazione previste dal piano di gestione del parco prevedono di garantire
la prosecuzione del pascolo per evitare che le radure tendano a chiudersi a causa
dell’espandersi del bosco; per gli stessi motivi deve essere inoltre controllato lo
sviluppo vegetativo di arbusti. Il lavoro nei prati alberati a larice è impegnativo
e poco redditizio dal punto di vista economico, per questo motivo la Provincia autonoma
di Trento ha da molti anni deciso di indirizzare i contributi agricoli al mantenimento
di prati e pascoli per conservare il paesaggio tipico di quest’area montana. Questo
segna una marcata differenza con il resto dell’Italia dove, soprattutto in questi
ultimi decenni, la rinaturalizzazione e l’aumento del bosco sembrano essere diventati
gli obiettivi più spesso preferiti per la conservazione e il miglioramento del paesaggio.
Ciò testimonia come siano le popolazioni montane quelle più in grado di riconoscere
i caratteri specifici del paesaggio e la necessità della sua conservazione.
Bibliografia
B. Di Martino, F. Cappellano, La grande guerra sul fronte dolomitico. La 4a Armata italiana (1915-1917), Rossato, Valdagno 2007.
A. Franceschi, U. Francato, Sesto, c’era una volta, Kraler, Bressanone 2015.
Piano di gestione Parco naturale Tre Cime, Provincia Autonoma di Trento, https://www.provincia.bz.it/natura-ambiente/natura-territorio/downloads/Bericht_MP_NP-DZ_it.pdf.
M. Schweiggl, I parchi naturali in Alto Adige, Athesia, Bolzano 1993.
A. von Lutterotti, Il Sudtirolo. Storia, cultura, paesaggio, Athesia, Bolzano 2000.
05. I boschi delle Dolomiti lucane
I boschi delle Dolomiti lucane, che si estendono nei comuni di Accettura, Calciano
e Oliveto Lucano in provincia di Matera e occupano una superficie complessiva di 4159
ettari, sono oggi compresi nel Parco naturale regionale di Gallipoli Cognato-Piccole
Dolomiti lucane.
Dal punto di vista morfologico le cime più importanti fanno parte dell’Appennino lucano
e, per il versante materano, sono il Monte dell’Impiso (1319 metri) e il Monte Croccia
(1149 metri). I corsi d’acqua che scorrono negli impluvi di questo versante fanno
parte del bacino imbrifero del fiume Cavone che nasce nei pressi di Accettura, il
principale dei quali è il torrente Salandrella. Tra le Dolomiti lucane e i versanti
ricoperti dal bosco di Gallipoli Cognato, in una profonda gola, scorre il Rio di Caperrino,
affluente di destra del Basento. Alla provincia di Potenza, invece, appartengono le
Dolomiti lucane, montagne costituite da rocce di arenaria quarzifera della serie del
Flysch di Gorgoglione, modellate profondamente dagli agenti atmosferici e dagli eventi
che contraddistinguono la storia geologica di questa parte della Basilicata. Sono
così denominate perché le loro cime sono caratterizzate da alte guglie che ricordano
le più note Dolomiti alpine, con forme così particolari da aver suggerito nomi molto
fantasiosi. Gli stessi centri abitati di Castelmezzano e Pietrapertosa sono straordinariamente
pittoreschi, aggrappati come sono alle pareti rocciose delle montagne che li circondano
e che con le loro forme danno luogo a scenari suggestivi e a paesaggi mozzafiato.
I boschi derivano dalla fusione di due distinte tenute boschive: il bosco di Gallipoli
di 1117 ettari, e il bosco Cognato di 3357 ettari. La zona si caratterizza per una
notevole variabilità altimetrica: si passa da quote prossime ai 200 metri, sui terreni
confinanti con l’alveo del Basento, ai 1319 metri del Monte Impiso. Nel territorio
è possibile distinguere diversi ambienti forestali e vegetali, alcuni dei quali occupano
vaste e continue estensioni, mentre altri hanno una diffusione puntiforme e localizzata.
Il bosco è composto in prevalenza da fustaie di latifoglie (3700 ettari), da ceduo
semplice di roverella e di cerro (90 ettari), da fustaie miste di resinose e di latifoglie
(44 ettari); il resto del territorio è costituito da seminativi, pascoli e prati nudi,
cespugliati. Fino a una quota di 600 metri, nel sottobosco numerose sono le specie
tipiche della macchia mediterranea – tra le più diffuse, Phillyrea angustifolia, Rhamnus alaternus, Pistacia terebinthus. Tra i 600 e i 900 metri, in primavera il sottobosco si arricchisce delle fioriture
di Cytisus villosus e tra i cerri cominciano a comparire, con portamento arbustivo, il melo e l’acero.
Fanno parte del sottobosco l’agrifoglio, la felce, l’edera e la moneta del papa. Nelle
contrade più assolate la macchia cede il posto alla gariga.
Frainetto
I boschi di querce mesofile e meso-termofile (in prevalenza cerro, roverella e farnetto)
costituiscono le formazioni di maggiore estensione del paesaggio forestale lucano,
e occupano la fascia collinare e montana. I querceti misti sono presenti in vaste
estensioni alle varie altitudini, all’interno del territorio; le superfici più estese
sono localizzate in particolare nel bosco di Gallipoli Cognato, nel bosco di Montepiano
(entrambi siti di importanza comunitaria e zone di protezione speciale) e sul Monte
Croccia. Cerro e farnetto (Quercus frainetto) sono le specie maggiormente diffuse, soprattutto sulle argille scagliose, sempre
ben provviste d’acqua, mentre la roverella (Quercus pubescens) occupa le stazioni più aride con suoli ben drenati e substrato roccioso calcareo.
Nel bosco di Montepiano, nei pressi di Accettura, si osservano querce colonnari e
due differenti strati arborei: il primo, dominante, costituito da cerri e roveri,
sovrasta il secondo di aceri, carpini e tigli. Sempre alle quote più alte s’incontrano
il carpino bianco, la carpinella e il raro agrifoglio. A queste altitudini la vegetazione
diventa fitta e a volte impenetrabile, con alberi di notevoli dimensioni spesso ricoperti
di edera.
La presenza umana nel territorio di Gallipoli Cognato ha origini remotissime, come
testimoniano i reperti rinvenuti nell’area di Monte Croccia (in particolare nella
Grotta di Pietra della Mola) e risalenti all’età neolitica (12000-8000 a.C.). È verosimile
che anche in epoche successive ci siano state forme di insediamenti umani, come dimostrano
i ritrovamenti, a Tempa Cortaglia (nei pressi di Accettura), di urne cinerarie risalenti
all’età del bronzo. Tra il 1300 e il 1200 a.C. si verificarono le prime consistenti
immigrazioni di popolazioni provenienti dall’Anatolia, organizzate in tribù, i Lyki
– a loro fa riferimento una delle ipotesi etimologiche del nome Lucania – che si stabilirono
nell’alta e media valle del Basento. I primi insediamenti stabili sono databili intorno
al VI-IV secolo a.C., quando gruppi sociali di origine osco-sannita fondarono la città
lucana di Croccia Cognato.
Ubicato sulla cima del Monte Croccia – uno dei rilievi della dorsale che fa da spartiacque
tra i fiumi Basento, Sauro e Salandrella –, il centro fortificato di Croccia Cognato
costituisce attualmente uno dei siti archeologici meglio documentati del Parco regionale
di Gallipoli Cognato. L’interesse documentario per il sito – distribuito su uno spazio
di poco più di 60 ettari, 19 dei quali riservati all’acropoli – è noto sin dalla seconda
metà dell’Ottocento grazie alle prime indagini condotte da Michele Lacava, proseguite
negli anni successivi da Vittorio Di Cicco e Attilio Tramonti e in seguito sostenute
da interventi promossi dagli organi di soprintendenza locale, spesso in collaborazione
con enti universitari. Le caratteristiche strutturali descrivono un centro racchiuso
tra due cinte murarie con un perimetro comune sul versante meridionale e difese da
piccoli fortini distribuiti lungo le pendici; le strutture sono in parte costruite
e in parte sostituite dalla naturale morfologia del luogo. La cinta muraria esterna,
il cui perimetro (1340 metri) ha forma irregolare, è realizzata per alcuni tratti
in opera poligonale, per altri in opera quadrata. Il circuito interno (circa 700 metri,
di cui 200 costituiti da roccia naturale) di forma quadrangolare racchiude l’acropoli
(679 metri) ed è realizzato in opera quadrata con blocchi isodomi recanti spesso segni
di cava e lettere greche verosimilmente attribuibili ai mastri scalpellini. A sud-ovest
della cinta muraria interna si apre l’ingresso monumentale del tipo a corridoio mentre
quattro ingressi non carrabili (le postierle) sono localizzati in posizione opposta
lungo i versanti meridionale, settentrionale e orientale.
A partire dal III secolo a.C. la supremazia di Roma determinò il declino sia della
civiltà greca che di quella lucana. Della città lucana di Croccia Cognato e degli
altri centri fortificati si persero gradualmente le tracce, finché l’intera area fu
destinata esclusivamente al pascolo estivo delle mandrie delle fattorie romane. Secolo
decisivo per il territorio di Gallipoli Cognato e delle Dolomiti lucane fu certamente
l’Ottocento; in questo periodo, infatti, l’intera area subì un processo di antropizzazione
che influenzò tutto il paesaggio dell’area modificando la superficie e i caratteri
dei boschi. Appare opportuno ricordare come la diffusione del cerro sia stata essenzialmente
legata all’utilizzo del suo legname, particolarmente tenace e resistente, nella costruzione
delle «storiche» traversine ferroviarie, un’attività che ha interessato migliaia di
ettari di boschi in particolare nel Meridione d’Italia.
Il quadro socio-economico degli ultimi decenni evidenzia il progressivo abbandono
delle campagne quale sede di residenza della popolazione, processo al quale è seguito
il progressivo abbandono delle tradizioni agricole, forestali, colturali e zootecniche
che nei secoli scorsi hanno connotato l’identità del territorio. Tracce di tali tradizioni
produttive si ritrovano nella forma del paesaggio rurale specie in territorio di Castelmezzano,
Pietrapertosa e Accettura, ove insiste il numero più consistente di aziende zootecniche
e di masserie. Il sistema agricolo-zootecnico si struttura su aziende di dimensione
medio-piccola, con prevalenza di seminativi e di allevamenti di suini e bovini. Particolare
rilevanza assume la presenza degli allevamenti podolici; la razza podolica, diffusa
sul territorio del parco e in particolare nei territori dei comuni di Accettura, Castelmezzano
e Pietrapertosa, è attualmente oggetto di tutela e valorizzazione. Interessante anche
lo sviluppo delle attività turistiche degli ultimi anni, che si concretizza nelle
migliaia di visitatori che affollano ogni anno i comuni di Accettura, Castelmezzano,
Pietrapertosa e Oliveto Lucano nei giorni delle rispettive ricorrenze.
Ad oggi, su sollecitazione e in collaborazione con l’Ente parco, il Comune di Accettura
ha realizzato il Museo dei Culti Arborei, dedicato alla conoscenza di riti arborei
e del rapporto quasi divino tra albero e uomo. Il Piano del parco tende a salvaguardare
i valori ambientali e a ricostituire non solo gli scenari identitari, rappresentati
dagli insediamenti rurali, ma anche dagli usi e dalle attività connessi all’uso silvo-pastorale,
secondo concezioni attuali e compatibili con le esigenze socio-economiche. Assieme
al carico massimo degli animali al pascolo, andrebbe anche determinato il limite al
proliferare della fauna selvatica degli ungulati così come l’impatto paesaggistico
degli impianti eolici presenti nelle vicinanze. Sembra però che gli indirizzi gestionali
delle compagini forestali siano orientate verso la selvicoltura naturalistica, dunque
non è chiaro se il mantenimento degli «scenari identitari» debba riguardare anche
i caratteri storici dei boschi dell’area.
Bibliografia
Carta forestale della Basilicata – Schede monografiche. Forme di governo e ulteriori
attributi, Regione Basilicata, Dipartimento ambiente, territorio e politiche per la sostenibilità-INEA,
2006, http://basilicata.podis.it/atlanteforestale/.
G. De Rosa, A. Cestaro (sotto la direzione di), Storia della Basilicata, vol. 4, L’Età contemporanea, a cura di G. De Rosa, Laterza, Roma-Bari 2003.
A. De Stefano, Le aree protette e i parchi naturali, pubblicazione del Consiglio Regionale, in «Conoscere la Basilicata», pp. 1-6.
Il bosco Rubbio è situato nei monti compresi nel comune di Francavilla in Sinni, in
provincia di Potenza, e interessa un’area di circa 211 ettari. Oggi la Riserva naturale
orientata del bosco Rubbio è ricompresa nel Parco nazionale del Pollino, istituito
nel 1993, che raggruppa vari tipi di aree protette. Il bosco vede soprattutto la presenza
del faggio e dell’abete bianco, che originariamente rivestivano le pendici del Monte
Pollino. L’abete, in passato molto diffuso in Italia meridionale, occupa oggi un areale
più limitato, soprattutto per motivi climatici e antropici. Il bosco rappresenta uno
dei pochi siti dove l’abete vegeta allo stato spontaneo, in consociazione con il faggio
che, proprio sul Pollino, vanta la presenza degli esemplari più antichi d’Europa che
in alcuni casi sembra sfiorino il millennio di vita (oggi iscritti nell’elenco dei
patrimoni mondiali dell’umanità); all’interno di questi popolamenti misti è anche
possibile ammirare tutto il corteo di erbacee tipico delle faggete di altitudine costituito,
tra le altre, da acetosella, ciclamino, anemone, viola e asperula. Non mancano, comunque,
nuclei di conifere introdotte artificialmente in passato tramite rimboschimenti, come
la douglasia (Pseudotsuga menziesii) e il pino laricio (Pinus laricio). Inoltre nella porzione inferiore è presente un piccolo lembo di querceto mesofilo
con presenza di cerro (Quercus cerris), roverella (Quercus pubescens) e qualche sporadico farnetto (Quercus frainetto). A testimonianza delle pratiche tradizionali forestali si osservano ancora boschi
governati a ceduo, costituiti prevalentemente di cerro, con la presenza di farnetto,
roverella, frassino, ornello e acero campestre.
Il bosco e le aree circostanti sono stati largamente influenzati dall’opera dell’uomo
nel corso dei secoli, infatti la zona è stata frequentata fin dall’età del ferro.
In quel tempo le comunità indigene erano organizzate in grossi villaggi ubicati sugli
altopiani, ai margini delle grandi pianure e dei corsi d’acqua, in luoghi consoni
alla pastorizia e all’agricoltura. Agglomerati che testimoniano questa fase sono considerati
quelli di Anglona, situata sul displuvio delle fertili valli dell’Agri e del Sinni,
Siris e Incoronata-San Teodoro, sulla costa ionica. Sulla collina immediatamente sovrastante
la costa si registra la presenza dei primi coloni greci. La prima colonizzazione greca
avvenne con la costruzione di Siris, sul finire dell’VIII secolo a.C., ad opera di
profughi da Colofone, fuggiti in Occidente per scampare alla dominazione lidia. Francavilla
in Sinni è infatti situata sulla sponda dell’omonimo fiume, alle pendici del Monte
Caramola. Il nucleo più antico dell’abitato è adagiato sul crinale di un’ampia collina
racchiusa tra i due fiumi Sinni e Frida e sorge intorno alla chiesa madre, a circa
due chilometri da quello che fu il primo vero luogo di insediamento della popolazione:
la certosa di San Nicola. Costruita dai monaci a partire dal 1395 nel feudo di Sant’Elania,
la certosa era il fulcro delle attività religiose, sociali ed economiche del territorio.
Agli abitanti – coloni provenienti dalle campagne e dalle zone circostanti – furono
concessi i terreni e l’esenzione da obblighi fiscali, ragion per cui il borgo fu inizialmente
denominato «Villa Franca». Da una descrizione risalente al XVIII secolo, sembra che
il borgo fosse circondato da un territorio non molto fertile, con risorse di frumento
e di vino sufficienti per i soli residenti. Sulla base di numerose testimonianze dell’epoca
si può affermare comunque che tutta la Basilicata, così come Francavilla, fosse un
territorio selvaggio e difficile da percorrere, soprattutto a causa della sua configurazione
orografica e della mancanza di strade agevoli. Pochi i campi coltivati e le vigne,
molte invece le aree boschive e montuose. Basti pensare che quando Ruggero II inviò
un suo segretario a misurare i confini del suo regno, ne ebbe in tutta risposta che
non sarebbe stato possibile realizzare alcuna misurazione se prima non si fossero
create strade all’interno dei boschi che ricoprivano l’intera zona.
Cerro
Nel corso del tempo queste aree boschive e montuose hanno suscitato sensazioni di
paura, alimentate dai racconti sui criminali che in quelle montagne si nascondevano
per trovarvi rifugio (simili voci circolarono anche intorno alla poetessa Isabella
Morra, tenuta prigioniera nel castello della vicina Valsinni). Numerosi manoscritti
del 1300 raccontano di furti, rapine e delitti che accadevano tra queste zone montuose.