La “storia della sessualità” ci guadagnerebbe a essere ribattezzata “storia delle
tecnologie”, perché il sesso e il genere sono apparati di un complesso sistema tecnologico.
Questa “storia delle tecnologie” mostra come la “natura umana” sia un effetto della
costante negoziazione delle frontiere non soltanto tra umano e animale, corpo e macchina,
ma anche tra organo e protesi, organico e plastica, vita e morte.
Paul B. Preciado, Manifesto controsessuale
Introduzione
Nel documentario del 2022 What Is A Woman? l’opinionista statunitense Matt Walsh, un conservatore, si dedica all’impresa di
svelare il mistero dell’identità femminile. Per farlo, Walsh intraprende un viaggio
che lo porta a intervistare scienziati, psicologi, politici, accademici e attivisti,
ponendo a ciascuno di loro sempre la stessa domanda: “Che cos’è una donna?”. La maggior
parte delle persone intervistate da Walsh appartiene, a vario titolo, all’area progressista;
tra queste, un ricercatore di gender studies, una psicologa specializzata in transizione di genere, un politico democratico. Immancabilmente,
tutte le persone a cui viene posta questa domanda, all’apparenza semplice e inoffensiva,
restano spiazzate. Qualcuno abbozza risposte confuse, altri intavolano lunghissime
dissertazioni filosofiche, qualcun altro si rifiuta semplicemente di rispondere, cacciando
via l’intervistatore a male parole. “Perché stai facendo questa domanda?”, chiede,
sconvolto, uno degli interpellati. “Lo vorrei soltanto sapere”, risponde candidamente
Walsh. Le uniche persone che sembrano avere le idee molto chiare sulla risposta sono
il proprietario di un negozio di gadget della saga di Star Wars e il capo di una tribù Masai del Kenya.
L’agenda politica del documentario non è difficile da individuare: si tratta di una
provocazione nei confronti di un mondo che, a causa della diffusione della cultura
della fluidità sessuale introdotta dal femminismo contemporaneo, sembra aver perso
ogni contatto con la “realtà” e con la “verità” del corpo. “Questo è il futuro che
vogliono i liberal”, come recita un famoso meme di destra: un mondo in cui il sesso
è allo stesso tempo del tutto indefinibile e circondato da un tabù culturale che ci
impedisce di avanzare qualsiasi perplessità sul suo significato o sulla sua origine.
La domanda “che cos’è una donna?”, in questo contesto, è architettata appositamente
per mandare in crisi le persone a cui viene rivolta, costringendole a schierarsi da
una delle due parti di una barricata ideologica particolarmente insidiosa. Da una
parte ci si trova costretti ad ammettere che “essere una donna” è una conseguenza
della biologia: che sono cioè i cromosomi, o qualche altra caratteristica fisica come
la presenza o l’assenza di determinati organi sessuali alla nascita, a determinare
univocamente e irreversibilmente il sesso e il ruolo sociale di una persona. Dall’altra
parte della barricata, il genere è considerato come il prodotto di un insieme di condizionamenti
sociali e culturali essenzialmente svincolati dal corpo. È proprio quest’ultima posizione
che, spinta alle sue estreme conseguenze, appare particolarmente vulnerabile. Messi
con le spalle al muro, molti degli intervistati finiscono per affermare che una donna
è chiunque dichiari di esserlo. E se qualcuno, insiste Walsh imperturbabile, dichiarasse
di essere un cane? Un fungo? Un elicottero? L’identità di un corpo può essere il risultato
di un processo di auto-enunciazione, al punto che è sufficiente dichiarare di essere
una certa cosa per diventarlo?
Guardare il documentario diventa, ben presto, terribilmente frustrante. Mi sento,
per usare una parola del gergo internettiano, triggerata. Chiunque abbia avuto una discussione, su internet o nella vita reale, con un conservatore
a proposito dell’identità di genere è probabilmente familiare con le trappole argomentative
che lo attraversano; anche per questo motivo, molte delle persone coinvolte si accorgono
nel corso dell’intervista di essere state rese a propria insaputa protagoniste di
una pantomima reazionaria. D’altra parte, devo anche ammettere a me stessa che una
componente della mia rabbia e della mia frustrazione deriva dal fatto che nemmeno
io, per quanto mi sforzi, mi sento in grado di dare una risposta soddisfacente. Per
quanto rifiuti l’idea che la biologia possa determinare ogni aspetto del mio comportamento
sociale e della mia identità culturale, nemmeno io so spiegare il motivo per cui mi
identifico con una donna e non con un elicottero. In un certo senso, anche io “vorrei
soltanto sapere” che cos’è una donna, ma ho spesso avuto l’impressione che non fosse
il caso di chiederlo.
Forse il problema non è tanto nella nostra incapacità di rispondere, quanto nella
nostra – all’apparenza innocente – “volontà di sapere”. Questa aspirazione alla conoscenza
ci sembra l’espressione di un desiderio del tutto legittimo di avere accesso alla
verità sul nostro corpo e sui corpi degli altri. La domanda “che cos’è una donna?”,
però, non è una domanda inoffensiva: ci sono risposte che possono limitare la libertà
di alcune persone e legittimare l’esercizio di forme sistematiche di violenza. Il
filosofo Michel Foucault ha utilizzato proprio il concetto di “volontà di sapere”
per illustrare come, nella modernità, la sessualità sia diventata l’oggetto di una
conoscenza scientifica e istituzionalizzata; ma questo desiderio di conoscere la “verità”
del sesso rivela sempre un lato oscuro. “[L]a verità non è libera per natura”, scrive
Foucault, “la sua produzione è interamente attraversata dai rapporti di potere”1. Per quanto possa apparirci controintuitivo, il sapere, e soprattutto il sapere che
riguarda il genere e la sessualità, non si limita semplicemente a discernere tra ciò
che è vero e ciò che è falso; questo sapere è, al contrario, una questione di sopravvivenza.
Non si può fingere, cioè, che questo sapere sia un enunciato privo di un significato
politico. Pronunciare la verità sui corpi significa dichiarare il diritto all’esistenza
di alcuni e scegliere di condannarne altri alla marginalità e all’oppressione.
Questo libro non è un tentativo di rispondere alla domanda “che cos’è una donna?”.
È una riflessione sugli strumenti che, nel corso della storia contemporanea, sono
stati utilizzati per chiederla. Per questa ragione, nelle pagine che seguiranno userò
spesso la parola “epistemologia”, un termine che si riferisce non tanto al contenuto
della domanda “che cos’è”, ma alle condizioni, materiali e culturali, che rendono
la nostra conoscenza possibile. L’incarico di rispondere alla domanda “che cos’è”
oggi ricade sul sapere scientifico: se ci chiediamo “che cos’è una donna”, la nostra
mente corre spontaneamente a concetti che appartengono al dominio della scienza, siano
essi legati alla genetica, all’anatomia o alla biochimica. Ma il sapere della scienza
è sempre mediato dalla tecnologia. Per osservare i cromosomi sessuali ci serve un
microscopio; per studiare l’anatomia abbiamo bisogno di un bisturi; per riconoscere
gli ormoni sessuali dobbiamo estrarli, purificarli e analizzarli in un laboratorio
chimico. Qual è la funzione di questi strumenti, che agiscono come intermediari tra
i corpi e la nostra conoscenza su di essi? Sono trasmettitori passivi di una realtà
pre-esistente oppure possono trasformarla, distorcerla, magari addirittura costruirla?
Tutte le tecnologie che si sono sviluppate attorno al genere e alla sessualità hanno
un rapporto molto complesso, nient’affatto lineare, con i corpi su cui agiscono. Sono
dispositivi necessariamente ambigui, perché la loro capacità di pronunciare la verità
sul corpo si traduce nella possibilità di esercitare su di esso anche una forma di
sorveglianza e di dominio. Per questo motivo, ho scelto di approfondire il rapporto
tra genere e tecnologia a partire dalla storia di alcune tecnologie contemporanee
che hanno agito e continuano ad agire su e attraverso il corpo delle donne: dallo
speculum ginecologico alla contraccezione ormonale, dal test di gravidanza all’ecografia,
fino alle nuove tecnologie digitali per il controllo della fertilità. Queste “tecnologie
di genere” si sono spesso rivelate ambivalenti rispetto all’emancipazione femminile:
se da un lato hanno permesso alle donne di acquisire sempre maggiore conoscenza e
controllo sui propri corpi e sulla propria salute riproduttiva, d’altra parte hanno
anche contribuito a rafforzare vecchie e nuove forme di oppressione.
Al di là delle conseguenze, oppressive o emancipative, delle tecnologie di genere
sulle nostre vite, è importante tenere a mente che il rapporto di questi dispositivi
con i nostri corpi è spesso più articolato di quanto non possa sembrare. Uno degli
aspetti che tutte queste tecnologie condividono, pur nella loro diversità, è la loro
capacità di proiettare un nuovo sguardo all’interno del corpo, trasportando l’esperienza
privata delle persone nella sfera pubblica del sapere scientifico e del potere politico.
Si tratta, inoltre, di uno sguardo che agisce sempre in due direzioni complementari.
Se ci scattiamo una fotografia, la macchina fotografica trasforma l’esperienza privata
del nostro corpo in un’immagine che possiamo riprodurre e condividere; ma, allo stesso
tempo, anche l’esperienza che facciamo del nostro corpo è trasformata dal processo
di metterci in posa, al punto che, nell’incontro con la tecnologia, impariamo a pensare
a noi stessi attraverso lo sguardo dell’obiettivo fotografico. In modo analogo, ad esempio, lo sviluppo degli ormoni
sintetici ha contribuito a costruire il corpo della donna come un sistema biochimico
da controllare e da “regolarizzare”; la nascita dell’ecografia ha partecipato attivamente
alla costruzione del feto come una “persona”. Questa azione retro-attiva delle tecnologie
sulle identità rende la domanda “che cos’è una donna?” ancora più difficile da sciogliere,
perché erode la separazione rigida tra i corpi e le immagini, tra la natura e la cultura,
tra la materia e i discorsi che costruiamo su di essa.
Nel suo saggio Bodies That Matter, Judith Butler ha proposto di intendere la materia “non come sito o superficie, ma
in qualità di processo di materializzazione che si stabilizza nel tempo per produrre quell’effetto
di delimitazione, fissità e superficie che noi chiamiamo materia”2. Il motivo per cui sono una donna (e non un elicottero) non può essere ridotto alla
natura materiale del mio corpo; quello che io esperisco come un “corpo femminile”
non è, cioè, il risultato di un’essenza profonda e immutabile, ma il prodotto di un
insieme di processi tecnologici immersi nella società e nella storia. Questo non significa,
d’altra parte, che la mia identità non abbia nulla a che fare con il mio corpo. Le
tecnologie di genere agiscono su e attraverso la materia come un campo di forze, costruendo
il corpo tanto sul piano materiale quanto sul piano dell’immaginario. Nel corso di
questo libro, il concetto di materializzazione si rivelerà uno strumento particolarmente utile per pensare al rapporto tra i corpi
e la tecnologia, sia nel contesto delle questioni di genere, sia nel contesto più
ampio del sapere scientifico. I corpi e i dispositivi tecnologici che li osservano
si materializzano a vicenda, così che la domanda “che cos’è un corpo” non può essere
affrontata se non nello spazio del loro incontro. Per fare riferimento a questo spazio
di incontro tra il corpo e la tecnologia ho utilizzato la parola “interfaccia”.
Pensare ai corpi come il risultato di processi di materializzazione mediati dalle
tecnologie implica anche che la nostra identità umana è prodotta attraverso una vasta
rete di altri corpi e processi non-umani. Nelle storie delle tecnologie di genere,
molecole, piante, animali e materiali inorganici – che non hanno tra loro alcun legame
“naturale” o “biologico” – si mescolano gli uni con gli altri per permetterci di tracciare
i confini della nostra stessa “natura”. Quelli che abbiamo sempre considerato come
semplici oggetti, strumenti passivi del sapere scientifico, diventano così partecipanti
attivi della nostra soggettività. Nel tentativo di rispondere alla domanda “che cos’è
una donna”, siamo dunque costretti a riconoscere che “una donna” è anche un arbusto
della foresta messicana, una molecola organica, una rana dell’Africa meridionale,
una particella d’oro, un’onda sonora, un algoritmo e una balenottera azzurra. Per
quanto possa apparirci paradossale in un’epoca di certezze scientifiche, non è così
facile stabilire dove comincia e dove finisce il nostro corpo.
Quando, davanti a un corpo, ci chiediamo “che cos’è”, stiamo comprimendo nello spazio
sottilissimo della parola “è” la profonda stratificazione di processi tecnologici
che ci hanno permesso di conoscere e costruire la sua identità. Questo è vero per
tutti i corpi, ma è particolarmente importante quando i corpi di cui parliamo sono
soggetti politici, come nel caso della donna. Come dispositivi di costruzione e trasformazione
dei corpi e delle identità, le tecnologie diventano oppressive ogni volta che la loro
profondità viene dimenticata o nascosta, e il risultato della loro mediazione viene
trasformato in un’affermazione, apparentemente immediata, su quello che un corpo “è”.
Per questo motivo, raccontare le storie dei processi tecnologici che hanno materializzato
il genere nel mondo contemporaneo è particolarmente importante: ci permette di ricordare
che anche la “natura”, così come noi la conosciamo, non è sempre esistita, e per questo
motivo può ancora essere trasformata. I processi tecnologici sono occasioni di emancipazione
se vengono intesi come spazi aperti e condivisi in cui il corpo, liberato dalla sua
“natura”, può essere materializzato in nuove forme.
La parola “materializzazione” ha anche una connotazione spettrale. È un’espressione
che viene utilizzata per riferirsi ai fantasmi, oggetti che attraversano il velo che
separa il mondo materiale dal mondo immateriale. Nel periodo della belle époque, l’ectoplasma era la secrezione misteriosa che alcune medium producevano nel corso
delle sedute spiritiche: si trattava di un fluido organico ma evanescente, visibile
e invisibile allo stesso tempo, capace di resistere tenacemente a qualsiasi strumento
cercasse di rappresentarlo o di comprenderlo del tutto. L’ectoplasma si è materializzato
proprio nel momento storico in cui la scienza ha cominciato a chiedersi “che cos’è
una donna?”, elaborando nuovi dispositivi tecnologici e concettuali per investigare
e controllare il corpo femminile. È stato un materiale inconoscibile e ambiguo, capace
di disobbedire allo stesso sguardo scientifico che l’aveva prodotto. Che fosse un
corpo naturale oppure un artefatto, una realtà o una performance, non è davvero importante:
la sua libertà dipendeva dalla sua capacità di esistere sulla soglia, di occupare
l’interfaccia tra la materia e lo sguardo. L’ectoplasma – nella sua prossimità simbolica
e materiale al corpo delle donne – è dunque il miglior punto di partenza per cominciare
a raccontare la storia del rapporto ambiguo, e a tratti oscuro, tra genere e tecnologia.
1. Persone-ombra
Il sincrotrone di Grenoble è un anello di un chilometro di diametro in cui gli elettroni,
intrappolati nel vuoto di un tubo d’acciaio e accelerati da massicci elettromagneti,
sfrecciano a velocità prossime a quella della luce. Attorno alla circonferenza dell’anello
sorge un hangar gigantesco, attraversato da un labirinto di corridoi, scale e ponteggi
che tracciano l’unico percorso umano in mezzo a una giungla di cavi, lamiere e tubature.
Quando l’ho visitato, nel 2018, era la prima volta che mi trovavo a lavorare in una
grande infrastruttura per la ricerca scientifica: confrontato con il mio piccolo laboratorio
universitario, quello spazio austero mi incuteva un senso di timore quasi religioso.
Come una cattedrale costruita intorno alla presenza incorporea della divinità, l’architettura
circolare del sincrotrone era l’involucro materiale per una miriade di corpi invisibili.
Quando alla fine dei miei turni di notte mi trovavo a camminare da sola tra i laboratori
deserti, mi capitava di intravedere alle mie spalle delle sagome scure. Mi rassicurava
il pensiero che quelle ombre silenziose, dalla forma vagamente umana, fossero un’allucinazione
prodotta da una prolungata mancanza di sonno, oppure l’aura visiva che precedeva le
mie frequenti crisi di emicrania. In ogni caso, non appena mi voltavo per ricambiare
il loro sguardo spettrale, mi accorgevo con sollievo che, se mai erano esistite, le
sagome che mi ero convinta di aver visto si erano già dissolte nel nulla.
Diverse teorie parapsicologiche sostengono che i fantasmi subiscono un’attrazione
irresistibile per i campi elettromagnetici; per questa ragione, si intrattengono in
prossimità delle centrali elettriche, delle antenne per le telecomunicazioni e dei
laboratori scientifici. La ragione di questa attrazione non è mai stata chiarita,
ma chi se ne occupa sostiene che questi esseri – alcuni li chiamano shadow people, le “persone-ombra” – si nutrano delle onde invisibili che attraversano lo spazio.
A rendere le loro manifestazioni così disturbanti è il fatto che le persone-ombra
hanno la strana abitudine di farsi vedere sempre e soltanto con la coda dell’occhio:
appena si prova a rivolgere loro uno sguardo diretto, svaniscono all’istante come
fumo nell’aria. L’aspetto più inquietante di queste apparizioni è la loro capacità
di muoversi in uno spazio inafferrabile. Non si collocano né là fuori nel mondo, né
nella nostra immaginazione, ma sembrano in grado di annidarsi in qualche luogo oscuro
dentro ai nostri occhi. Questo, piuttosto che dirci qualcosa sui fantasmi, mi sembra
suggerire un fatto ben più disturbante: se esistono sostanze spettrali che possono
collocarsi negli angoli del nostro sguardo, allora il nostro sguardo non è una finestra
sottile e luminosa sul mondo, ma uno spazio abbastanza ampio da ospitare le ombre.
Ho sempre pensato che uno degli aspetti più interessanti dello studio dei fantasmi
fosse il fatto che le loro manifestazioni si modificano nel corso della storia per
riflettere di volta in volta le angosce delle epoche che li hanno prodotti. Il mondo
degli spiriti, del resto, intrattiene un rapporto molto stretto e profondamente ambivalente
con l’oggettività scientifica, fungendo da recipiente per la paura di tutto ciò che
continua tenacemente a sottrarsi al dominio del sapere. Se questo popolo di spettri
sfugge sempre al controllo dello sguardo scientifico, sembra tuttavia estendere la
propria influenza attraverso gli stessi mezzi tecnologici che dovrebbero riuscire
a illuminarne i segreti. Così, le voci spettrali che prima ci parlavano attraverso
le interferenze della radio oggi infestano le intelligenze artificiali dei chatbot;
gli spiriti che prima aleggiavano nelle pellicole fotografiche oggi compaiono nelle
videocamere di sorveglianza; i fantasmi che prima infestavano gli incubi oggi passeggiano
nei corridoi degli acceleratori di particelle. Più il progresso tecnologico accresce
le nostre capacità di osservare e controllare il mondo invisibile, più questo stesso
mondo continua a popolarsi di ombre.
La scelta di parlare di fantasmi all’inizio di un libro dedicato al rapporto complesso
tra le tecnologie e i corpi delle donne ha dunque, in primo luogo, una motivazione
storica. Il periodo che va dal 1860 al 1914 (a cui, da qui in avanti, mi riferirò
per brevità come belle époque) fu l’epoca d’oro dello spiritismo: un movimento culturale che abbraccia un insieme
di pratiche e teorie sviluppate con l’obiettivo di instaurare un contatto tra il mondo
materiale dei corpi e il mondo immateriale degli spiriti. Allo stesso tempo, la belle époque fu il momento storico in cui il sapere scientifico, attraverso la diffusione degli
studi clinici sull’isteria, iniziò a elaborare le prime modalità di intervento biotecnologico
per sorvegliare il corpo e la sessualità delle donne. A partire dagli anni ’60 dell’Ottocento,
infatti, il neurologo Jean-Martin Charcot, insediatosi come medico nell’ex prigione
femminile parigina della Salpêtrière trasformata in un manicomio dopo la Rivoluzione,
iniziò a sottoporre centinaia di donne internate alle sue ricerche sull’isteria, una
malattia considerata la “bestia nera”1 della medicina del tempo proprio per la difficoltà di individuare un’origine materiale
circoscritta per i disturbi che suscitava nelle sue vittime. Quasi in contemporanea
agli studi di Charcot, negli Stati Uniti la ginecologia contemporanea si affermava
come una scienza nascente attraverso la sperimentazione, spesso eticamente discutibile,
di nuove pratiche e nuovi dispositivi tecnologici, primo tra tutti lo speculum ginecologico.
Come vedremo, questi saperi affondano le loro radici in una storia di oppressione
sessista e di violenza coloniale; sono i capostipiti di una genealogia di tecnologie
di genere che hanno agito e continuano ad agire attraverso i corpi delle donne sottoponendoli
a una forma di controllo politico particolarmente insidiosa, proprio perché esercitata
direttamente sul materiale biologico che li compone.
La belle époque è stata spesso raccontata come un’epoca caratterizzata dalla combinazione paradossale
tra il fanatismo per l’oggettività scientifica e l’ossessione per il mondo degli spiriti,
ma la concomitanza tra la diffusione dello spiritismo e la trasformazione del corpo
della donna in un oggetto di studio scientifico non è soltanto una coincidenza. Fin
dalle sue origini, lo spiritismo è stato segnato da una forte connotazione di genere
e da una preponderante partecipazione femminile. Nel contesto della seduta spiritica,
il corpo femminile si trasformava in un’entità spettrale, un oggetto inquietante capace
di sottrarsi allo stesso sguardo scientifico che, nella clinica psichiatrica e sul
lettino ginecologico, sembrava riuscire a controllarlo del tutto. Le medium non erano
semplicemente ritenute capaci di comunicare con le anime dei morti, ma erano anche
considerate in grado di produrre, attraverso la mediazione dei loro stessi corpi,
quelli che erano conosciuti come “fenomeni di materializzazione”. L’ectoplasma, un
misterioso materiale amorfo generato dalle medium durante le sedute spiritiche, divenne
presto uno dei protagonisti del dibattito scientifico dell’epoca, forse proprio perché,
nella sua natura sfuggente e proteiforme, ricalcava gli aspetti più oscuri e inquietanti
del corpo femminile agli occhi della medicina del tempo.
Ai giorni nostri, il rapporto della scienza e della tecnologia con il corpo delle
donne ci appare senza dubbio più pacificato rispetto al diciannovesimo secolo: le
pratiche violente associate alla cura dell’isteria sono state abbandonate e le origini
schiaviste e razziste della moderna ginecologia ormai dimenticate. Eppure, i nostri
corpi sono sempre più pervasi dallo sguardo dei dispositivi tecnologici, uno sguardo
che si rivela ancora oggi profondamente ambivalente. In questo contesto, gli ectoplasmi
dello spiritismo ottocentesco sono più che una semplice curiosità storica: sono tanto
il prodotto dell’angoscia patriarcale di controllare i corpi, quanto una manifestazione
simbolica della loro capacità creativa di attraversare i confini tracciati dai saperi
istituzionali che li definiscono e dalle tecnologie che li sorvegliano. Le séance, così come il corpo delle medium che le conducevano, furono un campo di battaglia
in cui lo sguardo scientifico era continuamente minacciato dall’incursione dei fantasmi
e in cui i fenomeni paranormali erano a loro volta continuamente sottoposti alla dissezione
degli strumenti tecnologici. Mentre la medium comunicava con gli spiriti, lo spazio
della seduta spiritica era sempre più sorvegliato da una schiera di sguardi proiettati
sul corpo femminile con l’intento di svelarne la verità nascosta. Ma la stessa angoscia
di oggettività che spinse gli scienziati a studiare i fenomeni di materializzazione
spiritica diventò, in un capovolgimento di cause ed effetti, lo stimolo che ne determinò
la proliferazione, trasformando la séance in un laboratorio sovversivo di tecnologia femminista.
2. Una biologia degli spiriti
Nel suo libro Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici, scritto appena prima della sua morte e pubblicato postumo, Cesare Lombroso raccolse
i suoi studi sui fenomeni paranormali condotti tra il 1882 e il 19082. Fu proprio l’incontro con lo spiritismo, di cui il libro contiene il minuzioso resoconto,
a condurlo a quella che è spesso raccontata come l’improbabile conversione che lo
trasformò da positivista irriducibile a sostenitore entusiastico della realtà dei
fenomeni spiritici. Lombroso era uno degli scienziati più famosi e affermati del suo
tempo e, come molti altri studiosi a lui contemporanei, fu partecipe di un periodo
della storia della scienza in cui la materia e l’energia, i corpi e gli spiriti iniziavano
a confondersi gli uni con gli altri. È impossibile comprendere fino in fondo le luci
e le ombre del pensiero della belle époque senza considerare la densità di scoperte scientifiche cruciali che la attraversarono.
Basti pensare che, nel corso della sua vita, Cesare Lombroso assistette alla scoperta
dei raggi X (1895), alla nascita della scienza dei fenomeni radioattivi, con la scoperta
della radioattività dell’uranio da parte di Becquerel (1896) e del polonio da parte
di Marie e Pierre Curie (1898), alla scoperta del cromosoma come sede dell’ereditarietà
biologica (1902) e alla prima dimostrazione dell’esistenza degli atomi (1905). Questa
espansione esplosiva della capacità della scienza di osservare e comprendere le forze
invisibili che permeano la natura fu anche una fonte di inquietudine epistemologica:
ogni aspetto della realtà doveva essere osservabile e rappresentabile attraverso gli
strumenti della scienza, ma la proliferazione degli strumenti di osservazione non
faceva che spostare sempre più avanti il confine dell’inconoscibile.
Gli studi di antropologia criminale che condussero Lombroso alla celebrità consistevano
in una ricerca affannosa di un fondamento materiale misurabile per le devianze della
mente. La teoria dell’“atavismo”, più volte integrata e revisionata da Lombroso nel
corso della sua vita, si articolava attorno all’idea che il comportamento criminale
fosse associato in modo indissolubile alla biologia del corpo: secondo la sua visione
erano gli individui più “primitivi”, cioè dotati di caratteristiche anatomiche vestigiali
risalenti al passato evolutivo della specie umana, a commettere i peggiori delitti3. Nell’esperienza di scienziati positivisti come Lombroso, l’incontro con lo spiritismo
costituiva una sfida senza precedenti, perché rappresentava la possibilità di estendere
il dominio dell’oggettività scientifica fino alla comprensione dei fenomeni paranormali
e dei corpi invisibili. Paradossalmente, il positivismo lombrosiano fu l’alleato perfetto
dello spiritismo: la sua ricerca di una fondazione razionale per i fenomeni spiritici
lo trasformò a sua volta in una macchina produttrice di fantasmi.
Eusapia Palladino, nata nel 1854 da una famiglia poverissima, trascorse i primi anni
della sua vita lavorando come domestica a Napoli prima di diventare una delle medium
più famose e stimate d’Europa. Come racconta lo stesso Lombroso nel suo libro, l’ingresso
di Eusapia Palladino nel mondo dello spiritismo è avvolto nella leggenda: pare sia
stato lo spirito-pirata John King, durante una séance londinese, a nominare Palladino allo studioso Giovanni Damiani, il quale, al suo
rientro a Napoli, l’avrebbe cercata per mettersi in contatto con lei4. Eusapia Palladino è una figura ambigua: se da un lato può essere raccontata come
una vittima dello sguardo che, nel corso della sua vita, esibì e studiò il suo corpo,
trasformandolo di volta in volta in un oggetto scientifico o in un mostruoso spettacolo,
dall’altro quello stesso sguardo violento non fu mai in grado di comprenderla o controllarla
del tutto. In un’intervista impossibile con lei, lo scrittore Giorgio Manganelli la definì “una crisi nel suo secolo: un
secolo, l’Ottocento, senza tenerezze per l’assurdo”5. Palladino fu una delle protagoniste più affascinanti dello spiritismo precisamente
per la sua capacità di dirigere e disorientare un dibattito scientifico a cui, per
estrazione di classe e identità sessuale, non avrebbe mai potuto prendere direttamente
parte. Fu proprio lei, in una seduta spiritica tenutasi a Milano nel 1892, a convincere
definitivamente Lombroso della validità dei fenomeni spiritici a cui lo scienziato
si era opposto per tutta la vita.
Il terzo capitolo delle Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici è interamente dedicato alla Fisiopatologia di Eusapia: contiene il resoconto completo di una serie di meticolosi “studi clinici”, mai del
tutto motivati, compiuti da Lombroso sul corpo della medium. Nelle prime righe del
capitolo, apprendiamo che “a prima vista, l’Eusapia nulla presenta di anormale, salvo
un fiocco di capelli bianchi, che contorna un infossamento del parietale sinistro”6, una ferita di cui la stessa medium sembra ignorare l’origine. La presenza di questa
vistosa deformità sulla testa di Palladino risulta particolarmente significativa alla
luce della proverbiale ossessione lombrosiana per la frenologia, lo studio della correlazione
tra la morfologia del cranio e il comportamento criminale. Ma, sotto lo sguardo clinico
di Lombroso, la ferita di Palladino diventa anche una fenditura di natura ambigua,
le cui descrizioni manifestano sempre una tonalità marcatamente erotica. L’intima
connessione tra la seduta spiritica e la sessualità femminile, del resto, emerge attraverso
i ripetuti riferimenti, nei resoconti di Lombroso, agli “atteggiamenti passionali,
ora erotici, ora sarcastici” della medium, all’espressione, durante la sua trance,
di “note morbose che vanno fino alla follia isterica” e al fatto che nella manifestazione
dei fenomeni medianici Palladino fosse “agitata da vere convulsioni e grida come una
donna sopra parto”7. I fluidi corporei di Palladino sono l’oggetto di una particolare sorveglianza: Lombroso
appunta che, durante la comunicazione con gli spiriti, “tutte le secrezioni, sudore,
lacrime, persino i mestrui, aumentano”. Al termine di questo processo dalle caratteristiche
quasi orgasmiche, Lombroso osserva che Palladino “cade in sonno profondo e dal suo
foro del parietale evapora un fluido caldo, sensibile al tatto”8.
Anche il medico Charles Richet, premio Nobel per la medicina nel 1913 per le sue ricerche
sull’anafilassi, partecipò insieme a Lombroso agli studi sui fenomeni “metapsichici”
di Eusapia Palladino. Richet fu, tra gli scienziati dell’epoca, uno dei sostenitori
più entusiastici dello spiritismo; i risultati delle sue infaticabili ricerche sono
raccolti in un volume intitolato Traité de métapsychique, pubblicato nel 1922, che contiene più di seicento pagine di descrizioni e speculazioni
sulle manifestazioni spiritiche osservate durante i suoi incontri con le medium più
famose d’Europa9. Fu proprio Richet, avendo assistito alle materializzazioni prodotte da Palladino,
a utilizzare per la prima volta il termine “ectoplasmi” per riferirsi alle “forme
materiali con sembianze di vita”10 che la medium produceva come secrezioni del suo corpo. Nel libro di Richet, così
come nei resoconti di tutti gli altri studiosi che ne hanno osservato l’esistenza,
la natura dell’ectoplasma non è mai del tutto chiarita. La maggior parte delle descrizioni
insistono sulla sua consistenza fluida, gelatinosa o vaporosa, sulla sua sensibilità
al tatto e alla luce, sulla sua autonomia di movimento e sulla sua tendenza, spesso
fallimentare, all’organizzazione spontanea in forme viventi dalle sembianze umane.
Pur nel suo statuto di “materiale metafisico”, l’idea dell’ectoplasma si inseriva
nella corrente della biologia del tempo, che proprio in quegli anni si interrogava
sulla plasticità dei corpi viventi e sulle modalità con cui i materiali organici fossero
in grado di organizzarsi in forme complesse11. A partire dagli anni ’60 dell’Ottocento fino alla fine del secolo, il “protoplasma”
– un termine generico che si riferisce alla sostanza vivente contenuta all’interno
della membrana cellulare – aveva suscitato sempre maggiore interesse da parte dei
biologi, i quali ritenevano che questo materiale amorfo fosse la base dei processi
di formazione e riproduzione della vita. Per questo motivo, tra i numerosi scienziati
sostenitori delle teorie ectoplasmiche della materializzazione spiritica ci fu anche
il biologo Hans Driesch, famoso per i suoi studi sulla morfogenesi degli embrioni
del riccio di mare. Driesch era convinto che l’ectoplasma costituisse una sorta di
anello mancante tra la materia e l’anima, e riteneva che la produzione degli ectoplasmi
da parte delle medium dovesse essere studiata come una nuova branca della biologia
da lui definita “embriologia supernormale”12.
L’aspetto dello spiritismo ottocentesco che trovo più affascinante, e che in larga
misura contrasta con le sue espressioni più recenti, è soprattutto la materialità
delle apparizioni spettrali. Se le rappresentazioni contemporanee degli spiriti insistono
soprattutto sulla loro assoluta immaterialità – manifestata dalla loro capacità di
fluttuare nell’aria, attraversare i muri, diventare invisibili –, i fantasmi della
belle époque erano costituiti da materiali viventi direttamente connessi all’organismo delle medium,
le cui descrizioni richiamano inequivocabilmente dei simulacri embrionali e malformati
dei corpi biologici. L’interesse di Lombroso per Eusapia Palladino era legato al progetto
esplicito di fondare quella che lo scienziato definì, nel titolo del quattordicesimo
capitolo delle sue Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici, una “biologia degli spiriti”13, cioè una disciplina capace di sottoporre all’indagine scientifica, con l’aiuto della
tecnologia più avanzata, anche i corpi più sottili e invisibili. Lo spiritismo era
connesso alla biologia riproduttiva perché le sue pratiche interrogavano e problematizzavano,
in forma performativa, i processi materiali e discorsivi tramite cui i corpi acquisiscono
le loro identità. Non solo gli ectoplasmi illuminavano il mistero più profondo del
corpo femminile, quello dell’embriogenesi, proiettandolo come un’ecografia spettrale
al di fuori dai confini dell’utero; erano anche l’incarnazione materiale e tangibile
della sessualità delle donne, un segreto che sembrava finalmente aprirsi allo sguardo
della scienza. Credo sia superfluo sottolineare che l’ectoplasma, inteso come la sostanza
biologica capace di materializzare i fantasmi, non è mai davvero esistito: nessuna
delle innumerevoli osservazioni che l’hanno visto protagonista ha prodotto una prova
convincente della realtà delle sue manifestazioni. Dopo aver letto decine di pagine
dei resoconti di Lombroso e Richet, non ho potuto fare a meno di pensare che la loro
capacità di giudizio fosse oscurata dal bisogno affannoso di sostenere una convinzione
assurda, come se dalla possibilità di comprendere la natura dell’ectoplasma dipendesse
la validità di un progetto scientifico che si estendeva molto al di là del problema
di comunicare con i morti. L’ectoplasma incarnava la possibilità di accedere ai segreti
più profondi della sessualità femminile, dall’embriogenesi all’isteria; una sessualità
fatta di fluidi ambigui e sfuggenti, dal cui controllo scientifico e politico dipendeva
la capacità di assicurare l’ordine riproduttivo della società bianca e borghese del
futuro.
Pur ammantandosi di oggettività, nel suo rapporto con lo spiritismo lo sguardo scientifico
si rivelava perfettamente sovrapposto allo sguardo patriarcale, proiettando sul corpo
delle medium la stessa oggettificazione violenta che caratterizzava il trattamento
clinico dell’isteria. La totale passività della medium, l’ignoranza della propria
condizione di ricettacolo di spiriti, la completa apertura del suo corpo allo sguardo
della medicina erano fondamentali per il successo dell’impresa scientifica. “Eusapia”,
ammette lo stesso Charles Richet, “si prestò per venticinque anni con ammirevole buona
volontà all’indagine della scienza, anche quando questa assumeva le forme più assurde”14. D’altra parte, dietro al sipario opaco del gabinetto medianico, la produzione degli
ectoplasmi come “costrutti fantabiologici” richiedeva alle medium un lavoro tecnologico
incredibilmente delicato e complesso. Questi corpi artificiali, assemblati dalle stesse
donne come grotteschi collage di pezzi di garza, tessuto, carta, argilla e resti animali,
erano costruiti per assecondare lo sguardo scientifico a cui erano sottoposti, ma
concedevano alle medium anche un ampio margine di libertà espressiva. Nella sua relazione
performativa con lo sguardo degli scienziati, il corpo delle medium si trasformava
da un oggetto di studio apparentemente docile in un materiale attivamente dissidente,
un ibrido biotecnologico capace di riappropriarsi dello sguardo scientifico che cercava
di sottometterlo per produrre una rappresentazione autonoma di sé stesso.
3. Iconografia del fluidico invisibile
In una sequenza di due fotografie realizzate nel 1907 dal medico Hippolyte Baraduc,
una donna emaciata giace supina su un letto, la testa sprofondata in un grande cuscino
bianco; a sinistra della donna aleggiano tre sagome nebulose dalla forma indistinta,
che, nella fotografia successiva, si fondono in un’unica massa abbagliante, oscurando
quasi del tutto lo spazio dell’immagine. Hippolyte Baraduc, un fervente seguace dello
spiritismo, era un medico dell’ospedale psichiatrico della Salpêtrière, dove si dedicava
allo studio e alla cura delle donne isteriche, e la sequenza fotografica appena descritta
ritrae la moglie Nadine, gravemente malata, che il medico aveva deciso di fotografare
nel momento esatto della sua morte. In un macabro esperimento scientifico, Baraduc
sperava di riprendere il frangente in cui l’anima della donna avrebbe abbandonato
il suo corpo, catturandone l’impronta sulla lastra fotografica. La fotografia spiritica,
come metodologia scientifica e come linguaggio artistico, è nata negli anni ’60 dell’Ottocento,
quando il fotografo statunitense William Mumler scoprì, in una delle sue fotografie,
la figura evanescente di una donna vestita di bianco che aleggiava sullo sfondo. A
partire da questo episodio, il legame tra la fotografia e il mondo degli spiriti divenne
sempre più intimo, al punto che la lastra fotografica fu considerata il mezzo privilegiato
per catturare le tracce dei fantasmi15. Baraduc fu, senza dubbio, tra gli esponenti più interessanti di questo bizzarro
fenomeno scientifico e culturale. Nel suo libro del 1896 L’Âme humaine. Ses mouvements, ses lumières, et l’iconographie de l’invisible fluidique16, teorizzava che l’anima fosse costituita da un materiale misterioso da lui definito
“fluidico invisibile”, una sostanza in grado di imprimere sulle lastre fotografiche
tracce dalla forma astratta da lui denominate “psichicone”. Baraduc utilizzava il
termine iconografia, da lui preferito al semplice fotografia, per rivendicare un rapporto
immediato con le sostanze invisibili che rappresentava: a suo dire, le psichicone
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