Un’intelligenza incapace di vedere il contesto e la complessità planetaria rende ciechi, incoscienti e irresponsabili.

Edgar Morin

Questo libro è dedicato agli abitanti di piazza S. Giovanni in Monte, 6 (Cip, Bouba, Fabrizio e Honoré) e alla città di Bologna, che dal 2008 mi ospita, mi stimola, mi rallegra.

Introduzione

Questo è un libro sulla città, sulle biblioteche e sulla cittadinanza attiva.

La città, perché da millenni è il luogo delle innovazioni: ci interrogheremo se il proverbio medievale “L’aria delle città rende liberi” sia ancora vero oppure no. La città post-Covid sarà un luogo di rinascita e di solidarietà o invece un luogo di disuguaglianza e di esclusione?

È un libro sulle biblioteche perché me ne occupo dal 1977 e perché oggi sono un’infrastruttura ancora più necessaria di allora. Biblioteche accoglienti, stimolanti, che promuovano e siano parte attiva delle mille iniziative culturali nate dal basso in questi anni. Biblioteche che sostengano e diano continuità a queste iniziative militanti, purtroppo spesso effimere.

È un libro sui beni comuni perché propone di superare “l’economia della promessa” e rendere stabile e strutturata l’azione culturale delle amministrazioni locali: dove c’è una caserma dei pompieri ci dev’essere anche una biblioteca.

È un libro sulla democrazia perché negli ultimi anni abbiamo potuto constatare quanto essa sia in pericolo laddove i cittadini non leggono, non si informano, non partecipano. I diritti e le libertà garantite dalla Costituzione non sono compatibili con l’età dell’ignoranza. Non sono compatibili con una vita dominata da immagini che appaiono e scompaiono sugli schermi dei televisori o degli smartphone.

Molti si chiedono da tempo se c’è ancora bisogno delle biblioteche o addirittura se tra pochi anni esisteranno ancora le biblioteche, sostituite dai nostri variegati e onnipresenti gadget elettronici. Partiamo da quest’ultimo punto: Internet era stata concepita per essere sempre disponibile, grazie alla ridondanza (se i messaggi non passano da un “nodo” passeranno da un altro). In realtà abbiamo scoperto negli ultimi anni che i governi autoritari sono in grado di bloccare totalmente o parzialmente la Rete e che anche i governi oggi democratici sono tentati dall’usare le loro capacità tecnologiche per privare i cittadini di informazioni “dannose”. Già oggi il governo cinese controlla ferocemente tutto ciò che appare on line, mentre un domani il sito della Library of Congress potrebbe essere chiuso per decisione di una maggioranza parlamentare a Washington, o danneggiato in maniera più o meno grave da attacchi informatici di hacker malintenzionati.

La carta è più affidabile e durevole dei bit, non scompare per centinaia d’anni e può sempre essere ricontrollata: questo è il motivo per cui molti esperti di sistemi elettorali si oppongono al voto elettronico e insistono sull’uso di schede cartacee, che possono essere contate senza timore di manipolazioni informatiche. Gli articoli on line possono essere modificati, o cancellati con un semplice click, mentre quelli stampati e rilegati nei volumi della biblioteca Braidense saranno disponibili fino a che la biblioteca sarà aperta, anche tra un secolo.

Quindi abbiamo e avremo bisogno delle biblioteche, che tra l’altro in questi anni hanno fatto un gigantesco lavoro di digitalizzazione dei loro documenti, rendendoli disponibili a chiunque. I siti della Bibliothèque Nationale francese o della biblioteca universitaria di Princeton offrono meraviglie a disposizione del lettore o dello studioso, continuamente rifornite di nuovi materiali. Gallica, la biblioteca digitale della BNF, per esempio, ha messo in Rete oltre 4 milioni di documenti consultabili da chiunque e ovunque. Princeton offre, tra altre mille cose, una ricchissima collezione di fotografie relative ai movimenti di resistenza all’oppressione in tutto il mondo, dalla Germania nazista alle proteste in Cile nel 2019.

Quasi trent’anni fa, l’astronomo Carl Sagan pubblicò un libro intitolato Il mondo infestato dai demoni, dove i demoni non erano i fedeli di Satana bensì le forze che stavano trasformando gli Stati Uniti in un Paese dove si celebrava l’ignoranza. Ecco cosa scriveva:

Ho la visione di un’America ai tempi dei miei figli o dei miei nipoti – quando gli Stati Uniti saranno un’economia di servizi e di informazione; quando quasi tutte le industrie manifatturiere chiave saranno state trasferite in altri paesi; quando fantastici poteri tecnologici saranno nelle mani di pochissimi, e nessuno che rappresenti l’interesse pubblico sarà in grado anche solo di comprendere i problemi; quando il popolo avrà perso la capacità di definire i propri programmi o di mettere in discussione con cognizione di causa chi detiene l’autorità; quando, [...] consultando nervosamente i nostri oroscopi, con le nostre declinanti facoltà critiche, incapaci di distinguere tra ciò che ci fa stare bene e ciò che è vero, scivoleremo, quasi senza accorgercene, nella superstizione e nell’oscurità. L’istupidimento dell’America è più evidente [...] nelle presentazioni credulone di pseudoscienze e superstizioni, ma soprattutto in una sorta di celebrazione dell’ignoranza¹.

Oggi le parole di Sagan suonano terribilmente profetiche, basti pensare ai “fantastici poteri tecnologici nelle mani di pochissimi”, i proprietari delle piattaforme on line da cui dipendono molti aspetti della nostra vita quotidiana.

Finora le proposte per limitare il potere di mercato degli oligopoli della Rete sono state poche e poco incisive, anche se è possibile che Twitter e Facebook scompaiano sotto il peso del loro gigantismo e della megalomania degli attuali proprietari. Quello che a noi interessa è il fatto che la biblioteca rappresenta un’alternativa politica alla schiavitù della Rete: da noi tutto è gratuito, compresi i buoni consigli dei bibliotecari. E i nostri servizi non comportano nessuna invasiva raccolta dati, quella che poi permette a Google e Amazon di sapere sempre dove siamo e cosa facciamo.

Nei prossimi capitoli partiremo da tre parole chiave: fiducia, uguaglianza, energia sociale. Sono questioni vitali che riguardano le nostre città, le nostre comunità.

Prima di tutto la fiducia: ogni comunità ha bisogno di un minimo di fiducia reciproca fra i cittadini per funzionare. Dovrebbe essere ovvio ma apparentemente molti lo dimenticano: gli atti più semplici, come andare a fare la spesa, portare i figli a scuola, consultare il medico si basano su una lunga serie di presupposti impliciti: che le strade siano sicure, che i prodotti in vendita siano controllati, che la scuola si prenda cura dei bambini, che il medico sia competente e disponibile. Nei borghi e nelle piccole città tutto è più facile perché conosciamo di persona il negoziante, la maestra, il medico e il farmacista: nelle metropoli possiamo soltanto affidarci al buon funzionamento delle istituzioni. Entriamo in una permanente dialettica di costruzione/distruzione della fiducia, dove ogni piccolo passo avanti nella fiducia tra estranei viene spesso rapidamente annullato.

I sondaggi dell’Istat registrano fra gli italiani un forte senso di sfiducia e di diffidenza: solo le forze dell’ordine, papa Francesco e il presidente della Repubblica Mattarella riscuotono la fiducia di circa due terzi degli italiani. Dietro di loro, solo il funzionamento della scuola viene approvato da una maggioranza di cittadini: tutte le altre istituzioni, dalla magistratura alle banche, dai sindacati ai partiti, vengono giudicate negativamente. Ricostruire la fiducia nelle nostre città è il primo passo per affrontare i problemi che dobbiamo risolvere se vogliamo lasciare in eredità un mondo decente ai nostri figli e ai nostri nipoti.

Per farlo abbiamo bisogno di molte cose, prima di tutto una cittadinanza attiva: senza l’interesse e l’impegno diretto dei cittadini nulla è possibile. Possiamo però lavorare per una città che offra loro sostegno per la crescita personale e l’azione. Luoghi dove si possano trovare beni culturali di ogni tipo e si possa anche partecipare ad esperienze creative (corsi, laboratori, progetti) invece di restare inchiodati al proprio telefonino molte ore al giorno. Luoghi non commerciali, attraenti, aperti a tutti; luoghi di scambio, di confronto e di uguaglianza, la nostra seconda parola chiave. Luoghi dove si possano fare anche incontri casuali e non programmati, oggi resi quasi impossibili dalla dittatura delle automobili sulla struttura urbana, con strade e piazze trasformate in parcheggi. Se ci pensate, nel 2020 abbiamo avuto praticamente solo appuntamenti on line con colleghi, amici, familiari rigidamente fissati: il giorno tale, all’ora tale, su Zoom, Skype o Google Meet, questo è il link per l’accesso. Nessun imprevisto, nessuna sorpresa, nessuna nuova conoscenza. Ben misera la socialità su Zoom, anche se nel periodo peggiore del lockdown gli aperitivi on line con gli amici hanno salvato molti dalla depressione (ne parla ampiamente il libro di David Sax, The Future Is Analog: How to Create a More Human World). Luoghi come nuove biblioteche.

Di questo parleremo ampiamente nella seconda parte del volume, dove affronteremo il tema di quali biblioteche saranno necessarie nei prossimi anni, di come costruirle insieme ai cittadini attraverso pazienti processi partecipativi e di come gestirle. Biblioteche neutrali, com’è la loro tradizione secolare, ma anche biblioteche militanti perché solo la mobilitazione dei cittadini può evitare, o almeno ritardare, la catastrofe.

Le biblioteche possono diventare un centro propulsore delle attività culturali perché sono presidi capillarmente presenti sul territorio e i nostri primi interlocutori devono essere i nuovi operatori della cultura che si sono moltiplicati in questi anni. Negli ultimi vent’anni, infatti, una generazione di giovani intellettuali che non hanno trovato posto nelle istituzioni pubbliche (università, musei, teatri stabili, assessorati alla cultura) hanno creato dal nulla gruppi cinematografici, teatrali e musicali, biblioteche, giornali on line, associazioni di volontariato. Sono loro quelli che possono agire localmente, visto che poco c’è da aspettarsi dai governi.

Devono però superare il loro (legittimo) pregiudizio nei confronti delle biblioteche, viste come istituzioni autoreferenziali, passatiste, dedicate alla conservazione e al culto del libro. Le biblioteche possono e devono essere diverse ma hanno bisogno dei cittadini attivi per trasformarsi. Non sono la bacchetta magica per salvare il Paese dall’ignoranza, ma sono il tassello di un mosaico che pazientemente dobbiamo comporre.

Negli ultimi anni sono stati dei giovani creativi e coraggiosi a creare nuovi progetti, nuove situazioni, nuove forme di azione culturale, com’è accaduto per esempio a Rosarno, di cui parliamo nel capitolo 3. Se fossero stati aiutati, anziché ostacolati, dalle istituzioni, forse non dovremmo oggi registrare il tragico esodo di massa verso l’estero di un’intera generazione.

Per fortuna movimenti di resistenza, di creazione e partecipazione culturale sono apparsi ovunque, dallo Sri Lanka a Londra e da Berlino a New York. Come vedremo nei prossimi capitoli è possibile e necessario aiutarli a crescere.

Per fare questo occorrono strategie per rafforzare e rendere efficace l’energia sociale, la nostra terza parola chiave. La strada è quella di creare una stretta collaborazione tra scuole, biblioteche, università, gruppi teatrali e musicali, musei, cittadini attivi. Le scuole devono essere aperte al pomeriggio, le biblioteche devono creare percorsi per i ragazzi che la scuola respinge, magari in collaborazione con gli stessi studenti delle superiori, come avviene a Bologna. Le istituzioni dovrebbero collaborare con le associazioni di volontariato per aiutare i ragazzi immigrati ma anche gli altri giovani che hanno rinunciato a studiare, per qualunque motivo: ne parliamo nel capitolo 2 e nel capitolo 8.

Nonostante tutto possiamo essere ottimisti, perché le città sono il luogo degli incontri: in piazza, al mercato, in chiesa, a teatro, al parco, in biblioteca. Sono il luogo della resistenza, della creatività, della democrazia. E continueranno ad esserlo.

1. Fiducia

La fiducia è l’unica vera resistenza al presente, la fiducia è creativa.

Chiara Valerio²

Sono in biblioteca e aspetto. No, non sono in attesa della consegna di un libro, anche perché sono in una piazza coperta con immense vetrate sul mare e, al centro, un tubo di bronzo di 7,5 metri di lunghezza appeso al soffitto. L’opera d’arte è in realtà un gong, realizzato dall’artista Kirstine Roepstorff, che suona ogni volta che in città nasce un bambino. Questo rintocco si espande per tutto l’edificio e tutti sanno che qualche minuto prima una nuova vita è entrata nella comunità: cos’altro può generare fiducia nel mondo in cui viviamo se non un piccolo essere che arriva tra noi? Il gong di Dokk1, la biblioteca di Aarhus, in Danimarca, dimostra meglio di qualsiasi altra cosa perché le biblioteche siano parti necessarie, vitali, dell’infrastruttura sociale: perché con la loro stessa esistenza creano fiducia nel domani.

Come hanno scritto Alejandro Gutierrez, Sara Candiracci e Serena Girani, “Rigenerare un tessuto sociale basato sulla fiducia e la chiave per affrontare in modo concreto, immediato e tangibile alcune delle sfide sociali, ambientali ed economiche piu urgenti del nostro tempo: il cambiamento climatico, l’indebolimento delle nostre democrazie e la disuguaglianza sociale. Partendo dalle citta”³.

Purtroppo oggi i sondaggi registrano fra gli italiani un pericoloso sentimento di sfiducia e di diffidenza generalizzata: come riportato da Enzo Risso su Domani, “Il 65 per cento delle persone concorda con quanti affermano: ‘Non mi fido più di nessuno, né delle banche, né delle imprese, né degli imprenditori. Tutti cercano di fregarmi’ [...] Nel nostro Paese, purtroppo, la fiducia è un terreno arido da tempo, un albero dalle radici poco profonde e rinsecchite”⁴.

Poco più di un terzo degli italiani afferma di aver fiducia nello Stato. Se prendiamo l’esempio del Veneto, possiamo constatare quanto rapidamente, per esempio negli anni Settanta e Ottanta, le famiglie si siano trasformate in microaziende e abbiano costruito su questo un’ideologia cinica e predatoria nei confronti del mondo esterno, basti pensare alla sistematica e ostentata evasione fiscale. Trincerate nelle loro villette, le famiglie hanno deciso che i loro valori e i loro interessi particolari sono diversi e opposti da quelli generali della collettività nazionale. La riscoperta del “territorio” e delle sue tradizioni è la foglia di fico dietro cui si nascondono l’egoismo e uno sfrenato desiderio di accumulazione monetaria⁵. Fin troppo indulgente sembra il giudizio di Norberto Bobbio, secondo il quale “per la famiglia si sprecano impegno, energie e coraggio, ma ne rimane poco per la società e per lo Stato”⁶.

Eppure dobbiamo chiederci: possibile che non ci sianiente da fare?

L’esperienza pluridecennale dei Presìdi del Libro nati in Puglia dimostra il contrario. Non solo: nel mio lavoro a Lecce, in Sicilia e in Campania, ho incontrato centinaia di giovani meridionali che volevano dimostrare che si potevano creare nuove associazioni dedicate alla produzione culturale e all’impegno civico. Nei paesi più sperduti esistono circoli culturali che promuovono performance e discussioni sulla musica, il cinema, il teatro e la letteratura, generosi organizzatori culturali di grande competenza, sia dove le istituzioni li sostengono che dove li ignorano. Di questo parleremo più ampiamente nel capitolo 3.

La fiducia rende possibile fare molte cose che altrimenti sarebbero impossibili: qualsiasi associazione, qualsiasi ONG funziona in base a questo principio. Tuttavia, nel dibattito fra gli studiosi non si è ancora affrontato a fondo il tema della permanente dialettica di costruzione/distruzione della fiducia. In una società dominata dal potere del denaro, ogni piccolo passo avanti nella fiducia tra estranei viene facilmente contrastato e annullato dai rapporti di mercato: la legge del profitto impone di agire non in base all’utilità sociale ma sempre e soltanto all’utilità aziendale.

Al contrario di altre forme di capitale (palazzi in città, lingotti d’oro, conti correnti), il capitale sociale è sempre e soltanto in forma dinamica, non può essere immagazzinato, registrato, certificato⁷. Per esempio, se oggi la fiducia reciproca di un gruppo di lavoratori è forte perché hanno fatto molte esperienze comuni, come degli scioperi, nel momento in cui alcuni di loro ottengono promozioni immeritate, o lasciano l’azienda, o addirittura vengono identificati come corrotti, la sfiducia immediatamente prende il sopravvento.

Insomma, la fiducia nelle istituzioni è difficile da costruire e facile da perdere: gli apparati burocratici di grandi nazioni come l’Italia, la Francia o il Regno Unito hanno milioni di impiegati, che dovrebbero essere tutti al servizio dei cittadini, ma pochi di loro prendono sul serio i nostri interessi individuali o semplicemente sanno qualcosa della maggior parte di noi. L’ossessione per le procedure distrugge la fiducia dei cittadini, che si sentono trattati come numeri, quando non come sudditi.

La massiccia burocratizzazione delle nostre vite forse rende la società moderna possibile nella sua forma attuale, ma il prezzo di questa situazione è la crescita della sfiducia verso le istituzioni impersonali: non a caso i politici chiedono fiducia e approvazione verso se stessi, non verso il governo, la regione o la città di cui sono responsabili. I politici populisti si spingono fino ad attaccare pubblicamente, in nome del “popolo”, le istituzioni di cui fanno parte.

Lo Stato moderno è fatto di molti e disparati pezzi: di quelli che funzionano bene, o anche solo decentemente, spesso non ci accorgiamo. Quindi se i pompieri arrivano immediatamente, gli autobus sono puntuali e le biblioteche sono accoglienti lo consideriamo normale, mentre se dobbiamo aspettare per una visita medica, troviamo i sacchetti della spazzatura sotto i portici o c’è una multa sul cruscotto malediciamo il capo del governo, il presidente della Regione e il sindaco.

Le biblioteche pubbliche possono generare buona volontà, affiatamento, simpatia e rapporti sociali positivi tra i cittadini? Certo. Possono migliorare la qualità della vita delle persone? Sicuramente. Ma dobbiamo avere ben chiaro che molte normali relazioni quotidiane in una società capitalistica sono invece basate sulla disuguaglianza, sull’ingiustizia, sulla prepotenza. Navighiamo in un oceano di sfiducia e risentimento e ogni piccolo progresso che facciamo rischia di essere distrutto prima di sera.

A questo contribuisce il fatto che “le città sono diventate le discariche per i problemi causati dalla globalizzazione”, come sottolineava Zygmunt Bauman. “I cittadini, e coloro che sono stati eletti come loro rappresentanti, vengono messi di fronte a un compito [impossibile]: trovare soluzioni locali alle contraddizioni globali”⁸. È così. Ed è questa situazione che crea scontento e sfiducia: domina ormai la percezione che la politica sia impotente (una percezione fortissima, anche se non veritiera, come vedremo).

Scrive l’economista britannica Noreena Hertz, “L’infrastruttura della comunità – mi riferisco a quegli spazi fisici condivisi dove persone di ogni tipo possono riunirsi, interagire e formare legami – è stata nel migliore dei casi gravemente trascurata, se non attivamente distrutta. Si tratta di un processo che in molti luoghi è iniziato prima della crisi finanziaria del 2008, ma che ha poi subito una netta accelerazione quando le politiche di austerity dei governi hanno demolito biblioteche, parchi pubblici, aree giochi e centri giovanili e comunitari in quasi tutto il mondo”⁹.

Guardiamo alle percentuali di partecipazione al voto nei Paesi occidentali: alle elezioni politiche italiane del 25 settembre 2022 ha partecipato appena il 63% degli aventi diritto e in molti altri paesi la percentuale si aggira attorno al 50%. Nel rapporto Demos 2022 curato da Ilvo Diamanti si registra un livello di fiducia verso i partiti di appena il 13% mentre cresce la voglia di un “leader forte”.

Le rilevazioni sul consenso verso le istituzioni, naturalmente, vanno prese con cautela perché soggette a forti oscillazioni: per esempio, nel maggio 2020, il governo Draghi raccoglieva un largo apprezzamento (63%) grazie all’azione contro il Covid-19, un consenso poi diminuito col prolungarsi della pandemia.

Vediamo qualche esempio di reazioni prima al lockdown e poi ai vaccini, raccolte su Internet:

– Gli adulti vaccinati sono ora infettati a tassi molto più alti dei non vaccinati.

– I dati dei vaccinati sono falsi, le istituzioni mentono.

– I completamente vaccinati soffrono di tassi di infezione molto più alti rispetto ai non vaccinati e peggiorano di giorno in giorno.

– Un mio amico dice che per risolvere questo fatto alla fine faranno vaccinazioni nascoste (ad esempio devi fare un’anestesia e ti iniettano il siero). L’hanno già fatto all’ospedale Cervello di Palermo e in alcuni altri posti, è il mio terrore.

– Nel luglio 2021, il CDC (Center for Disease Control) ha pubblicato un’analisi di 14 bambini, di età compresa tra 12 e 17 anni, che sono morti dopo essere stati vaccinati. Hanno indicato come cause di morte: embolia polmonare (due), emorragia intracranica (due) e poi hanno cambiato argomento. Nessuna discussione. Niente.

– Il dott. Thomas Jendges, medico tedesco, regione Sassonia, morto suicida perché non poteva più sopportare di somministrare ai pazienti la terapia genica e mentire loro che il veleno era innocuo. Ha lasciato una lettera d’addio che l’ospedale dove lavorava ha trovato in cui si dice che si tratta di genocidio contro l’umanità.

Queste argomentazioni sono confuse e contraddittorie, quando non palesemente false, ma crescono su un terreno comune: la sfiducia nelle classi dirigenti e, più in generale, nella politica, accompagnata da fantasie di complotti planetari (il “genocidio contro l’umanità” perpetrato dalle multinazionali farmaceutiche e dai governi al loro servizio).

Altri esempi:

– C’è un piano dall’alto per far vaccinare la popolazione mondiale, tutto qua.

– Il Nuovo Ordine si dovrà basare sulla vaccinazione. Il green pass garantirà la vaccinazione annuale, per sempre, pena l’espulsione, l’allontanamento e l’esclusione di ogni fascia d’età dalla società “civile”.

La pandemia ha fatto emergere un diffuso risentimento e una tenace diffidenza nei confronti di esperti e scienziati, due sentimenti che hanno origine ancora una volta nella dialettica costruzione/distruzione di cui stiamo discutendo. Il filosofo della scienza Gil Eyal usa la metafora della “terza corsia” per chiarire meglio il rapporto tra scienza e politica: “La corsia di sinistra, quella veloce, appartiene alla legge e alla politica. È una corsia veloce [...] perché la legge e la politica devono arrivare ad una decisione su come agire. La corsia di destra, lenta, appartiene alla ricerca scientifica pura (di vario tipo). È lenta non solo perché guarda ai problemi a lungo termine, ma fondamentalmente perché non ha necessità di prendere decisioni sul come agire”.

I problemi nascono nella corsia centrale, “dove i veicoli veloci e quelli lenti devono adattarsi l’uno all’altro (clacson che suonano, maledizioni mormorate sottovoce)” perché questa corsia appartiene alla scienza con funzioni di regolamentazione e di decisione politica: “Le regolamentazioni prendono la forma di esclusioni, soglie, linee guida, punti finali, livelli di rischio accettabili, documenti consensuali, valutazioni di esperti, simulazioni, stress test”¹⁰.

Fabrizio Tonello ha così commentato l’esempio di Eyal: “La scienza con funzioni di regolazione è sempre oggetto di contese: serve da interfaccia tra ricerca scientifica, legge e scelte politiche. I vaccini sono un perfetto esempio: la politica chiede alla ricerca di produrli, di produrli subito e anche di fornire la certezza inconfutabile che funzioneranno senza controindicazioni o, peggio, pericoli gravi per i pazienti. Certezze che la medicina ovviamente non può dare”¹¹.

La diffidenza potrebbe essere superata da una migliore comprensione dei fatti relativi alla velocità di diffusione del virus e alla sua mortalità ma invece viene rafforzata dall’incomunicabilità tra linguaggio comune e linguaggio scientifico. Purtroppo la maggior parte di noi è assolutamente all’oscuro di come funziona il mondo di oggetti in cui viviamo, basti pensare al telefono, al computer, al forno a microonde. Ci culliamo nel pensiero magico: non serve neppure una formula come “Apriti sesamo” per avere luce o calore, basta sfiorare un tasto.

Ma la verità è che non ci sono rimedi facili: occorrerebbe rivedere profondamente i programmi scolastici che creano un’umanità di analfabeti scientifici e matematici in un mondo che è sempre più scientifico e numerico. I media, poi, ci mettono del loro usando le statistiche come fossero noccioline e i numeri come se fossero caramelle: senza contesto, senza basi, senza ragionamento.

Per concludere: come si ricostruisce la fiducia? Non ci sono ricette-miracolo né bacchette magiche: si può agire soltanto a livello locale, mantenendosi sempre coscienti delle disuguaglianze e delle difficoltà da superare. Per questo lavoriamo per creare istituzioni culturali all’ascolto dei cittadini. Biblioteche-cerniera tra istituzioni educative e culturali diverse: i teatri, i cinema, i gruppi musicali, i centri sociali. Una biblioteca pubblica ben tenuta, ariosa, aperta molte ore, crea fiducia. Fiducia nel Comune che l’ha istituita, fiducia nei bibliotecari che la gestiscono, fiducia negli altri utenti con cui si condivide uno spazio non commerciale. Abbiamo bisogno di biblioteche dove regni l’uguaglianza e dove si attivi l’energia sociale: sta a noi costruirle.

2. Uguaglianza

L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi.

Hannah Arendt¹²

Per parlare di uguaglianza vorrei partire da un romanzo per bambini di Alice Keller che ho amato molto e che tutti i presidi, i sindaci, i deputati e i ministri dovrebbero leggere, invece di cambiare nome al ministero dell’Istruzione per aggiungere la parola “merito” o presentarsi a convegni dove si dichiara pomposamente: “È tempo per una grande politica nazionale tesa a battere il fallimento formativo in Italia”. Una grande politica naturalmente affidata a una fantomatica ‘cabina di regia’¹³.

Il romanzo si intitola Tariq e racconta la storia di un ragazzino che va in prima liceo ma abita qui:

L’autobus che porta a casa nostra è sempre l’ultimo che passa. Casa nostra è il capolinea. Dieci palazzoni che si guardano l’un l’altro. Non ci arriva la luce. Non ci arriva l’acqua. Non ci arriva il tipo che deve aggiustare l’ascensore e così devo farmi dieci piani tutti a piedi ma ci sono abituato. È un anno che è così. L’ultima volta ci ha provato mio padre, ad aggiustarlo, ma che ne capisce mio padre di ascensori? Prima o poi smetterà di arrivarci pure l’autobus¹⁴.

Naturalmente Tariq non può integrarsi a scuola, fa il pazzo e quando gli insegnanti lo vedono si chiedono: “Cosa farai oggi? Mi lascerai stare? Mi farai fare lezione?”. La reazione è prevedibile: “In classe non ci torno. Esco, e nessuno mi ferma [...] Il pomeriggio lo passo con Aziz. Ed è il solito pomeriggio da weekend da queste parti. Dopo pranzo becco Aziz tra le colonne e insieme rimbalziamo da un motorino all’altro, da un pacchetto di sigarette all’altro, da un furtarello al supermercato per l’aperitivo a un coca e rum al bar di Alfio. È al campo skate che si decide la serata, tra le proposte più disparate”. Aziz è l’amico di Tariq: “Ha la mia età ma dopo le medie ha smesso. Va con suo padre al mercato ortofrutticolo. Caricano e scaricano le cassette dai camion. Nei fine settimana hanno un furgone e vanno in giro a svuotare cantine”¹⁵. I nomi dei protagonisti fanno pensare a giovani italiani di seconda generazione, nati qui da genitori immigrati ed emarginati due volte: per il colore della pelle e per la povertà. I ragazzi nati in Italia da genitori stranieri (“seconde generazioni” in senso stretto) sono oltre un milione¹⁶.

Per quanto impossibile possa sembrare, più di un quarto dei bambini italiani vive in famiglie a rischio di povertà. Si tratta di 667.000 bimbi con meno di 6 anni: nel 2021 la percentuale era in aumento, il 26,7%, il peggior risultato in quasi trent’anni, dal 1995.

Quindi Tariq potrebbe benissimo chiamarsi Enrico, Francesco o Salvatore perché anche loro abitano “nei palazzoni che si guardano l’un l’altro”. Nel nostro Paese i quindicenni che dopo le medie smettono di andare a scuola sono un numero impressionante. Per avere un’idea delle conseguenze è opportuno ricordare che, all’età di 25 anni, la speranza di vita media per gli uomini con titolo di studio superiore è maggiore di 8 anni rispetto a quella degli uomini senza titolo di studio, o con diploma di scuola elementare o media. Sì, avete capito bene: questi ragazzi vivranno 8 anni di meno dei loro coetanei più fortunati, quelli che hanno fatto la maturità.

In realtà si tratta di una vergogna ben nota: l’ultimo Atlante dell’infanzia (a rischio) in Italia cita un libro del 2005 dell’epidemiologo Michael Marmot dove si spiegava che, percorrendo in metropolitana il tratto che va “dal centro di Washington, abitato da afroamericani poveri, fino a Montgomery County, dove vivono ricchi bianchi”, si poteva vedere l’aspettativa di vita “aumentare di circa un anno e mezzo per ogni miglio percorso. Alla fine del viaggio si erano guadagnati 20 anni di vita [...] Marmot sottolineava così che le condizioni socioeconomiche influenzano la salute della popolazione in una stessa città tanto da creare una differenza nell’aspettativa di vita pari a quella che esiste tra i Paesi ricchi e quelli poveri del mondo”¹⁷.

Alla domanda di Hannah Arendt posta in esergo a questo capitolo, se amiamo abbastanza i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo e lasciarli in balia di se stessi, la risposta dell’Italia da decenni è stata decisamente “no”. I nostri governi hanno deciso di chiudere occhi e orecchie di fronte al fatto che tutte le sfide (sociali, economiche, ecologiche) sono perdute se non riduciamo subito la povertà dei bambini: la media nazionale della dispersione scolastica (che avviene principalmente nel passaggio dalle medie alle superiori) è il 14,5% ma questo dato nasconde il dramma di Sicilia e Sardegna, dove sfiora il 25%, un ragazzo su quattro, né va molto meglio in Campania, dove è circa il 20%, un ragazzo su cinque. Soprattutto, ignora il fatto che anche in Emilia, in Veneto e in Lombardia ci sono migliaia di ragazzi come Tariq. Ho potuto vederlo con i miei occhi andando a Vernate, a un tiro di schioppo da Milano.

La biblioteca di Vernate (3290 abitanti) è un ambiente piacevole, colorato e a differenza di altre biblioteche ci sono console per i videogiochi, molti fumetti e anche tanti manga. Subito fuori c’è una panchina con tre ragazzi, a cui chiedo se sono mai entrati in biblioteca. “A me non piace andare lì dentro”, risponde il meno timido. Gli chiedo se studia: “No, ero scritto alla prima istituto tecnico ma a causa del Coronavirus sono potuto andare poco. Quando ho cominciato, facevo elettrotecnica e mi piaceva molto, per un po’ non ho studiato, sapevo che era colpa mia, poi mi hanno bocciato. Ora lavoro con uno zio, facciamo i mercati. Mi piace, guadagno un po’ di soldi, ho la ragazza. Non ritornerei a scuola”. Che dire? Certo non possiamo sostituire una scuola che non funziona, le famiglie distratte, ma la sfiducia di questi ragazzi è terribile. Se per un caso fortunato avessero scoperto la biblioteca prima di lasciare lo studio forse le cose sarebbero andate diversamente.

Quando me ne vado, un altro del gruppetto mi rincorre per dirmi: “Grazie per avermi rivolto la parola”. Prova, se ce ne fosse bisogno, che agli adulti che incontra di solito di lui non importa nulla.

Alice Keller nel 2018 aveva pubblicato un altro romanzo, La contessa sul tetto, la cui protagonista è la simpatica ragazzina Diana “cocciuta come una testuggine”, con un padre professore universitario che scrive manuali di successo e un’insegnante di violoncello che la tormenta perché non si impegna abbastanza in vista del prossimo concerto. Non svelerò qui il mistero a cui fa riferimento il titolo ma è chiaro che siamo di fronte ai poli opposti del sistema scolastico italiano: un piccolo numero di studenti che studiano nei licei del centro, giocano a tennis, vanno in vacanza con i genitori a Parigi, si esercitano al pianoforte o al violino e si preparano ad andare all’università a Londra o a New York. Un gran numero di alunni che in qualche modo se la cava (tornerò fra un attimo su quello che effettivamente sanno i ragazzi di questo gruppo) e, infine, una grossa minoranza che carica e scarica le cassette dai camion oppure “fa i mercati”.

La scuola è sostanzialmente ignorata nel dibattito pubblico, eppure dovrebbe essere evidente che “è l’ultimo baluardo sociale del contrasto alle disuguaglianze”, come scrive Christian Raimo¹⁸. Se “non permettiamo a tutti i ragazzi di accedere a un’istruzione di qualità, se escludiamo dal mondo del lavoro intere porzioni della società – donne, giovani, migranti – se non facciamo in modo che tutte le aree della penisola concorrano alla crescita del Paese, allora stiamo condannando l’Italia a un lento e inesorabile declino” aggiunge l’ex ministro Francesco Profumo¹⁹.

Una “istruzione di qualità”, che beffa crudele. La realtà è molto più vicina a ciò che descrive Gaja Cenciarelli: “Fino a qualche anno fa la scuola aveva solo l’ala vecchia, ora c’è anche l’ala nuova. Per passare da una classe dell’ala vecchia a una dell’ala nuova ci vogliono sette minuti a piedi, a passo svelto, e sei rampe di scale. Le pareti sono scrostate, nelle aule c’è la lavagna elettronica ma funziona male e l’audio è sempre una sorpresa. Quando non ci sono studenti, la scuola si riempie di rumori metallici, le porte cigolano, si sentono frusciii. Gli ascensori conviene non prenderli”²⁰.

Non stupisce, quindi, che le politiche di contrasto del fallimento formativo e della povertà educativa in questi ultimi anni siano rimaste senza effetto. I motivi li spiega Chiara Saraceno: “Lo svantaggio nelle possibilità di apprendimento può cominciare già nei primi anni di vita. Per questo serve garantire la frequenza al nido indipendentemente dal fatto che le mamme lavorino. È uno strumento di pari opportunità nello sviluppo cognitivo relazionale, emotivo, specie nei bambini in situazioni socialmente deprivate [...] La scuola dovrebbe essere un luogo di pari opportunità ma ci sono differenze. Tra Nord e Sud, per esempio, la distribuzione dei nidi ma anche del tempo pieno nella scuola dell’infanzia e dell’obbligo. A Sud è spesso a tempo parziale, non c’è la mensa, che per i poveri è fondamentale. Secondo un calcolo della rete EducAzioni, chi non fa il tempo pieno ha di fatto un anno di scuola in meno. Qui inizia la dispersione scolastica. Ed è più evidente nel passaggio tra medie e superiori, quando studenti brillanti e motivati e che vorrebbero continuare a studiare vengono orientati dai genitori a corsi di studio che pensano portino più velocemente al lavoro. L’abbandono scolastico ha un serissimo connotato di classe: riguarda il 7,9% degli studenti dei percorsi professionali, seguiti dagli istituti professionali e tecnici; quelli dei licei si fermano all’1,6%”²¹.

Un amico insegnante, con una passione infinita per il suo lavoro, mi dice: “In quinta elementare i ragazzi non sanno fare più le divisioni, è una tragedia”. Purtroppo è così e lo strumento che possiamo usare per andare più a fondo è l’indagine internazionale TIMSS del 2019, dove gli studenti di terza media vengono suddivisi in quattro livelli di rendimento che rappresentano l’insieme di nozioni in matematica e scienze che dovrebbero aver acquisito: livello avanzato (almeno 625 punti), alto (550 punti), intermedio (475 punti) e basso (400 punti).

Al livello avanzato, gli alunni sono in grado di applicare la matematica e ragionare in una varietà di situazioni problematiche, di risolvere equazioni lineari e fare generalizzazioni. Solo il 3% degli studenti, in Italia, raggiunge questo stadio, mentre il 24% si colloca al livello alto. Risultati simili alla media internazionale ma ben modesti se comparati non solo a quelli dei paesi asiatici ma anche alle performance di altri paesi industrializzati come Israele (40%), Stati Uniti (38%) e Inghilterra (35%).

Al livello intermedio o superiore si colloca il 62% degli studenti italiani. Questo in pratica significa che il 38% dei ragazzi padroneggia solo una matematica elementare, sufficiente appena per affrontare “situazioni chiare”. Purtroppo, le informazioni legate ai problemi della vita quotidiana (bollette, trattenute fiscali, buste paga, mutui o altro) sono ben lungi dall’essere chiare.

Per quanto riguarda le differenze di punteggio tra le diverse macroaree geografiche in cui il campione italiano è diviso, in matematica il Nord-Ovest spicca in positivo con un punteggio medio di 517 insieme al Nord-Est (512), entrambi superiori alla media nazionale di 497. Mentre al contrario il Sud e le isole registrano il punteggio più basso e significativamente inferiore alla media dell’Italia, con un valore di 469.

Non c’è quindi da stupirsi se in Italia metà degli adulti a stento riesce a effettuare le quattro operazioni e si affida ad occhi chiusi alla calcolatrice inserita nel telefonino. L’inerzia della scuola nell’insegnare matematica e statistica significa condannare questa parte della popolazione a vagare indifesa in un mondo assai difficile da capire.

La matematica è il mare in cui siamo immersi nella quotidianità. La mancanza di familiarità con numeri e percentuali ha effetti immediati sulla qualità della vita: controllare la busta paga, leggere l’estratto conto, capire se le nostre tasse aumenteranno o diminuiranno. Confrontare le offerte degli operatori telefonici, i tassi sui mutui offerti da due banche, capire se il rischio di viaggiare in aereo è maggiore di quello di viaggiare in auto, sapere se è il caso di preoccuparsi per l’aumento dell’inflazione sono capacità necessarie per non farsi imbrogliare.

Non solo: la capacità di pensiero astratto è fondamentale per esercitare i propri diritti. Come scrive Chiara Valerio:

La matematica è una disciplina che favorisce la diffusione della democrazia. Prima di tutto, un matematico non risponde mai al chi ma sempre al cosa, ragion per cui tra il cattedratico che pone una domanda ovvia e il passante che pone una questione interessante, l’attenzione del matematico si rivolgerà prima al passante. È una disciplina che non ammette principio di autorità²².

Nella primavera 2022 si è molto parlato di un altro rapporto di Save the Childrensecondo cui il 51% dei quindicenni italiani non sarebbe in grado di comprendere un testo semplice. Su questo abbiamo i risultati dei test Invalsi, che seguono una metodologia internazionale chiamata PISA. Cosa misurano i test? Nel caso della literacy cercano di accertare “la capacità di comprendere e utilizzare testi scritti, riflettere su di essi e impegnarsi nella loro lettura al fine di raggiungere i propri obiettivi, di sviluppare le proprie conoscenze e le proprie potenzialità e di essere parte attiva della società”²³.

I test PISA suddividono i partecipanti in sette livelli. Secondo l’Invalsi, il livello 2 può essere considerato “un livello base, al quale gli studenti quindicenni iniziano a dimostrare quelle competenze che consentono loro di partecipare efficacemente e produttivamente al mondo reale” (p. 69). Tra il 2000 e il 2009 i quindicenni italiani con capacità di lettura “scarse” (ai livelli PISA 1a e 1b, cioè in difficoltà per capire il senso di un articolo di giornale) erano passati dal 22,7% al 21%, nel 2015 erano diventati il 19,7%, un miglioramento quasi impercettibile, e nel 2018 erano tornati al 23%, come vent’anni prima²⁴.

Si noti che i compiti a questo livello richiedono al lettore semplicemente di:

individuare una o più informazioni dichiarate esplicitamente; di riconoscere il tema principale o l’intenzione dell’autore relativamente a un argomento familiare; oppure di fare semplici connessioni tra l’informazione nel testo e conoscenze comuni di tutti i giorni. Tipicamente, l’informazione richiesta nel testo è evidente e ci sono nessuna o poche informazioni in concorrenza con essa. Il lettore è esplicitamente guidato nel considerare i fattori rilevanti nel compito e nel testo.

Al contrario, ai livelli di comprensione superiori dei testi (5 e 6) quelli dove è necessario “individuare e organizzare diverse informazioni profondamente integrate, e di inferire quale informazione nel testo è rilevante”, l’Italia sembra avere soltanto il 5% di studenti in grado di s

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