Nota
di Mariapia Garavaglia

Questo volume esce in un periodo nel quale ci accorgiamo che non sempre il tempo passa senza... tornare. Ma non è un fatto positivo se significa che, nel suo trascorrere, non abbiamo combinato granché.

Leggendo i discorsi di Maria Paola Colombo Svevo mi sento dentro a tante vicende vissute insieme, con la consapevolezza che ciascuno deve partecipare a lasciare la società ogni giorno migliore di quello precedente.

Se si scorre l’indice del volume, si percorre, attraverso i titoli delle Parti, una traiettoria politica sostenuta da una testimonianza di vita ricca di generosità e competenza, saldamente ancorata a princìpi morali, che Maria Paola ha interpretato nei suoi ruoli politici con autentica laicità.

Dal Comune di Monza, che ha servito da vicesindaco, fino al Parlamento europeo ha compiuto un vero cursus honorum, che ha qualificato ogni sua iniziativa nel partito come nelle istituzioni.

Ha fatto bene la famiglia a desiderare questo volume nel quale parla direttamente Maria Paola.

La prima parte significativamente si intitola La libertà di fare il bene. La politica, secondo l’impegnativa definizione di Paolo VI, è una forma esigente di carità e così è stata interpretata da Maria Paola.

Divenne delegata nazionale del Movimento femminile della Dc dichiarando: «La mia candidatura non nasce né da una questione di immagine, né da una questione di novità o di cambio di generazione. Nasce da una richiesta di impegno da parte di molte amiche che hanno fatto la storia di questo movimento e che mi hanno chiesto di candidarmi, nasce da una comunanza di storia politica che ha legato la mia esperienza a molte di voi».

È questo lo stile che ha caratterizzato ogni circostanza in cui ottenne una candidatura.

Il bene comune e il bene tout court si manifestavano nello svolgere con diligenza, passione e fermezza d’animo il compito legislativo in Regione Lombardia, in Senato e nel Parlamento europeo.

La prima riforma, esemplare e antesignana, che ho sempre considerato un capolavoro politico, è stata il piano regionale dei servizi socio-assistenziali, il primo piano specificatamente assistenziale elaborato in Italia, con le leggi regionali 35 e 39 del 1980. Maria Paola Colombo Svevo ha attuato una nuova organizzazione dei servizi socio-assistenziali in una fase di recessione economica e in un clima culturale segnato da diffidenze e ostilità nei confronti del progressivo ampliamento dell’intervento statale.

Le Unità sanitarie divennero socio sanitarie (Uss) per guardare alla persona nella sua interezza.

Non solo perché responsabile delle donne democristiane ma per profondo convincimento, introdusse nel dibattito del partito le problematiche relative alla condizione delle donne in Italia. «La donna forza di cambiamento» fu il messaggio che lanciò, proponendo una profonda riflessione sul ruolo della donna nella famiglia e della famiglia nei rapidi e radicali mutamenti della società. Le lacune attuative di molti princìpi della nostra Carta rappresentarono i punti di attacco per la proposta e l’approvazione di molte sue leggi. Testimonianza e impegno portati anche in sede europea.

Difficile ricordare in breve le tante iniziative promosse da Maria Paola Colombo Svevo. Non si può dimenticare la sua attività in Europa: dal 1994 al 1999 è al Parlamento europeo, dove è stata collega dell’on. Pierluigi Castagnetti, che le dedica un formidabile ricordo nella Prefazione di questo volume. In quella sede ha continuato a rivolgere il suo intenso impegno agli ultimi, agli invisibili, con uno sguardo sempre femminile sulle cose. Nel 1995 è nominata relatrice del progetto sulla Parità di retribuzione per lavoro di pari valore e sulla Tratta di esseri umani. Come relatrice di quest’ultimo progetto, nel 1996, al termine di una lunga attività di sensibilizzazione sull’argomento, è riuscita a ottenere l’approvazione delle linee guida nella lotta al traffico di donne e minori a scopo di sfruttamento sessuale, che rappresenta il primo intervento delle istituzioni europee per la repressione di tale reato e per l’adozione di servizi di tutela e integrazione sociale delle vittime. Nel 1998 è designata quale relatrice del progetto Ruolo delle cooperative nella crescita dell’occupazione femminile. Inutile ricordare quanto rimangano purtroppo attuali queste sfide.

Le doti fondamentali che hanno permesso a Maria Paola di emergere sono state la sua intelligenza e sensibilità nel fare gruppo, la capacità di essere aggregante, di valorizzare le intelligenze, di coordinare e portare a termine con costanza iniziative anche difficili, di essere leader non solo perché capace ma perché di esempio in prima persona. Per lei la politica è stata una passione e una vocazione.

Conclusa la vicenda parlamentare nazionale ed europea, Maria Paola si è dedicata all’insegnamento presso l’Università Cattolica di Milano. I corsi nelle discipline sociologiche e psicologiche hanno rappresentato il coronamento della missione di una vita, la valorizzazione di professioni che, quanto più qualificate, migliore avrebbero reso il servizio nelle istituzioni di cura e assistenza, per la dignità della persona fragile. Cornice dei corsi di studio era una visione della società nella quale le risposte più appropriate ai bisogni sociali, sanitari, culturali ed economici corrispondano ai princìpi fondamentali di uguaglianza e pari opportunità per sconfiggere le diseguaglianze.

Fare politica significava attività di studio e di comprensione della vita quotidiana, concreta di ogni singolo cittadino.

Una delle ultime fatiche, cui teneva molto mentre ancora impegnata in politica, la creazione dell’Associazione IRENE (1991), per realizzare progetti di pari opportunità in ambito europeo.

A Monza ha sede la Fondazione Maria Paola Colombo Svevo, voluta dalla famiglia, per mettere a disposizione di studiosi e soprattutto dei giovani, cui sono dedicate borse di studio, una ricca documentazione che narra una storia politica ma soprattutto propone un esempio di come sia possibile vivere e proporre una buona e bella politica.

Prefazione
di Pierluigi Castagnetti

Sono qui raccolti soltanto alcuni dei più significativi interventi di Maria Paola Colombo Svevo, selezionati con intelligenza politica dalla storica Maria Chiara Mattesini, che aveva già curato l’importante biografia uscita nel 2021 per Editori Laterza. Mancano altri interventi nelle aule parlamentari e soprattutto nelle Commissioni, luoghi di lavoro privilegiati da Maria Paola. Privilegiati perché è lì che l’idea si fa testo legislativo, attraverso cuciture e mediazioni in cui lei eccelleva come pochi altri. Era, infatti, molto paziente, tenace, prolifica di levigature a volte molto fantasiose della parola, sottoposta a torsioni, sostituzioni con sinonimi più accettabili, nuances meno assertive, insomma tutto ciò che serviva per costruire intese e convergenze. Nei lavori di Commissione, infatti, dove la relazione con l’interlocutore è face to face, serve intelligenza, ma anche empatia, a volte basta un sorriso o uno sguardo per raggiungere l’intesa. E lei era insuperabile in questo.

Maria Paola, che in Regione Lombardia era stata donna di azione e decisione come assessore ai Servizi sociali e sanitari, una volta arrivata in Senato imparò subito le tecnicalità del lavoro assembleare. C’erano e ci sono parlamentari a cui basta apparire, essere tra i primi firmatari di un testo, per poterselo vendere immediatamente agli elettori del collegio o a qualche giornalista. Maria Paola no, non era così, sapeva che le proposte legislative se non diventano legge sono solo propaganda. Lei era una vera facitrice di provvedimenti legislativi, non di semplici proposte. Ma era non di meno donna di pensiero. Attenta alle dinamiche sociali in Italia e negli altri Paesi dell’Unione europea, sapeva cogliere con largo anticipo le trasformazioni del tessuto umano della società, i nuovi comportamenti collettivi, le mutazioni nelle mentalità, in ultima analisi l’antropologia che lentamente cambiava. Ricordo che un giorno di venticinque anni fa mi disse: «Mi pare di cogliere una relativizzazione del ruolo della famiglia, anche parlando con colleghi insospettabili. Non mi riferisco al valore che noi cristiani le attribuiamo, ma al valore laicissimo della sua funzione sociale. Per molti esiste solo il valore dell’individuo. Ma cosa succederebbe se, sia pure lentamente e gradualmente, un giorno scomparisse questa cellula di solidarietà, di educazione, di compensazione delle frustrazioni della vita, di costruzione di legamenti emotivi e spirituali? Dai, facciamo qualcosa». Sì, sì, pensiamoci, facciamoci aiutare da qualche studioso. Ma per me, che pure avrei dovuto dare un seguito, non foss’altro perché a Bruxelles ero il capo della delegazione italiana, quella suggestione finì lì. Non fu così per lei. Dopo di me proseguì con altri. E soprattutto con altre colleghe di altri Paesi. Non perché ritenesse che il tema della famiglia dovesse essere affrontato solo dalle parlamentari donne, ma perché, pur avendo un’opinione ben chiara sulla parità dei generi e delle rispettive responsabilità, riteneva che nella intelligenza femminile ci fossero antenne più sensibili su certi temi. Prese poi il “toro per le corna” parlandone con colleghe del gruppo con sensibilità culturali e religiose diverse. La osservavo incuriosito prendere un tè a un bar del Parlamento o pranzare allo stesso tavolo alla mensa, volta a volta con una o l’altra, e poi tutte assieme. Le interlocutrici privilegiate erano Viviane Reding e Astrid Lulling (Lussemburgo), Doris Pack (Germania), Ana Palacio (Spagna), Hanja Maij-Weggen (Olanda), Nicole Fontaine (Francia), Marietta Giannakou (Grecia), tutte parlamentari autorevoli nei rispettivi Paesi, di rango ministeriale per intenderci, che avevano con lei grande confidenza e di lei grande stima. Quante discussioni, quanti tentativi di inventare qualcosa che, fermi restando gli ordinamenti nazionali in materia di divorzio e aborto, assomigliasse a una direttiva comunitaria per gli Stati, finalizzata a riconoscere, valorizzare e sostenere la centralità del ruolo della famiglia, come perno di una strategia di consolidamento della coesione delle nostre società. La scelta del valore sociale della famiglia era funzionale anche a trovare un terreno di incontro con i colleghi degli altri gruppi. Ma a lei interessava costruire preliminarmente l’intesa fra i colleghi del gruppo del Ppe, che su questi temi avevano spesso posizioni diverse a causa delle rispettive etiche e sensibilità religiose, oltre che per il condizionamento culturale dovuto a diverse storie ed esperienze nazionali. Quei tavoli in mensa, o a casa propria, dove spesso ospitava colleghi e colleghe per discutere, a me sembravano spesso luoghi ecumenici, intenzionalmente ecumenici: c’erano parlamentari cattolici, luterani, anglicani, ortodossi o semplicemente non credenti. Per costruire intese bisognava infatti affrontare le diversità, con animo aperto e costruttivo. E bisognava creare le premesse per la fecondità del dialogo. Bisognava creare il clima. Ecco, Maria Paola era una bravissima costruttrice del clima necessario per costruire. Cioè per sgombrare i tavoli dai pregiudizi.

Questo è solo un esempio per comprendere il suo modo di concepire e praticare il ruolo di parlamentare europeo. Ma procedeva in questa maniera anche al Senato, dove pure costruì relazioni di collaborazione con diverse colleghe e colleghi della sinistra che la rispettavano per questa sua attitudine al dialogo e al lavoro insieme e, non di meno, perché ne conoscevano la competenza. Questo è un dato ricorrente in tutte le sue esperienze parlamentari: a Maria Paola veniva riconosciuta la competenza. Non affrontava nessun dossier senza aver prima studiato e ottenuto il contributo di chi ne sapeva più di lei. Umiltà e intelligenza.

In modo analogo si mosse sui temi della lotta alle tossicodipendenze o alle organizzazioni criminali che gestivano il traffico degli esseri umani. Non era facile negli anni Novanta individuare il tema della tratta delle donne. Non era, nella sua testa di legislatrice europea, il problema dei flussi migratori (ancora non erano un problema) a preoccuparla e neppure quello della lotta al fenomeno della prostituzione, in sé pur molto grave. Era inquietata dalla mercificazione del sesso, dalla “cosificazione” della donna, dall’incapacità della società di vedere il male – una società che guarda e non vede –, il male della umiliazione della donna, vera vittima, persino se fosse stata inconsapevole di esserlo, perché la cultura dominante le faceva credere che la sua scelta personale fosse una scelta di libertà, una professione come altre, su cui si innestava il male della speculazione mafiosa. Se mai fosse stato possibile fare una graduatoria dell’intensità del male, questo le pareva il più grave: schiavizzare le persone, confiscare loro l’anima e poi confiscare loro il corpo per trasformarlo in cosa, in modo da poterlo commerciare e costruire su quel commercio il più criminale degli affari.

Su ognuno dei temi che maneggiava, con indiscussa competenza come ho detto, le è capitato di intrecciare abbastanza spesso questioni di principio piuttosto complesse, su cui lavorava in solitudine, pur appoggiandosi, non di rado, ai consigli spirituali ed etici, oltre che politici, di “sorelle maggiori” come Rosetta Iervolino e Maria Eletta Martini, e anche di qualche vescovo amico. Ma di lei mi resta il ricordo di una sua personale non consueta solidità interiore.

Tra le “sorelle maggiori” vi era sicuramente la “Cassa”, Maria Luisa Cassanmagnago Cerretti, donna eccezionale, di grande personalità, arrivata in Parlamento europeo nel 1979 già alle prime elezioni a suffragio universale e rieletta altre due volte, che aveva creato il gruppo delle “donne lombarde” (Maria Paola Svevo, Mariapia Garavaglia, Patrizia Toia), come erano identificate a Piazza del Gesù. Un gruppo molto interessante su cui si potrebbero scrivere tante cose, avendo ognuna di loro esercitato un ruolo importante nella politica italiana. Ma la Cassanmagnago era un punto di riferimento per Maria Paola a Bruxelles, e non solo per lei. È stata pioniera nel tracciare il cammino di un europeismo al femminile, in altri tempi, ma non meno di Ursula Hirschmann e Ada Rossi, Maria De Unterrichter Iervolino, Simone Veil Jacob, Marina Corradi e Fausta Deshormes La Valle. Proprio quest’ultima venne presentata dalla Cassanmagnago a Maria Paola come una funzionaria della Commissione, vera espressione di una visione cristiana dell’Europa. Fu un incontro importante e rivelatore di quanto avesse fatto, nei primi decenni di lavoro in sede comunitaria, questa donna italiana ai più sconosciuta a favore dell’integrazione europea e della promozione dell’emancipazione femminile partendo proprio dalle istituzioni comunitarie. Assieme alla francese Jacqueline Nonon riuscì a ottenere l’istituzione di due Unità per le problematiche femminili e a creare – su un’idea di Ursula Hirschmann, moglie di Altiero Spinelli – il gruppo “Donne per l’Europa”. Scoprire che i temi delle donne erano stati portati al centro del dibattito europeo proprio da alcune donne italiane (dall’esterno ha giocato un ruolo importante anche Franca Falcucci, presidente dell’Ueddc) sollecitò in Maria Paola l’idea di riprendere anche queste problematiche, che una cultura cristiana ed europeista aveva emancipato da un approccio, in quei tempi abbastanza diffuso, di un femminismo radicale. Ma ancor più l’incontro, o anche solo la conoscenza attraverso lo studio, di tante personalità femminili aveva maturato in lei il convincimento che bisognasse lavorare per delineare un piccolo pantheon di “madri costruttrici” dell’Europa, da affiancare a quello dei “padri fondatori”, in cui a pieno titolo avrebbe potuto essere collocata la “sua” Maria Luisa Cassanmagnago.

Forme di democrazia diffusa
di Maria Chiara Mattesini

Torniamo a parlare di Maria Paola Colombo Svevo, dopo averne illustrato la biografia politica¹, per rendere conto più nel dettaglio, questa volta, della sua concreta attività parlamentare, nazionale ed europea, pubblicando una selezione dei disegni di legge da lei presentati come prima firmataria, degli interventi svolti al Senato, dove è stata eletta nel 1983 e confermata sino al 1994, di quelli al Parlamento europeo, dove è stata eletta nel 1994, e nelle altre sedi della politica e non. Attività che abbiamo ripartito, come si evince dall’Indice, in sei aree tematiche, quelle che, a nostro avviso, sembrano caratterizzare la sua persona. Tanti gli stimoli che stanno dietro questo lavoro. Tra questi, il desiderio di incrementare le ancora pochissime raccolte di interventi e discorsi delle deputate e senatrici pubblicate fino ad oggi. Ci riferiamo ai soli tre volumi: Angelina Merlin, Angelina Merlin. Discorsi parlamentari, Senato della Repubblica, Roma 1998; Nilde Iotti, Nilde Iotti. Discorsi parlamentari, Camera dei Deputati, Roma 2003; Maria Eletta Martini a 10 anni dalla scomparsa. Discorsi politici e parlamentari, a cura della Biblioteca della Camera dei Deputati, Camera dei Deputati, Roma 2021².

Come accennato, il volume è diviso in sei parti. La libertà di fare il bene, innanzitutto. Nel 1976, il primo convegno ecclesiale organizzato dalla Conferenza episcopale italiana (Cei) era dedicato al tema Evangelizzazione e promozione umana³. Un convegno, come ha scritto Giorgio Vecchio, «unico per la pluralità delle opinioni e la schiettezza del dibattito»⁴. In questo incontro l’attenzione si concentrava sull’analisi della crisi profonda che stava attraversando il Paese. Le posizioni, gli orientamenti e i sentimenti prevalenti convergevano sulla fine dello Stato liberal-borghese, disgregato dalla sua stessa logica interna. Le premesse individualistiche del liberalismo e del liberismo economico si erano dimostrate di fatto impermeabili ai valori sociali della democrazia partecipativa e avevano condotto all’atomizzazione strutturale e civile del Paese e alla corporativizzazione degli egoismi. La logica individualistica, indotta da questa cultura, aveva poi finito con il privilegiare la legge del più forte e aveva alimentato nelle masse, sotto il pretesto dei diritti individuali, l’egoismo, il consumismo, il qualunquismo, con pericolose conseguenze in termini etici, sociali e di partecipazione politica nella e per la collettività. La società diveniva, quasi, esempio di quello stato di natura raffigurato dal modello hobbesiano. Ciò aveva reso la società italiana difficile da capire e da governare, complessa, contraddittoria e ambigua, sfociando – queste le conclusioni del convegno – in una crisi che ormai stava assumendo i caratteri di una vera e propria rottura dell’equilibrio tra capitalismo e democrazia rappresentativa, durato in Italia per circa un ventennio dopo la nascita della Repubblica. Questa crisi, senza dubbio, aveva le sue manifestazioni più macroscopiche a livello delle strutture economiche e politiche, ma si sottolineava come fosse essenzialmente culturale. A livello di popolo, e non più solo di élite, emergeva una domanda nuova di cultura che chiedeva e si traduceva nella esigenza di superare il sistema sociale «ad alta soggettività e l’imborghesimento di massa [...] e di ricomporne l’unità non solo in una coscienza civile nuova, ma anche nelle istituzioni sociali, nella prassi politica e nell’economia»⁵. Padre Bartolomeo Sorge, tra gli organizzatori dell’incontro, alludeva alle nuove forme di partecipazione, come fenomeni di ricomposizione sociale e culturale, che stavano nascendo in alternativa alle strutture e alle istituzioni liberal-borghesi, ispirate, queste ultime, a una concezione del potere sostanzialmente privatistica e verticistica. Si pensi, infatti, alle nuove modalità di aggregazione, di democrazia di base e di partecipazione nelle città (circoscrizioni, comitati di quartiere, associazioni di consumatori, di inquilini, ecc.), nella scuola (organi collegiali o consigli ai vari livelli), nel mondo del lavoro (assemblee, consigli di fabbrica, consigli di zona) e nell’amministrazione dello Stato (Regioni, unità locali dei servizi assistenziali e sanitari, comprensori, comunità montane, ecc.).

Alla Conferenza veniva posto l’accento sull’importanza e sul ruolo delle relazioni instaurate dalle organizzazioni di volontariato, nonché sui «processi di generatività sociale e mutua assistenza»⁶, come amava dire il sociologo Achille Ardigò, presente al convegno, di cui anch’egli era stato uno degli organizzatori. Lontano dagli esiti pessimisti e catastrofici di un Augusto del Noce, Ardigò concludeva così il suo intervento: «per molti segni, per lo stesso significato della tanta noia e stanchezza e quieta disperazione che avvertiamo oggi, mi sembra che il bisogno di Cristo, il bisogno di contemplazione e di autentica umile fraternità nella rinnovata tradizione cristiana del nostro paese, sta erompendo dal sottosuolo stesso della società profana. E preme alle porte della Chiesa e chiede risposta. Al di là di tanti complicati discorsi, mi sembra che la domanda di intima religiosità personale e comunitaria che va riemergendo nel nostro paese richiede l’annuncio della “nuova via” di Cristo in mezzo agli uomini, nel cuore degli uomini, che li accompagni nelle sofferenze, nei sacrifici, nelle lotte ma anche nel bisogno di dare un senso assoluto alla vita personale, nella fraternità pacifica e nella comunicazione con il Signore»⁷.

Una domanda religiosa e comunitaria che, sulla scia del Concilio Vaticano II e del movimento del ’68, era sollecitata, incoraggiata e promossa dal desiderio e dalle spinte di cambiamento verificatesi all’interno della società. È questo il contesto culturale in cui ha preso le mosse l’attività politica di Maria Paola ed è questa interpretazione, quella proposta, cioè, al convegno della Cei, che ha accolto come criterio delle proprie scelte politiche. Scelte politiche che l’hanno condotta ad occuparsi di determinate questioni e a ricoprire specifici ruoli. Maria Paola non ha mai ambito ad incarichi ministeriali – anche se non avrebbe avuto difficoltà a ottenerli in quanto delegata femminile nazionale, rappresentante, cioè, di tutte le donne iscritte alla Democrazia cristiana, e, come tale, componente della Direzione Nazionale del Partito – preferendo ad essi l’attività parlamentare. In quello stesso convegno veniva, altresì, sottolineato che rispondere alle sofferenze degli emarginati non era compito da delegare a gruppi e operatori assistenziali, religiosi o laici che fossero, ma dovere che investiva tutta la comunità cristiana nel suo insieme⁸. La soddisfazione delle esigenze umane fondamentali, per le fasce più deboli di cittadini, non era da intendersi, perciò, come a volte accadeva fra gli stessi cattolici, come assistenza – concetto che rimanda alla sfera privata e alla scelta individuale –, ma come vero e concreto diritto alla sicurezza sociale. È stato, come si è detto, anche l’approccio di Maria Paola, in un clima, tra l’altro, favorevole al ridimensionamento dello Stato sociale, soprattutto dopo la crisi economica del 1973 e le recessioni internazionali del 1979 e del 1982⁹. Con gli anni Ottanta, infatti, «se non è possibile registrare una secca e immediata dismissione della tradizione welfarista, è comunque facile cogliere i segni di un crescente distacco da essa, incalzata dal successo (apparentemente travolgente) di un modello diverso, collegato allo sviluppo di un sistema postfordista e postindustriale di produzione»¹⁰. Gli incarichi assunti da Maria Paola sono la conferma delle priorità che si è data. Tra questi ricordiamo: assessore ai Servizi sociali al Comune di Monza dal 1970 al 1975; assessore regionale ai Servizi sociali in Regione Lombardia dal 1980 al 1983; membro della Commissione igiene e sanità nel 1983-1984 e nel 1992, della Commissione per le questioni regionali dal 1983 al 1987, della Commissione affari costituzionali dal 1984 al 1987, della Commissione permanente Giustizia dal 1991 al 1992, della Commissione permanente Lavoro previdenza sociale dal 1992 al 1994, della Commissione parlamentare per le riforme istituzionali dal 1992 al 1994, responsabile dell’Ufficio servizi sociali della Democrazia cristiana nel 1982.

Il 26 gennaio 1984 presenta al Senato il progetto di legge sulla riforma dell’assistenza e dei servizi sociali, già da lei anticipato sperimentalmente nel 1980, in qualità di assessore, con il varo del primo Piano regionale dei servizi socio-assistenziali e con l’elaborazione delle linee guida per la legge di riforma dei servizi sociali. In quegli anni, Maria Paola fa anche parte della XII Commissione parlamentare di igiene e della Commissione per le questioni regionali. Fu, quella sperimentazione, un suo “cavallo di battaglia”, una legge precorritrice sostenuta da un’idea di politica fatta di lungimiranza e progettualità. Si trattò del primo Piano regionale dei servizi socio-assistenziali elaborato in Italia. Sul piano nazionale, infatti, non esisteva ancora una legge quadro di riforma e riordino dei servizi sociali, così come era stato prefigurato dalla legge n. 382 del 1975 e dal DPR n. 616 del 1977, tappe importanti del decentramento amministrativo, stabilito agli artt. 5 e 118 della Costituzione, e così come esigeva la riforma sanitaria divenuta legge nel 1978. In questo settore, quindi, era ancora in vigore la legge del 1890 sull’ordinamento assistenziale, la “legge Crispi” n. 6972, che aveva determinato una vera e propria rivoluzione nell’ordinamento degli enti, imponendo la trasformazione obbligatoria della loro natura giuridica da enti di diritto privato a Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (Ipab), con conseguente uniformità dei criteri di funzionamento, della disciplina amministrativa e del sistema dei controlli. Tuttavia, non era una legge organica e generale dell’assistenza, limitandosi a regolamentare le istituzioni di beneficenza. Il quadro normativo nazionale relativo all’assistenza si presentò praticamente immutato, rispetto alla legge Crispi, dinanzi all’Assemblea costituente e per i trent’anni successivi¹¹.

È nel corso e nel clima culturale-politico degli anni Settanta che si aprono nuove prospettive. L’esigenza di riordinare l’intervento pubblico in questo settore diviene inderogabile soprattutto dopo alcune importanti leggi, tra cui quella istitutiva del Servizio sanitario nazionale e quella relativa al trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative statali in materia di beneficenza pubblica. Inoltre, il fermento suscitato dal movimento di partecipazione proveniente dal basso, una diversa e maggiore attenzione ai problemi delle fasce di popolazione più deboli, le battaglie per il superamento degli enti inutili e contro l’emarginazione di minori, handicappati, malati di mente, anziani in istituto avevano suscitato attese e speranze anche per una nuova impostazione dei servizi assistenziali¹². Maria Paola si è spesa in particolar modo per l’applicazione del DPR 616, che prevedeva un sensibile trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni e agli enti locali, modificando, così, in misura sostanziale, l’assetto del potere pubblico, nel senso di una maggiore valorizzazione delle autonomie locali e permettendo, quindi, ai cittadini di avere un ruolo più attivo e partecipe nelle scelte da fare e nell’opera di controllo su quanto andava realizzandosi. Grazie anche alla collaborazione con alcune figure della gerarchia ecclesiastica e agli intensi rapporti coi mondi del volontariato e dell’associazionismo, Maria Paola, partendo da una concezione della questione sociale come questione democratica, elaborò un welfare personale e familiare. Cosa voleva dire? Voleva dire che non bastava cambiare il quadro costituzionale, non era sufficiente il decentramento, non ci si poteva accontentare di aver avvicinato le persone al potere – inteso come possibilità di intervenire e di incidere sulla realtà – se la qualità di questo potere rimaneva immutata. Significava dare voce ad una pluralità di forme di solidarietà di base che si stavano organizzando in una realtà autogestita, varia e composita, rimasta, si doleva Maria Paola, una «zona latente» del sistema assistenziale¹³. Tra l’altro, questa attenzione al sociale caratterizzava anche i movimenti femministi che, alla pratica dell’autocoscienza, affiancavano forme di intervento sociale, collaborando sovente con le associazioni femminili cattoliche¹⁴. Fare democrazia, quindi, voleva dire che la riorganizzazione dei servizi sociali doveva andare ben oltre il decentramento burocratico delle competenze, per mettersi in sintonia con le esigenze di autogoverno delle diverse realtà locali. Con questo intento, perciò, era nato il suo Piano socio-assistenziale: con la volontà di riscoprire e valorizzare tutta quella zona latente, ma già esistente e operante, e di superare un sistema di servizio di beneficenza e assistenza di tipo centralistico e settoriale. Col nuovo Piano varato dalla Lombardia, si istituiva un sistema di servizio unitario e flessibile, articolato in unità operative e distribuito secondo una logica che teneva conto delle diverse realtà territoriali. La riorganizzazione dei servizi, infatti, poggiava su questi punti-cardine: la rivalutazione della centralità del territorio, la partecipazione diretta delle persone per una gestione sociale del servizio, l’adozione dello strumento della programmazione di tutti gli interventi e – punto qualificante del Piano – la necessaria integrazione fra servizi sanitari e servizi socio-assistenziali. Questa era la filosofia di fondo del Piano, che Maria Paola traeva dalle riflessioni e dall’esperienza di Luigi Sturzo: «per tutti i servizi rivolti alle persone e attinenti, perciò, alle sfere più delicate della vita, Luigi Sturzo rivendicava uno spazio di libertà: pensava ai servizi vicini al comune, sorretti dalla solidarietà dei cittadini che avrebbe garantito servizi sociali poco burocratici e molto legati alla realtà locale»¹⁵. Per rispettare «l’inviolabile libertà della persona e della famiglia e perché vogliamo fare la felicità dell’uomo»¹⁶. Una visione che, si rammaricava Maria Paola, «non fu del tutto vincente nell’Italia del dopoguerra, che preferì seguire una via centralizzata nella politica istituzionale, economica e assistenziale»¹⁷. Di servizi, dunque, c’era bisogno, non di assistenza e sussidi. Già a Monza aveva iniziato a lavorare in questa direzione. La sua attenzione era rivolta in particolare ad agevolare la maternità, aiutando a superare, col sostegno dato alla creazione di asili nido, istituiti nel 1971, l’ostilità che ancora permeava la cultura cattolica, maschile e femminile, e che tradizionalmente aveva manifestato verso questi ultimi, poiché ritenuti “usurpatori” di un ruolo spettante solo alla famiglia.

I criteri ispiratori della proposta presentata nel 1984 al Senato non cambiano: necessità di integrare la politica assistenziale con una visione coerente della politica sociale, previdenziale, scolastica, abitativa e familiare, con lo sviluppo dell’istruzione professionale e dell’occupazione e con i servizi preventivi e riabilitativi; necessità di collegarla al riassetto del territorio, favorendo nel contempo la partecipazione della cittadinanza alla pianificazione, alla gestione e al controllo di tale politica. Una questione complessa, insomma, che deve confrontarsi con i nodi espressi dal rapporto tra libertà, solidarietà, responsabilità individuale e collettiva e intervento pubblico. Nella settima legislatura, la Democrazia cristiana presenta un proprio progetto: si tratta della proposta n. 19 del 5 luglio 1976, presentata da Maria Luisa Cassanmagnago, che, circa un anno dopo, il 24 maggio 1977, viene nuovamente presentata alla Camera, sempre dall’onorevole Cassanmagnago e da altri deputati democristiani. Quello presentato da Maria Paola è il disegno di legge n. 468. La sua proposta legislativa, come s’è detto, cerca di integrare la politica assistenziale con una visione coerente di politica sociale e tenta, inoltre, di collegarla al riassetto del territorio, sottolineando l’esigenza di superare la contrapposizione ideologica e la “guerra di religione” che avevano caratterizzato il dibattito¹⁸. Tra l’altro, nella stesura del progetto, Maria Paola non inserisce gli emendamenti proposti dai colleghi democristiani. L’articolo del suo progetto inerente le Ipab, infatti, rimane fedele all’art. 16 del testo redatto dal Comitato ristretto, istituito in seno alle Commissioni affari costituzionali e affari interni della Camera per discutere le varie proposte, poiché meglio rispondente, nella sua ottica, ad una cultura dei diritti, compreso quello alla sicurezza sociale. Il tema, infatti, aveva diviso lo stesso partito democristiano, una parte del quale ancorata ad una concezione caritatevole e assistenziale che rischiava, però, di avallare lo strumento della delega da parte degli enti pubblici, di rafforzare la cultura del paternalismo da parte degli enti assistenziali e di incoraggiare una passiva accettazione da parte degli assistiti. Certamente, individuare ciò di cui la gente ha bisogno e che deve essere garantito come diritto non è questione semplice. «La complessità della società – scrive Maria Paola –, l’emergere di bisogni sempre più articolati, individualizzati, la forte spinta di autonomia dei singoli e dei gruppi, una rinnovata spinta associativa, l’esplosione di un volontariato che ha in sé forti componenti di giustizia ed è quindi proficuamente dialettico con l’ente pubblico, l’emergere del soggetto famiglia, lo sviluppo della cooperazione di solidarietà, sono tutti segni di un cambiamento profondo e indicazioni di una via da perseguire: il sistema dei servizi è chiamato ad offrire garanzia ed assicurare libertà in una società pluralistica che è soggetto attivo nella realizzazione degli interessi anche collettivi»¹⁹. In questo progetto rientrano il diritto ai servizi socio-assistenziali, il riconoscimento di una pluralità di soggetti, pubblici e privati, e l’esigenza di superare la contrapposizione ancora esistente tra pubblico e privato. Maria Paola aveva preso a prestito la lezione di Ardigò circa la «rivoluzione culturale delle aspettative», secondo la quale la politica assistenziale deve diventare anche promozione del pluralismo di base e delle solidarietà primarie.

Il percorso politico di Maria Paola è stato il tentativo di dare risposta alla crisi cui il citato convegno della Cei aveva dedicato una preoccupata attenzione. A proposito di volontariato, ad esempio, Maria Paola afferma: «Ma allora l’interesse politico al volontariato, l’interesse alla legge non è riconducibile all’interno di quella necessità di creare nuove regole del gioco? [...] E non passa forse anche attraverso questa legittimazione la via più probabile per liberare la società dall’abbraccio spesso soffocante dei partiti per riconsegnarla ad una rappresentanza più diretta?»²⁰. Non è un caso che le Presidenze di Camera e Senato abbiano affidato il provvedimento sul volontariato alla Commissione affari costituzionali, presieduta da Leopoldo Elia, e di cui Maria Paola ha fatto parte dal 26 maggio 1984 al 1° luglio 1987. Sempre non a caso, anche la legge n. 142 sulle autonomie locali tratta delle libere forme associative, prima ancora del ruolo di comuni e province. L’approvazione della legge sul volontariato, infatti, al di là del suo contenuto specifico, si situa all’interno di un disegno che intende coinvolgere soprattutto le riforme istituzionali: difficile diventa armonizzare il rispetto della volontà della cittadinanza e la governabilità delle istituzioni senza il coinvolgimento e lo stretto legame con la realtà sociale di cui l’associazionismo costituisce la forma più vivace. Ecco, perciò, la valenza politica di questa legge, da collocarsi entro la costruzione di un diverso rapporto tra società e Stato, attraverso la valorizzazione dei diritti comunitari e il riconoscimento del ruolo delle società intermedie che, si rammarica Maria Paola, «così poca fortuna hanno avuto nella nostra legislazione ordinaria, dopo l’intuizione rimasta tale presente nella nostra Costituzione»²¹. La dimensione giuridica del volontariato rappresenta «una risposta in positivo alla tendenza di un nuovo corporativismo presente nella società attuale» e supera «la tensione, il dissidio fra pubblico e privato, tra società e Stato riempiendo quel vuoto che rende spesso difficile l’integrazione tra mondo vitale e sistema sociale organizzato»²². Rappresenta, altresì, nel disegno politico di Maria Paola, una forza, non una debolezza. Ha scritto, a questo proposito, Franco Garelli: «Spetta indubbiamente allo Stato e alle strutture pubbliche il compito di garantire condizioni sufficienti di benessere sociale. [...] Ma questa convinzione si accompagna alla coscienza dei limiti connessi a un intervento che, per sua natura, non può che essere istituzionalizzato e burocratizzato. [...] Per vari aspetti l’azione del volontariato permette di superare le rigidità e i condizionamenti insiti nell’intervento pubblico. Da un lato, infatti, le realtà del volontariato risultano informate da quella immediatezza e flessibilità di intervento che pare per molti versi preclusa alle strutture pubbliche. È in relazione a questi caratteri che il volontariato può svolgere una funzione di sperimentazione e di avanguardia nella ricerca di soluzioni più adeguate ai problemi e alle emergenze che si producono nella società contemporanea»²³. L’approvazione della legge ha conosciuto un percorso lungo e difficile. Lo ricorda, nel suo intervento alla Camera il 31 luglio 1991, Maria Eletta Martini, da decenni impegnata su questo tema e, per questo, a buon diritto definita la “madre del volontariato”: «Consentitemi di ricordare che soli 13 anni fa in quest’aula la nostra proposta di inserire nella riforma sanitaria la possibilità che le associazioni di volontariato concorressero alle finalità del servizio sanitario nazionale trovò l’opposizione dura di gruppi politici importanti e la proposta passò per pochi voti»²⁴. Era il segno di un’evoluzione culturale, da attribuire, soprattutto, alla comune cultura che associazioni di diversa ispirazione – laica e cattolica – hanno costruito insieme, contagiando così anche le forze politiche e rompendo lo schema ideologico del “tutto pubblico”, nel segno della valorizzazione delle formazioni sociali, quelle citate nell’art. 2 della Costituzione e che nella Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, presieduta dal liberale Aldo Bozzi, la cosiddetta “Commissione Bozzi”, furono, con una felice espressione, definite «forme di democrazia diffusa»²⁵. È evidente, allora, la veste nuova di leggi come quella sul volontariato, sulle cooperative sociali, se calata entro il quadro decentrato, conseguente l’ordinamento delle Regioni nel 1970. E così, anche la veste nuova della ristrutturazione del sistema assistenziale, pensata come tentativo di risposta ai bisogni di autonomia e di autogoverno.

Abbiamo accennato più volte alla dimensione locale. In questa proposta di democrazia diffusa, infatti, un ruolo importante è attribuito al decentramento dei poteri e delle funzioni. Già dagli anni Ottanta, nei paesi industrializzati stava emergendo un nuovo filone di studi teso alla ricerca di una via allo sviluppo industriale, dopo la crisi del fordismo del decennio precedente, e al rilancio della dimensione locale non più come componente residuale, ma come componente essenziale della globalizzazione, senza, per questo, proporne una teorizzazione idilliaca di mondi tradizionali che resistono alla modernità, bensì «formazioni economico-sociali in cui l’etica del lavoro e il gusto dell’innovazione riassumono un significato pregnante»²⁶. Significativamente, la prima proposta legislativa di cui si fa promotrice Maria Paola nel luglio 1983, appena eletta al Senato, anche per soddisfare le richieste di rappresentanza e tutela del suo collegio, è quella relativa all’istituzione della provincia di Lecco. Il tema del regionalismo e delle autonomie locali era già stato vivacemente discusso all’Assemblea costituente (ad esser precisi, il dibattito era già acceso nell’Italia post-unitaria), trovando soluzione nell’art. 5 della Costituzione, realizzatosi, come è noto, con notevole ritardo nel 1970, mentre continuavano ad essere elusi gli altri livelli dell’ordinamento locale, ossia province e comuni²⁷. La dimensione locale, infatti, è espressione di un processo simbolico: si tratta del riconoscimento di una comunità e della funzione di allocazione e redistribuzione di beni, in risposta, anche, alla crisi di legittimità e rappresentanza, così Maria Paola l’ha intesa²⁸. Di questa complessa vicenda²⁹ abbiamo estrapolato e pubblicato alcuni “segmenti”, come, ad esempio, il dibattito sul disegno di legge presentato da alcuni senatori repubblicani sulla soppressione dell’ente autonomo provincia e sull’abrogazione dell’art. 129 della Costituzione, la cui discussione riguarda, più in generale, il riassetto del sistema amministrativo periferico³⁰. Maria Paola interviene nella stessa seduta, l’8 maggio 1984. Si possono identificare, in modo schematico, due posizioni contrapposte: l’una tendente a configurare la provincia come ente dotato di propri organi elettivi, titolare di funzioni che sono anche, ma tutt’altro che esclusivamente, di programmazione, non senza significative proiezioni sul piano della gestione concreta dei servizi e l’esercizio di compiti di amministrazione diretta; l’altra volta a concepire la provincia come centro intermedio di programmazione e di supporto all’azione esercitata, anzitutto, dai comuni, cui è riservato il ruolo di terminale amministrativo a diretto contatto con i cittadini³¹. Durante la seduta del 9 maggio sono messi ai voti gli articoli del disegno di legge repubblicano: nessuno è approvato e la proposta viene respinta. Il dibattito, aperto il 18 aprile 1985, riprende il 2 aprile 1986³². In quella occasione Maria Paola, che dal 26 maggio 1984 fa parte della Commissione affari costituzionali e dal 26 ottobre anche della Commissione parlamentare per le questioni regionali, prende la parola, anche se «intervenire in una discussione generale che riprende dopo quasi un anno non è proprio usuale e non è neppure facile»³³. Amarezza suscita anche la scarsa presenza in aula, sottolineata più volte e da più parti, nonostante la riforma in discussione sia di enorme importanza.

E poi: a favore della famiglia e dei minori e sempre insieme alle donne, sempre attenta al risvolto femminile delle questioni politiche, come dimostrano le molte proposte di legge avanzate. Basti leggere, poi, l’intervento di Maria Paola al Congresso del Mf nel 1988, in occasione del quale è eletta delegata nazionale, prevalendo sull’altro nome, quello di Gabriella Fanello. Un discorso che riassume le ragioni di una candidatura da non ricercare tanto in una questione di immagine, di novità o di cambio generazionale, ma nella «comunanza di una storia politica che ha legato la mia esperienza a molte di voi», che riassume il senso di un affidamento – parola che ricorre spesso – che le è stato dato e che si è reso esplicito per la complessità della questione femminile da porsi urgentemente come questione politica. Anche sui temi delicati dell’aborto, del divorzio, dell’educazione sessuale, della famiglia, Maria Paola ha invitato a superare lo scontro ideologico. Una prospettiva non facile da adottare, non solo, naturalmente, nel confronto con le deputate appartenenti alla sinistra, ma anche nel confronto con le stesse colleghe democristiane, su posizioni diverse riguardo ad alcune importanti questioni, quali, ad esempio, l’indissolubilità del matrimonio e il riconoscimento dei figli naturali. I dibattiti parlamentari di alcune leggi, come quella del nuovo diritto di famiglia, sono, anche in questo senso, una lettura preziosa e istruttiva³⁴. Nello stesso giorno, il 22 maggio 1992, Maria Paola presenta quattro proposte di legge: “Norme per una politica della famiglia”, “Istituzione di una Commissione parlamentare d’indagine sull’attuazione della legge 29 luglio 1975, n. 405, e sull’applicazione della legge 22 maggio 1978, n. 194, per quanto concerne la prevenzione dell’aborto volontario con particolare riguardo al funzionamento dei consultori”, “Norme sull’introduzione dell’educazione sessuale nella scuola”, “Tutela dell’embrione umano”.

La proposta “Norme per una politica della famiglia” è in linea di continuità con quella avanzata, e poi approvata, da Tina Anselmi nel 1971³⁵, dove, per la prima volta, compariva il concetto di maternità non solo come valore individuale, ma anche come valore sociale di cui la società tutta deve farsi carico. Un concetto, questo, ribadito anche da Maria Paola al Capo I, dedicato al “Riconoscimento del valore sociale della maternità e della paternità”. Possiamo considerare questa proposta come una sorta di summa dei principi fondamentali da tradursi in legge e che costituiscono, infatti, altrettante proposte legislative che nel corso dell’attività senatoriale Maria Paola ha presentato. La famiglia, dunque, al centro delle sue preoccupazioni, come emerge dalla volontà di analizzare l’attuazione della legge istitutiva dei consultori e di alcuni articoli della legge n. 194, sull’interruzione volontaria di gravidanza. Volontà che già era stata espressa, nel 1986 e nel 1987, mediante la presentazione di due identici disegni di legge. In particolare, Maria Paola ritiene necessario ripensare i consultori in un clima meno lacerante che, invece, aveva fatto da cornice alla loro istituzione nel 1975. Il decennio, ricordiamolo, aveva visto la faticosa discussione di tre importanti leggi, quelle sul nuovo diritto di famiglia, sul divorzio e sull’aborto³⁶. Su quest’ultimo, in particolare, il dibattito era stato violento. Le teorie femministe degli anni Sessanta avevano già posto in evidenza il legame tra diritti riproduttivi e principio di uguaglianza, contribuendo a rendere il diritto alla contraccezione e all’aborto una questione anzitutto pubblica e quindi politica e giuridica. «Il rapporto tra cittadinanza femminile, principio di uguaglianza e diritti riproduttivi – scrive Claudia Giurintano – è cruciale nel dibattito di quegli anni, in cui si afferma l’idea che la realizzazione dell’eguaglianza tra donne e uomini, sia nella sfera privata che in quella pubblica, nel lavoro, dipenda in massima parte dalla libertà di decidere se e quando avere figli»³⁷. Ma adesso, nel 1992, nell’intenzione di Maria Paola si può portare avanti una discussione meno conflittuale e rammentare la natura e gli scopi con i quali i consultori sono sorti, criticandone la eccessiva sanitarizzazione che hanno subito (divenendo, per lo più, distributori di contraccettivi) a scapito degli aspetti psicologici, educativi e formativi della sessualità. Un percorso non agnostico che, così ritiene Maria Paola, chiama in causa anche i cristiani, il loro modello di matrimonio, di vita coniugale e familiare.

La mediazione con la cultura religiosa di appartenenza e con la cultura laica è stata laboriosa anche su altre questioni, come quella della sessualità, categoria polisemica che coinvolge altri temi, come quello della verginità, della morale sessuale coniugale, del controllo delle nascite, della prostituzione, della pornografia³⁸. D’altronde, il processo di modernizzazione e secolarizzazione aveva obbligato anche le gerarchie gerarchiche a trattare il tema della sessualità. Era stato Pio XI, per primo, nel 1930, ad affrontare il tema della morale sessuale nell’enciclica Casti Connubii. Il fine principale del matrimonio era la procreazione, anche se si faceva strada, timidamente, il riconoscimento della soggettività degli sposi, colta anche nella sfera sessuale, attraverso il riconoscimento della liceità dell’atto sessuale nei giorni non fecondi della donna. Si trattava, infatti, di una pratica naturale, non artificiale. Sarà, poi, col Concilio Vaticano II che verrà superato il determinismo biologico a favore dell’amore coniugale e della sua espressione sessuale, fermo restando il fine primo di essa, ossia la procreazione. Anche la comunità dei fedeli, e non solo la gerarchia, ha iniziato a confrontarsi e a produrre visioni autonome rispetto alla dottrina, persino conflittuali, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, quando si profila la proposta cattolica di “terza via” tra le rigidità dottrinali e una concezione consumistica del sesso e del corpo³⁹. Le donne cattoliche, dunque, dovevano fare i conti con due pesanti eredità: la richiesta sistematica di una loro remissività, passività ed eterna pazienza e un’educazione religiosa moralistica e repressiva nei confronti della sessualità, sentita come pericolosa e peccaminosa. Aggiungiamo, infine, una osservazione personale: il piacere, qualunque esso sia, anche quello sessuale, non è mai stato considerato un valore come la verità e la giustizia e si tende a distinguere un piacere lecito da un piacere illecito. Ma ci sembra opportuno ritenere che un valore, se è tale, debba esserlo sempre, altrimenti non lo è. A tutt’oggi non esiste l’obbligo, per le scuole, di introdurre l’educazione sessuale come materia scolastica; tale scelta è rimandata all’autonomia decisionale delle Regioni. Anche in questo caso, basta sfogliare gli atti parlamentari per rendersi conto della fatica e della difficoltà di alcuni iter legislativi. Ricordiamo, oltretutto, che era ancora in svolgimento la discussione sulle “Nuove norme a tutela della libertà sessuale”, testo già approvato alla Camera nel 1984, ma che ha conosciuto, anch’esso, un lungo e travagliato percorso, conclusosi solo nel 1996 con la legge n. 66, “Norme contro la violenza sessuale”. Difficoltà che sperimenta anche Maria Paola: «Non ci illudiamo che il dibattito sia facile. Progetti di legge erano stati presentati sin dalla VII legislatura, cioè dal 1976, e ripresentati con modifiche di volta in volta fino ad oggi»⁴⁰. Il nodo da sciogliere è: educazione o informazione? E ancora: è possibile un’informazione neutra? “Educazione”: una parola impegnativa, «così impegnativa da far sorgere anche tra noi qualche legittimo dubbio se non sia il caso di ripiegare su una più tranquilla e forse neutra informazione»⁴¹. Ma è praticabile una informazione neutra e asettica sulla sessualità? O non è vero che la riduzione dell’educazione sessuale alla semplice informazione è già di per sé la scelta di un’educazione che «scinde l’aspetto dei valori e quello psicologico da quello della pura genitalità?»⁴². Se l’informazione può, comunque, essere deideologizzata, l’educazione non può esserlo. Ma se si segue la via più difficile dell’educazione sessuale, il vero problema diventa: educazione a quale sessualità? «Il conflitto tra etica permissiva ed etica dei valori lacera l’attuale società e finisce per orientare la stessa educazione sessuale»⁴³. A quale sessualità aspirare, dunque? Nell’impossibilità di dare una risposta univoca e «anziché appiattirsi su un discorso di valori minimi, si potrebbe consentire una pluralità di opzioni educative»⁴⁴, suggerisce Maria Paola, con il coinvolgimento, necessario, a suo avviso, della famiglia. Interessante e originale ci è sembrata questa posizione, volta non alla ricerca di un nucleo comune minimo di valori – assillo, comprensibile, di studiosi e politici –, che mortificherebbe le svariate possibilità di alternative, in un ambito, tra l’altro, estremamente intimo e soggettivo, ma alla ricerca della pluralità con il mantenimento delle molteplici opzioni valoriali. È stato il metodo di Maria Paola: studiare, approfondire, ascoltare, dialogare, fare rete. Lo ha ricordato Pierluigi Castagnetti nella Prefazione di questo volume: «Quei tavoli in mensa, o a casa propria, dove spesso ospitava colleghi e colleghe per discutere, a me sembravano spesso luoghi ecumenici, intenzionalmente ecumenici: c’erano parlamentari cattolici, luterani, anglicani, ortodossi o semplicemente non credenti. Per costruire intese bisognava infatti affrontare le diversità, con animo aperto e costruttivo. E bisognava creare le premesse per la fecondità del dialogo. Bisognava creare il clima. Ecco, Maria Paola era una bravissima costruttrice del clima necessario per costruire. Cioè per sgombrare i tavoli dai pregiudizi»⁴⁵.

Altro tema delicato, che coinvolge etica, diritto, scienza, e sul quale Maria Paola è intervenuta con un’altra proposta di legge, è la tutela dell’embrione umano, questione su cui, già sul finire degli anni Ottanta, si era sviluppato un appassionato dibattito. La proposta, lo ricorda la stessa Maria Paola, si inquadra nell’impegno che ha coinvolto la comunità internazionale per la formulazione di norme precise a protezione della vita umana prenatale e delle sue caratteristiche genetiche, rispetto alle nuove possibilità di intervento su di essa. Impegno testimoniato anche dalle raccomandazioni n. 934 del 1982 e n. 1046 del 1986 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e, infine, dalle raccomandazioni conclusive della quinta Conferenza sulla bioetica promossa dai sette Paesi più industrializzati e tenutasi a Roma nel 1988. In questo stesso anno vengono presentate numerose mozioni e una proposta di legge del democristiano Mino Martinazzoli. Tra l’altro, il principio della tutela della vita umana era espressamente sancito dall’art. 1 della legge 22 maggio 1978, n. 194, secondo cui «lo Stato [...] tutela la vita umana dal suo inizio». Allora come adesso, si chiedeva che fossero soddisfatte tanto le misure di prevenzione quanto quelle a sostegno delle donne.

In questa pluralità rientra anche la scelta di essere una casalinga, figura controversa anche tra le stesse femministe. La legge per il riconoscimento del valore sociale del lavoro casalingo era già stata presentata al Senato il 5 ottobre 1983, per iniziativa della democristiana Gabriella Ceccatelli. Tra le firmatarie c’era anche Maria Paola. Nell’Annuario Istat 1980 la casalinga appariva ancora tra la popolazione “inattiva”. Del resto, risaliva solo al 1975 una risoluzione del Consiglio d’Europa nella quale si invitavano tutti i Paesi a riconoscere il valore economico del lavoro familiare. In risposta a questa “invisibilità”, nel 1982 erano nati il Movimento Italiano Casalinghe (MOICA), presieduto da Tina Leonzi⁴⁶, la Federcasalinghe (associazioni che rivendicano, tutt’oggi, il diritto delle casalinghe a dare valore al loro lavoro) e, nel 1994, l’Unione Intercontinentale Casalinghe (UNICA). È stata una battaglia culturale, come si accennava, che ha visto coinvolte non solo le donne cattoliche, accusate dalle femministe di privilegiare il ruolo di “angelo del focolare”, ma anche parte dello stesso movimento femminista che, a sua volta, accusava il pensiero marxista di aver definito improduttivo il lavoro svolto tra le mura domestiche⁴⁷. Possiamo definire storica la sentenza della Corte costituzionale n. 28 del 19 gennaio 1995, nella quale si precisa che «fare la casalinga è un lavoro», perché ha un elevato valore sociale ed economico e può quindi essere ricompreso nella norma costituzionale che tutela il lavoro «in tutte le sue forme» (l’articolo della Costituzione cui si riferisce è il 35). In Italia è stato il primo riconoscimento del lavoro familiare.

Linee guida e criteri che Maria Paola ha adottato, coerentemente, anche come componente del Parlamento europeo (PE) nel raggruppamento del Partito popolare dove, eletta nel 1994, rimarrà sino al 1999, continuando ad occuparsi delle donne, della famiglia, delle persone «invisibili». È stata relatrice, nel 1995, dei progetti “Parità di retribuzione per pari lavoro” e “Tratta di esseri umani” e, nel 1998, del progetto “Ruolo delle cooperative nella crescita dell’occupazione femminile”, interessandosi, inoltre, anche di un altro tema scabroso e drammatico, che all’epoca stava appena emergendo, quello delle sette pseudo-religiose⁴⁸. Alle origini della costruzione europea, all’Assemblea comune della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca), tra il 1952 e il 1958, vi era una sola donna, l’olandese Margaretha Albertina Maria Klompé, esponente del Katholieke Volkspartij. I membri del PE – designati tra i parlamentari nazionali dove la presenza femminile era estremamente esigua – non potevano che essere quasi tutti uomini: tra il 1958 e il 1972 cinque donne e 137 uomini siederanno all’Assemblea di Strasburgo e, alla vigilia del voto europeo, saranno sette le elette al PE su un totale di 198 membri. Si trattava di due italiane, Nilde Iotti e Tullia Carettoni, due lussemburghesi, Colette Flesch e Astrid Lulling, un’inglese, Diana Louie Elles, una danese, Mariechen Nielsen, ed una tedesca, Elisabeth Orth. La situazione cambiò sensibilmente nel corso degli anni Settanta. La presenza delle donne nelle istituzioni europee, soprattutto in Parlamento, aveva conosciuto un notevole incremento a partire dal 1979, anno delle prime elezioni dirette a suffragio universale dell’Assemblea di Strasburgo, quando furono elette 69 eurodeputate, pari al 16,8% dei membri. Quanto a rappresentanza femminile, il PE si poneva dunque all’avanguardia rispetto ai Parlamenti dei suoi Stati ed in seguito sarà proprio il PE a indicare la strada da seguire nella realizzazione della parità comunitaria. Un risultato «che, pur legandosi alla definizione di second order election riservata a lungo alle istituzioni europee, sarà decisivo per la democratizzazione della stessa istituzione parlamentare e per il rafforzamento della questione di genere nell’arena comunitaria»⁴⁹. «La place au soleil européen, pendant quelques années, on nous l’a laissée, et nous les femmes l’a prise»⁵⁰: sono le parole di Nicole Péry, eurodeputata dal 1981 al 1997, che ben descrivono l’entrata delle donne al Parlamento europeo, che hanno considerato, al contrario degli uomini, come un impegno di prim’ordine. Basti pensare a Simone Veil, proclamata, nel luglio 1979, prima presidente del Parlamento europeo direttamente eletto, la Président de toute l’Assemblée, come lei stessa si era definita⁵¹, e alle sue iniziative per un ruolo sempre più politico del Parlamento. Le due successive legislature vedono un leggero aumento delle donne: sono il 18% nel quinquennio 1984-1989 e il 19% nel periodo 1989-1994. Incrementi più significativi si registrano nella quarta legislatura (1994-1999) e nella quinta (1999-2004), dove le percentuali saliranno, rispettivamente, a 26% e 30%⁵². Ricordiamo, poi, che l’entrata, nel 1995, della Svezia e della Finlandia nell’Unione europea, due Paesi particolarmente sensibili alle questioni di genere, ha dato nuovo impulso all’affermazione dei diritti delle donne. Inoltre, al momento di insediarsi al Parlamento europeo, Maria Paola può giovare di un clima più conciliante rispetto al decennio precedente, quando persistevano ancora diffidenze e dogmatismi, favorendo l’incontro tra femminismo e prassi politica⁵³. Fruttuoso è stato anche il dialogo tra femminismo laico e cristiano, nonostante le diverse culture di parità di cui ognuna era portatrice⁵⁴. Naturalmente, nelle sedi comunitarie la riflessione è stata meno radicale, soffermandosi, soprattutto, ma non solo, sugli aspetti della donna lavoratrice. Tuttavia, il rapporto tra istanze del femminismo e azione dell’Unione europea, avviatosi a partire dagli anni Settanta, è determinante nel fare di quest’ultima il luogo privilegiato per discutere dei diritti delle donne in Europa. In questo decennio, infatti, si assiste alla convergenza delle richieste comunitarie con quelle del neofemminismo che, diffusosi negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale, aveva sottolineato l’urgenza di salvaguardare i diritti delle lavoratrici. La Comunità avvierà una relazione costante con i movimenti femministi, individuando tra le personalità di spicco del femminismo europeo le esperte più indicate a collaborare al suo progetto d’integrazione di genere⁵⁵. Altro “scoglio” da superare erano le competenze del cosiddetto “terzo pilastro”, cioè della Commissione per le libertà pubbliche e per gli affari interni, che si chiedeva fossero trasferite nelle procedure comunitarie. Un settore che, rappresentando il “cuore” del potere statale, i governi nazionali erano restii a condividere con l’Unione europea⁵⁶.

Il tema della parità di retribuzione, di cui si è occupata Maria Paola, non era nuovo: era stato sancito con l’art. 119 del Trattato di Roma, firmato il 25 marzo 1957. Nonostante le motivazioni prettamente economiche che avevano condotto alla sua elaborazione e la modestia stessa della sua formulazione, questo articolo diverrà la norma guida di un’intensa attività legislativa e giurisprudenziale, atta a riconoscere più ampi diritti di parità. L’Assemblea parlamentare europea assumeva, già durante i primi dibattiti sull’art. 119, un atteggiamento “progressista”, mettendo in luce come il rispetto della parità salariale si legasse al suo valore sociale più che economico, alla necessità di associare concretamente i lavoratori e le lavoratrici al progetto di integrazione. Il 24 giugno 1994 la Commissione per i diritti della donna presenta al PE un “Memorandum sulla parità di retribuzione per lavori di pari valore”, una sorta di documento di base per l’avvio di una discussione su questo tema⁵⁷. Nel suo progetto di relazione, Maria Paola raccoglie gli elementi comuni emersi nei dibattiti, nei convegni e nelle audizioni organizzate dalla Commissione⁵⁸. I dati che scaturiscono, riguardanti, al di là delle differenze, tutti i Paesi, sono la sottovalutazione economica dei lavori femminili, la distribuzione non equilibrata di uomini e donne in tutti i settori, la mancanza di una distribuzione equa del lavoro produttivo, la segregazione professionale delle donne, il deprezzamento del lavoro femminile. Le professioni prevalentemente femminili sono caratterizzate da condizioni lavorative poco soddisfacenti, basse retribuzioni e scarse possibilità di promozione, come testimonia l’on. Joaquima Alemany, deputata catalana della coalizione Convergenza e Unione e membro dell’Istituto catalano per la donna, all’audizione di Bruxelles del 21 e 22 marzo 1995⁵⁹. Così anche in Francia, come conferma Francine Demichel, docente di Diritto pubblico presso l’Università di Paris VIII. Benché esista una legislazione avanzata, la realtà è meno trasparente e incoraggiante: nel 1991 la Francia si situa al penultimo posto tra i Paesi membri della Comunità economica europea in ordine alla presenza femminile nei Parlamenti nazionali⁶⁰. Lilli Gyldenkilde, membro della Commissione affari sociali e occupazione, fa osservare, poi, la sorprendente diversità, anche sul piano linguistico, messa in atto nella descrizione di mansioni lavorative maschili e femminili: quelle maschili sono spesso descritte in termini tecnici e di responsabilità, quelle femminili, invece, di cui scarsamente si riconosce l’impegno, sono rappresentate in termini più semplici⁶¹. Differenze linguistiche che possono avere un ruolo decisivo nello stimare se un determinato lavoro rivesta o meno lo stesso valore. Inoltre, altra causa che pregiudica il valore salariale socialmente attribuito alle donne è la riduzione dell’orario di lavoro, che esse chiedono per far fronte anche agli impegni familiari. Infine, l’aumento delle donne, passate nel 1992 a rappresentare oltre il 40% della popolazione attiva, rispetto allo scarso 30% del 1960, riguarda, tuttavia, un numero limitato di settori e di professioni e, comunque, il tasso di attività femminile è meno elevato se ci si basa sulle ore di lavoro prestate. La stessa Maria Paola ricorda che la definizione di pari lavoro è importante e condiziona fortemente la politica di attuazione del principio della parità salariale. In Spagna, ad esempio, il Tribunale costituzionale aveva giudicato, nel 1993, che le integrazioni retributive concesse ad alcuni salariati erano discriminatorie, poiché il criterio della forza fisica, impiegato per valutare i compiti, non era neutro⁶².

Ancora le donne sono le protagoniste della sua relazione sul “Ruolo delle cooperative nella crescita dell’occupazione femminile”, affidatale, come detto, il 2 settembre 1997. Nel Documento di lavoro del 26 marzo 1998, Maria Paola illustra il contributo concreto che la cooperazione può dare all’occupazione femminile e si chiede se sia possibile considerarla anche un laboratorio di sperimentazione di nuove forme di lavoro e nuove modalità di organizzazione della produzione, soprattutto nell’area dei servizi di interesse collettivo⁶³. In Europa, infatti, stava emergendo un nuovo tipo di impresa, l’impresa sociale, e già dagli anni Ottanta, attraverso numerose risoluzioni, il Parlamento europeo aveva richiamato l’attenzione sulle sue potenzialità. La specificità di tale modello consiste nel combinare imprenditorialità e finalità sociali, «in una sintesi originale che la distingue sia dalle imprese classiche che dalle tradizionali forme di associazioni no profit»⁶⁴. Si trattava di un fenomeno nuovo, che in Italia era già stato formalizzato con la legge n. 381 del 1991 sulle cooperative sociali, il cui primo articolo recitava così: «Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini». La formula cooperativa, insomma, poteva essere considerata «la via italiana all’impresa sociale». L’economia sociale si rivela particolarmente utile per i servizi alla persona. Tali servizi, inoltre, rivestono interesse anche per l’occupazione femminile. Possono, infatti, creare occupazione aggiuntiva, in quanto rispondono a nuovi bisogni; essendo, poi, caratterizzati da elementi immateriali e relazionali riducono la possibilità di sostituire le persone con le macchine e, inoltre, sono in grado di occupare le fasce più deboli della popolazione, come le donne e i giovani. Si prende in ipotesi, dunque, che il modello cooperativo, grazie al tipo di funzionamento partecipativo, fondato sull’autogestione e la responsabilizzazione dei lavoratori, e ad un’organizzazione flessibile, possa contribuire alla capacità di inserimento professionale delle donne e soddisfarne talune esigenze come l’aspirazione all’autonomia finanziaria e decisionale, la compatibilità tra vita familiare e professionale e il miglioramento della qualità della vita. Maria Paola non si nasconde i rischi, sempre presenti e temuti, di una nuova domesticità legata all’impiego delle donne in settori tradizionalmente femminili⁶⁵. La stessa flessibilità consentita dal part-time può aumentare la marginalizzazione della donna nel lavoro. Occorre, innanzitutto, non ideologizzare il modello cooperativo, per sottolinearne, invece, il carattere complementare rispetto agli altri strumenti del servizio pubblico e privato. Il 25 giugno 1998 la Commissione approva il progetto all’unanimità e l’8 luglio è depositata la relazione finale⁶⁶.

Soprattutto al tema della tratta è legato il suo nome. Non mancano, anche in questo caso, difficoltà e differenti ed opposte vedute. L’Europa, unita sul complesso problema del traffico di esseri umani e contro lo sfruttamento sessuale, era, ed è, divisa sul tema della prostituzione. Deve intendersi come tratta solo la prostituzione forzata oppure ogni forma di prostituzione è di per se stessa violenta e quindi identificabile come vera e propria tratta? Alcuni Paesi europei, infatti, non avevano sottoscritto la Convenzione dell’Onu contro la tratta degli esseri umani, approvata il 21 marzo 1950⁶⁷, proprio perché in essa era considerata tratta anche la prostituzione di persone consenzienti. Il nodo da sciogliere, dunque, era la prostituzione e le diverse legislazioni a essa inerenti. In Paesi come l’Olanda, ad esempio, si riteneva che la prostituzione forzata fosse riservata quasi esclusivamente alle donne di colore, mentre si dava per scontato che la prostituzione nei quartieri a luci rosse fosse frutto di una scelta libera e consapevole. La spaccatura era profonda. Ma, ne era convinta Maria Paola, «la tratta e lo sfruttamento sono violenze inflitte alle donne che cancellano ogni parità e la prostituzione non è un lavoro, ma una condizione»⁶⁸. E amaramante osservava: «però la parità non ha agito, in questo campo, anzi sembra aver accentuato la discriminazione»⁶⁹. Alcuni Stati, oltretutto, negavano il fenomeno della tratta, mentre altri lo consideravano secondario. Anche questo tema non è nuovo. Inedite, però, sono le dimensioni e le vittime. Ai flussi migratori dal Sud del mondo si aggiungevano, dopo il crollo del muro di Berlino, quelli provenienti dall’Est Europa. E poi: a cinquant’anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani la prostituzione era espressione di “nuove” libertà «o il segno di una schiavitù non ancora sconfitta?»⁷⁰. E sulla strada, certo difficile, dell’uguaglianza tra uomo e donna, alla ricerca di una reciprocità, termine caro alle donne cattoliche, «la prostituzione non si colloca forse come una ferita profonda? Non è indice di un equilibrio non ancora raggiunto? [...] E che rapporto esiste tra l’emancipazione della donna e questa riaffermazione di potere dell’uomo sulla donna attraverso il sesso a pagamento?»⁷¹. La soluzione stava nell’affrontare la questione della prostituzione come una questione di diritti umani. Con la relazione presentata al Parlamento europeo e la seguente risoluzione adottata da quest’ultimo il 18 gennaio 1996, per la prima volta vengono definiti i contenuti della politica comune dell’Unione europea in materia di tratta. L’istanza di integrazione del contrasto della tratta nell’agenda politica dell’Unione europea, contenuta nella relazione di Maria Paola, ha rappresentato, in quel momento, un’intuizione chiave e una sfida improrogabile di fronte ad un fenomeno che andava diffondendosi anche nei Paesi membri dell’Unione.

Infine, l’ultima parte, Democrazia e rappresentanza, in cui sono raccolti alcuni discorsi e interventi risalenti agli anni Novanta del secolo scorso, quando le cronache di scandali e corruzione, che vedono coinvolti anche molti esponenti della Democrazia cristiana, la cui lunga storia sarebbe finita nel volgere di poco tempo, occupano quotidianamente le prime pagine dei giornali⁷². Tra l’altro, Maria Paola vive quei tragici momenti in veste di commissaria, dopo che nel 1992 Monza, la sua città, viene commissariata in seguito all’arresto di alcuni colleghi di partito. Sono anni, questi, nei quali i rapporti tra società e Stato, tra masse ed élites, tra elettori ed eletti, tra cittadini e politica si fanno sempre più problematici, generando diffusi sentimenti di malcontento, sfiducia e protesta.

Nel 1991 e nel 1993 si svolgono importanti referendum in materia di riforma elettorale⁷³. Il movimento referendario, «un tentativo di raccogliere ma anche di contenere e indirizzare le spinte dell’antipolitica»⁷⁴, era già nato alla metà degli anni Ottanta, per iniziativa di Mario Segni e del Partito radicale. La prima consultazione referendaria, del 9 e 10 giugno 1991, riguardava l’abrogazione della preferenza plurima, quesito non senza significato che ottiene il 95.5% dei consensi. I partiti, in particolare la Dc, sono divisi in correnti interne strutturate come partiti autonomi, con proprie fonti di finanziamento e con propria organizzazione. Le preferenze multiple sono funzionali, quindi, al mantenimento di questo assetto⁷⁵. Assetto che acuisce la competizione infrapartitica su quella interpartitica, mina la coesione e la leale collaborazione fra persone appartenenti formalmente alla stessa organizzazione politica e distorce, infine, il voto in entrata, specie laddove il suo ricorso è endemico, facendo prevalere le istanze personali su quelle programmatiche del partito. Inoltre, altro non trascurabile difetto, il voto di preferenza impone campagne elettorali personalizzate di centinaia, migliaia di candidati e candidate, con la necessità di procacciarsi le risorse per sostenerle, con le quasi inevitabili conseguenze. Il referendum sulla preferenza unica, dunque, chiama in causa, colpendola, la mediazione esercitata dai partiti tra cittadini e sistema politico. «Abbiamo colto l’esito del referendum – questo è il commento di Maria Paola – come segnale di una diffusa volontà popolare di riconoscimento, nei fatti, di quella soggettività che è sancita dalla Costituzione e come sollecitazione a rivedere la legge elettorale»⁷⁶. La seconda consultazione, quella del 1993, si svolge il 18 aprile: l’82,7% degli italiani si dice favorevole all’abrogazione. Anche Maria Paola esprime il suo “sì”, «per costruire un nuovo modello di democrazia»⁷⁷. Riflettendo ancora sul primo referendum, quello svoltosi nel 1991, vi avverte, infatti, qualcosa che trascende i termini contingenti del quesito: «ha dato il senso, a nostro parere, della prospettiva ampia che dovrebbe avere l’impegno riformatore [...]. Il popolo vi ha espresso una domanda forte, un bisogno di rinnovamento»⁷⁸. È il senso morale e politico della prospettiva, più che la declinazione concreta dei suoi contenuti, è questo sentire comune, «questa esigenza prorompente di moralità» che devono essere più attentamente recepiti. È, insomma, «questa sintonia mancata con il Paese che ha sconfitti quanti non hanno capito l’importanza civile e politica di questo referendum».

Tra l’altro, l’impegno delle donne nella vicenda referendaria ha avuto «il senso di una battaglia gratuita»⁷⁹, considerando le incognite rappresentate dagli effetti della preferenza unica. La preoccupazione di Maria Paola, all’epoca anche membro della Commissione parlamentare per le riforme isituzionali, è quella di contrastare una presenza femminile ancora esigua all’interno delle sedi decisionali della politica. Persino il cognome del marito, che la donna deve obbligatoriamente aggiungere al proprio, può essere d’ostacolo al riconoscimento delle candidate da parte di elettrici ed elettori e qualche mese dopo il referendum del ’91 Maria Paola presenta il disegno di legge sul “Riconoscimento alle donne candidate in elezioni del diritto di presentarsi con il solo cognome da nubili o da coniugate”, mentre nel 1993 interviene in merito al disegno di legge concernente l’elezione diretta del sindaco e a quello sulle “Nuove norme per l’elezione della Camera dei deputati”. Le discussioni sull’elezione diretta del sindaco e sull’elezione della Camera, qui pubblicate, sono molto articolate. Crediamo opportune, anche in questo caso, alcune precisazioni, per poter meglio comprendere gli interventi di Maria Paola. Nella seduta dell’11 marzo 1993 si discutono gli emendamenti al disegno di legge n. 940, “Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale”, già approvato alla Camera. L’intervento di Maria Paola si situa al momento di discutere l’art. 4 della proposta legislativa “Modalità di elezione del sindaco e del consiglio comunale nei comuni con popolazione sino a 10.000 abitanti”. Tra i molti emendamenti c’è anche il suo, presentato assieme alla collega di partito Daria Minucci, che recità così: «dopo il comma 4 aggiungere il seguente: “4.bis- Ciascuno elettore può esprimere due voti di preferenza, secondo le modalità stabilite dal comma precedente, solamente qualora tali preferenze siano espresse a favore di candidati di sesso diverso”». Essendo sottoposti altri emendamenti che muovono nella stessa direzione, le senatrici socialiste Ersilia Salvato e Alma Cappiello e la stessa Maria Paola decidono di ritirare i propri per convergere su quello presentato dalla senatrice del Partito democratico della sinistra (Pds) Graziella Tossi Brutti: «Nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere, di norma, rappresentato in maniera superiore ai due terzi». Tra l’altro, precisa la senatrice del Pds, «questo testo risulta analogo a quello che la stessa Commissione per le pari opportunità, nella persona del suo presidente Tina Anselmi, ha diffuso e richiesto di considerare ai membri della I Commissione»⁸⁰. Vediamo, adesso, alcune reazioni. Il senatore Francesco Pontone dichiara il voto favorevole del proprio gruppo, il Movimento sociale italiano; la senatrice Angiola Zilli vota a favore e si augura che anche la Lega Nord si esprima favorevolmente. Prende poi la parola il senatore repubblicano Giorgio Covi, che così motiva, invece, il suo voto contrario: «Apprezzo le battaglie che sono state condotte per acquisire nella società italiana quel posto che le donne meritano, ma ritengo che questo posto non debba essere ulteriormente confermato in base ad una normativa di legge. È una questione di costume che ormai non ha più bisogno di essere assistita da norme di ordine legale. Mi meraviglia molto, poi, quanto è stato detto dalla senatrice Colombo Svevo sulla doppia preferenza; se un cittadino esprime delle preferenze dovrebbe poterlo fare sia a vantaggio di un uomo che di una donna. Perché non debbo essere libero di esprimere la mia preferenza per due donne, se desidero darla a due donne e se ritengo che esse siano più meritevoli degli uomini?»⁸¹. Esprime contrarietà anche il ministro dell’Interno, il democristiano Nicola Mancino: «Vogliamo assicurarci un ombrello protettivo? Vogliamo stipulare una polizza assicurativa attraverso una norma? Non mi pare che questo esalti un ruolo e una funzione che invece vanno conquistati e rispettati da parte di tutti (Applausi dai Gruppi della Dc e della Lega Nord)»⁸². L’emendamento è approvato: su 200 senatori votanti, favorevoli 104, contrari 83, astenuti 14.

Un confronto simile avviene, come anticipato, durante la seduta del 30 giungo 1993 in cui si discute e approva il disegno di legge sull’elezione della Camera. In questa occasione sono sottoposti due emendamenti a firma di un gruppo trasversale di senatrici. Nel n. 1.11, presentato anche da Maria Paola⁸³, si legge: «al comma 1 dell’art. 2 richiamato, nel capoverso, alla fine del primo periodo, inserire le parole “garantendo l’equilibrio della rappresentanza tra donne e uomini”». Le stesse senatrici presentano anche l’emendamento n. 1.8: «al comma 1 dell’art. 2 richiamato e ovunque ricorrano, in tutti gli altri articoli del disegno di legge, sostituire le parole “candidato” e “candidati” rispettivamente con le altre “candidato e candidata” e “candidati e candidate”». Viene accettata la proposta di modifica del senatore Cesare Salvi (Pds), ossia sostituire, nell’emendamento 1.11, “garantendo” con “favorendo”. «Certamente – afferma la senatrice Cappiello – è un’altra cosa, ma mi sembra che in questo momento il nuovo gerundio indichi comunque un télos, una prospettiva e quindi un impegno a perseguire gradualmente ma costantemente tale principio»⁸⁴. Vale la pena di riportare uno stralcio della senatrice Salvato, che ben esprime un sentire comune anche alle altre colleghe: «intendo in questa occasione affermare che norme come queste hanno la loro valenza politica e culturale, ma certamente una minore valenza in termini di efficacia. Abbiamo già visto in occasione delle ultime elezioni amministrative che le donne sindaco sono risultate pochissime. Queste norme hanno soprattutto una minore valenza e una minore efficacia nel momento in cui il sistema elettorale diventa maggioritario. Di per sé il sistema maggioritario non aiuta a costruire un equilibrio della rappresentanza, anzi rende più forti quelli che già lo sono. Pur nel dichiarare il mio voto favorevole, mi preme sottolineare che queste norme devono essere attuate e devono essere viste per quello che sono, cioè norme antidiscriminatorie e non norme con le quali si danno misure assolute»⁸⁵. L’emendamento viene approvato con 107 voti favorevoli, 54 contrari e 17 astenuti, su un totale di 188 senatori votanti.

La stessa posizione Maria Paola sostiene durante la seduta del 3 agosto 1993, sulla discussione e approvazione delle nuove norme per l’elezione della Camera, in dissenso dal proprio gruppo. L’occasione è data dalla votazione dell’emendamento n. 1.100 del relatore democristiano Lorenzo Acquarone, che, alla lettera e dell’art. 1, dove si afferma che «Le liste recanti più di un nome sono formate da candidati e candidate, in ordine alternato», propone di aggiungere: “Ove non si rispetti tale ordine ne va data espressa motivazione”. Interviene il senatore democristiano Carlo Ruffino: «Devo aggiungere che le nostre discussioni sulla riforma delle leggi elettorali si sono contraddistinte per battaglie abbastanza vivaci proprio su questi aspetti particolari. Ci siamo soffermati a discutere su singole parole, su “candidati” invece di “candidate”, sull’alternanza dei sessi, sulla proporzione che “di norma” ci deve essere tra i due sessi nella compilazione delle liste elettorali. Mi pare davvero allora che le discussioni più vivaci che abbiamo svolto in quest’Aula abbiano riguardato questioni – perdonatemi, onorevoli colleghi – del tutto marginali»⁸⁶. All’accusa di incostituzionalità rivolta dal senatore democristiano, che afferma essere opportuno non interferire a proposito dell’art. 3 «ponendo in essere delle distinzioni in base al sesso»⁸⁷, risponde la senatrice Cappiello con l’esortazione ironica a leggere anche il secondo comma del suddetto articolo della Costituzione. Al termine della votazione, l’emendamento non viene approvato⁸⁸.

Crisi di rappresentanza, frantumazione del consenso, ritorno ad una politica genuinamente popolare: questi sono i temi su cui insiste Maria Paola negli ultimi interventi, in concomitanza con la fine di quella Repubblica dei partiti che aveva configurato la storia italiana fino a quel momento⁸⁹. Proprio il partito e una sua necessaria riforma sono i nodi problematici che più le premono. «Ma noi, come partiti, – si chiede Maria Paola – serviamo ancora in questo Paese? O meglio: a cosa serve un partito popolare in una società complessa come la nostra? A cosa serve un partito di ispirazione cristiana in una società che va sempre più secolarizzandosi?»: una forte presa di posizione e una coraggiosa reinterpretazione del concetto di partito e della sua funzione, nel senso di un suo ripensamento e ridimensionamento. I gruppi di cittadini, l’associazionismo, il volontariato esprimono domande politiche che non necessitano di mediazione alcuna e, forse, «se nella società civile crescono altri soggetti, anche noi diventiamo meno momento di mediazione e più momento di individuazione di bene comune, all’interno del quale ricollegare tutti gli interessi di questa società». A proposito di pluralità, Maria Paola aveva già espresso queste posizioni ad un convegno organizzato dalla Democrazia cristiana su “Le Istituzioni della solidarietà”, nel febbraio dell’87, che qui proponiamo. Parlando delle politiche sociali, nel suo discorso sosteneva che queste erano descritte più nelle leggi che costruite nella realtà, pensando, «illuministicamente», che bastasse la norma per fare progredire la realtà. Ciò «poteva andar bene in un mondo fortemente regolato, con un consenso consolidato», ma questo schema era stato rotto e messo in crisi da una società in movimento e mutamento continui. Individuazione, dunque, non mediazione: questo il significato nuovo che Maria Paola intravede e suggerisce per il futuro, attingendo tali idee dall’osservazione di una società che ha raggiunto, grazie anche alle molte leggi varate (se pur faticosamente e con ritardo), maggiore consapevolezza e desiderio di autonomia. Il mutamento più importante, probabilmente, sta proprio in questo desiderio, inserito in un contesto sociale, culturale e politico, soprattutto a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, in cui l’autorità statuale va perdendo progressivamente la sua centralità a vantaggio di nuovi soggetti e gruppi emergenti. Si deve, poi, considerare che il declino delle ideologie e la fine della mentalità ideologica hanno accresciuto la libertà degli individui di assumere e gestire la propria vita, aprendo spazi di autonomia personale prima preclusi. Si consuma, altresì, progressivamente, l’inclinazione a concepire la storia come una totalità significante in grado di fungere da fondamento garantito delle iniziative dell’umanità sulla via dell’emancipazione e, nel contempo, la propensione a immaginare l’umanità stessa in cammino verso una salvezza di cui solo le élite conoscono i fini e i mezzi⁹⁰. Esauritosi, quindi, questo orizzonte universalistico, si tratta, per l’individuo così come per la classe politica, di riuscire a dominare il relativo e la complessità. Per complessità «non si deve intendere semplicemente una generale moltiplicazione, complicazione e interdipendenza degli elementi che interagiscono entro il sistema sociale. Complessità designa più precisamente una dilatazione delle possibilità di esperienza e di azione dei soggetti, indotta da una tendenza evolutiva che accresce la differenziazione funzionale, la specificazione e l’autonomia dei sottosistemi primari del sistema sociale, in particolare dell’economia, della scienza, della politica, delle relazioni familiari e personali»⁹¹. Il tema della società complessa è questione molto dibattuta anche in Italia, durante gli anni Ottanta, tra visioni ottimistiche – quelle del filosofo Gianni Vattimo, ad esempio⁹² – e interpretazioni più critiche del fenomeno della cosiddetta postmodernità, come quelle espresse da Danilo Zolo che, citando Jean-François Lyotard, paragona la società postmoderna al modello hobbesiano dello stato di natura e avverte l’esigenza di una ricostruzione della teoria democratica e l’urgenza della revisione del lessico politico, e del suo valore semantico, che a quella teoria si rifà⁹³.

Il rapporto tra i partiti e i movimenti e la presenza di questi ultimi nella sfera pubblica si sono progressivamente modificati, dopo aver svolto, i partiti, per molti anni, un ruolo cruciale di mediazione fra i cittadini e le istituzioni democratiche, sviluppando un modello inclusivo di coinvolgimento e partecipazione, favorendo l’integrazione sociale e la socializzazione politica e mantenendo due funzioni fondamentali per il sistema di rappresentanza, ossia la trasmissione di domanda di provvedimenti politici e la creazione di riferimenti per l’identificazione e la solidarietà collettiva⁹⁴. Le ricerche descrivono, infatti, con particolare intensità dopo la seconda guerra mondiale, un progressivo avvicinamento dei partiti politici alle istituzioni e un loro allontanamento dalla società civile, andando verso quel terzo modello di rappresentanza definito da Bernard Manin «democrazia del pubblico»⁹⁵. In questa visione, liberati dal controllo dell’ideologia, i canali di formazione dell’opinione pubblica guadagnano gradi di libertà rispetto ai partiti⁹⁶. Tra le principali novità vi sono una critica metapolitica all’or

Forme di democrazia diffusa: buon governo e mondi vitali

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Maria Chiara Mattesini

Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.

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