Introduzione
di Dante Carraro
“Mi basterebbe essere padre di una buona idea.” Medici con l’Africa Cuamm è certamente
il frutto di questo, di una buona idea. Un’idea prima cercata e coltivata con pazienza
e poi vissuta profondamente di persona, così da consentirle di fiorire e maturare.
Il 1950, anno in cui nasce il Cuamm, è lo sbocciare di quel fiore, la concretizzazione
di quell’idea che si è affacciata nell’età giovanile di Francesco Canova. Probabilmente
si è fatta strada proprio camminando, un passo dietro l’altro, un pensiero dietro
l’altro, tra le montagne del Pasubio, vicino a Schio. Un’idea che avrebbe portato
con sé tante domande e interrogativi a cui, con pazienza, Canova avrebbe cercato risposta.
E così, a seguito di quell’intuizione, la scelta forse ancor più rivoluzionaria è
stata quella di partire, di mettersi in gioco in prima persona. Erano anni, quelli,
in cui la figura del missionario laico non esisteva, eppure Francesco, giovane medico,
è partito. Era il 1935, sarebbe tornato dodici anni dopo, nel 1947, accolto in un
Paese indurito dalla paura e dall’esperienza brutale della guerra che aveva lasciato
dietro di sé soltanto rovine. E allora in quel tempo, in quell’epoca di chiusura e
terrore, la sua idea diventa ancora più forte, alimenta la necessità di mettersi in
gioco per i più poveri, per quel mondo che aveva visto totalmente privo di medici
e operatori sanitari. E lo fa contrapponendo alla paura la fiducia, alla chiusura
l’apertura, alla guerra la costruzione di ponti, alle rovine e alle macerie la capacità
di edificare, di rammendare spendendosi in prima persona. Questa era la sua buona
idea.
Una buona idea capace non solo di trasformare la sua vita ma di cambiarla a tanti,
tanti altri a venire. Ed è questo che è successo. Dopo Canova infatti è stato il turno
di Anacleto Dal Lago. Lui è partito per l’Africa due giorni dopo essersi sposato:
il 5 gennaio 1955 insieme alla moglie Bruna salgono su una nave diretta in Kenya,
dove sarebbero rimasti per quindici anni. È una storia di grande pragmatismo e di
profonda tenerezza, quella della partenza di Anacleto e Bruna: lui racconta di aver
venduto la propria moto per riuscire a viaggiare in una camera riservata. Una situazione
potenzialmente imbarazzante, il rischio di trascorrere la luna di miele in una camerata
con altri, che Anacleto riesce a trasformare, a volgere in positivo. Non si è fatto
di certo fermare e ha cercato e trovato una soluzione. Un approccio problem solving, orientato alla risoluzione dei problemi, che poi ha applicato anche sul campo e
che dopo di lui hanno interpretato, e interpretano ancora oggi, tanti altri giovani
che camminano, si lasciano interrogare, cercano, anche disposti a pagare in prima
persona il concretizzarsi di quell’idea.
Ecco da cosa nasce questo libro, dall’onda lunga di un’intuizione che ha saputo poi
coinvolgere e contagiare tanti altri. Quelle che raccontiamo, grazie alla felice collaborazione
con Giuseppe Laterza, sono le storie dei tanti frutti di quella buona idea germogliati
dentro le vite dei nomi e dei cognomi che leggeremo tra le pagine che seguiranno.
Testimonianze vive, concrete, quotidiane di un partire, di un lasciarsi anche ferire
da situazioni e povertà gravissime. Giovani che come Canova hanno cercato di vivere
quell’idea e, mettendo da parte le parole, l’hanno maturata passo dopo passo attraverso
l’esperienza. Sono espressione dell’Italia più bella, questi giovani sfidanti e coraggiosi.
Portano novità, scombinano i piani, fanno confusione, magari, ma ci indicano la direzione
del futuro con sguardo vivo e affamato e come loro i giovani africani che incontrano
e con cui si confrontano costruendo uno scambio continuo di sentimenti, pensieri ed
esperienze.
In un mondo così rapido, turbolento, sempre nuovo, fatto di un flusso continuo di
informazioni, spesso superficiali, hanno avuto la capacità di andare a fondo. Leggendo,
ponendosi delle domande ma soprattutto lasciando che le esperienze vissute cambiassero
la loro vita.
Storie che trovano espressione in forma di lettere. La lettera è la modalità di comunicazione
che da sempre ha caratterizzato la vita del Cuamm, a partire proprio da Canova che
per anni ha tenuto un fitto carteggio con i primi medici inviati. Nel suo archivio
conserviamo 257 corrispondenze con altrettanti destinatari, a testimonianza di quanto
fosse importante per lui restare connesso con chi partiva. Un’esigenza così forte
da portarlo a inventarsi il piccolo periodico “Quattro Venti” proprio per tenere i
contatti tra i medici Cuamm ormai sparsi un po’ ovunque e informare su difficoltà
e prospettive comuni. “In tal modo ci conosceremo meglio e ci renderemo maggiormente
solidali gli uni con gli altri”, scriveva nel primo numero della rivista, nel giugno
del 1965. Nel libro dedicato al racconto della vita di Canova, Luigi Accattoli lo
definisce “la radice di un grande albero”. La radice è, ancora una volta, il simbolo
di quella buona idea che dà frutto e fa crescere un grande albero. Un albero dai rami
intrecciati che si sostengono l’uno con l’altro, in uno scambio di riflessioni e sofferenze
condivise, di gioie infinite e piccole soddisfazioni capaci di tenerti in piedi lì
dove sembra che tutto vada a rotoli e che senti il bisogno di far conoscere all’altro
perché in questo scambio anche l’altro possa sentirsi partecipe e motivato. Ecco allora
perché la lettera. Perché dice il desiderio di condivisione, che è allo stesso tempo
professionale e umano.
La cooperazione è professionalità: si nutre di confronti serrati sui modelli dei sistemi
sanitari da utilizzare, di discussioni sul modo migliore di finanziare i servizi,
sulla capacità di produrre risultati duraturi e di poterli e saperli dimostrare. Nelle
riflessioni raccolte in queste pagine troviamo la professionalità e la serietà che
sono il cardine di qualsiasi progetto, prima dei finanziamenti, prima del denaro.
Professionalità che è anche ricerca: perché è essenziale studiare che cosa funziona
e cosa meno, con metodo rigoroso e con l’obiettivo ultimo di migliorare quello che
si fa. Perché misurare i risultati è necessario: dobbiamo capire se stiamo ottenendo
oppure no quanto ci eravamo prefissati e se non è così ricominciare, porci altre domande.
Solo in questo modo possiamo dire che la cooperazione è davvero agente di cambiamento,
solo quando quel cambiamento può essere dimostrato e, con il risultato raggiunto,
è possibile dare valore anche al finanziamento ricevuto. Quindi non parliamo di una
ricerca fine a sé stessa, fatta per dare spazio al proprio ego, per dimostrare quanto
sono bravo o per vedere il mio nome comparire in chissà quale pubblicazione, non lo
facciamo per diventare famosi. Forse qualcuno sì, lo fa anche per questo, ma noi no.
Noi la chiamiamo “ricerca operativa” perché nasce sul campo, dalle situazioni concrete,
e concreti vogliamo che siano i risultati che ci permettono di capire se l’intervento
funziona. A questo proposito non posso fare a meno di citare uno studio realizzato
a Wolisso, in Etiopia, che è stato, ed è ancora oggi per noi, una pietra miliare.
È la ricerca che ci ha condotti a introdurre, in molti dei centri sanitari in cui
operiamo, le case di attesa, casa de espera in portoghese, waiting house in inglese. Come dice il nome, sono luoghi in cui si aspetta, costruiti con materiali
semplici e facilmente reperibili, luoghi che accolgono le donne nei giorni precedenti
al parto. Le costruiamo vicine agli ospedali, perché queste mamme possano essere lì
quando sarà il momento di partorire. Perché se saranno fortunate avranno bisogno di
poco più di un’ostetrica, ma se qualcosa dovesse complicarsi avranno immediato accesso
alle cure. Uno strumento semplice, modesto, poco costoso, che messo a disposizione
lì, vicino all’ospedale, consente anche di raccogliere i dati in maniera precisa.
E così con metodo, con i numeri, ci siamo accorti che questa soluzione, seppure molto
semplice, poteva avere un impatto decisivo nella diminuzione della morte perinatale,
quella che interviene poco prima o subito dopo il parto. Abbiamo dimostrato che realmente
stavamo riducendo la mortalità del 55%, che significa perdere 45 bambini invece di
100. Ancora tanti, certo, ma è un risultato reale, tangibile, dimostrabile. Una buona
pratica per la salute materno-infantile che è stata riconosciuta anche dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità.
Risultati concreti, potenti, su cui investire in sinergia mettendo insieme personale
italiano, giovani e senior, Cuamm e Università, affiancato al personale africano,
specializzato e in formazione. Questa è la forma che prende la cooperazione capace
di professionalità, competenza e metodo e allora quando tutto questo sta insieme nell’elenco
degli autori di un articolo, in una pubblicazione, leggi molto di più di una ricerca.
Leggi i segni del futuro che vogliamo costruire insieme. Segni di quel vero contributo
che un continente come il nostro, l’Europa, così vicina all’Africa, può dare e può
condividere. I finanziamenti certamente servono ma da soli non possono essere motore
di cambiamento, non possono salvare nessuno. Il vero strumento della cooperazione
è la capacità di costruire insieme: si analizza un problema, si studia un intervento,
si individuano possibili soluzioni e poi si cerca di dimostrarne l’efficacia. Dobbiamo
lavorare su questo. Un Paese come il nostro, l’Italia, che non ha molte risorse economiche
a disposizione, ha però tanta competenza, capacità, tanta passione, dedizione, e questo
deve diventare il nostro strumento per costruire ponti con il continente africano.
È essenziale partire dalla formazione, che non deve essere calata dall’alto ma deve
partire dai problemi, abituarsi ad analizzarli e ad affrontarli insieme. Una formazione
reciproca e non unilaterale: io offro le mie competenze e tu le tue. Le prime più
teoriche, accademiche, le seconde pratiche e legate al contesto. Questo deve essere
il nostro approccio e l’approccio della cooperazione del futuro: non partire dai soldi,
dai fondi, ma dalle persone, dalla formazione. Un approccio che cerchiamo di sottolineare
con forza anche nell’ambito del nostro “corso base”, un corso rivolto a chi parte,
su cui il Cuamm ha da sempre tanto investito, con l’obiettivo di fornire la preparazione
minima necessaria, anche se sicuramente non sufficiente, per affrontare un’esperienza
africana. Parlando di formazione orizzontale non posso non citare poi il master di
secondo livello che abbiamo avviato in Mozambico sulle emergenze pediatriche e neonatali.
Un percorso di studi che mette insieme l’Università Cattolica di Beira, l’Università
Eduardo Mondlane di Maputo e l’Università di Padova e offre agli studenti un titolo
riconosciuto da tutti e tre gli atenei. Ventitré anni di vita la prima, cinquanta
la seconda e ottocento anni di storia quella di Padova, insieme per costruire un futuro
che vogliamo migliore per tutti.
E questo mi porta a sottolineare un altro elemento cardine della cooperazione che
è la condivisione. Condivisione della quotidianità, dell’esperienza vicino alla sofferenza,
vicino alla morte, vicino o dentro la rabbia. La cooperazione è fatta certamente di
numeri ma ancor prima di persone. Spero che leggendo queste lettere ciascuno di noi
possa fare un passo dentro questo mondo e possa sentirsi nutrito e sospinto, perché
è proprio questo il senso dell’ascolto, della lettura e della condivisione: avere
la possibilità di crescere.
Condivisione che è stata anche l’essenza del Collegio Cuamm e che ha avuto in don
Luigi Mazzucato, per tanti anni alla guida dell’organizzazione, il più profondo e
sapiente interprete. “Da questa comunità plurietnica e multinazionale”, ricordava
don Luigi parlando del Collegio, “ho imparato ad avere la pazienza dell’ascolto e
la capacità di mediare tra gli opposti, ma anche a scoprire sensibilità, intelligenze
e doti umane straordinarie fra gli studenti di ogni continente. Dal rapporto personale
con loro ho appreso a guardare al mondo senza pregiudizi e chiusure, con realismo
e ottimismo, con fiducia e speranza e a sentire una profonda simpatia per tutta quella
parte dell’umanità che è umiliata e che soffre, ad amare non ‘le cose del mondo’,
ma ‘le persone che sono più bisognose nel mondo’”. Oggi si parla per messaggini, si
corre il pericolo di comunicare anche le cose più profonde con un Whatsapp, si rischia
di ridurre tutto a una faccetta, un sorriso, a un okay o a un cuoricino. Ma la necessità
profonda dell’uomo, a cui la cooperazione ci richiama, è anche la condivisione delle
vite, fra di noi e con i giovani e le giovani africani. Condividere la loro sofferenza,
condividere le loro aspettative, le loro speranze, la loro fiducia, il loro non mollare,
il loro voler a ogni costo, tenacemente, ostinatamente uscire da quella spirale di
povertà che sembra negare ogni futuro. Essere capaci di incontrare l’altro, di aprirsi
e magari davanti ad una birra consumata insieme, riconoscersi negli stessi valori
sui quali costruire un futuro diverso. Camminando uno al fianco dell’altro, imparando
io da te e tu da me. Ecco allora che quel “con” diventa vero e le lettere che leggerete
uno strumento formidabile per raccontarlo.
Partire è la prima condizione. Significativo come il Canova abbia voluto proprio come
principio inspiratore, potremmo dire come slogan, quel motto evangelico di Matteo
“euntes, curate infirmos” (Mt. 10,6-8). Quasi a dire che, oltre all’impegno a curare
i bisognosi e i malati senza distinzioni di razza, di religione, di etnia, di reddito,
c’è di più.
Quasi a voler aggiungere a quel giuramento di Ippocrate già noto a ciascun operatore
sanitario e a ciascun medico un ulteriore monito: euntes, partite. L’invito ad andare, a partire.Perché ci sono delle povertà nascoste che puoi incontrare solo partendo e che solo
quando le incontri iniziano a interrogarti. Perché l’incontro con l’Africa e la sanità
dei Paesi a risorse limitate è duro. Tra le pagine di questo libro, nelle parole di
chi è partito, leggiamo le fatiche, le speranze e le delusioni dei giovani che si
sono messi in gioco e, con coraggio, sono arrivati fino all’ultimo miglio, là dove
il bisogno è maggiore e le sofferenze e i drammi sembrano insuperabili. Nell’ultimo
miglio impari la frugalità, quella a cui ti costringe la povertà di mezzi e di risorse,
in termini di materiali e di farmaci. È una costante della tua nuova quotidianità,
accorgerti che rispetto a quanto sei abituato ti manca questo, non trovi quell’altro.
Le lettere sono piene di confronti tra la nostra realtà e quella africana e parlano
in modo chiaro della sfida più grande: quella di trasformare questa frugalità, questa
povertà di mezzi, in ricerca e ingegno perché quando gli strumenti non ti aiutano,
trovare strade alternative non è più un’opzione ma l’unica scelta possibile per capire
come curare una febbre o un ascesso. Spesso è lavorando al fianco del tuo collega
africano che finalmente scopri che un modo alternativo per intervenire esiste, che
la tua capacità farà la differenza più di qualsiasi mezzo di cui lamenti la disponibilità
che certo, ti avrebbe dato sicurezza, ma ti avrebbe anche protetto. E invece sei chiamato
ad esporti, a metterti in gioco. La frugalità quindi come limite, ma anche come opportunità
che ti consente di sfruttare al massimo la tua capacità di professionista, la tua
capacità di clinico nel leggere una situazione, nel trovare delle soluzioni. Penso
al nostro Paese, all’Italia, dove ogni anno spendiamo più di tremila dollari pro capite
nella sanità, eppure sembrano non bastare mai. E poi penso all’Uganda, dove i dollari
pro capite spesi per la salute sono 34 eppure, anche in un ospedale rurale, fare medicina
è possibile, fare una chirurgia dignitosa è praticabile. Ecco la frugalità che ci
insegna l’Africa.
E poi c’è il senso del limite che incontri presto e che inizia subito a tormentarti.
L’Africa Maestra quando perdi un bambino, una mamma, un papà, una persona in un modo
che non sarebbe accaduto avendo sufficienti risorse a disposizione. Allora provi quella
sensazione di impotenza mista a rassegnazione, la stessa che leggi da sempre negli
occhi dei tuoi colleghi africani e che incroci nello sguardo addolorato di una madre.
E la sola possibilità è mollare, lasciare andare. Quella sensazione ti ricorda che
la vita ha un limite e che anche tu ne hai, che devi far pace con il delirio di onnipotenza
di cui la nostra esistenza, il nostro cuore, le nostre vite sono intrise perché la
vita è un mistero più grande di te, più grande delle tue capacità e anche delle tue
possibilità. Solo quando lasci spazio a questa sensazione, quando riconosci il confine
e accetti il dolore, inizi a fare pace con te stesso e a sentirti più fratello. Torni
ad essere creatura. Quanta consolazione nell’essere creatura, nell’intuire con serenità
che non tutto dipende da te e che esiste qualcosa di più grande! Tra le parole affidate
alle lettere, in più di qualcuna, leggiamo proprio questo senso del limite che richiama
il mistero della vita, il disegno a cui prendiamo parte e di cui siamo strumenti necessari
ma non onnipotenti. Un insegnamento che la frugalità dell’Africa ci offre e che diventa
ricchezza.
Di recente ho incontrato in Repubblica Centrafricana una giovane dottoressa, specializzanda
in pediatria, una Jpo (Junior Project Officer). Vedendomi si è avvicinata e mi ha
detto: “Don Dante, sono arrivata a Bangui e lo shock è stato durissimo. Non avevo
mai visto prima un bambino morire per cause banali: non parliamo di una leucemia acuta,
un linfoma, un tumore, una neoplasia grave ma di una polmonite trascurata, una dissenteria,
un tetano. Li ho visti morire quando avremmo potuto salvarli ma non ce l’abbiamo fatta
con questi mezzi e queste risorse. Ho provato un dolore misto a rabbia a cui non ero
preparata e che ho scoperto solo venendo qui, partendo. Avevo studiato la mortalità
infantile, sulla carta sapevo cosa fosse ma è quando la tocchi con mano, quando la
vedi con i tuoi occhi che la vita cambia”. Ecco l’importanza di quel partire, euntes. L’importanza di lasciare le carte e i dati statistici per fare esperienza delle
disuguaglianze del mondo sulla propria carne viva: la mancanza di risorse umane oltre
che di quelle finanziarie, l’assenza di personale medico e sanitario, la scarsità
di specialisti e la difficoltà nella formazione.
Penso ai numeri sconvolgenti del Sud Sudan con un’ostetrica ogni diecimila mamme che
partoriscono o alla Repubblica Centrafricana dove i pediatri sono poco più di qualche
manciata e i ritardi nell’accesso alle cure fanno la differenza tra la vita e la morte
per tante madri. Penso a quelle che ogni giorno perdiamo proprio perché non arrivano
nelle strutture sanitarie in tempo, perché l’ambulanza è ferma da un anno, perché
è rotta e nessuno riesce più ad aggiustarla, o perché semplicemente non hai i soldi
per rifornirla di carburante. E penso anche a tutta la gente che non riesce ad accedere
ai servizi perché quel costo è a pagamento e i più poveri non possono permetterselo.
Ecco l’importanza di quel partire, di mettersi in cammino facendo un primo passo,
importante, fondamentale della cooperazione. È un partire interiore che però assume
consistenza profonda proprio nel diventare concreto e anche fisico. È nel partire
che scopri la profonda ingiustizia nell’accesso alle cure per milioni di persone ed
è da qui che nasce l’impegno tenace e inarrestabile per la salute come bene di tutti,
specie i più poveri. Il cammino da fare è lungo ma possiamo accogliere la sfida mettendoci
in gioco personalmente.
Ma certamente quando si parte non si parte mai da soli. Parti sentendo che dentro
di te c’è tutto il patrimonio di bene, di generosità, di spinta frutto della tua storia
personale. Allora parti con la tua famiglia, con la tua comunità, con il tuo ospedale,
con il tuo territorio. Con una ricchezza e una responsabilità. La bellezza del partire
è che in quel partire c’è una famiglia che ti ha educato, un patrimonio di buoni esempi
che hai ereditato. La generosità, la solidarietà, l’attenzione al più povero, all’ultimo,
non sono cose che cadono dal cielo, le maturi all’interno del contesto familiare,
dentro una comunità, un territorio, un’Università che ti forma su questi valori. Allora
senti di dover essere riconoscente e senti anche che questa comunità ti chiede di
essere ambasciatore, ti invia e ti dice: “Fai tu che sei più giovane, più forte, che
hai più coraggio di me e vai anche a nome mio”. Ecco il legame profondissimo, meraviglioso,
bellissimo che si crea poi tra l’operatore, il volontario che parte e chi resta, la
comunità che lo invia e di cui è parte. In questo modo si costruisce un ponte tra
l’Africa che incontra e l’Italia che lo invia. Nella capacità di creare questi legami
e attraverso la condivisione, la partenza è ricchezza che va a nutrire il territorio,
la famiglia, l’Università. E allora, il mondo nuovo che vogliamo costruire lo vogliamo
costruire, sì, con l’Africa ma lo costruiamo anche qui, nelle nostre comunità, perché
quell’Africa così lontana, spesso rappresentata in modo semplicistico da tutto ciò
che è negativo, dalle malattie, dalla guerra, dal dolore, è anche ricchezza ed energia
che torna indietro. Lo dimostra, tra le altre, l’esperienza dei Jpo che, una volta
rientrati, possono raccontare ai loro colleghi quanto fatto, le ricchezze condivise,
le fatiche che diventano però anche vita, sfida, coraggio. Loro, le loro esperienze,
sono risorse preziosissime per le nostre Università che diventano più coraggiose.
È un circolo virtuoso: i primi Jpo hanno dapprima contagiato altri della stessa specialità,
poi della stessa Università, fino poi anche a coinvolgere i direttori della scuola
di specialità e l’Università stessa. Se è vero che siamo partiti da piccoli numeri
– una, due Università –, adesso sono trentanove gli atenei con cui collaboriamo, a
dimostrazione della capillarità di questo contagio. Se è vero che nei nostri territori
italiani una volta erano qualche centinaia i volontari Cuamm presenti, adesso sono
oltre cinquemila distribuiti nelle diverse regioni. Tutto questo parla della ricchezza
del partire, che diventa anche possibilità di creare ponti tra due continenti che
si uniscono via via sempre di più.
E allora faccio mio il sogno che il presidente Mattarella ha offerto qualche anno
fa, il sogno di immaginare e costruire un continente verticale che abbia a nord una
regione che si chiama Europa, di cinquecento milioni di abitanti, e a sud un’altra
regione ancora più grande, che si chiama Africa, di un miliardo e cinquecento milioni
di persone. Al centro, solo un laghetto, il lago Mediterraneo a dividere questo continente
verticale che impara a vivere, a costruire, a ideare, insieme. È il sogno che vogliamo
coltivare con la ricchezza del partire. E come diceva il nostro amato don Luigi: “Noi
continueremo la nostra missione di Medici con l’Africa, perché quest’Africa non rimanga
sempre all’ultimo posto, dimenticata o sfruttata. Noi faremo la nostra parte. I giovani
sono invitati a fare la loro parte. Ciascuno è chiamato a fare la sua parte”.
Cara Elena,
che piacere sentirti, sentire di te e Marco che state bene, della piccolina in arrivo
e della tua nuova vita, lì a Barcellona, in questa stagione in cui le giornate si
allungano e la città è in fiore. Mi chiedi che odore ha la primavera quaggiù, ad Aber
in Uganda. Qui la primavera non c’è. C’è l’estenuante fine della stagione secca, invece,
fatta di polvere, sterpaglie bruciate e caldo impossibile. Ora che me ne parli, mi
accorgo che l’arrivo della primavera mi manca. Quel momento preciso in cui ne senti
l’odore.
Sarai sorpresa forse di sapere che mi capita di pensarti nei momenti più disparati.
A casa, al mattino, quando Polly, la ragazza che ci aiuta coi lavori domestici, arriva
con la figlia avvolta nel kanga, ridendo piano per non svegliarla. Penso a quanto spesso ti capiterà di ridere allo
stesso modo, a luglio, quando la tua Sara sarà appena nata e io sarò qui. Ti penso
in reparto quando, visitando un bambino o una donna gravida, mi chiedo cosa faresti
tu. E, mentre lavoro al mio protocollo, ricordo quei giorni di inizio estate in cui
si stava chini sui libri al sole.
Gli odori di qui. C’è l’odore di terra, innanzitutto, la terra rossa che entra nelle
finestre e negli occhi e ti si attacca alla pelle, alla tua e a quella dei tuoi pazienti,
la terra che respiri quando vai a correre e che scende giù nella doccia la sera. Poi
c’è l’odore dell’erba, che è diverso dall’erba nostra, e l’odore dolciastro delle
sterpaglie bruciate, dei piccoli incendi che vengono accesi ogni giorno per preparare
i campi alla pioggia e per noia. Fiori ce ne sono pochi, e quelli che ci sono, sono
rossi, come il cielo e la terra, e ogni tanto crescono su dei rami secchi come ferite
e sono bellissimi. C’è odore di bestiame e letame. In casa, c’è odore di insetticida,
detergente e delle cose che prepara Polly, che sono spesso fagioli, riso, tè nero,
caffè, mango, avocado, pesce di fiume o stufato. Poi c’è l’ospedale, con il suo odore
di terra, urina, feci e sudore. Il sudore sa di aria aperta e di qualcosa di simile
al cuoio e al fieno sporco, oppure sa di fango e acqua ferma, che è l’odore della
malaria. Non è un odore forte, però, perché le finestre sono sempre aperte, i pazienti
vengono lavati ogni giorno dai familiari (che non si allontanano mai), e perché anche
in ospedale ciò che prevale è la terra, che occupa i due metri più bassi dell’aria
e al mattino colora il sole di rosso. Da quando sono arrivato ha piovuto di rado e
quelle volte si sono alzati odori diversi. La sera si sente odore di erba. Questo
è l’odore che sento mentre ti scrivo.
Stamattina è morto un bambino. Aveva sei anni e mezzo e si chiamava Joseph. È arrivato
in coma con quaranta di febbre, le palpebre color della neve, una milza dura che gli
occupava la pancia e duecentoquaranta parassiti per microlitro di sangue. Le convulsioni
e la febbre erano apparse la sera prima, tornando da scuola. La madre, una volta capito
che non sarebbe riuscita a fargli ingoiare neanche una pillola, aveva marciato fino
a Minakulu per chiedere ai nonni cinquantamila scellini, poi si era legata la figlia
piccola al petto e il grande sulla schiena e aveva percorso a piedi tutti i trentadue
chilometri che la separavano dal nostro ospedale. Aveva attraversato la notte satura
di zanzare senza né luna né stelle, mentre al bambino si alzava la febbre e aveva
altre crisi e lei doveva fermarsi e tenerlo stretto perché non cadesse. Quando è arrivata,
all’alba dell’altro ieri, i soldi che aveva con sé bastavano appena per gli esami
del sangue e per essere trattata. Joseph è rimasto in reparto per quarantotto ore
e non ha mai urinato. Non ha neanche più avuto crisi epilettiche. Ha cominciato l’antimalarico
nel momento stesso in cui ha messo piede in reparto. Per un po’ è sembrato che funzionasse.
I parametri vitali reggevano, la parassitemia e la febbre calavano. Poi, stanotte,
l’edema ha riempito i polmoni, e sono iniziati i rantoli e lo stridore. Era come se
ad ogni respiro si strappasse qualcosa. Come se avesse perso la capacità di coordinare
i movimenti che usiamo per vivere, e l’aria gli rimanesse bloccata in gola in una
disperata sequenza di urla strozzate. Mentre ti scrivo mi sembra di sentirlo ancora.
Mi sembra di vederlo ancora alzare e abbassare il torace stremato assieme alla pancia
e alla bocca e al rumore, quaranta volte al minuto, con le cannule dell’ossigeno attaccate
al volto, il catetere inutile, la flebo attorcigliata alle braccia e la mamma che
gli accarezza le guance e la testa sudata, senza dormire o staccare gli occhi da lui
se non per allattare l’altra bambina, che ha un anno e ha fame. Ha respirato in questo
modo per dodici ore.
So che è capitato anche a te di assistere all’agonia di un bambino, quindi mi perdonerai
se ti scrivo di questo. Però a te sarà capitato in un reparto in cui c’era una macchina
per la dialisi, un monitor, un ventilatore. In un ospedale in cui c’era un servizio
di rianimazione. In una regione del mondo in cui non c’è la malaria. Tu, alla fine,
hai potuto dire che quel bambino non si poteva salvare.
Dopo il reparto, quello che resta delle mie giornate lo passo a studiare la malaria
e a scrivere il protocollo. Qualche giorno fa sono andato a conoscere le ostetriche
che lavorano in clinica prenatale, dove selezioneremo le donne che faranno parte del
nostro studio. Ognuna di loro dovrà compilare un form di raccolta dati e fare il prelievo
per la parassitemia. Quelle che risulteranno positive saranno trattate e qualche goccia
del loro sangue sarà inviata in Italia. Poi saranno seguite fino al parto, quando
capiremo se quelle che sono risultate parassitemiche durante la gravidanza avranno
sviluppato un’incidenza più alta di aborto spontaneo, o avranno partorito bambini
più piccoli, più prematuri o con la malaria congenita. Bambini con un rischio più
alto di morire durante l’infanzia. O, ancora, bambini con l’anemia falciforme, meno
adatti all’invasione del parassita ma che sono, in cambio, condannati a infezioni
ricorrenti e a crisi di dolore per tutta la vita, un dolore cronico che si rintana
dentro le braccia e le gambe e che scava dentro le ossa. L’anemia falciforme qui è
l’espressione della forza che il parassita esercita sull’evoluzione dell’uomo, in
questi luoghi dove la malaria fa il buono e il cattivo tempo, moltiplicandosi nel
sangue e nel fegato, nell’erba umida, nel fango e nelle pozzanghere, che arriva assieme
alla pioggia e riempie le notti di ronzii di zanzara e di febbre. Che scrive da sola
i tassi di mortalità infantile e infetta una donna in gravidanza su tre. Che inizia
a riscuotere il suo credito millenario nei confronti dell’uomo prima ancora che la
vita cominci.
Proprio di fronte al tavolo da cui ti scrivo c’è la Casa d’attesa materna. È il posto
in cui le gravide a termine vengono a passare gli ultimi giorni prima del parto, per
non correre il rischio che il travaglio le sorprenda in un villaggio lontano. Passano
il giorno all’aperto, con i loro pancioni, su un telo colorato che hanno disteso per
terra. A vederle, all’ombra degli alberi o del tetto in lamiera, tra coperte, sacchetti
e bambini, si direbbe che la loro vita sia una promessa di festa. La sera, quando
rientro a casa, sono sempre lì a riposare sul tappetino, fuori dalla zanzariera, la
schiena appoggiata al muretto, i bambini addormentati sulle ginocchia. Aspettano,
in silenzio, lasciando che il loro grembo venga consolato dal cielo e dalle stelle.
Se riusciremo a realizzare questa nostra ricerca, che ora mi sembra così lontana,
sapremo quante di queste donne vengono infettate dalla malaria e saremo in grado,
forse, di prevenire qualche basso peso alla nascita e qualche aborto spontaneo. Inviando
i campioni a Roma sapremo quanti di questi parassiti sono resistenti ai farmaci che
vengono usati ogni giorno per guarire le persone dalla malaria. Un grande sforzo solo
per accedere a questo dato. È una buona ragione per essere in Uganda? È un bisogno
reale? Stiamo facendo le cose nel modo giusto? Spesso mi ritrovo a desiderare che
tu sia qui, perché tu possa vedere queste donne e questi bambini e aiutarci nella
scrittura.
Quando spengo il computer vado a correre lungo la strada che costeggia la chiesa,
a nord dell’ospedale. C’è sempre molta gente per strada, soprattutto bambini. Bambini
che corrono e giocano e fanno pascolare le vacche con dei lunghi bastoni. Che cacciano
pipistrelli e uccellini e attirano i topi fuori dai termitai. Che, arrampicati sugli
alberi, mangiano insetti vivi e mango con tutta la buccia. Che scappano da padri spesso
alcolisti e vanno scalzi a raccogliere l’erba mentre le madri lavorano i campi. Non
appena mi vedono mi salutano e ridono e mi corrono dietro. Mi fanno domande che non
capisco. Dei bambini che corrono, la maggior parte si stanca dopo pochi minuti.
Ieri, però, ce n’è stato uno che mi ha seguito fino al ponte. Un ragazzo sui dodici
anni che correva in ciabatte e camicia da scuola. Non ha parlato granché.
Ha corso al mio fianco, per otto chilometri, mentre scendeva la sera, mezzo metro
davanti a me.
Ti saluto,
Francesco
***
Francesco Vladimiro Segala, nato a Torino l’8 gennaio 1992, infettivologo e ricercatore
presso l’Università “Aldo Moro” di Bari, ha lavorato nel contesto dei sistemi sanitari
di Turchia, Kenya, Senegal, Benin e India.
Nel 2022 è partito per Aber, Uganda, dove ha lavorato come Junior Project Officer
(Jpo) e ha avviato un progetto di ricerca sulla malaria in gravidanza. Nello stesso
anno, ha iniziato un dottorato in Salute Pubblica in partnership con Medici con l’Africa Cuamm, che nel 2023 l’ha portato anche in Etiopia, dove ora
sta implementando un progetto di ricerca sulla tubercolosi.
Ciao Mzee,
uso questa espressione che utilizziamo per rivolgerci ad un anziano molto stimato
e rispettato, perché tu sei il mio “vecchio”, mentore e amico, dottor Mario!
Senza dubbio, l’ottobre del 2007 ha segnato un punto di svolta nel mio percorso professionale,
quando ho fatto quel lungo viaggio di attraversamento dal distretto di Moroto, nella
famosa regione della Karamoja nella parte nord-orientale dell’Uganda, fino al distretto
di Nebbi nella regione del Nilo occidentale, nell’angolo nord-occidentale del Paese.
Un collega mi aveva telefonato perché un amico italiano dell’Ospedale St. Luke di
Angal ricercava un medico e lui riteneva che io fossi la persona adatta per quel ruolo.
Ricordo ancora come l’amministratore dalla voce gioviale, il sig. Simon Wikole, che
tu conosci così bene, si sia messo in viaggio per aspettarmi all’incrocio di Nyaravur,
per poi guidarmi lungo la strada polverosa di due chilometri che ci ha portato all’ospedale.
Quando mi ha portato a casa sua, con la sua allegria, anche senza esserci detti nemmeno
una parola, mi sono sentito decisamente accolto. Il suo essere sempre scherzoso e
simpatico con tutti ha creato un ambiente di lavoro positivo, soddisfacendo anche
le mie aspettative.
Mzee, ti ricordi quando sei atterrato ad Angal, dopo i miei primi quattro mesi di
permanenza? Quel giorno quando ti sei intrufolato tra la pioggia del primo mattino,
vestito con un camice bianco e uno stetoscopio nero in mano? Vederti a distanza mi
ha fatto battere forte il cuore perché mi hanno sempre raccontato la tua passione
e il tuo amore per la Pediatria, ed io ero lì per un giro di reparto. Mi sono letteralmente
paralizzato per la paura dell’ignoto.
Invece, con un grande sorriso sul viso, mi hai allungato la mano da lontano per salutarmi,
chiamandomi per nome. Mzee, mi hai fatto sentire apprezzato e stimato fin da quando
ci siamo incontrati per la prima volta. Come potrei dimenticare quel momento!
Come sei riuscito a fidarti di me così velocemente e a credere in me come buon formatore?
Luca e Arianna erano i due Jpo Cuamm, medici specializzandi, che hai lasciato sotto
la mia guida e supervisione durante il tuo viaggio di ritorno a casa. Ho capito che
mi stavi “plasmando” per un futuro migliore quando me “li hai affidati” per un tirocinio
di un anno. Quanta nostalgia ho di quei momenti in cui ogni sera si beveva un bicchiere
con i Jpo dopo una lunga giornata di lavoro.
Mzee, ti sono così grato della fiducia che hai avuto in me. Anche se ero un medico
molto giovane, hai creduto in me e mi hai sostenuto come Direttore sanitario dell’Ospedale
St. Luke di Angal, un’istituzione che sostenevi da oltre trent’anni, ed io ero lì
da sei mesi. Che rapporto di lavoro fantastico e amichevole il nostro, sei stato di
vera ispirazione per la mia vita.
Mzee, grazie a te il Cuamm ci ha messo a disposizione uno spazio di lavoro adeguato,
il blocco amministrativo che si trova tutt’oggi all’ospedale. È stato allora che mi
hai fatto conoscere il Cuamm, facendomi capire per cosa si batteva: da allora ne ho
molta stima.
Mzee, la tua umiltà, il tuo amore e la tua dedizione verso le comunità vulnerabili
hanno davvero cambiato e dato forma alla mia mentalità professionale. Non mi hai solo
formato come chirurgo ma anche come professionista dedito ai più vulnerabili, a chi
non ha accesso alle cure. Posso ripagarti solo facendo esattamente questo, Mzee!
È così che il Cuamm che tu mi hai fatto conoscere, oltre tredici anni fa, mi ha offerto
l’opportunità di fare esattamente quello per cui con gli Amici di Angal avevi investito
su di me: assicurare assistenza alle popolazioni povere e vulnerabili dell’Uganda.
Con il Cuamm ora sto vivendo il momento più soddisfacente della mia esperienza da
chirurgo e tutor all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Aber.
In qualità di responsabile dei servizi chirurgici dell’ospedale, salvare le vite di
persone svantaggiate, povere, con scarso accesso ai servizi del distretto di Oyam
è stato emozionante e mi ha reso una persona più consapevole e umile. Gli interventi
di chirurgia correttiva e ricostruttiva sono all’ordine del giorno, poiché molti,
per disperazione, prima di venire in ospedale si rivolgono a coloro che praticano
la medicina alternativa, senza alcuna formazione scientifica. Ogni volta, i sorrisi
di gioia e la soddisfazione sui loro volti sono l’aspetto più gratificante. Grazie
alla presenza in ospedale di risorse umane di grandi abilità e competenze, la struttura
è destinata a diventare il centro di riferimento della regione, dato che serve già
in lungo e in largo il bacino di utenza del distretto di Oyam.
La formazione dei Jpo Cuamm di chirurgia mi dà modo di trasferire competenze e scambiare
conoscenze tra continenti, una rara ma grande opportunità per tutti. Mi si allarga
il cuore quando ricevo il feedback dei miei tirocinanti su come la loro esperienza
qui abbia contribuito a definire e plasmare le loro carriere nel proprio Paese. Il
dottor Giulio Iacob, un Jpo che ha svolto servizio ad Aber, proprio dieci giorni fa
mi ha scritto queste parole: “La conoscenza che lei mi ha trasmesso così saggiamente
si è rivelata ancora una volta utile. Le sono molto grato, dottore. Mi manca lavorare
con lei”. Mi sono sentito orgoglioso e gli ho augurato di fare ulteriori passi avanti
nella sua carriera professionale.
Di cos’altro abbiamo bisogno per rendere il sistema sanitario migliore? È mia intenzione
impegnarci nella ricerca operativa, anche per diffondere il contributo del Cuamm all’assistenza
sanitaria in questa parte del mondo. Dottor Mario, mi sento realizzato e tutto questo
grazie all’umiltà e all’amore che mi hai instillato da giovane. Grazie, mio fantastico
amico Mzee, per avermi portato sulle tue spalle. Anche in una prossima vita, sceglierei
ancora il Cuamm per essere al servizio dei più fragili.
Nella mia mente rimane vivo il ricordo del nostro amico comune, il dottor Giovanni
Cardellino. Gioviale e di poche parole, ha sempre voluto migliorare la qualità dell’assistenza
sanitaria e portare il proprio contributo per rafforzare “l’anello mancante” del sistema.
Quando finalmente ci rincontreremo nella prossima vita, terrò tra le mani la foto
che abbiamo scattato usando la macchina fotografica che mi ha regalato e che ho ancora,
otto anni dopo. Ci guarderemo e rideremo insieme come abbiamo sempre fatto. Possa
continuare a riposare in eterno!
Per concludere, Mzee, sei il collega più gentile, onesto e umile con cui abbia mai
lavorato.
Grazie per avermi risollevato quando nessuno ci riusciva, facendomi credere che la
benedizione sia più nel dare che nel ricevere. Mi hai formato per poter garantire
che la salute diventi davvero accessibile a tutti gli esseri umani, in particolare
alle comunità più bisognose e sofferenti. Non avrei mai pensato di lavorare con il
Cuamm con questa stessa visione. Ero destinato a farlo, grazie a te.
Prego che il buon Dio ti conceda più anni affinché la tua generosità continui a giovare
ai più bisognosi.
Aber e non solo, sarà sempre con il Cuamm!
La mia casa, la mia organizzazione al servizio dei vulnerabili.
Che Dio vi benedica,
Jimmy
***
Nato nel distretto di Apac in Uganda nel 1979, Jimmy Odaga consegue la laurea in Medicina
all’Università di Scienza e Tecnologia di Mbarara (Must) e la specializzazione in
Chirurgia all’Università Makerere a Kampala. Vincitore di due borse di studio in Chirurgia
e Urologia presso l’Università Medanta-The Medicity a Gurgaon in India, svolge successivamente
il ruolo di Direttore sanitario e chirurgo all’Ospedale St. Luke di Angal, in Uganda,
dal 2009 al 2016, e poi chirurgo onorario presso l’Ospedale regionale di Arua. Nel
novembre 2021 inizia a lavorare con Medici con l’Africa Cuamm come chirurgo strutturato
presso l’Ospedale di Aber nel distretto di Oyam.
Caro James,
in questi giorni sto pensando molto a tutti voi: stiamo preparando un altro concerto!
Sono convinto che la musica sia un linguaggio universale e mi ha aiutato ad inserirmi
ad Aber quando mi sono unito al vostro Saint Cecilia Choir. Continua a farmi sentire
vicino seppure da qui. È anche grazie al coro e ai concerti organizzati per supportare
il Cuamm (ti ricordi che ti mostravo sempre i video?) che la mia decisione di partire
si è poi concretizzata. Canzoni come Stand Up mi emozionano particolarmente: parla di rialzarsi di fronte all’ingiustizia, di una
grande forza che cresce dalla disperazione e diventa guida anche per altri, portando
alla salvezza. Mi fa pensare a tante situazioni vissute in Uganda e che tuttora non
riesco a rielaborare. Ma, nonostante le difficoltà, ciò che si cantava ad Aber parlava
sempre di gioia, di ringraziamento: non solo nelle occasioni ufficiali, anche nel
quotidiano, come nei canti che sentivo intonare alla sera dalle mamme nel reparto
Maternità. Cantavamo anche in Sala operatoria, ricordi? A proposito, spero che il
piccolo speaker che ti ho lasciato funzioni ancora e che ti faccia pensare a me.
La settimana scorsa ho presentato la mia esperienza con il Cuamm ad alcuni ragazzi
delle superiori. Mi fa sempre piacere essere invitato a questi incontri e faccio di
tutto per esserci e per condividere quello che ho imparato dal punto di vista umano
e professionale durante quei meravigliosi sei mesi vissuti in Uganda insieme, nella
Chirurgia di Aber. Spero che la mia testimonianza aiuti gli altri a riflettere e ad
agire.
Tutte le volte parlo di te e di quanto tu sia stato fondamentale in quei due mesi
e mezzo in cui il mio tutor era lontano. È stata una grande prova, ma con il tuo aiuto
l’ho vissuta serenamente. C’era un gran da fare per gestire quasi quaranta posti letto
chirurgici, gli ambulatori e tutta l’attività in Sala operatoria di urgenza e di elezione
da portare avanti spesso solo con l’aiuto degli infermieri. Proietto sempre la foto
in cui siamo in Sala operatoria insieme, dove hai scritto sotto “another day, another
hustle”, un altro giorno di attività frenetica; tu hai il cappello da cuoco al posto
della cuffia da Sala operatoria. La gente resta stupita che possano mancare anche
le cuffiette e che ci si debba ingegnare anche in questo modo. Sono dettagli banali
ma quando sono ritornato in Italia tutto questo mi è sembrato sproporzionato: mi sono
sentito quasi in colpa mentre allestivamo il campo per un’operazione robotica (con
un costo di migliaia di euro) ripensando ai nostri grembiuli in simil pelle, agli
stivali di gomma che indossavamo per non imbrattarci di sangue, alle maniche dei camici
sterili mezze rotte e gentilmente rammendate, ai telini così piccoli per cui bisognava
prestare grande attenzione per mantenere il campo sterile, alla luce che andava via
durante l’intervento perché il generatore andava in blocco. Ed era già tanto. E tutto
ciò era organizzazione e sforzo di tante persone, in particolare di Sister Elizabeth.
Quanto amore ho visto nel prendersi cura dei pazienti, quanta fatica fisica e mentale
che condividevamo insieme, ad esempio con Anna che dormiva nell’anticamera della Sala
operatoria sotto una zanzariera con suo figlio più piccolo con la malaria e quaranta
di febbre, pronta per fare l’anestesia alle mamme che dovevano sottoporsi a un cesareo
d’emergenza la notte. Una delle foto che mi illumina rivedendola è proprio quella
con lei e Francis, con quel sorriso enorme ed i denti bianchi, bianchi. Mi fa ripensare
alle sue parole: “Il Signore ci vede, il Signore vede quello che facciamo per gli
altri”. Quando me lo ha detto eravamo tutti stanchi dopo tante urgenze e quella frase
mi ha dato tanta forza e mi ha aiutato a non mollare. Probabilmente quel giorno la
fatica la sentivo di più perché stavo già incubando il Covid, che poi scoprimmo insieme
in Sala operatoria quando non sentivo l’odore di quella ferita del collo infetta che
vi fece voltare tutti, mentre io non sentivo niente pur togliendo la mascherina. Anche
allora, James, ti sei preso cura di me!
Affrontare le difficoltà fa crescere. In Africa ho imparato a cercare di trovare una
soluzione ad ogni problema che si presentava con quello che c’era a disposizione.
I miei tutor ugandesi, John e Jimmy, mi hanno insegnato proprio questo, a fare di
necessità virtù. La loro grande esperienza chirurgica in senso lato mi ha aiutato
a crescere in vari ambiti. E tu, James, sei stato per me una guida, come loro! Sono
contento che tutti i miei riferimenti per la professione siano stati africani, è una
fortuna che non è capitata sempre agli altri Jpo. Sicuramente la figura del tutor
è fondamentale per chi viene da tutt’altro contesto lavorativo ed ha a che fare con
patologie spesso molto diverse. Non aver avuto nessun collega connazionale nel lavoro
mi ha aiutato ad integrarmi meglio e a fare di questo contesto la mia nuova quotidianità.
Cambiare la prospettiva è il primo passo per abbattere il pregiudizio.
Tu sai che mi sono formato principalmente nella Chirurgia del fegato, del pancreas
e dei trapianti a Padova, un centro di eccellenza iper-specializzato nella cura delle
patologie in questo ambito. Imparare a gestire la chirurgia in toto, non solo addominale, mi ha fatto crescere molto e acquisire una visione d’insieme.
All’inizio continuavo a dirtelo: “Non ho mai fatto questa cosa”, ed ero anche un po’
spaventato di gestire casi anche complessi di ortopedia, urologia, chirurgia pediatrica,
plastica e di neurochirurgia. Tuttavia, con la profonda professionalità dei vostri
riferimenti, ho affrontato le insicurezze e abbiamo portato a casa tante soddisfazioni.
Anche quando ero solo, condividere le problematiche riscontrate al giro visita mentre
tu eri nel reparto di Medicina mi ha aiutato parecchio, specie per i casi ortopedici.
Ammiro molto voi medici ugandesi, siete duttili e competenti in tutto. Essere responsabili
del Pronto soccorso, il mese dopo del reparto di Medicina e poi ancora di quello di
Pediatria è una cosa impensabile per un medico italiano.
In voi ammiro il desiderio di migliorarsi sempre e l’estrema dedizione per il proprio
lavoro e per gli altri. Ricordo che tutti i pomeriggi il dottor John, mio primo importante
riferimento, in quel paio d’ore di riposo che avevamo nel pomeriggio, si sedeva nella
caffetteria a leggere pubblicazioni scientifiche per essere sempre aggiornato e poco
dopo, ormai al tramonto, vedevo la sua torcia avvicinarsi al reparto per il giro serale.
Vestiva sempre con gli stivaloni bianchi. Quando è arrivato il dottor Jimmy, anche
lui ogni sera si collegava ai corsi di aggiornamento, oltre al suo impegno nell’insegnamento.
Sono proprio contento del rapporto di amicizia che è nato con loro e con te; affrontare
insieme le difficoltà rende uniti. Essere uno staff unito è fondamentale anche nel
momento di bisogno personale, come quando con John siamo andati a far visita a Dokas,
che aveva la tubercolosi attiva e stava malissimo: le abbiamo portato gli avocado
e John le ha costruito una comoda, plasmando la plastica di una vecchia sedia con
un coltello infuocato.
È bello come la condivisione con te, John e Jimmy, ma in generale con tutto lo staff
chirurgico e del resto dell’ospedale, si sia allargata a tante esperienze oltre al
lavoro, come le nostre cene in cui abbiamo conosciuto la diversità di quello che mettiamo
sulle nostre tavole, del modo con cui lo cuciniamo... quanto mi mancano la kassava, le bananette, il jeanut’s pest. E la condivisione della gratitudine che la gente lì ci mostrava donandoci la propria
ricchezza più grande: una gallina. Non a caso conservo tre foto diverse con te, Jimmy,
John e le infermiere con una gallina in mano che poco dopo è finita in pentola. Per
non parlare delle nostre escursioni, delle quali conservo un bellissimo ricordo.
Nonostante tanti successi e pazienti sorridenti e grati tornati a casa in salute,
sai anche quanto pesano le storie tristi. Soprattutto quella di Happy. Per me è stata
la più dolorosa proprio perché riguarda un caso di chirurgia epatobiliare. Happy era
una bambina solare, il suo nome la rappresentava. Era caduta da un albero sviluppando
un ematoma del fegato che poi si era infettato. Ricorderai che con John l’avevamo
mandata in un altro ospedale per drenare l’ascesso radiologicamente, ma dopo un iniziale
miglioramento purtroppo si era riformato. Avevamo deciso di portarla in Sala operatoria,
ma sai bene quanto siano complesse le operazioni al fegato e quanto siano difficili
da effettuare in un ospedale rurale.
I familiari non avevano i soldi per sostenere le cure in una struttura che avesse
gli strumenti per curarla nel migliore dei modi e dovevamo provare a gestire la situazione
come si poteva. Però non c’era il sangue per prepararla all’intervento in sicurezza.
Nel frattempo le è venuta la tosse, pensavamo fosse un’infezione respiratoria ma era
il primo sintomo di una comunicazione dell’ascesso con i polmoni. Questa la causa
che purtroppo ce l’ha portata via, quando finalmente eravamo riusciti a sottoporla
all’intervento; Sister Anna continuava a soffiare aria nei polmoni a mano con il “va
e vieni” per ore e ci siamo dati il cambio per la notte, ma non c’era più niente da
fare. Dopo il grande dolore che abbiamo condiviso con la famiglia, ho compreso un
altro grande insegnamento africano: l’accettazione, la consapevolezza che era stato
fatto il massimo con le risorse a diposizione e che quello era il “God’s will”. Tuttavia
faccio tanta fatica ogni volta che lo ricordo e non mi rassegno al fatto che non tutti
abbiano lo stesso diritto alla salute nel mondo, con le stesse possibilità di cura.
Quella dei costi è una questione che ho fatto fatica a comprendere all’inizio: non
riuscivo a capacitarmi di come ci si dovesse fermare nel servizio offerto in base
alle disponibilità economiche del paziente e della sua famiglia. Ci sono voluti alcuni
mesi per capirlo: è un fatto di sostenibilità. Mi hanno aiutato i pomodori; sì, perché
a un certo punto ho cominciato a pensare al costo delle prestazioni e a convertirli
in pomodori, che erano il prodotto più venduto nei banchetti di verdura fuori dell’ospedale,
verdura dell’orto delle famiglie, dalla cui vendita dipendeva spesso l’intera economia
familiare. Un emocromo costava 25 pomodori. Pensavo a quanti emocromi e quindi pomodori
sarebbero stati necessari per monitorizzare l’anemizzazione di una bambina con
...