1.
La società è morta, viva la società
«Penso che la crisi del coronavirus abbia già dimostrato una cosa, che la società
esiste davvero». È un Boris Johnson pallido, costretto in autoisolamento per l’infezione
da Covid-19, quello che in un video del 29 marzo 2020, nel pieno della prima ondata
della pandemia, rovescia la celebre affermazione di Margaret Thatcher secondo cui
«la società non esiste».
Sceglie con cura le parole l’allora premier del Regno Unito, nell’intento di trasmettere
alla popolazione un messaggio di impegno del governo nella lotta contro il virus,
principalmente attraverso il sostegno a un’istituzione chiave dello stato del benessere
come il sistema sanitario nazionale: «Ce la faremo, ce la faremo insieme». Un messaggio
che suona anche come la prova di una conversione sulla via dell’emergenza, una netta
presa di distanza dalle prime dichiarazioni di sapore darwiniano con cui Johnson aveva
scommesso sull’«immunità di gregge» e avvisato che «molti perderanno i propri cari».
In quella primavera in cui il mondo ha smesso di girare, e per lungo tempo dopo di
allora, in molti paesi colpiti dalla pandemia si è assistito a un interventismo governativo
su vasta scala, a un investimento massiccio in misure di protezione sociale contro
la disoccupazione e i rischi di povertà, a una piena rivalutazione del ruolo dei sistemi
sanitari pubblici, mentre si è affacciata una nuova consapevolezza della sfida ecologica
e dell’urgenza di soluzioni comuni alle minacce globali.
Slavoj �i�ek parlò allora di una scelta obbligata e fatale tra «comunismo o barbarie»,
tra un nuovo ruolo attivo dello Stato nell’orientare l’economia verso i bisogni delle
persone, unito a forme sempre più intense ed efficaci di cooperazione internazionale,
oppure spietate misure di sopravvivenza capitalistica destinate a mettere al sicuro
solo i più ricchi e meglio equipaggiati, ad alimentare guerre tra paesi e devastazione
del pianeta.
Ad alcuni anni di distanza, mentre rifluisce la rappresentazione di una minaccia letale,
anche la percezione di uno shock epocale, destinato a cambiare per sempre i discorsi
e le prassi della politica, sembra essersi affievolita. In Europa, nonostante il massiccio
investimento disposto con il fondo Next Generation Eu, i vincoli tecnocratici tornano
a indicare la direzione nelle politiche di spesa e l’investimento nel benessere sociale
e nella protezione del lavoro subisce gli effetti della crisi energetica e dell’inflazione.
Intanto una nuova guerra ha scosso il continente e l’ascesa elettorale della destra
nativista e sovranista in molti paesi sembra decretare il tramonto dell’ideale di
una società sovranazionale, capace di affrontare la crescita delle diseguaglianze
o gli effetti del cambiamento climatico.
Eppure, l’esperienza della pandemia resta rivelatrice. I conflitti tra diverse rappresentazioni
e ricordi di ciò che abbiamo vissuto, che attraverseranno ancora a lungo i processi
di costruzione di una memoria collettiva dell’evento, non possono cancellare la sovversione
prodotta dall’avvento del Covid-19 nelle «immagini del mondo»: in saperi, interpretazioni,
relazioni consolidate. Meno ancora può rimuovere l’effetto più solido e duraturo che ha causato: quello
di una «rivincita della realtà», il confronto con una «realtà non negoziabile che
mette a soqquadro le confortevoli illusioni».
Come la piaga della «cecità» del romanzo di José Saramago, la pandemia ha svolto il
ruolo della catastrofe che insegna a vedere. Tra le illusioni che ha incrinato, di
fronte agli effetti devastanti causati dalla generale impreparazione e inadeguatezza
dei sistemi di risposta pubblica ai bisogni sanitari e sociali, c’è la fiducia nell’ordine
economico e politico del neoliberismo, fondato sul mantra dell’efficienza della spesa
e sul mercato come misura del buon funzionamento dei servizi e delle istituzioni.
Nel generale sovvertimento delle priorità causato dall’emergenza sanitaria, nel prorompere
dei bisogni universali di cura dei corpi, l’ordine assiologico che colloca l’individuale
sopra il collettivo – e il privato sopra il pubblico, il lavoro immateriale sopra
quello materiale, la dimensione produttiva sopra quella riproduttiva – si è rivelato
come l’effetto di una potente distorsione ideologica.
Con la fiducia nella promessa neoliberista di crescita e benessere è entrata in crisi
anche la visione antropologica che ne ha costituito la base, imperniata primariamente
sull’individuo e la sua propensione acquisitiva e competitiva, e sulle famiglie come
erogatrici di welfare sostitutivo. Non solo la condizione pandemica ha stimolato la
consapevolezza dell’interdipendenza tra tutti gli esseri umani, e tra umani e non
umani, ma la risposta collettiva alla minaccia del virus ha mostrato la forza che
gli obblighi di reciprocità possono esercitare, mentre le molteplici forme spontanee
di mutuo-aiuto e cura di prossimità hanno manifestato la vitalità del principio di
solidarietà anche al di fuori del circolo ristretto degli affetti.
Già nei mesi precedenti all’arrivo del coronavirus era stato possibile osservare un
processo di auto-interrogazione in corso tra gli attori del capitalismo globale. Ad agosto 2019, l’America’s Business Roundtable, che riunisce gli amministratori
delegati delle più grandi corporations americane, lanciava un manifesto proclamando la necessità di abbandonare la teoria
della shareholders value,cioèil primato della massimizzazione del valore per gli azionisti. A settembre dello stesso
anno il «Financial Times» titolava a tutta pagina: Capitalism: Time for a Reset (Capitalismo. È tempo di un reset).
È però soprattutto quando la crisi sanitaria è andata a intrecciarsi alle altre molteplici
crisi del Ventunesimo secolo, in particolare la crisi climatica e quella energetica,
che è stato possibile misurare il cambiamento. Parole come «cooperazione», «condivisione»
e «futuro comune» sono entrate nel lessico delle élite mondiali che si riuniscono
a Davos per il World Economic Forum. Dal lato delle politiche, le misure contro i
rischi pandemici, i piani per la transizione ecologica, gli interventi di sostegno
ai settori produttivi e le nuove forme di protezionismo sono divenute altrettante
indicazioni di un mutamento di segno nel ruolo che gli attori politici di diverso
colore attribuiscono allo Stato.
Succede allora che l’idea stessa di «capitalismo» torni ad essere oggetto di dibattito,
dopo decenni in cui la parola era scomparsa dal discorso pubblico. Ciò che si era
reso invisibile avvolgendo l’operare quotidiano di individui, società e Stati, come
l’aria che si respira, ha perso il suo carattere «naturale» per ricominciare a sollevare
interrogativi intorno alla sua legittimità e alle sue basi etiche.
Lo scrive Nancy Fraser, in apertura del suo Capitalismo cannibale:
Il capitalismo è tornato! Dopo decenni in cui veniva a malapena menzionato al di fuori
degli scritti dei pensatori marxisti, ora commentatori di vario genere si preoccupano
apertamente della sua sostenibilità, studiosi di ogni scuola si affannano a sistematizzare
le critiche che gli vengono rivolte e attivisti di tutto il mondo si mobilitano per
opporsi alle sue pratiche.
Sul piano soggettivo, il venire meno della fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive»
del mercato e nella superiorità della competizione sulla cooperazione si manifesta
come abbandono dei miti proiettivi. Nel Rapporto sulla situazione sociale del paese del 2022, il Censis vede gli italiani e le italiane abbandonare ogni «teleologia
rassicurante», volgere le spalle alle «radiose promesse della modernità», sviluppare
una nuova impermeabilità alle narrazioni di ascesa individuale e alle «simbologie
mobilitanti del turbo-consumismo».
Il che non indica, di per sé, la propensione a sposare narrazioni di segno opposto,
tantomeno ad aderire a progetti politici di cambiamento nel segno della solidarietà
e dell’uguaglianza. Il Censis chiosa infatti osservando piuttosto un effetto di ripiegamento
malinconico del sé: «È la malinconia a definire oggi il carattere degli italiani,
il sentimento proprio del nichilismo dei nostri tempi, corrispondente alla coscienza
della fine del dominio onnipotente dell’‘io’ sugli eventi e sul mondo, un ‘io’ che
malinconicamente è costretto a confrontarsi con i propri limiti quando si tratta di
governare il destino». Tuttavia, ciò che emerge è il senso di una fine. La fine, annunciata
dalla crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2007 e accelerata dalla «policrisi»
dei primi anni Venti, di un ordine discorsivo, prima ancora che economico e politico, che ha fatto della
cancellazione della società e dell’individualismo competitivo i principi di giustificazione
capaci di assicurarne egemonia.
1. Gli individui, le famiglie, gli altri
Margaret Thatcher divenne prima ministra del Regno Unito nel 1979. L’intervista rilasciata
al giornalista Douglas Keay per la rivista «Woman’s Own», che contiene la celebre
affermazione «There is no such thing as society», è del 1987. Gli anni che separano
i due eventi sono quelli che segnarono la fine del welfare consensus del dopoguerra, ovvero della convergenza delle diverse forze politiche nel supporto
all’interventismo statale e all’alta spesa pubblica, volta a sostenere i salari, la
piena occupazione e il benessere sociale. La «Lady di ferro» fu infatti colei che
ruppe con il vecchio paternalismo Tory, ancora compatibile con il welfare e l’economia
keynesiana, per lanciare un’offensiva frontale contro i sindacati, attaccare le politiche
distributive, avviare un’ampia opera di privatizzazione delle imprese statali e dei
beni pubblici, promozione della libera iniziativa economica e della proprietà privata,
liberalizzazione del mercato del lavoro, riduzione delle tasse ai più ricchi e abbandono
della progressività fiscale.
Dall’altra sponda dell’Atlantico, nel 1980, Ronald Reagan fu eletto con un programma
simile a quello della Thatcher, altrettanto incentrato sull’obiettivo di ridurre l’intervento
pubblico nell’economia e la spesa sociale, e favorire l’accumulazione di ricchezza
privata. «Il governo non è la soluzione ai nostri problemi, il governo è il problema»,
è una delle frasi celebri del quarantesimo presidente degli Stati Uniti. Solo mercati
lasciati liberi di operare avrebbero potuto, secondo questa visione, soddisfare le
ambizioni di autorealizzazione dei cittadini, accrescere il loro potere di produttori
e consumatori, e garantire un effetto di «sgocciolamento» (trickle-down) del benessere, dall’alto verso il basso.
Nessuna di questa promesse è stata mantenuta. Come mostrano gli studi di Thomas Piketty,
Gérard Duménil e Dominique Lévy, e molti altri, la curva che nei primi decenni del
Novecento aveva condotto nei paesi occidentali a una progressiva deconcentrazione
della ricchezza privata, quindi alla riduzione della diseguaglianza economica e sociale
tra le fasce di popolazione, si è invertita a partire dagli anni Ottanta, accrescendo
nuovamente le disparità. Inoltre, l’idea che incentivando la proprietà privata la politica avrebbe avvantaggiato
anche il «potere» delle persone, inteso come controllo sulle circostanze della propria
vita, è largamente contraddetta dai fenomeni di progressiva de-democratizzazione che
proprio nei decenni a cavallo del nuovo millennio hanno subito una speciale accelerazione.
Il declino della sovranità popolare di fronte al potere delle élite economiche, la
crisi di partecipazione, la perdita dell’articolazione conflittuale di modelli alternativi
di società sono alcuni degli aspetti che hanno condotto Colin Crouch a coniare l’espressione
«post-democrazia», Wendy Brown a parlare di «disfacimento del demos», e Chantal Mouffe di «post-politica».
Il messaggio thatcheriano-reaganiano ebbe comunque negli anni Ottanta la forza di
costruire un nuovo senso comune della politica occidentale, sulle macerie del welfare consensus del dopoguerra. Questo perché «come tutte le ideologie, il neoliberismo contiene
un assunto centrale di stampo fideistico, un principio che rimane inscalfibile anche
di fronte a dati empirici che lo contraddicono»: la fede nel libero mercato come meccanismo sovrano, adatto non solo a garantire
il buon funzionamento degli scambi ma anche a generare una diffusa prosperità. «Il
mito dell’efficienza e della razionalità del mercato se ne infischia delle controprove».
La capacità di questa visione di imporsi come egemonica, segnando come discorso dominante
un’era ideologica durata almeno tre decenni, si deve soprattutto alla dimensione culturale
di questo progetto che ha inteso, come dichiarato dalla stessa Thatcher, cambiare
attraverso l’economia «il cuore e l’anima» delle persone, della «nazione». E, inversamente, modellare i soggetti affinché aderiscano con piena spontaneità
a una forma di governo dell’economia e della cosa pubblica.
Per generare un sovvertimento di vasta portata nel senso comune, capace di assicurare
il consenso di un’ampia fascia di popolazione verso politici come Thatcher e Reagan,
è stata necessaria la ripresa e la diffusione di idee e credenze che avessero al tempo
stesso un potere seduttivo e una capacità polarizzante.
Scrive David Harvey:
Perché un modo di pensare diventi dominante è necessario mettere a punto un apparato
concettuale in grado di sollecitare le nostre intuizioni e i nostri istinti, i nostri
valori e i nostri desideri, oltre che le possibilità intrinseche del mondo sociale
in cui viviamo. Una volta rivelatosi idoneo allo scopo, questo apparato concettuale
si radica a tal punto nel senso comune da apparire scontato e non essere messo più
in discussione. I fondatori del pensiero neoliberista adottarono come fondamenti,
ovvero come ‘valori centrali della civiltà’, gli ideali politici di dignità umana
e di libertà individuale: fu una scelta accorta, poiché si tratta di concetti dall’indubbio
valore seduttivo.
È in questa luce che va letta l’intervista del 1987 a «Woman’s Own». Il testo contiene
nei suoi termini essenziali la visione antropologica caratteristica del neoliberismo,
articolata nei termini di quello che è stato chiamato il populismo thatcheriano, ovvero la visione manichea di una società divisa: da una parte un «popolo» di individui
produttori e proprietari, uniti dalla condivisione di valori morali, che la leader
si propone di costruire prima ancora che rappresentare; dall’altra i «nemici» del
popolo, ovvero i politici socialisti e i sindacati.
Il punto di partenza è infatti la demonizzazione della «mentalità socialista» che
ha dominato i primi decenni del dopoguerra. Per contrastarla, occorre demolirne la base fondamentale, l’idea stessa di società:
Penso che abbiamo attraversato un periodo in cui a troppi bambini e persone è stato
dato da intendere ‘Ho un problema, è compito del governo affrontarlo!’ o ‘Ho un problema,
andrò a prendere un sussidio per affrontarlo!’, ‘Sono un senzatetto, il governo deve
darmi un alloggio!’ e avanti così a scaricare i propri problemi sulla società. E chi
è la società? Non esiste! Ci sono gli individui, uomini e donne, e ci sono famiglie,
e nessun governo può fare nulla se non attraverso le persone e le persone guardano
prima di tutto a se stesse.
Questa affermazione, che ha segnato un’epoca, contiene quella che Roberto Escobar
definisce una forma di «spietatezza»: non c’è società perché gli individui pensano innanzitutto a se stessi e alla propria
famiglia. Al di fuori dei legami caldi della parentela si estende «la natura», «il
suo gran banchetto», che nessuna legge può contrastare: la forza delle pulsioni acquisitive
che premia chi lotta con successo nella competizione per la vita, mentre punisce chi
non ha la forza di partecipare al possesso del mondo.
Il discorso del neoliberismo, inteso come modo di produzione dei soggetti, porta alle
estreme conseguenze l’individualismo caratteristico del pensiero liberale moderno:
la competizione soppianta la cooperazione, l’idea di libertà modellata sulle esigenze
del mercato cancella ogni preoccupazione per l’uguaglianza, la propensione individuale
al rischio trasforma il sostegno verso i meno equipaggiati in una pratica umiliante,
non rispettosa della dignità della persona, moralmente nociva.
La teoria economica standard
si fonda sull’idea che l’economia sia popolata da agenti (più o meno razionali, più
o meno vincolati nelle loro azioni) che interagiscono esclusivamente sui mercati (dove
i prezzi si occupano di rendere i loro comportamenti consistenti tra loro) o attraverso
relazioni contrattuali. Un agente di questo tipo (l’homo oeconomicus) interagisce dunque per definizione solo con istituzioni impersonali (un prezzo osservato,
un contratto che gli è proposto) e sulla base di tali informazioni cerca di massimizzare
una qualche forma di utilità. Non esiste nessuna interazione diretta con altri agenti,
e quindi non esiste nessuna proprietà detta emergente: il comportamento del tutto,
la società, è completamente riassunto nel comportamento dei suoi componenti, gli individui.
Se però proseguiamo la lettura dell’intervista, notiamo che Thatcher aveva ben presente
l’impossibilità di un progetto di convivenza che non includesse anche una misura di
attenzione verso i propri vicini. Continua, infatti:
È nostro dovere prenderci cura di noi stessi e poi anche aiutare a prendersi cura
del nostro prossimo. [...] La società non esiste. C’è un arazzo vivente di uomini
e donne e persone e la bellezza di quell’arazzo, e la qualità delle nostre vite dipenderanno
da quanto ognuno di noi è disposto ad assumersi la responsabilità di se stesso e da
quanto ognuno di noi è disposto a voltarsi e ad aiutare con i propri sforzi chi è
sfortunato.
Allora, dopo tutto, dovremmo prenderci cura gli uni degli altri. Non, però, affidando
allo Stato il compito di finanziare, organizzare o gestire un sistema di aiuti; piuttosto,
attraverso la propensione volontaria, orientata dall’obbligazione morale che lega
ognuno alla propria famiglia o dall’etica della carità che ci porta a volgerci verso
«chi è sfortunato».
In questa visione, dunque, il fattore chiave non è tanto, o solo, l’individualismo.
È piuttosto la «responsabilità personale»: che riguarda se stessi, le proprie famiglie, la propria comunità, persino la nazione
e il suo futuro. Non si tratta tanto di enfatizzare l’autonomia dei singoli, come
esseri morali oltre che attori economici. Piuttosto, si tratta di trasferire sugli
individui il compito di provvedere per sé al benessere proprio e dei propri cari,
e nel far questo adempiere a un dovere verso la collettività. Perché, come afferma
ancora Thatcher, «la gente ha troppo in mente i diritti senza gli obblighi», mentre
«non esiste un diritto se prima non si è adempiuto a un obbligo». E l’obbligo – paradossale
– è quello di fare uso della propria libertà, con i rischi che ne discendono: per massimizzare il vantaggio personale ma anche per garantire al mercato di dispiegare
la sua piena potenzialità regolativa.
Nelle parole di Thatcher, dunque, «risuona la fine della parola solidarietà e della
visione del mondo che esprime». A rimpiazzarla è l’enfasi sulla libertà e sulla responsabilità personale, quali
elementi centrali di una morale pubblica rivoluzionata nel «cuore» e nell’«anima».
In questa chiave può essere letta anche la feroce battaglia combattuta dalla premier
inglese contro il «socialismo» che, a suo dire, aveva indebolito la nazione nei decenni
d’oro del welfare state. Prima ancora che un sistema economico inefficiente, il «socialismo»
nella visione di Thatcher contrabbanda un’errata visione dell’umano, fondata sulla
relazione necessaria tra l’individuo, la collettività e lo Stato per la soddisfazione
dei bisogni: con ciò deresponsabilizza gli individui, conducendo all’«immoralità»
e alla perdita di valori essenziali.
Questo progetto di «rinascita» spirituale ha mostrato la sua potenza non tanto perché
ha saputo indirizzare la politica inglese e americana negli anni Ottanta, ma perché
ha prodotto una vera trasvalutazione dei valori, di segno contrario a quella descritta
da Nietzsche: l’esaltazione delle virtù dei forti contro quelle dei deboli, e insieme
la denigrazione dei diritti collettivi in quanto «leggi del più debole» che fondano
la promessa dell’uguaglianza.
La «libertà», separata dalle altre parole del motto della Rivoluzione francese, «uguaglianza»
e «solidarietà», diviene un fattore di rottura della coesione sociale, perdita dello
spirito pubblico, discredito verso la politica, sfiducia nelle istituzioni democratiche,
e crollo del senso di appartenenza a una collettività, presente e futura.
Poche visioni del mondo come quella contenuta nelle frasi di Thatcher hanno avuto
il potere di costruirlo, il mondo. La sua portata è stata tale che anche oggi, nella
crisi di egemonia che ha investito il neoliberismo, ci ritroviamo ad andare in cerca
delle tracce che resistono di ciò che il suo dominio ha teso a cancellare, come vestigia
sotto le macerie. Ed è quel che si propone di fare il libro che avete tra le mani.
2. Società è una parola
Non era un’intellettuale Margaret Thatcher, ma la forza del suo progetto politico,
come di quello di Ronald Reagan, si comprendono solo alla luce della rinascita e rivisitazione
della teoria liberale in corso fin dagli anni Quaranta, e che a partire dagli anni
Settanta uscì dalla posizione marginale occupata nei decenni del dopoguerra – quelli
del consenso diffuso verso le teorie di John Maynard Keynes e le politiche a esse
ispirate – per affermarsi come nuova ortodossia economica.
All’inizio degli anni Settanta, di fronte alla crescita di inflazione e disoccupazione,
al diffondersi di segni evidenti di crisi nel modello di capitalismo regolato dallo
Stato, e del cosiddetto embedded liberalism che ne costituiva la razionalità politica, cominciò infatti a imporsi la convinzione
che fosse necessaria un’alternativa alle ricette keynesiane. Come ricorda David Harvey,
la svolta neoliberista non fu, tuttavia, una scelta obbligata. In quegli anni, il dibattito si polarizzò tra i fautori della socialdemocrazia,
intenzionati a risolvere i problemi congiunturali estendendo il controllo statale,
e la soluzione mercatista, orientata a liberare il potere degli attori economici dalle
restrizioni e dai vincoli dei poteri pubblici.
La seconda opzione prevalse perché incontrava gli interessi delle classi dominanti.
Ma anche perché poteva contare sulla sotterranea corrente di pensiero alimentata dalle
opere di autori quali Friedrich von Hayek, Milton Friedman, James Buchanan, che importanti
think tanks in quegli anni si occuparono di diffondere. In Gran Bretagna, organizzazioni come
l’Institute of Economic Affairs, l’Adam Smith Institute e il Centre for Policy Studies
«cambiarono radicalmente il clima politico e sociale, rendendolo propenso ad accettare la svolta a favore del libero mercato e della riduzione
dei compiti dello stato, e in più elaboraronostrategie concrete su come realizzare i grandi cambiamenti politici».
E ancora non basta. Come detto, la «rivoluzione neoliberista» ha richiesto nientemeno
che la produzione di una cultura politica, capace di orientare le scelte politiche,
ma anche le pratiche quotidiane, gli stili di vita, i modi di espressione del sé. «Libertà» è la parola che più di ogni altra, nella sua vaghezza, ha funzionato in
questo progetto come un significante positivo. Altrettanto necessario è stato però
costruire un mito negativo, identificare ed esporre i «nemici», le forze e le idee
capaci di minacciare questo valore prezioso. Lo Stato interventista ha svolto questa
funzione, nel discorso neoliberista, in quanto associato a un’idea deteriore di società:
una società non libera, fondata sui vincoli di dipendenza e sulla forza della coercizione,
destinata perciò a violare il principio dell’agire autonomo in cui risiede la dignità
dell’individuo.
È solo nel contesto di questo vasto sforzo di risignificazione dei concetti, teso
a costruire un nuovo «senso comune» come lo intendeva Gramsci, che si rende comprensibile
l’affermazione in apparenza paradossale con cui Margaret Thatcher nega l’esistenza
della società. Cos’è la società, nel lessico della svolta neoliberista?
Ripercorrendo molto sommariamente la storia di questa idea nel pensiero politico della
modernità, possiamo ricordare che il termine «società», associato all’aggettivo «civile»,
fa la sua comparsa nel modello giusnaturalistico, da Hobbes fino a Kant, come sinonimo
di «società politica», di Stato, in contrapposizione alla «società naturale» o «stato
di natura». Nello stato primitivo, naturale, l’umano vive senza altra legge che quella
del più forte, minacciato dalla «guerra di tutti contro tutti». Solo attraverso il
patto civile che istituisce un potere comune e ne fonda la sovranità gli individui
possono arrivare a vedersi assicurati alcuni beni essenziali, come la pace, la libertà,
la proprietà, la sicurezza.
Con Hegel, la società civile si separa invece dallo Stato, divenendone un momento
preliminare. Posta tra la forma primitiva dello «spirito oggettivo» (la famiglia)
e la forma ultima (lo Stato), la società civile rappresenta la sfera dei rapporti
economici antagonistici, del lavoro, ma anche della composizione dei conflitti attraverso
l’amministrazione della giustizia e l’attività di polizia per la buona regolazione
della vita comune. È, quella descritta da Hegel, una forma di organizzazione pre-statale,
un momento incoativo della forma superiore dello Stato legislativo e governativo,
dove vigono solo poteri di carattere amministrativo e giudiziario.
L’opposizione tra società civile e Stato è ancora oggi una delle grandi dicotomie
del pensiero politico. Ma la sua matrice è marxiana, ancor più che hegeliana. Si deve
a Marx, infatti, la decisa riduzione della società civile alla sfera dei rapporti
economici, cioè a quella «struttura» su cui si eleva la «sovrastruttura» giuridica
e politica. La società civile o borghese (il tedesco bürgerliche contiene entrambi i significati) è il luogo dei rapporti mediati dall’interesse economico
e dei conflitti di classe, che stanno prima dello Stato e ne determinano l’azione.
In questo modo, la sfera delle interazioni sociali finisce per somigliare, nei caratteri
essenziali, allo stato di natura descritto da Hobbes, quello in cui «homo homini lupus». Nell’opera giovanile, La sacra famiglia, scritta da Marx insieme a Engels, si parla proprio di «guerra» degli individui tra
loro come stato permanente nella società borghese. Nota così Norberto Bobbio:
Al termine di questo processo di mutamenti o forse meglio di slittamenti di significato,
‘società civile’ ha finito per avere al suo punto di arrivo un significato opposto
a quel che aveva avuto al punto di partenza. [...] Tanto la ‘società naturale’ del
giusnaturalismo, quanto la ‘società civile’ di Marx stanno a indicare la sfera dei
rapporti economici intersoggettivi tra individui singoli, indipendenti, astrattamente
uguali, contrapposta alla sfera dei rapporti di dominio, o, in altre parole, la sfera
dei ‘privati’ [...] contrapposta alla sfera del pubblico.
Ma se la «società», nel significato corrente ereditato da Marx, rappresenta la polarità
negativa dello Stato, la sfera dei rapporti – innanzitutto economici – che si sviluppano
prima e senza il necessario intervento delle istituzioni pubbliche, come può questa
idea essere avversata, negata nella sua stessa esistenza dai fautori del mercato libero,
da coloro per cui «il governo non è la soluzione» ma «il problema»?
Per comprendere la torsione semantica prodotta dal pensiero neoliberista bisogna aggiungere
un elemento a questo breve excursus attraverso i significati del concetto: la crisi della dicotomia di società civile
e Stato provocata, nel Novecento, dalla trasformazione dello Stato in «Stato sociale»,
che «proprio perché ‘sociale’ mal si distingue dalla società sottostante», anzi la
«pervade tutta quanta attraverso la regolazione dei rapporti economici». Quello che Bobbio definisce come un processo di «statalizzazione della società»
ha il suo inverso in una crescente «socializzazione dello Stato», ovvero nello «sviluppo
delle varie forme di partecipazione alle scelte politiche, la crescita delle organizzazioni
di massa che esercitano direttamente o indirettamente un potere politico».
Ciò che il pensiero neoliberista costruisce come oggetto polemico è proprio la società
che si fa Stato, e lo Stato si fa società. È «il sociale» inteso come entità sovraindividuale,
come insieme di strutture che eccedono i legami personali e gli scambi contrattuali;
ma inteso soprattutto come spazio che è possibile e appropriato modellare attraverso
progetti di giustizia sociale.
Perché, come scrive Wendy Brown, «il linguaggio del sociale è ciò che rende manifeste
le diseguaglianze; il dominio del sociale è il luogo in cui le soggezioni, le abiezioni
e le esclusioni sono vissute, identificate, contestate e potenzialmente rettificate». È qui che si dispiegano gli effetti dei sistemi di potere che producono gerarchie
di classe, genere, razza, quindi esclusione e violenza. Ma è qui, anche, che il modello
della democrazia sociale ritiene necessario intervenire con l’ausilio di strumenti
pubblici, per realizzare l’obiettivo di un’uguaglianza non solo formale, ma sostanziale,
tra tutti i cittadini e le cittadine.
Friedrich von Hayek è, tra i padri del neoliberismo, l’autore che ha posto sotto il
più severo scrutinio i concetti di «società» e «sociale», in una critica serrata dell’ideale
della socialdemocrazia. «Sociale», scrive, è un attributo carico di confusione, perché
non si limita a indicare ciò che pertiene o è caratteristico delle strutture e organizzazioni
della società ma, andando a combinarsi con parole come «giustizia», «politica» o «democrazia»,
finisce per implicare il riferimento alla società come entità sovraindividuale, a
cui può essere attribuita una responsabilità per la posizione materiale dei suoi membri,
e il compito di garantire a ognuno ciò che gli è «dovuto». Questo, secondo Hayek,
è il frutto di un modo di pensare primitivo, una forma di antropomorfismo, in cui
la società viene «personificata», ovvero «rappresentata come un soggetto dotato di
una mente cosciente, capace di essere guidato nel suo operare da principi morali».
In realtà, non è mai la «società» a rispondere alle istanze di giustizia. Chi fa appello
alle responsabilità e ai compiti della società, sta più o meno surrettiziamente sostenendo
l’opportunità che lo Stato, i poteri pubblici, operino in modo coercitivo sugli attori
della società:
La società, nel senso stretto in cui deve essere distinta dall’apparato di governo,
è incapace di agire per uno scopo specifico, e la richiesta di ‘giustizia sociale’
diventa quindi una richiesta che i membri della società si organizzino in modo da
poter assegnare determinate quote del prodotto della società ai diversi individui
o gruppi. La questione principale diventa allora se esista un dovere morale di sottomettersi
a un potere che può coordinare gli sforzi dei membri della società con l’obiettivo
di raggiungere un particolare modello di distribuzione considerato giusto.
Per Hayek quindi il socialismo, la socialdemocrazia, e ogni modo di pensare che si
ponga l’obiettivo di modellare la società secondo disegni di giustizia sociale, contengono
in sé un errore fatale: la pericolosa illusione di poter modellare i rapporti umani
in base a una costruzione deliberata. Questo, però, altro non è che un progetto totalitario,
che cancella la libertà. Un ordine è certo necessario a garantire la cooperazione
e orientare le aspettative individuali. Ma questo ordine non è da intendere come l’effetto
di accordi e disposizioni esogene rispetto alla stessa società. Piuttosto, è il risultato
di processi endogeni. Nel lessico di Hayek, che impiega due termini greci, non è taxis, ordine artificiale, ma è cosmos, ordine spontaneo.
L’ordine prodotto dall’apparato statale è, in questa visione, il prototipo della taxis. L’equilibrio generato dal mercato è invece cosmos, l’ordine cosmico per eccellenza. Più precisamente, per il neoliberismo, l’alternativa
alla pianificazione orientata dall’intervento pubblico, l’unica alternativa che si
confà a una società libera, risiede nella coordinazione spontanea generata dal mercato
e dalla morale. Questo ordine non è il risultato di un disegno razionale, ma può essere governato
e rafforzato attraverso strumenti giuridici e amministrativi, in modo che il suo funzionamento
sia assicurato senza il ricorso alla logica della coercizione e del comando.
Tutto ciò permette di trattare il neoliberismo come un autentico progetto di civiltà,
alternativo a quello egemone nella cultura moderna da Hobbes in poi; un progetto in
cui «la civilizzazione non consiste in una negazione dello stato di natura, ma piuttosto
nel suo governo: nell’allestimento di un congegno sociale capace di ‘pilotare’ e traghettare progressivamente
l’ordine spontaneo dal comando gerarchico alla coordinazione mediante ‘convenzioni’».
Il primo ad accorgersi della sparizione dell’idea di società nell’economia capitalistica
è stato probabilmente Karl Polanyi, nel libro del 1944 La grande trasformazione, analizzando il significato dell’idea di «libertà» nell’«utopia» liberista di un
mercato autoregolato, in cui la pianificazione e il controllo sui processi economici
sono descritti come il «male», come la negazione stessa di una società libera: «La
libertà creata dalla regolamentazione viene denunciata come non-libertà; la giustizia,
la libertà e il benessere che offre vengono denunciati come un camuffamento della
schiavitù». Con il risultato, solo in apparenza paradossale, di aprire la strada al fascismo
– come in effetti è avvenuto a partire dagli anni Venti del secolo scorso –, perché
se l’ideale di libertà perseguito dal liberismo si rivela impossibile, allora la possibilità
stessa di una società libera finisce per essere messa in questione.
La totale frustrazione della libertà nel fascismo è, in effetti, l’inevitabile risultato
della filosofia liberale, che sostiene che il potere e la costrizione sono il male,
che la libertà richiede la loro assenza dalla comunità umana. Non è possibile; in
una società complessa questo diventa evidente. Non rimane altra alternativa che rimanere
fedeli a un’idea illusoria di libertà e negare la realtà della società, oppure accettare
questa realtà e rifiutare l’idea di libertà. La prima è la convinzione del liberale,
la seconda quella del fascista. Nessun’altra sembra possibile. Inevitabilmente si
giunge alla conclusione che la possibilità stessa della libertà è in discussione.
Se la regolamentazione è l’unico mezzo per diffondere e rafforzare la libertà in una
società complessa, e tuttavia l’uso di questo mezzo è contrario alla libertà in sé,
allora tale società non può essere libera.
Si comprende meglio, su questo sfondo, in che senso è possibile affermare che «la
società non esiste». La società è negata in quanto luogo in cui agiscono poteri diversi
da quelli della coercizione statale: poteri che producono gerarchie, diseguaglianze
inaccettabili e forme di dipendenza, in violazione della dignità e della libertà delle
persone. «Quando l’affermazione ‘la società non esiste’ diviene senso comune, rende
invisibili le norme sociali e le diseguaglianze generate dal retaggio della schiavitù,
del colonialismo e del patriarcato». Così facendo, sottrae anche terreno alla legittimazione dell’intervento sociale,
nella forma del welfare pubblico universale, e di ogni regolazione dell’attività economica
e della vita pubblica orientata da criteri di giustizia distributiva.
Ciò ha comportato, come vedremo, un’autentica battuta di arresto nella «marcia verso
l’uguaglianza» di cui scrive Thomas Piketty, quella che dalla Rivoluzione francese
in poi ha comportato la lenta ma progressiva deconcentrazione del potere, della proprietà,
dei redditi. Perché, nel Novecento, gli strumenti di questo avanzamento sono stati il welfare
e la progressività fiscale, ovvero due tra gli obiettivi polemici prediletti dall’offensiva
neoliberista, che schiere di politici, a partire dagli anni Ottanta, si sono impegnati
a demolire.
3. La politica nell’«interregno»
In sintesi, così come la necessità di un indirizzo statale dell’economia capitalistica
era stata parte del «senso comune» nei primi decenni del dopoguerra, a partire dagli
anni Ottanta la gestione pubblica di imprese e servizi diviene oggetto di un sospetto
e una sfiducia diffusi, insieme all’opportunità più generale di ogni intervento orientato
a raddrizzare i torti della società.
Tanto pervasivo è stato il cambiamento di segno nel valore associato al ruolo dello
Stato e del mercato, che non solo la destra liberista ma anche gli eredi dei partiti
della sinistra, a partire dagli anni Novanta, hanno finito per far propri gli elementi
principali del discorso neoliberista, in particolare la fiducia nel meccanismo della
libera concorrenza, l’accento sull’autoimprenditorialità, la retorica dell’ascesa
e del merito, e la superiore efficienza del privato rispetto al pubblico. Sono questi
gli anni della «terza via» tra capitalismo e socialdemocrazia teorizzata dal sociologo
Anthony Giddens, fatta propria dal premier laburista Tony Blair nel Regno Unito, ma
anche da Bill Clinton negli Stati Uniti, da Gerhard Schröder in Germania, e a più
riprese dai leader del centrosinistra in Italia. Sono questi, dunque, anche gli anni
delle politiche «progressiste» di privatizzazione, liberalizzazione e riduzione della
spesa sociale, che si accompagnano a una crescente sordità alle rivendicazioni sociali
e alla perdita di contatto con i gruppi tradizionalmente rappresentati dai partiti
dei lavoratori. Ne consegue un deciso avvicinamento dell’agenda politica del centrosinistra a quella
del centrodestra, con le due parti che hanno finito per presentare alle elezioni piattaforme
quasi interscambiabili. Tanto simili che, dice Chantal Mouffe, le persone si trovano
a «scegliere tra Pepsi e Coca-Cola, due progetti uguali ma con etichette diverse».
Il neoliberismo di Thatcher e Reagan si è rivelato insomma un’eredità politica assai
più durevole delle parabole dei suoi ideatori. Fu la stessa «Lady di ferro» a dichiarare
che il suo più grande successo politico era stato Tony Blair, cioè il nemico di un
tempo, il Labour, saldamente attratto nel proprio campo. Il dominio di questa visione
è sembrato dover permanere incontrastato, fino a quando, soprattutto all’indomani
del crollo economico-finanziario del 2007-2008, è divenuto comune parlare della sua
«crisi» o persino della sua «fine».
Già al volgere del secolo, in realtà, la consapevolezza del fallimento di questo modello
era ben presente sia nella letteratura critica sia nei movimenti di opposizione alla
globalizzazione guidata dai mercati e al dominio delle élite economico-finanziarie,
come quelli riuniti nel World Social Forum. Di fronte all’esplodere delle diseguaglianze,
all’espropriazione di risorse comuni, al ricatto del debito, alle forme più o meno
mascherate di autoritarismo volte a difendere l’ordine economico, la libertà sbandierata
dal neoliberismo si è rivelata ben poca cosa. Come scrive David Harvey, «quando si
è obbligati a vivere come appendici del mercato e dell’accumulazione di capitale,
piuttosto che come esseri capaci di esprimersi, il regno delle libertà si restringe
davanti all’orribile logica e alla vuota intensità delle relazioni di mercato». Il divario sempre più ampio tra la retorica dei benefici diffusi e la realtà, che
ha visto crescere solo la ricchezza e il potere della classe dominante, ha aperto
da tempo una faglia nel consenso verso l’ordine governato dagli interessi del capitale
economico e finanziario.
Tuttavia, è soprattutto in seguito alla crisi del 2007-2008 che un ciclo politico
è sembrato giungere alla fine, aprendo una stagione di contestazioni interne ed esterne,
e una nuova fase di convulsioni dai contorni ancora incerti. Il principale fattore
di rottura appare la crescita di movimenti e partiti «populisti» che, da destra e
da sinistra, hanno dato voce alla rivolta contro l’«establishment»: contro i partiti
tradizionali, la tecnocrazia delle istituzioni europee, il potere della grande finanza
internazionale. Chantal Mouffe ha parlato per questo di un «momento populista»: segnale
della crisi dell’egemonia neoliberale e ingresso in un «interregno».
Secondo Antonio Gramsci, questo si verifica quando un complesso di idee perde la capacità
di organizzare il consenso:
Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più ‘dirigente’, ma unicamente
‘dominante’, detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le
grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò
in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore
e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi
più svariati.
Ma è davvero il «populismo», quel populismo che negli ultimi quindici anni ha conosciuto
una parabola ascendente in Europa e negli Stati Uniti soprattutto nelle sue versioni
di destra nativista e autoritaria, a segnare la fine del neoliberismo? La risposta
dipende, in realtà, dal modo in cui si intendono sia il populismo sia il neoliberismo.
Diverse interpretazioni conducono a letture diametralmente opposte del «momento».
Ne presento e discuto brevemente due, per provare poi a comporre una visione che dia
ragione tanto degli elementi di continuità quanto dei tratti di discontinuità tra
l’egemonia neoliberista e la sua crisi.
Un errore di diagnostica
«Il neoliberismo non è morto», sono le parole con cui Pierre Dardot e Christian Laval
aprivano l’edizione francese del libro La nuova ragione del mondo, pubblicato per la prima volta nel 2009. Si trattava allora, scrivono, di «dissipare
le illusioni scaturite dal fallimento di Lehman Brother nel settembre 2008», cioè dal momento scatenante della crisi finanziaria che sembrava aver inflitto un
colpo fatale a quella che per decenni è stata la forma dominante del capitalismo occidentale.
Dieci anni dopo, nell’introduzione alla nuova edizione italiana del volume, gli autori
fanno i conti con la sequenza di eventi che ha rafforzato in molti osservatori la
convinzione che il neoliberismo sia giunto alla fine: dopo e in conseguenza della
grande recessione, la crisi del debito sovrano nell’Unione Europea, poi il terremoto
politico della Brexit nel Regno Unito, e l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti.
Proprio nei paesi di Thatcher e Reagan, il «popolo» è sembrato volgere le spalle a
parole d’ordine come «apertura dei mercati» e «concorrenza», premiando invece chi
ha promesso confini chiusi, protezionismo commerciale, tutela dell’interesse nazionale.
In Italia, il contraccolpo è stato avvertito nel 2018 con la vittoria di partiti come
la Lega di Matteo Salvini e il Movimento 5 Stelle, diversi ma uniti nell’opposizione
all’establishment politico nazionale ed europeo e nella difesa degli interessi dei
«perdenti» della globalizzazione.
Eppure, secondo Dardot e Laval, parlare per questo di una «morte» del neoliberismo
significa commettere un errore diagnostico, principalmente ascrivibile a una cattiva
interpretazione di questo concetto che, scrivono, non rimanda né a un’ideologia né
a una dottrina economica, ma fondamentalmente a una «razionalità» politica che ha
per principale caratteristica quella della «generalizzazione della concorrenza come
norma di comportamento e dell’impresa come modello di soggettivazione». Si tratta, insomma, di un modo di governo degli Stati, dell’economia, delle persone,
che plasma tutte le sfere del vivere sul modello del mercato, ma non per questo prevede,
al di là della retorica, l’effettivo ritiro dello Stato di fronte al mercato.
Anzi, gli autori sottolineano come siano proprio gli Stati, soprattutto quelli economicamente
più forti, ad aver introdotto e universalizzato nell’economia, nella società e nella
gestione della cosa pubblica, la logica della concorrenza e dell’impresa – che applicata
agli individui diventa ingiunzione a far impresa di sé in una competizione sempre
aperta con i propri simili, comportando la distruzione delle basi stesse della vita
collettiva.
Secondo una delle tesi prevalenti che
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