1.
È amore se ti travolge
Era il 1977 quando in Francia uscì Frammenti di un discorso amoroso, scritto da Roland Barthes per dimenticare e sublimare un amore non corrisposto.
Si narra che Barthes, innamorato pazzo e dolente, abbia deciso di consultare lo psicanalista
Jacques Lacan il quale, vedendolo in quello stato, gli avrebbe detto: ‘Guarda, lascia
perdere’. Barthes seguì il suo consiglio e al tempo stesso lo trasgredì. Pose fine
alla storia d’amore e iniziò la scrittura dei Frammenti.
Non so se questo aneddoto sia vero – me l’ha raccontato Arturo, mio fratello, il tipo
di persona che sotto l’ombrellone legge tomi di teoria lacaniana, per cui tendo a
credergli quando si parla di queste cose. In ogni caso è una storia verosimile perché
i Frammenti non sono soltanto un’opera di semiologia, ma anche la celebrazione dell’innamorato
e del suo discorso. Un libro scritto sull’amore, ma anche in amore. Scritto da chi ama e rivendica la sua posizione. La afferma e la esalta, in
risposta a quelli che l’amore non lo considerano degno d’impresa intellettuale e a
tutti i cosiddetti ‘normali’ che non ci sono caduti – non ancora.
L’osceno straparlare dell’innamorato diventa visibile e degno d’attenzione: posto
al centro della scena. È come se un innamorato finalmente uscisse dalla sua tana –
metaforica e non – ed esibisse il suo monologo interiore davanti a tutti, in mezzo
alla strada. L’effetto è strabiliante: non è il discorso di un pazzo ma la danza di
un virtuoso, un ‘semiologo selvaggio’, un sovversivo! E quindi non possiamo che alzarci
in piedi e applaudire gridando ‘Anch’io! Anch’io!’, perché sentiamo che quelle fantasie
esagerate, quelle immagini straripanti e quelle ipotesi improbabili che ci hanno avvinto
durante notti insonni e giornate infinite non sono il materiale scandaloso di un’anima
scimunita, un delirio privato senza senso, ma l’espressione di un’esperienza collettiva
e condivisa. Grazie a Barthes, l’innamorato non è più solo.
Così è stato per me. Nella mia cameretta di adolescente alla fine degli anni Novanta,
da Roland mi sentivo compresa e difesa. Leggevo e rileggevo le pagine sull’incontro,
la dedica, l’abbraccio, l’abbandono..., e ritrovavo il filo dei miei discorsi di ragazza
che s’innamorava volentieri. La mia copia dei Frammenti – un volumetto Einaudi, in copertina il particolare di un quadro del Verrocchio con
due mani che si sfiorano sullo sfondo di velluti d’altri tempi – mi ha seguita da
Firenze a Londra e porta ancora le sottolineature fatte con il 2B che usavo al liceo
per disegnare; molti passaggi sono segnati da tre righe scure, in alcuni casi rafforzate
da punti esclamativi enormi. Non credo di aver letto nient’altro con così tanto trasporto,
di essermi sentita così capita da un libro. Finalmente potevo confessare l’imbarazzante patimento in cui mi gettava
l’attesa di una telefonata: c’era il telefono fisso e ogni trillo poteva essere un
segno che quel tizio dalle apparenze poco raccomandabili che avevo baciato alla festa
del vino novello si fosse proprio innamorato di me, folgorato dai miei occhi e dalla
mia sottana, come Petrarca con Laura in chiesa il giorno di Pasqua. Stato d’animo
che ero costretta a nascondere con amici e parenti: mi avrebbero subito rimproverata
di farmi ‘troppi film’. ‘Non è che mi faccio i film’, avrei voluto gridargli. ‘Barbari!
Io genero immagini, enuncio, danzo. Guardate che bellezza questa temporalità che m’inchioda
alla fatale mia identità d’innamorata!’.
Volevo tantissimo innamorarmi come i personaggi di cui avevo letto nei libri e che
avevo visto in tv. Al contempo seguivo il copione di una sessualità scevra da moralismi
e tuttavia ancora governata da assunti misogini e spesso ridotta a un bene di consumo.
Facevo casino. Cercavo di realizzare l’improbabile crasi tra Carrie Bradshaw e Anna
Karenina. Nelle performance sessuali si celava la speranza che la mia bocca o le mie
mani potessero trasformare un tamarro senza nome in un contemporaneo Werther; all’indomani
di amplessi etilici in parcheggi periferici declamavo sonetti invocando un segnale
che non sarebbe mai arrivato: «O cameretta che già fosti un porto / a le gravi tempeste
mie diurne, / fonte se’ or di lagrime nocturne, / che ’l dì celate per vergogna porto».
Puntualmente mi ritrovavo sola con il dubbio di essere un’idiota. Vivevo come una
colpa il non riuscire a combinare condotta sessuale promiscua e incanto d’amore. Barthes
mi assolveva e consolava. Perché i Frammenti non sono soltanto il ‘ritratto strutturale del soggetto romantico’, ma anche la grandiosa
apologia della sua specifica jouissance, cioè del modo in cui gode del dolore in quanto varco esistenziale per un di-più
di verità. Una verità sull’essere cui si accede proprio attraverso l’esperienza amorosa.
L’espressione inglese to fall in love cattura il potenziale rovinoso di questo legame. C’è una vitalità festosa, ma anche
un rischio oscuro: l’amante si può perdere, può impazzire (l’amore romantico è amore folle), non solo il suo equilibrio ma la sua stessa esistenza sono in pericolo. A seguito
dell’incontro con l’amato, scrive Barthes, entriamo in un tunnel: quella «lunga sequela
di sofferenze, dolori, angosce, sconforti, rancori, impacci e tranelli» che ci porta
«a vivere incessantemente sotto la minaccia di un decadimento che coinvolgerebbe contemporaneamente
l’altro, me stesso e l’incontro che ci ha scoperti l’uno all’altro».
Ripenso spesso alle esperienze della mia formazione sentimentale, quando ricamavo
su un incontro occasionale i ghirigori dell’amore assoluto. Un modo di cercare e interpretare
l’amore che ha formato il mio sentire e che avrei visto ripetersi, salvo variazioni
di intensità, maturità e circostanze, anche negli anni a seguire, fino all’età adulta.
Ricordo in particolare il sabato in cui andai per la prima volta a ballare (i pomeriggi
di domenica all’Happyland di Campi Bisenzio non contano). Ero uscita dalla finestra
(l’unica fortuna di stare al piano seminterrato), e avevo messo un cuscino sotto le
coperte come avevo visto fare a Joey e Dawson. Avevo seguito alcuni amici più grandi
di me al Jaiss, una discoteca a Empoli che solo molti anni dopo avrei scoperto essere
stata tempio della techno anni Novanta. Mi ero messa gli anfibi con la suola chiodata
e la punta di ferro. Andavano bene per impressionare (o credere di impressionare)
i punk del liceo artistico, ma erano del tutto inadatti al ballo, da quella volta
in poi solo scarpe da ginnastica nei club. I piedi mi facevano malissimo, ma chi se
ne frega però, perché a un certo punto ero diventata così leggera che alle scarpe
non ci pensavo più. Pensavo solo a Guido, che era bello: gli occhi allungati, una
cicatrice sulla fronte, le labbra perfette. Ci baciammo per ore sui divanetti della
‘zona relax’, tra cartoni di acqua naturale di montagna e leccalecca panna e fragola.
I sensi allertati, gli organi interni smossi dai bassi, ogni zona erogena, tutto il
corpo, tutto il cuore, tutto teso verso Guido, ragazzo di cui non sapevo assolutamente
nulla. Tranne il nome, che guidava un Booster giallo con la marmitta truccata e che
una volta aveva preso sei pasticche tutte insieme.
Il lunedì, da sola a casa e con la mascella ancora indolenzita, aspettavo che mi chiamasse.
A quella telefonata ero appesa come a un verdetto. La mia amica Francesca lo diceva
sempre: «chi ama, chiama». E allora doveva chiamare. Come poteva non riconoscere il
significato di quei baci? Di quelle mani calde nel buio, con la musica dritta nella
cassa toracica, la bocca impastata sul treno della mattina, il tè col limone al bar
della stazione di Rifredi? Per me, questi dettagli erano andati a comporre la scena
dell’incontro, l’immagine che mi aveva ‘rapita’. D’altra parte, lo diceva anche Roland
Barthes, l’incontro d’amore lo si costruisce solo retroattivamente, come punto di
inizio mitico della storia, e io ventiquattro ore dopo la serata al Jaiss mi ero già
messa all’opera. La telefonata di Guido serviva da conferma che ci avevo visto giusto,
che davvero quello poteva essere stato l’incontro d’amore. E allora aspettavo. Per
qualche giorno il mio impegno principale fu attendere. Vista dall’esterno sarei potuta sembrare scema, chiusa in camera per interi pomeriggi,
pronta a scattare al primo squillo del telefono, inviperita se mio fratello occupava
l’apparecchio per più di due minuti. Roland lo sapeva, e lo sapeva spiegare con parole
così belle che la realtà ne usciva trasfigurata:
attesa. Tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi
ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni).
[...]
L’attesa è un incantesimo: io ho avuto l’ordine di non muovermi. L’attesa d’una telefonata si va così intessendo di una rete di piccoli divieti,
all’infinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto,
addirittura di telefonare (per non tenere occupato l’apparecchio); per la stessa ragione,
io soffro se qualcuno mi telefona; l’idea che di lì a poco dovrò uscire, correndo
così il rischio di essere assente al momento dell’eventuale chiamata riconfortante,
del ritorno della Madre, mi tormenta. Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti
per l’attesa, delle impurità d’angoscia, poiché, nella sua purezza, l’angoscia dell’attesa
esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata di mano,
senza far niente.
Che poi è la stessa cosa che dice (con parole un po’ meno belle) Max Pezzali quando
si domanda disperato «Come mai / ma chi sarai / per fare questo a me / notti intere
ad aspettarti / ad aspettare te». Eravamo tutti d’accordo, io, Roland e Max, sul fatto
che l’attesa sembra essere una stasi ma non lo è: ci diamo un gran daffare a rincorrere
e ricreare immagini affastellate di abbandono e coronamento, pronti a riconoscere
e interpretare i segnali del cosmo, a cogliere l’ispirazione per scrivere ‘chilometri
di lettere’.
Il punto è che ero decisa a innamorarmi e scommettevo su Guido, la cui unica mossa,
a ben vedere, era stata quella di darmi una pasticca di ecstasy con una buona percentuale
di MDMA. Il dubbio che quella notte poteva non essere stata la versione contemporanea
e un po’ tamarra dell’incontro del Petrarca con Laura, ma una triviale ‘pomiciata
in discoteca, fatti d’emme’, non riusciva a intaccare il mio afflato poetico e produceva
anzi altri e nuovi stati d’animo lirici: accorati pensieri sulla terribile scissione
tra una realtà volgare, cinica e ottusa, e l’ardire meraviglioso della fantasia d’amore.
Scissione dolorosa, certo, ma in verità ero contenta mentre soffrivo: la fantasia
di un amore romantico era proiezione di un mondo altro, e soffrirne la mancanza un
modo per evocarlo, per farlo esistere nella sua assenza.
Mi accorgo di essere cresciuta riconoscendo nella sofferenza un sintomo inequivocabile
dell’amore. Per anni, ben oltre l’adolescenza, mi sono gettata nei drammi iniqui di
relazioni impossibili per potermi identificare nell’amore attraverso il tormento.
Mi sentivo attratta da uomini con situazioni difficili, geograficamente lontani, clinicamente
depressi, (in)felicemente sposati, mentalmente instabili, emotivamente immaturi, oppure
semplicemente stronzi. Sapevo che non erano all’altezza del sentimento amoroso, ma
ciò non mi impediva di sovrascrivere una narrazione romantica alla banalità modaiola
dello ‘scopare in giro’. Non volevo un amore qualunque, un amorazzo da rotocalco buono
per le sale d’aspetto. Volevo un amore con la A maiuscola: quello che ti travolge
e ridefinisce il senso di ciò che è avvenuto prima e di quello che avverrà nel futuro.
«In un Evento, non cambiano soltanto le cose, ma cambia anche il parametro col quale
misuriamo i fatti del cambiamento stesso: un punto di svolta modifica l’intero campo
all’interno del quale i fatti appaiono», ha scritto Slavoj �i�ek. L’amore-evento che
stavo cercando doveva essere un’esperienza capace di sovvertire l’equilibrio dell’io,
di scompaginare le coordinate del mondo per come lo avevo conosciuto fino a quel momento.
La prima volta che lessi Madame Bovary non mi resi minimamente conto dell’ironia di Flaubert che, come appresi in seguito,
con il romanzo voleva mettere alla berlina gli stilemi del romanticismo, smontare
la figura dell’innamorato che si strappa le vesti e i capelli per rivelarne l’animo
sciocchino e impressionabile. Io però ero dalla parte di Emma: una ragazza giovane
che secondo gli usi del tempo sposa un uomo che lei non ama, ma che può offrirle una
vita materiale dignitosa. Charles Bovary è un medico di campagna zelante e sempliciotto
che la intrappola in un matrimonio alienato, di cene appiattite da silenzi volgari.
Lei ha sogni diversi, non le importa di essere madre e moglie, guarda con sospetto
la bambina che ha partorito, i gesti di Charles la disgustano. Sola in casa legge
romanzi immaginando la vita di Parigi: teatri, poeti e tessuti pregiati, artisti carismatici
che potrebbero prenderla e portarla via, lontano dall’immensa noia di Yonville. Invece
gli uomini che incontra nella vita reale e di cui sarà amante si riveleranno meschini
e bugiardi, Emma lo sa ma non può accettare una realtà così insulsa, una ‘vita insufficiente’.
Resiste al disincanto. Si suicida.
A me questa parve la storia di una donna che si ribellava a un mondo imbecille. A
ucciderla non era stata la letteratura che aveva sfrenato la sua immaginazione. Era
stata uccisa dalla vigliaccheria e dall’opportunismo di Rodolphe, dalla piccolezza
di Charles. Era la realtà a non essere all’altezza di Emma, non lei idiota perché
incapace di accettarne lo squallore. All’università scoprii con sorpresa che con il
termine bovarismo, coniato da Jules de Gaultier nei primi anni del Novecento, si indica la facoltà
di credersi ciò che non si è, di credere cioè alle fantasie che ci fabbrichiamo per
convincerci di essere diversi e di vivere in un mondo diverso. Ci rimasi male. Per
me Emma era (e resta) un’eroina vittima dell’ostinata indifferenza delle cose alla
maestà del desiderio.
Certo, io avevo un vantaggio conoscitivo rispetto a lei: sapevo che le passioni vanno
nascoste, che è sempre meglio fingersi disinvolte, impermeabili, perché va bene tutto
ma mai mostrarsi deboli. Perciò mai chiamare per prime, resistere alla tentazione
di rispondere subito a un messaggio, non esaltarsi troppo per un invito e, soprattutto,
non lamentarsi mai per un’attenzione non ricevuta, una telefonata mai arrivata. Bisogna
essere cool. Così si conquistano gli uomini. Questi i precetti diffusi dai manuali simbolo degli
anni Novanta e Duemila come Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere (1992), il saggio più venduto di tutta la decade secondo la CNN; oppure La verità è che non gli piaci abbastanza (2004), bestseller da cui fu tratto l’omonimo film, un grande successo al botteghino.
Io non li avevo letti e non avevo nemmeno visto il film. Ma queste ‘grandi verità’
percolavano già nelle telefonate con Francesca: «Che faccio lo richiamo Marco?», «No!
Aspetta che ti chiami lui!». Non lo chiamavo, ma quando chiamava lui dicevo sempre
‘sì’. Mi spiegava che non voleva una relazione – forse perché era ancora innamorato
della sua ex ragazza, più bella di me? più magra di me? più brava di me? –, passavamo
le notti a parlare e bere vino rosso in camera sua, ascoltando la musica. Quando mi
voleva io mi spogliavo e speravo sempre di poterlo avere addosso più di quei pochi
istanti. Persino l’annoso problema dell’eiaculazione precoce mi sembrava il segno
di una mia manchevolezza, e mi dicevo: ‘è stato bellissimo lo stesso’.
Una sera andammo al cinema, un film d’autore in bianco e nero perché noi non eravamo
tipi da blockbuster. Avevamo passato la notte insieme. «Stasera vedo una che mi piace»,
disse, «si chiama Jacqueline, è di Lione, pensavo di invitarla a uscire con noi».
Invece di scoppiare a piangere e piantare una scenata – perché come ti viene in mente
di dirmi una cosa del genere quando poche ore fa eri dentro di me, cioè non ‘vicino’ o ‘accanto’, proprio dentro, e quindi vaffanculo –, ecco invece di dire questo, risposi: «Certo, ma che bella
idea, vengo anch’io!».
E andai davvero, a vedermi la scena di lui che imbroccava Jacqueline con le stesse
mosse e parole con cui aveva poche settimane prima rimorchiato me. Ordinai uno shot
di tequila, cominciai a ballare con uno sconosciuto e lo baciai in mezzo alla pista
anche se non mi piaceva com’era vestito e aveva i capelli un po’ troppo corti. Alle
tre di notte tornai a casa ubriaca, prima di entrare mi sdraiai a stella sulla ghiaia
del parcheggio guardando le stelle coperte dalla nuvole e le cime blu dei cipressi
scuri nella notte scura. Avevo fame e decisi di farmi una valdostana fritta, pasteggiai
a whisky. Poi un pianto sull’impossibilità del vero amore, Roland Barthes, e a letto.
In questa scissione tra discorso amoroso e incontri occasionali ci siamo trovate in
molte, e ci siamo sentite strane. Ci ha preso il legittimo sospetto che imbastire la trama romantica su amplessi casuali
e mediocri sia soltanto un esercizio di stile, con il rischio di rimanere incastrate
in relazioni ridicole, o addirittura tossiche, di svegliarsi dopo qualche settimana
di estasi e rendersi conto che okay, è un cretino, oppure di soffrire senza motivo,
per giorni e giorni, talvolta mesi, per uno che non si sa nemmeno chi è. E però allo
stesso tempo siamo state incapaci di smollare il sogno di un amore, dandoci una gran
pena a concederci e poi ritrarci, tessere per scucire, tutto un fare e disfare fino
a non capirci più niente.
Ora, quest’impasse non deriva da un difetto di fabbricazione dell’universo o dalla
nostra innata deficienza, piuttosto dalle contraddizioni insite nell’idea di amore
cui siamo state esposte nel corso delle nostre vite: da una parte l’utopia romantica,
e dall’altra l’interpretazione del sesso come svincolato dai sentimenti. Un ossimoro
che è stato il nucleo della nostra educazione amorosa, e che ancora ci dà tanto da
parlare, a me e alle mie amiche, a noi che siamo romantiche inguaribili ma che del
romanticismo abbiamo anche capito l’artificio, noi che il sesso ci piace eccome ma
che in molte occasioni avremmo preferito dire ‘anche no’.
2.
Anche l’amore ha una storia
La verità è che il modo in cui viviamo le emozioni non si situa al di fuori della
società e della cultura, non è una terra vergine per la coltivazione di sentimenti
puri. Il modo di amare cambia con il passare del tempo, muta al mutare del contesto
economico e politico. L’amore non è qualcosa che si dà come si dà un giorno di pioggia,
un fenomeno ‘naturale’ indipendente da noi, ma un modo in cui diamo senso a una serie
di accadimenti, esperienze, sensazioni, la forma entro cui componiamo elementi disparati
per costruire una storia. E la storia cambia, perché cambiano le categorie che abbiamo
a disposizione.
Ai tempi di Jane Austen si amava diversamente, in una maniera che oggi tendiamo a
considerare assurda. Elizabeth, protagonista di Orgoglio e pregiudizio, si innamora di Mr. Darcy dopo averlo visto una manciata di volte e senza averlo
neanche baciato. Pagina dopo pagina la vediamo intrecciare la trama del sentimento
pensando a quello che la gente dice di lui, alla storia della sua famiglia, ai suoi
possedimenti, a come si è comportato con amici e nemici. Insieme hanno passato poche
ore, il tempo di una passeggiata, una cena o un valzer. La maieutica dell’amore, per
Elizabeth, avviene mediante gli strumenti della reputazione e della condotta e per
lo più in assenza dell’oggetto amato. Il giudizio sociale esterno è più importante
dell’intimità degli amanti, che si viene a creare dopo il matrimonio anziché esserne
il presupposto.
Se oggi un’amica (o amico) ci raccontasse di volersi sposare con uno che ha visto
quasi solo in occasioni sociali, che non ha mai toccato, con cui non ha passato più
di qualche ora, ma del quale ha sentito parlare benissimo, la prenderemmo come una
battuta. E se una battuta non fosse, penseremmo che ‘dev’essere impazzita!’, perché
l’amore moderno ci prescrive di ‘fregarcene di quello che dicono gli altri’, di ‘seguire
i nostri sentimenti’, di ‘non farci influenzare’, e soprattutto di conoscere bene
una persona prima di sposarla. Questo per dire che quando parliamo d’amore non parliamo
solo di un’esperienza soggettiva, singolare e privata, o di un universale filosofico,
un ideale astratto, ma anche di una questione culturale, e cioè qualcosa che si fa
in modo diverso in punti diversi dello spazio e del tempo. Ai tempi di mia nonna una
ragazza doveva arrivare vergine al matrimonio, stare per sempre con lo stesso uomo,
crescerne la prole, no divorzio, no aborto, no sesso senza riproduzione. Mia madre
invece ha avuto vari fidanzati, due mariti e tre figli, se non avesse abortito un
paio di volte ne avrebbe cinque. Io a sedici anni ho iniziato a prendere la pillola,
non credo che mi sposerò, ho quasi quarant’anni e neanche un figlio; non ho mai abortito.
Se avessi abortito l’avrei fatto al sicuro, seguita da personale medico, con il supporto
della mia ginecologa. Se al sesso mi sono approcciata con curiosità e gusto della
trasgressione, e se ho creduto di poter conciliare amore romantico e passione sfrenata,
è perché a dividere l’esperienza di mia nonna dalla mia c’è stato un cambiamento culturale
profondo.
Per capire come amiamo oggi bisogna dunque cominciare guardando indietro, ricordarsi
com’erano le cose prima. In particolare prima degli anni Settanta e cioè prima che il sesso fosse ‘liberato’
e che le femministe rivendicassero il diritto delle donne a godere del proprio corpo,
ma anche prima che la cultura capitalista di massa ci bombardasse di commedie romantiche
con attrici bellissime che vanno a letto con tanti uomini, altrettanto bellissimi,
prima di trovare ‘quello giusto’ in un bar di New York. Prima, cioè, che l’amore romantico
venisse inteso come il risultato di una scelta individuale libera, e il sesso venisse
slegato dalla morale cattolica della colpa e del peccato.
Negli anni Cinquanta le donne, dopo un lungo e casto corteggiamento pieno di promesse,
si ritrovavano ad amare (o non amare) nello spazio chiuso delle mura domestiche, costrette
dal vincolo del matrimonio e della famiglia nell’unico ruolo di mogli e madri. Amavano
come Valeria Cossati, protagonista del romanzo Quaderno proibito di Alba de Céspedes. Valeria ha quarantatré anni, è poco più grande di me adesso
ma ha smesso di essere donna molti anni prima, nel momento in cui ha partorito Mirella
e Riccardo. Michele, suo marito, la chiama soltanto ‘mammà’. Un nomignolo affettuoso
nato come un gioco è in poco tempo diventato il suo unico nome, l’unica identità disponibile.
Mia madre me l’ha sempre detto, ‘dopo che partorisci gli uomini non ti guardano più
come prima e si trovano l’amante’. Forse è questo che le è successo con mio padre,
e anche per questo deve averlo lasciato. Io stessa sono stata l’amante giovane di
un uomo con un figlio piccolo, inconsapevole di essere all’altro capo del giogo che
volevo spezzare. A differenza di Valeria noi siamo cresciute determinate a sconfiggere
questo spauracchio: ‘se mai partorirò non smetterò di farmi il colore ai capelli e
vestirmi per bene, e non smetterò neanche di fare yoga, anzi intensificherò gli allenamenti
così da rimanere bella e giovane’. Le madri contemporanee si iscrivono a corsi di
canoa e architettura del paesaggio, lavorano la notte e fanno una dieta equilibrata,
alcune fanno jogging nei parchi di Londra ghiacciati dall’inverno e mentre corrono
gestiscono un cliente in call. Anche loro non mi fanno venire tanta voglia di fare dei figli.
Valeria i figli invece li ha fatti, e per fortuna. Non farli le sarebbe costato stigma
e sofferenza, si sarebbe sentita difettosa, incompleta. Con il marito non fa più l’amore,
ma divorziare come ha fatto mia madre non è un’opzione. Ogni giorno si occupa della
salute, dell’equilibrio, del benessere generale della famiglia. Si sente in trappola,
non sa come uscirne. Un giorno inizia a scrivere un diario: tormentata dai sensi di
colpa si concede uno spazio privato di riflessione, una ‘stanza tutta per sé’. Scrive
la notte, nei luoghi più improbabili, curandosi di nascondere il taccuino in posti
sempre diversi, perseguitata dalla paura che il marito e i figli possano trovarlo
e scoprire che invece di fare le faccende si permette non solo il lusso di pensare,
ma persino di scriverle, certe sciocchezze!
Io scrivo senza nascondermi, anche se sempre con un po’ di imbarazzo. Nata negli anni
Ottanta, faccio parte di una generazione che è stata educata a ‘dire quello che pensa’,
e ‘fare quello che vuole’, e in effetti cerco di seguire questo insegnamento. Tuttavia
in Valeria ho trovato la radice di alcuni pensieri che vorrei non avere ma che tuttavia
ho. Quella cosa che mi fa sentire di dover pulire a fondo la casa prima che arrivi
un ospite perché temo che qualcuno possa pen
...