Nota dell’Editore

In occasione dei vent’anni dalla scomparsa di Elio Apih, insigne storico triestino, la Casa Editrice ha accolto l’invito della figlia Gabriella a ristampare questo volume, apparso la prima volta nel 1957 (Einaudi). Si vuole così rendere nuovamente disponibile, per i cittadini, gli studiosi e le nuove generazioni, un’opera fondamentale per la storia della città di Trieste.

Aprile 2025

Prefazione
di Fulvio Salimbeni

Elio Apih (1922-2005) è stato uno dei principali storici triestini dell’età contemporanea (la voce a lui relativa in Wikipedia lo definisce «uno dei maggiori esponenti della storiografia triestina del Novecento»), come attesta il presente volume, originariamente pubblicato da Einaudi nel 1957, cui sono seguiti numerosi altri saggi sulla storia della Venezia Giulia e del confine orientale. Dopo una prima laurea in Filosofia teoretica nel 1944 presso l’Ateneo padovano, nel 1947 si laureò in Storia in quello triestino, avendo per relatore uno storico di rilievo quale Nino Valeri e per correlatore Carlo Schiffrer, uno dei maggiori storici triestini, e discutendo una tesi su Le diverse tendenze del socialismo europeo e le vicende del socialismo triestino. Nel 1962 collaborò all’edizione Feltrinelli dell’opera omnia di Gaetano Salvemini e nel 1966 pubblicò per Laterza Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), riedito nel 2022, sempre da Laterza, in occasione del centenario della nascita. Nel medesimo anno diventò collaboratore del neocostituito Centro di ricerche storiche di Rovigno, tuttora la principale istituzione culturale della Comunità nazionale italiana, allora in Jugoslavia, ora in Croazia. Nel 1965 fu tra i promotori della fondazione della Deputazione di storia patria per la Venezia Giulia, della quale è stato attivo membro, e dagli anni Sessanta fu socio dell’Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia. Dal 1975 insegnò Storia moderna e Storia del Risorgimento all’Università di Trieste, dove nel 1979, vinto il concorso a cattedra, diventò docente ordinario di Storia contemporanea, insegnamento che ha tenuto sino al 1992, anno del pensionamento. Inoltre, dal 1996 al 1997 ha fatto parte della Commissione mista storico-culturale italo-slovena.

Dei suoi innumerevoli lavori vanno ricordati: Italia del Risorgimento e mondo danubiano-balcanico (Del Bianco, Udine 1958), Dal regime alla Resistenza: 1922-1943 (Del Bianco, Udine 1960), Il ritorno di Giani Stuparich. Con lettere inedite (Vallecchi, Firenze 1988), Il socialismo italiano in Austria. Saggi (Del Bianco, Udine 1991), Carlo Schiffrer (Studio Tesi, Pordenone 1993), Risiera di San Sabba. Guida alla mostra storica (Civici musei di storia e arte, Trieste 2000), Trieste (Laterza, Roma-Bari 2015, pubblicato nella prestigiosa serie “Storia delle città italiane”), Le foibe giuliane, a cura di Roberto Spazzali, Marina Cattaruzza e Orietta Moscarda Oblak (LEG, Gorizia 2022), che attestano l’ampiezza dei suoi interessi storiografici. A rendere inoltre più completa la biografia intellettuale, si tenga presente che in tarda età pubblicò un volumetto di Racconti giovanili e senili poesie (Lint, Trieste 2004).

Sulla sua opera complessiva si segnalano: Trieste, Austria, Italia tra Settecento e Novecento. Studi in onore di Elio Apih, a cura di Marina Cattaruzza (Del Bianco, Udine 1996), e L’attività storiografica e l’impegno civile di Elio Apih. Atti delle Giornate di studio, 31 marzo-1° aprile 2006, a cura di Marina Cattaruzza, Bianca Cuderi, Giulio Mellinato, in «Quaderni Giuliani di Storia», XXVIII, 1, 2007, pp. 53-143.

La riedizione di La società triestina nel secolo XVIII, importante studio fondato su un imponente apparato documentario – come è evidente consultando la I Appendice: Documenti –, è importante sia perché rende nuovamente disponibile questa pregevole monografia giovanile, che attesta le qualità scientifiche dell’autore, sia perché sono pochi i testi specificamente dedicati alla storia triestina nel Settecento, periodo d’avvio, grazie alle riforme e alle concessioni di Maria Teresa, del decollo cittadino, mentre più numerosi sono quelli relativi al XIX e XX secolo, epoca d’ascesa e affermazione del capoluogo giuliano, che, data la sua collocazione geopolitica, fu epicentro di scontri tra opposti nazionalismi, i quali raggiunsero il culmine durante il secondo conflitto mondiale e negli anni successivi.

Aprile 2025

Premessa

A Trieste, nel corso del secolo XVIII, sparì rapidamente un comune autonomo, povero ma con secolari memorie, e subentrò ad esso una grande città mercantile interessata alle ricchezze e alle soddisfazioni pratiche, porto favorito dell’Austria. Ai contemporanei, a coloro che sbigottiti o entusiasti assistettero a questa vicissitudine, non sfuggì l’importanza del fatto e tanto le carte di archivio quanto le scritture pubbliche e private che di quei tempi ci sono pervenute, rilevano vistosamente la buona o mala ventura dei triestini destinati chi alla miseria e chi al successo nella nuova situazione, come pure l’importanza e i vantaggi che il progresso infine a tutti portava. Però tanto le intelligenti e precise relazioni del direttore di polizia, barone P.A. Pittoni, e del consigliere d’Intendenza, barone P. de Ricci, quanto gli scritti più o meno occasionalmente dati alle stampe da A. Metrà, M. da Bevilacqua, R. Coronini, A. Carpaccio, G. Agapito e da altri funzionari e viaggiatori sono interpretazioni fatte seguendo il cliché convenzionale dell’epoca, esaltanti i vantaggi di un’amministrazione civile illuminata e della laboriosità ed i frutti del commercio. Il solo Antonio de Giuliani tentò, nelle sue note Riflessioni sul porto di Trieste (Vienna 1785), di cercare in profondità il significato della nuova sorte della sua città e intravide che un nuovo costume di vita e una nuova mentalità, imperniata sull’agire razionale e costruttivo, subentravano a quella dei suoi avi: «Altre volte il Mondo era tutto dei Conquistatori..., oggi tempi più felici presentano un quadro assai diverso per l’Umanità... non si calcola più nei fasti di un monarca il numero delle Città demolite, ma quello delle Città edificate... Si osservino gli spiriti mediante una felice rivoluzione già inclinati ad un nuov’ordine d’idee, cessar di occuparsi delle chimere, che prima assorbivano tutte le nostre facoltà fisiche, e morali...» (p. 3).

Ma questa felice e giovanile intuizione restò isolata e dimenticata. Gli uomini di cultura d’allora, che erano tutti passati attraverso l’umanesimo, non potevano non nutrire diffidenza verso il nuovo pragmatismo economico ed erano pronti a rilevarne limiti e lati negativi; l’interessamento della società triestina cosiddetta colta per i problemi del commercio ebbe breve durata, come si constata seguendo l’attività della sezione triestina dell’Arcadia Romano-Sonziaca e del Gabinetto di Minerva che le succedette, e lo stesso de Giuliani, che aveva sangue patrizio nelle vene ed era stato educato nel Collegio degli Scolopi, fece una clamorosa palinodia delle sue prime valutazioni. Privo, come notarono Croce, Cusin ed altri, di un preciso senso del progresso, finì col dare un giudizio completamente negativo della cultura nuova che si elaborava a Trieste e rilevò non più i benefici del commercio, ma i duri aspetti della libera lotta economica, i lati meno umani della mentalità industriale, le gravi conseguenze di un aumento non controllato della popolazione, conseguenze tutte, asseriva ora, del primeggiare delle attività economiche.

In realtà questa autocritica rifletteva l’impennata antigiacobina della società europea alla fine del secolo. Militarmente vittoriosa, questa società respinse l’interpretazione dei fatti economici come manifestazione di una cultura imperniata sulla superiorità dell’azione e quindi accessibile da tutti gli uomini. Anche a Trieste fu riconfermato il principio che l’attività economica è una forma inferiore di cultura tanto da chi continuava ad apprezzare il tradizionale umanesimo, quanto dalla nuova borghesia mercantile stessa che ormai, diventata conservatrice degli interessi locali del traffico, sentiva lo slancio costruttore dell’azione come un fatto consuetudinario. Le correnti preromantiche riportarono di moda l’umanesimo e, riconfermata la superiorità della concezione secondo la quale la vita dell’uomo di cultura si risolve nella contemplazione o creazione o analisi di pure forme, ne venne la pregiudiziale svalutazione di quanto nel Settecento triestino era stato attività economica e la rivalutazione delle «chimere» da esso irrise, ossia della tradizione municipale. Così il prof. de Lugnani spiega, in occasione dell’inaugurazione della Scuola di Commercio, di nautica e di architettura, che: «per tutto ove fu Commercio, e vi è, vi furono e sono le scienze e le arti; non però vale l’inverso. Furono o sono scienze ed arti in più luoghi e non vi fu commercio o non v’è... Risponderà taluno... ma pure Trieste fiorì,... è meglio che i giovini passino dalle prime più elementari indispensabili istruzioni o in uno scrittoio o sul mare... Folle risposta! Trieste fu centro del commercio d’Europa perché tutti gli altri porti d’Europa erano chiusi...» (Della connessione che hanno fra loro le scienze e il commercio, s.n.t., ma Trieste 1817, pp. 12 e 14). Anche Domenico Rossetti parte dal principio che «bisogna moderare la prevenzione che tutto nacque per il commercio» (Meditazione storico-analitica sulle franchigie della Città e Portofranco di Trieste, Venezia 1815), e deplora che i figli dei negozianti fondatori del nuovo emporio triestino «dovevano, dopo avere imparato gl’infimi elementi delle lettere, dedicarsi esclusivamente al commercio. Ogni loro ulteriore mentale coltura veniva negletta, quale sementa troppo esotica per essere fruttifera nei campi loro» (Discorso tenutosi nella sera del dì 31 dicembre 1815 in generale adunanza dei soci del Gabinetto di Minerva, Picotti, Venezia 1816, p. 7); nessunameraviglia, pensa Rossetti, che «al primo sentore di guerra i cittadini più danarosi volassero a porre in salvo le loro persone e le loro robe» (Meditazione cit., p. 139). Ilprimo dei romantici giuliani, Besenghi degli Ughi, che pur non risparmia frecciate al provinciale classicismo del Gabinetto di Minerva, non ha del Settecento triestino una migliore opinione e parla di una città ripopolata «rammassando quanti mariuoli e gaglioffi e paltonieri poté trovare... concordissimi però... nelle inesauribili risorse della loro solerzia: del no per li denar vi si fa ita»(Saggio di novelle orientali, Alvisopoli, Venezia 1826). Non diversa nella sostanza fu l’opinione dei redattori della «Favilla», il più vivace e aperto giornale che ebbe Trieste in tutto l’Ottocento. Essi appartengono alla cultura del Risorgimento e son repubblicani e progressisti e apprezzano le attività pratiche e questa città moderna sorta in pochi decenni, «vera creatura del commercio e dell’industria» (10 marzo 1839); condividono il giovanile entusiasmo di deGiuliani «all’aspetto di tanta potenza dell’uomo» (4 settembre 1836) e ristampano alcune delle sue pagine più significative (2 giugno 1839). Ma son romantici, anch’essi distinguono fra economia e cultura, scrivono, come dice Madonizza, per procacciar a Trieste «un qualche lustro anche in ciò che non è industria e commercio» (Di me e dei fatti miei, Trieste 1952, p. 52); dopo il 1848 avranno chiara coscienza della eterogeneità della loro cultura rispetto a quella media dell’ambiente triestino. Il loro amico Niccolò Tommaseo per esempio che, con cosmopolitico entusiasmo, si era firmato «uno slavo» nella dedica del suo Intorno a cose dalmatiche e triestine (Trieste 1847), affermerà che Trieste fu «fatta più fiorente... per la industria di sempre nuovi abitanti... ancorché esercitata con intendimenti non ampi ma con meccanica laboriosità» (Venezia negli anni 1848 e 1849, Firenze 1931, vol. I, p. 100).

Così è nato il classico quadro del Settecento triestino, quello del quale Pietro Kandler ha dato, verso la metà del secolo scorso, una rappresentazione che allora e poi fece testo. Anch’egli è «scrittore... nato da famiglia borghese» (Storia del Consiglio dei Patrizi, Trieste 1854, p. 131) e anch’egli compie piena ritrattazione dei primi giudizi dati sul patriziato: «Tocca a me per il primo a rompere la pace dei vostri sepolcri... e lo faccio in espiazione di quelle irrisioni alle quali giovanetto io pure batteva le mani» (p. 9). Egli fissa con spirito umanistico i termini del problema storiografico del Settecento triestino, idealizzando il Comune antico qual centro di civiltà umanistica, riducendo il cosmopolitismo ad un fenomeno etnico che lo sommerse e facendo dell’Austria una sorta di motore di questo processo, capace di suscitarlo e dirigerlo per forza di decreti. «I patrizi tennero il distretto in condizione di borgo, gli abitanti in condizione di borghesi, anzi di uomini senza alcuna condizione politica o civile, di che poi i borghigiani non avevano desiderio, né potevano comprendere l’importanza, idioti ed avvenitici come erano, ed intenti soltanto al lucro di denaro...; come s’intendessero fra loro tedeschi, portoghesi, italiani, francesi non è si facile a dirsi» (p. 175); la stessa creazione del nuovo porto non è merito dei mercanti, dato che si può accertare «la esistenza onorifica, gloriosa, di un emporio anteriore... del quale il moderno è ampliazione da secoli desiderata» (Emporio e Portofranco di Trieste, Trieste 1861, p. 78), ma «il Comune di Trieste non aveva forze per alzarsi ad emporio, a ciò fare era indispensabile la potenza del Principe» (p. 154). Pietro Kandler fu il primo a frugare coscienziosamente il materiale archivistico che poté rinvenire (la maggior parte degli archivi triestini del Settecento era smarrita ai suoi tempi) e fornì, sia pure partendo da interessi giuridici e moralistici, una tal quantità di notizie che ancor oggi lo studioso di queste vicende deve indirizzarsi in primo luogo ai suoi libri; ma impostò il problema in termini che portavano piuttosto alla incomprensione che alla soluzione: come fu sommerso l’antico Comune e come, superando l’ondata del cosmopolitismo, sopravvisse la cultura italiana e quale parte spettò all’Austria nella formazione della città, è tutt’altro che chiaro in questi libri.

Questo quadro comunque rappresentava, per così dire, l’opinione media che i triestini avevano delle proprie origini ed era in grado di adattarsi alle diverse correnti ideologiche che la città tranquilla e laboriosa ospitò nel corso dell’Ottocento, senza riceverne sensibile influsso. Vi si adattarono, come vedemmo, i romantici e lo utilizzarono quelli che vivevano nel mondo del commercio, legati ad un concetto di progresso ottenuto per mezzo di attività economiche, i quali, paghi della loro tranquilla sicurezza, volentieri riconoscevano l’esistenza di una cultura per così dire superiore, che ben si prestava a dare lustro a quell’edonismo che per essi costituiva la mèta finale della loro attività, e non era politicamente pericolosa. G.G. Sartorio non ha difficoltà ad auspicare «anche per Trieste il giorno in cui le scienze e le belle arti vi prenderanno stanza, incivilendo, e nobilitando il commercio e l’industria» (Memorie, Trieste 1949, p. 133) e nell’opuscolo anonimo In occasione del giubileo centenario della Ditta commerciale di Trieste Reyer e Schlik (Trieste 1889) si accenna, senza molto impegno, a quella «epoca di splendida floridezza del commercio... in cui ebbe accoglienza il vero spirito commerciale... feconda di azioni e di opere per Trieste tutta». Gli austrofili pure davano credito al mito della Trieste settecentesca dominata da incolti ma produttivi affaristi di ogni nazione e lo presentavano quale smentitadelle prime esigenze nazionali ed irredentiste; Alessandro Mauroner, per esempio, si fece ripetutamente forte del detto di Pacifico Valussi, che Trieste era «ramo cosmopolita innestato su tronco italiano» (Dare e avere ovvero Trieste nel 1867, Trieste 1867, p. 10). Pertutta la seconda metà dell’Ottocento, quando a Trieste arrivava dalle università austriache e italiane un diluito e convenzionale positivismo e la cultura locale era per lo più erudita e curiosa, nessuno pensò di mutare il quadro kandleriano che rimase qual base di alcuni modesti lavori, tecnicamente per altro corretti, del Caprin, del Morteani, del Bonaffons, i quali ampliarono il numero delle notizie sull’argomento.

Ma col secolo nuovo, nella grande ondata di rigoglio e di contrasti che portò l’Europa alla guerra del ’14, venne a trovarsi al centro dei contrasti politici triestini un combattivo irredentismo e con esso tornarono in primo piano acuiti tutti i problemi della storia di Trieste moderna: se era appartenuta o no alla storia della cultura italiana del Risorgimento, qual parte l’Austria aveva avuto nel suo sviluppo, che importanza aveva la sua economia legata all’Austria di fronte alle esigenze della cultura, il cui sviluppo appariva impossibile al di fuori dell’unità nazionale. Ma neanche ora fu rotto il Settecento di Pietro Kandler, che serviva ai conservatori per esaltare l’opera del commercio nella città austriaca e ai nuovi ideologhi, epigoni del romanticismo, per rilevare la sostanziale grettezza di questo legame politico. Anzi questa aspra problematica, nata quasi all’improvviso in un ambiente che ai problemi acuti era disusato, trovò non poca difficoltà ad esprimersi in termini di cultura, per cui si fu unanimi nel rintracciare la causa di questa difficoltà nell’asserita debolezza delle tradizioni culturali triestine e da tutte le parti il giudizio sul Settecento triestino fu espresso in termini più duri. Angelo Vivante, socialdemocratico di orientamento austromarxista, parla di «ignoranza cosmopolita», di «città dei ricercatori di fortuna» che hanno posto il «germe della prosperità triestina» (Irredentismo adriatico, Firenze 1912, cap. I); Scipio Slataper ricorda il detto che a Trieste «se fiore fosse nato ne avrebbero fatto bottega» e, chiestosi come mai dalla ricca tradizione commerciale triestina non nacque un interesse scientifico nemmeno pei problemi del commercio, non sa trovare la risposta (Scritti politici, Roma 1925, pp. 6 e 434); più coerente di tutti a queste premesse Ruggero Fauro, nazionalista, constata che «la prosperità economica venne sul nostro golfo senza che nessuna idealità avesse da farvi delle riserve, semplicemente perché le grandi idealità non esistevano» (Scritti politici, Trieste 1929, p. 68) e conclude seccamente che «Trieste non ha storia» (Trieste, Roma 1914, p. 5).Ancora una volta, accettata l’antitesi del Kandler, sfuggiva la comprensione del Settecento triestino e lo comprovò Attilio Tamaro che, a guerra finita, si assunse il compito di riscrivere la storia della sua città; una passione polemica prepotente lo porta assai spesso ad abbondare nei giudizi negativi ed egli presenta l’opera del governo austriaco come una serie di «innumerevoli errori, continui disastri ed incessanti fallimenti», la storia del commercio come «faccenderia senza scrupoli», il sopravvivere della cultura nazionale «mistero vitale della terra italiana» (Trieste, Roma 1930, pp. 95, 116, 115).Ma la storia è sempre razionale ed anche qui i misteri e le irrazionalità che egli vede sono soltanto la dimostrazione della sua incomprensione del problema e gli resta il solo merito di aver contribuito lui pure ad arricchire la raccolta delle fonti edite, essendo finalmente ritornato alla luce l’archivio dato per perso dal Kandler, con fortunose vicende. (O. de Incontrera, Pubblicazioni e ricerche archivistiche sugli esuli napoleonici a Trieste in «La Porta Orientale», Trieste, dicembre 1941, p. 295, n. 201).

Toccava allo storicismo, all’interpretazione razionale e dialettica dei fatti storici, aperta senza restrizioni a tutte le manifestazioni della civiltà dell’uomo, il compito di sciogliere questo irrigidito schema di una città contesa tra gli ideali e il danaro, specie da quando gli studiosi fedeli a questo metodo concordemente interpretavano il periodo delle riforme come periodo di storia europea, matrice positiva del mondo moderno. Così Fabio Cusin nei suoi giovanili Appunti alla storia di Trieste (Trieste 1930) inserisce il Settecento triestino nel quadro dell’economia e della società europea d’allora ed Ernesto Sestan nel suo recente La Venezia Giulia (Roma 1947) in quello della politica nazionale delle monarchieassolute ed entrambi tolgono il problema, sotto questi aspetti, dalla prospettiva municipale finora prevalsa. Ma anche lo storicismo che ha dominato la cultura italiana nel Novecento aveva salda la distinzione tra l’economia e l’etica ed era restio a rivalutare la dimenticata mentalità di quegli ormai lontani decenni di storia triestina: Cusin, che pure aveva rilevato che l’affarismo del ceto mercantile era sombartiano spirito d’intraprendenza, accetta ancora certe posizioni rossettiane e Sestan, che pure ha posto qual sottotitolo al suo studio Lineamenti di storia etnica e culturale, parla, sia pur valutandosolo il contributo che i mercanti tedeschi nuovi venuti dettero alla diffusione della cultura tedesca in Trieste, di «gente che certamente contava molto nella vita materiale della città, ma che nella vita dello spirito non contava per nulla» (p. 81).Solo recentemente Nino Valeri, dopo aver letto le memorie del commerciante Sartorio ristampate, ha riportato il problema del cosmopolitismo triestino entro i suoi veri termini di fenomeno proprio dell’illuminismo ed ha posto il problema della mentalità commerciale come riflesso di una cultura nuova (Verbali della Società di Minerva, 24 novembre 1951; si veda anche G. Cervani, Intorno al cosmopolitismo triestino: le memorie di G.G. Sartorio in Scritti in onore di C. de Franceschi, Università di Trieste, 1951).Appena con ciò siamo vicini al nucleo vivo del sempre misconosciuto spirito del Settecento triestino, alla sua coscienza che i valori sono nell’azione, che il commercio è «un felice movimento che diede un’altra vita» come diceva de Giuliani (p. 42); essa ci fornisce la chiave per intendere quanto avvenne allora a Trieste per opera di idee non messe sulla carta ma realizzate in opere concrete.

La società triestina nel secolo XVIII

L'autore

Elio Apih

Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.

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