Premessa
Questo manuale è un’introduzione alla storia della psicologia. Nasce sulle ceneri
di un altro fortunato manuale, La psicologia: un profilo storico, pubblicato anch’esso con Laterza, che in dodici anni di onorato servizio ha probabilmente
esaurito il suo ruolo. Un manuale per la cui stesura mi era stata di preziosissimo
aiuto Simonetta Gori Savellini, carissima collega da non molto scomparsa, e a cui
va il mio ricordo grato e affettuoso. Il manuale nasce poi da un’esperienza didattica
e di ricerca quasi quarantennale per quel che riguarda la disciplina; e ovviamente
da quella sorta di delirio di onnipotenza proprio di ogni autore, secondo cui le cose
che occorrerebbero nei manuali o uno se le scrive da solo, o ben difficilmente le
trova nella forma che desidererebbe.
È un manuale introduttivo: il lettore non vi troverà quindi scoperte storiografiche
sconvolgenti o analisi epistemologiche sottili e raffinate. Molto meno modestamente,
si propone di creare una sorta di incastellatura cognitiva che consenta al lettore
(si immagina, soprattutto, lo studente dei corsi di Storia della psicologia e dei
corsi introduttivi di Psicologia generale) di comprendere qual è la posizione logica
dei diversi concetti che la psicologia scientifica ha proposto, per come si sono storicamente
determinati. Per questo, anche se si è cercato di utilizzare un linguaggio piano,
probabilmente si è ottenuto lo scopo di avere un libro di facile lettura, ma un libro
al contempo per nulla facile. Per fare questo, però, ho privilegiato un quadro epistemologico
chiaro ed esplicito, in larga misura riconducibile (con tutti gli adattamenti e gli
aggiornamenti del caso) a Kuhn. Questa scelta non è piaciuta a qualche collega, a
cui ho già avuto modo di rispondere (Luccio, Gori Savellini 2002), e con cui non voglio
riaprire antiche diatribe. Come sempre, sono grato dell’attenzione (in positivo o
in negativo) che si rivolge a quanto scrivo, ma ciò (almeno in questo caso) non mi
fa modificare di una virgola le mie posizioni.
Rispetto al primo manuale, le principali modifiche riguardano il terzo capitolo, con
un’analisi delle origini del termine «psicologia» e del ruolo del «ramismo» nella
nascita di questo nuovo dominio scientifico – e qui c’è effettivamente qualcosa di
storiograficamente nuovo. Modifiche anche nel settimo capitolo, con il dibattito apertosi
alla fine del XIX secolo sul ruolo che l’«anima» poteva ancora avere nella psicologia,
come premessa alla nascita delle scuole oggettivistiche. Importanti modifiche, infine,
nel decimo capitolo, che ha richiesto un necessario aggiornamento specie sul piano
neuropsicologico, con il contributo dato (nel bene e nel male) dalle tecniche di neuroimaging e con la scoperta dei neuroni-specchio; ma anche con la scoperta di nuovi importanti
effetti, come il cosiddetto SNARC, che ci costringono a riconsiderare il problema
della rappresentazione delle conoscenze. Su altri sviluppi odierni della ricerca,
di cui oggi si discute intensamente (solo per fare un esempio, la cosiddetta «mente
estesa», proposta in particolare da Clark e Chalmers [1988], secondo cui si darebbero
dei processi cognitivi distribuiti nell’ambiente e veicolati da strumenti esterni
di elaborazione dell’informazione), penso che si tratti di settori non ancora sufficientemente
consolidati per considerarli «storia».
Molti sono i colleghi, gli allievi e gli amici che dovrei ringraziare per le discussioni
illuminanti avute su aspetti determinanti della storiografia della psicologia (salva
restando la mia totale responsabilità per quanto qui scritto), da Fiorenza Toccafondi
a Giovanni B. Vicario, da Alberto Peruzzi a Dejan Todorovi, da Sergio Masin a Daniel
Algom. E sono certo molti di più i nomi che ho omesso. Ma vorrei qui ricordare soprattutto
il mio grande maestro e amico Gaetano Kanizsa, con cui in questi vent’anni, da quando
ci ha lasciato per sempre, non ho mai smesso di discutere su tutto ciò che rende così
affascinante la storia della nostra disciplina.
Riccardo Luccio
Capitolo primo. Storia della scienza e storia della psicologia
1.1. Perché studiare la storia della psicologia
Questo è un manuale di storia della psicologia, destinato in primo luogo a una particolare
categoria di utenti: gli studenti universitari, non necessariamente dei corsi di laurea
in psicologia. Il testo ha ovviamente anche qualche ambizione accessoria: soddisfare
le curiosità di un generico lettore colto e curioso; essere un po’ il compagno di
chi la psicologia insegna in settori non storici, e ha ogni tanto bisogno di rinfrescare
la memoria su qualche dettaglio storico; soprattutto, ed è questa la nostra maggiore
ambizione, stimolare l’interesse di chi la psicologia la pratica nella vita professionale,
e probabilmente riuscirebbe a dare maggior senso alla propria attività se riuscisse
a inquadrare nel giusto contesto storico i fondamenti del proprio fare. Da questo
punto di vista, però, questa non è una storia della psicologia applicata, di cui oggi
si sente una notevole necessità, ma i cui pochi abbozzi reperibili, sempre settoriali,
sono a giudizio degli scriventi tutt’altro che soddisfacenti.
Il senso del libro che abbiamo scritto sta nella risposta (non semplice) che va data
alla domanda che dà il titolo a questo paragrafo: perché studiare la storia della
psicologia? La risposta che si dà normalmente a questa domanda – e che, come diceva
la grande storica del movimento gestaltista Mary Henle (1976), siamo anche un po’
stanchi di ascoltare – vuole che la storia della psicologia (e in generale la storia)
vada ben conosciuta per non ripeterla, specie nei suoi errori. Di fatto, siamo invece
ben persuasi di quanto avesse ragione Giacomo Leopardi nell’ultimo pensiero dello
Zibaldone, scritto a Firenze il 4 dicembre 1832: «La cosa più inaspettata che accada a chi
entra nella vita sociale, e spessissimo a chi vi è invecchiato, è di trovare il mondo
quale gli è stato descritto e quale egli lo conosce già o lo crede in teoria».
Il fatto è che saperlo non serve a nulla. Nella vita, come nel fare scienza, non si
apprende dall’esperienza, specie altrui. Non è questo certo il motivo per studiare
storia della psicologia, almeno di questo siamo certi.
Altri autori hanno provato a fare delle sorte di cataloghi dei motivi che dovrebbero
rendere attraente lo studio della storia della psicologia. Uno dei più noti è quello
proposto da Hearst (1979, p. 21), nel suo famoso testo celebrativo del centenario
della psicologia sperimentale. Dice Hearst che è opportuno studiare la storia della
psicologia per: a) evitare le trappole del passato; b) rendersi conto che a volte quel che viene presentato come nuovo è in realtà antico;
c) imparare a «vedere le nostre teorie e le nostre conclusioni con umiltà e quelle
degli altri con tolleranza», constatando con chiarezza quanto spesso siano provvisorie
le conclusioni scientifiche; d) giudicare meglio il ritmo dei progressi attuali nel confronto con il passato; e) vedere come si possano integrare in un quadro unificato apporti che appaiono sparsi;
f) utilizzarla come euristica per sviluppare idee nuove; g) valutare la spesso sorprendente potenza di idee semplici, ma originali; h) vedere i rapporti tra la nostra disciplina e le discipline vicine, come storicamente
determinatisi; i) acquisire esempi di fenomeni che aiutano a chiarire quelli che oggi osserviamo;
l) individuare le future linee di tendenza.
Il lettore non si spaventi: del tutto analoga è la lista di motivi che presenta uno
degli storici della psicologia che oggi vanno per la maggiore, Wayne Viney (1993,
pp. 1-2). Ora, cosa dirne? Da un lato, occorrerebbe non essere troppo severi: in larga
misura sono frutto di una cultura che bene o male è abbastanza lontana dalla nostra.
Dall’altro, come apparirà più chiaro dal prossimo paragrafo, sono però anche frutto
di una concezione della storiografia della scienza che è molto lontana dalla nostra
– ed è anche molto lontana in generale da quella che si pratica in settori molto più
maturi della storia della scienza, e in genere delle idee. È il caso della storia
della fisica, dell’astronomia, delle matematiche, della biologia, ma anche della medicina.
E l’elenco potrebbe continuare.
Ciò che infatti stride nella visione di Hearst e di Viney è il «presentismo» sotteso
in questi precetti (cfr. Mackenzie, Mackenzie 1974). In altri termini, essi ci dicono
che tutto ciò che troviamo nel passato può essere tenuto per buono oggi, che la scienza
è progredita accumulando sapere, in un’attività convergente verso lo stato delle conoscenze
oggi presente, e che il compito sostanziale dello storico della scienza è disseppellire
il sapere rimasto sepolto sotto cumuli troppo alti di nuove acquisizioni, e riportarlo
alla luce, per potercene servire di nuovo. In fondo, si tratterebbe come di una nuova
(e un po’ bizzarra) figura di archeologo, che disseppellisce case per offrircele come
abitazioni disponibili, senza preoccuparsi del fatto che il concetto di casa, ma anche
di abitare, della nostra cultura possa essere del tutto incompatibile con quello della
cultura i cui resti va scavando.
Per Hearst come per Viney, la motivazione prima è recuperare i tesori sepolti nel
passato, magari evitandone le trappole. In altri termini, se si è commesso un errore
nel passato, conoscere questo errore può evitare di commetterlo di nuovo in futuro.
Di fatto, con ciò si assume che nel presente si possano ripresentare gli stessi problemi
di ieri. Ma questo non è assolutamente vero, né è sensato pensarlo. Un esempio di
Kuhn (1987) può rendere chiaro questo punto, tratto dalla storia dell’astronomia.
Si immaginino queste due frasi, tratte rispettivamente da possibili scritti rispettivamente
di un astronomo tolemaico e di un astronomo copernicano. Il primo enunciato dice:
«i pianeti girano intorno alla Terra»; il secondo enunciato dice: «i pianeti girano
intorno al Sole». Ora, è facile rendersi conto che questi due enunciati non danno
una diversa soluzione allo stesso problema, ma in realtà presentano due problemi differenti.
Nell’astronomia copernicana, infatti, i pianeti sono quei corpi celesti che girano
intorno al sole; in quella tolemaica, sono corpi celesti che girano intorno alla Terra.
Il dato di fatto è che si tratta di «cose» diverse. Se dobbiamo usare il vocabolario
copernicano, al di là dell’uguaglianza dei vocaboli impiegati, non potremmo mai dire
che una soluzione possibile (come vorrebbero i «convenzionalisti» – vedi oltre) al
problema del moto dei corpi celesti è quella tolemaica, per cui «i pianeti girano
intorno alla Terra»; perché diremmo che «i corpi celesti che girano intorno alla Terra
girano intorno al Sole», è questa è una contraddizione in termini.
Come vedremo meglio oltre, in un dato momento storico una scienza definisce i propri
oggetti, e impiega un lessico specifico per parlarne (enunciare leggi, principi, fare
calcoli ecc.). Il lessico della scienza dipende da convenzioni storicamente determinate,
e ogni termine scientifico vale all’interno di queste convenzioni; e sono le convenzioni
a essere determinate storicamente. Evidentemente, questo discorso può essere portato
alle sue estreme conseguenze (ad esempio, da un Feyerabend 1987) con esiti che possono
apparire irrazionalistici, portando a ritenere del tutto incompatibili le acquisizioni
scientifiche ottenute in epoche diverse e vedendo quindi lo sviluppo storico della
scienza affidato al capriccio del caso con lo svolgersi del tempo; può portare a ritenere,
come in Kuhn, che sia soprattutto la considerazione sociologica delle dinamiche della
comunità degli scienziati a spiegare lo sviluppo della scienza, e non la razionalità
scientifica in quanto tale, piaccia (cfr. Barnes 1982) o non piaccia (cfr. Rossi 1975);
o può essere considerato un semplice caveat, che in ogni caso gli storiografi debbono tenere bene a mente prima di tentare paralleli,
sulla base di semplici coincidenze esteriori di elementi linguistici, tra le teorizzazioni
svoltesi in momenti storici differenti.
Perché, allora, studiare la storia della psicologia? I motivi, secondo noi, che seguono
da quanto abbiamo appena detto, sono almeno quattro:
1. La storia della psicologia ci serve a capire come si sono determinati storicamente
i grandi concetti che vengono impiegati all’interno di questa disciplina e qual è
il modo appropriato di utilizzare il lessico psicologico. Questo lessico non è nato
oggi, ma si trascina dietro significati e reti di relazioni che si sono modificati
anche profondamente nel tempo. Di più, il processo di adeguamento del lessico psicologico
allo stato attuale della disciplina non ha proceduto ovunque in parallelo e con la
stessa rapidità. Gran parte delle difficoltà che oggi incontra chi affronta per la
prima volta la disciplina è legato a questi problemi. La consapevolezza storica non
li risolve del tutto, ma fornisce un aiuto sostanziale.
2. La psicologia non è nata in un luogo isolato, come un fiore nel deserto. È frutto
di un’evoluzione storica complessiva che ha riguardato, concentricamente, la cultura
umana in generale, la storia delle idee, la storia delle scienze. Ora, senza riaprire
una discussione ormai vecchia tra storia «interna» (il cui diritto è sostenuto da
chi afferma che la storia della scienza non deve occuparsi di quel che avviene fuori
del campo scientifico propriamente detto) e storia «esterna» (il cui diritto è sostenuto
da chi afferma che la storia della scienza deve preoccuparsi esclusivamente di quel
che avviene fuori del campo scientifico propriamente detto), è a noi chiaro che capire
una disciplina è anche capire i rapporti che essa ha con il mondo scientifico a lei
contemporaneo, con la cultura, con la società.
3. La psicologia, come del resto ogni scienza, è un’attività umana, praticata da uomini
in carne e ossa, che su di essa hanno faticato tremendamente, si sono appassionati,
hanno discusso e polemizzato, a volte hanno dovuto sacrificare anche cose assai care.
Vivere la psicologia (ma questo vale per ogni scienza) come un’attività così profondamente
umana non solo aiuta a comprenderla meglio, ma probabilmente contribuisce a farcela
sentire più vicina.
4. Ci sarebbe poi un quarto motivo, ma lo mettiamo per ultimo perché è molto personale.
La storia della psicologia è affascinante, ed è forse il motivo più valido che ci
spinge a studiarla.
1.2. Storiografia della scienza: continuismo e rivoluzioni scientifiche
Come dicevamo nel paragrafo precedente, è usuale (ma non per ciò meno ingenuo) ritenere
che la scienza progredisce attraverso un continuo accumulo di conoscenze. L’idea di
progresso, anzi, per come lo intendiamo nel sentire comune ai nostri giorni, è decisamente
legata a questa concezione. In realtà, la moderna storiografia della scienza ha decisamente
superato questa concezione, che viene largamente ritenuta ingenua e inadeguata a spiegare
il reale andamento storico delle idee scientifiche. Si è sempre più consapevoli che
la scienza non procede tanto per accumulo di conoscenze nuove, quanto per sostituzione
di nuove idee a idee più vecchie, ritenute inadeguate. Non tanto per perfezionamento
di teorie e modelli, quanto per falsificazione di teorie precedenti, sulla base di
dati di nuova rivelazione, incompatibili con quanto precedentemente teorizzato. È
una scienza, cioè, che procede «falsificando», anziché corroborando con nuove prove
quanto già si pensa di conoscere (Popper 1934); che va avanti per «rotture epistemologiche»
(Bachelard 1947, 1951); che sostituisce vecchi «paradigmi», ritenuti inadeguati, con
nuovi paradigmi, a volte più per motivi legati alla struttura sociologica della comunità
scientifica, che per vere esigenze conoscitive (Kuhn 1962). Alla nozione di «accumulo
del sapere» è andata così sostituendosi l’alternativa visione di progresso per «rivoluzioni
scientifiche».
Il dibattito sulla storia della scienza, con questo cambiamento di prospettiva dal
continuismo alla rivoluzione, è stato intenso e appassionante in questo dopoguerra
(anche se tutto il secolo appena trascorso ha visto vivaci dispute in proposito),
ma si è fatto particolarmente tumultuoso a seguito dell’uscita, nei primi anni Sessanta,
del succitato, fortunatissimo saggio di Thomas Kuhn. Oggi le acque sembrano essersi
calmate, le polemiche non sono più così aspre come solo vent’anni fa, ed è possibile
considerare pacatamente alcune delle principali categorie che gli storici della scienza
hanno utilizzato per venire a capo dei più importanti enigmi che la storia della scienza
offre allo studioso.
Vediamo allora, scusandoci per il forzato schematismo, qual è stata l’evoluzione della
riflessione epistemologica che si è sforzata di interpretare in questo ultimo secolo
la crescita della conoscenza in campo scientifico. Per far questo, partiremo dal cosiddetto
«presentismo» e ne vedremo i due aspetti più tipici con cui si è presentato nella
storia della scienza: «giustificazionismo» e «convenzionalismo».
Gioverà probabilmente partire da un esempio, non tratto dalla storia della psicologia,
che assumiamo che il lettore ancora non conosca, ma da un capitolo notissimo della
storia della scienza.
Nei tormentati rapporti tra Galileo e la Chiesa cattolica, il lettore ricorderà che
nel 1616, e cioè diciassette anni prima della condanna ad opera del Sant’Uffizio,
lo scienziato pisano si era dovuto discolpare a Roma davanti al cardinale Roberto
Bellarmino (l’uomo che aveva mandato al rogo nel Seicento Giordano Bruno) per la sua
adesione alla dottrina eliocentrica di Copernico, la cui opera fondamentale, il De revolutionibus orbium coelestium, proprio quell’anno veniva condannata (su Galileo cfr. Drake 1978). Roberto Bellarmino
(come del resto più tardi papa Urbano VIII) era indubbiamente un sincero amico e un
ammiratore di Galileo e, in un momento in cui la Chiesa aveva deciso di stringere
i freni, si impegnò a suo modo per togliere Galileo dai guai in cui si stava cacciando.
La soluzione trovata, a cui Galileo per un certo periodo sembrò acconsentire (salvo
poi mettersi definitivamente nei guai con il Dialogo sopra i due Massimi Sistemi, nel 1632), consisteva in questo compromesso: da un punto di vista fisico, è indifferente
dire che al centro dell’universo sia la Terra o il Sole. Le Scritture dicono chiaramente
che è la Terra, e a questo ogni cristiano deve credere. Ma se lo scienziato pensa
che per i suoi calcoli sia in qualche momento più semplice fare come se fosse la Terra a muoversi attorno al Sole, faccia pure, purché avverta chiaramente
che si tratta di una finzione.
La posizione di Bellarmino è quella che si dice una posizione «convenzionalista».
Una posizione di questo tipo ha percorso in lungo e in largo tutta la scienza moderna,
e ha trovato forse la sua massima espressione nel grandissimo matematico francese
Henri Poincaré (per esempio, 1902, 1905), negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo.
Compito dello scienziato è quello di fare ogni sforzo per salvare i «principi» della
scienza, e sarà nella maggior parte dei casi possibile riuscire a farlo, ricorrendo
a ipotesi ausiliarie, stratagemmi, convenzioni. Solo quando il principio sarà inesorabilmente
in contrasto con i fatti potrà essere abbandonato.
Questo modo di vedere le cose ha due conseguenze importanti non solo sulla conduzione
delle ricerche scientifiche, ma anche, e soprattutto, per quel che riguarda il nostro
lavoro, sul modo di concepire lo sviluppo storico della scienza. Esso presuppone infatti
che, grazie a queste ipotesi ausiliarie, sia comunque possibile «giustificare» nel
quadro attuale di conoscenze in larga misura le acquisizioni del passato. E presuppone
quindi che la scienza, almeno come modernamente intesa, sia una marcia continua verso
il «progresso», contrassegnata da un successivo accumulo di conoscenze, tutte valide.
Questa concezione del progresso va probabilmente fatta risalire a uno dei più grandi
interpreti dell’illuminismo francese, Condorcet (1795), l’autore probabilmente della
prima storia della scienza nel senso moderno del termine. Ma già ai tempi di Condorcet
il concetto di progresso non era accettato pacificamente, e ad esso si contrapponeva,
nell’ambito stesso dell’illuminismo, chi, come ad esempio Rousseau, vedeva nell’umanità
attuale un abisso di barbarie. Ma nell’Ottocento, particolarmente con l’affermazione
in ambito scientifico delle dottrine positivistiche, prende il sopravvento l’idea
di una storia della scienza come accumulo continuo di conoscenze che portano l’umanità
da una condizione di barbarie a diventare padrona dell’universo, libera da superstizioni
e miti. Certamente lo storico della scienza che meglio ha interpretato questo approccio
è stato ancora una volta un francese, contemporaneo di Poincaré, Pierre-Maurice Duhem,
storico soprattutto della fisica.
Quindi, questa idea della scienza, e di conseguenza della storia della scienza, vede
inestricabilmente intrecciate da un lato le idee del continuismo, con quanto comportano
di giustificazionismo e di convenzionalismo, dall’altro l’idea di progresso, oggi
anch’essa largamente in discussione (cfr. Rossi 1995). Questi due aspetti convergono
a contrassegnare quello che è stato forse l’aspetto più negativo della storia della
scienza, particolarmente visibile nella storia della psicologia: il «presentismo»,
la tendenza, cioè, a leggere tutta la storia della scienza in funzione delle nostre
conoscenze attuali.
La frattura in questo modo di concepire lo sviluppo delle scienze avviene soprattutto
in Francia, grazie in particolare all’opera di un grande studioso di origine rumena,
Alexandre Koyré, nonché al lavoro di Bachelard e Canguilhem. Ma, quasi contemporaneamente,
in Austria, a margine del lavoro dei neopositivisti del Circolo di Vienna, Karl Popper
presenta all’inizio degli anni Trenta le sue idee sul falsificazionismo, che, seppur
non dirette in prima battuta a orientare in modo nuovo la storiografia scientifica,
la influenzeranno profondamente. Sono questi i due sostanziali attacchi al continuismo,
e varrà la pena di vederne almeno i principali aspetti, sia pure molto schematicamente.
Un agile saggio di Koyré, dal titolo indicativo, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione (1957), è particolarmente esplicativo di questo nuovo modo rivoluzionario di concepire
la storia della scienza. In questo saggio, Koyré fa presente che molto spesso nella
storia della scienza i concetti che vengono formulati sono legati anche a certe strumentazioni
scientifiche. Si pensi all’importanza fondamentale che ha il controllo del tempo nella
chimica e nella fisica. Oggi lo scienziato, in questi settori, deve procedere nella
valutazione degli aspetti temporali di un fenomeno con un’accuratezza che può arrivare
all’ordine di grandezza dei milionesimi, se non miliardesimi, di secondo. Lo stesso
psicologo in molte ricerche deve valutare i tempi di risposta di un soggetto, o di
esposizione a uno stimolo, con un’accuratezza dell’ordine di grandezza almeno del
millesimo di secondo. Ma ciò significa che, prima di aver avuto la possibilità di
avere una tale precisione, certe ricerche semplicemente non avrebbero potuto farsi,
e certi concetti non potevano nemmeno essere formulati.
Ma quel che abbiamo detto del tempo vale per tutti i parametri fisici che, per la
scienza moderna, è determinante che vengano valutati con la necessaria precisione:
si pensi, per fare solo un esempio, al calore, con la necessità nella chimica moderna
di controllare temperature a livello di precisione del milionesimo di grado. E lo
stesso dicasi dei pesi, dei volumi, delle lunghezze e così via. Ma si pensi anche,
sempre per fare un esempio, alle capacità di analisi che oggi si offrono alla chimica.
E qui non è solo una questione di precisione di apparecchiature, ma anche concettuale
(anche se i due termini sono assolutamente legati): prima di Lavoisier non avrebbe
avuto senso parlare di «purezza» di un elemento, perché il concetto stesso di elemento,
nel senso moderno, non esisteva.
Immaginiamo allora di leggere su un libro di chimica del Cinquecento di uno studioso
che mette «una buona quantità di argento vivo» in un recipiente, la cui composizione
non ci è nota; che «riscalda intensamente» questa sostanza, «per un buon periodo di
tempo», e che poi «la raffredda rapidamente» ecc. Ci è chiaro che a questo livello
di «pressappoco», per dirla con Koyré, noi non abbiamo la minima idea di cosa sia
stato fatto, in termini di chimica moderna. Il progresso nella chimica (come nella
fisica e in ogni altra scienza) ha significato troppo spesso rotture epistemologiche
radicali con il passato, tali da rendere fin incomprensibile non solo quel che si
fa oggi a un ipotetico studioso di qualche secolo fa, ma anche cosa questo studioso
faceva ai nostri occhi presenti.
La visione di Popper (e ci riferiamo soprattutto a Popper 1934) è invece diversa,
e parte da una considerazione più «interna» alla logica del discorso scientifico.
La parola chiave è qui «falsificazionismo». Popper parte dal rilevare che nella scienza
la falsificazione di un’ipotesi (al limite, di una serie di ipotesi che costituiscono
un’intera teoria) ha un valore assoluto, mentre la «corroborazione» della stessa ipotesi
con altre istanze positive non ha altro che un valore più debole di conferma provvisoria.
Per fare un esempio famosissimo (anche se a nostro avviso ben poco felice), se la
mia ipotesi dice che tutti i corvi sono neri, vedere un corvo nero corroborerà questa
ipotesi, ma solo fino al momento in cui non vedrò un corvo bianco. Il corvo bianco,
falsificando la mia ipotesi, la nega con valore assoluto: non è vero che i corvi sono
tutti neri. I corvi neri la confermano, ma solo provvisoriamente. Badiamo, lo spazio
non ci consente di approfondire il discorso, ma il falsificazionismo di Popper non
ha l’ingenuo schematismo che siamo qui costretti a presentare.
Ciò per Popper (e per i popperiani) ha due conseguenze, una direttamente epistemologica,
l’altra relativa alla storia delle scienze. Per quel che riguarda il primo punto,
una teoria scientifica è per Popper fondata solo se le ipotesi su cui si regge sono
falsificabili; in altri termini, solo se è possibile immaginare un modo per verificare
empiricamente se sono o meno false. Di qui la polemica, a volte fastidiosamente astiosa,
nei confronti da un lato della psicoanalisi, ritenuta ascientifica per la non falsificabilità
della sue ipotesi; dall’altro del materialismo dialettico, ritenuto da Popper la madre
di tutte le pseudoscienze.
Le conseguenze sul piano della storia della scienza sono ugualmente drastiche. Per
Popper, la scienza progredisce solo quando riesce a falsificare le teorie valide in
un certo momento storico, così superandole. Anche qui rottura, quindi, ma rottura
consapevole. Il buon scienziato è quello che dimostrate false le idee correnti, le
sostituisce con nuove, costruite in modo tale che possano essere falsificabili a loro
volta.
La critica a Popper ha affermato che questo schema, che può avere la sua validità
sul piano della logica scientifica, non ha però rapporti con la realtà fattuale del
progresso della scienza. Popper, in altri termini, scambia la sua teoria epistemologica
con una teoria storica. La discussione sul popperismo era a questo punto, quando sulla
scena della storiografia delle scienze si è affacciato prepotentemente Thomas Kuhn.
1.3. Scienza normale e paradigmi
Veniamo dunque a Kuhn, su cui è opportuno fermarci qualche momento di più. In estrema
sintesi, la concezione di Kuhn afferma che la scienza attraversa storicamente diverse
fasi, che sono determinate ben più dalle dinamiche (anche in larga misura sociologiche)
proprie della comunità scientifica che dalle acquisizioni di dati propriamente dette.
Esistono periodi storici, detti da Kuhn di «scienza normale», in cui il sapere proprio
di una certa disciplina può essere enunciato in una serie di «paradigmi». Vi sono
poi delle fasi in cui la scienza normale entra in crisi, perché le osservazioni che
vengono compiute non concordano più con quanto affermano i paradigmi – costituiscono,
cioè, delle anomalie.
Per un certo periodo, la cosa può anche procedere senza mettere in discussione la
scienza normale, ma semplicemente scotomizzando le anomalie, che non vengono percepite
in quanto tali, o vengono considerate delle curiosità da accantonare, o vengono inglobate
nella scienza normale mediante ipotesi aggiuntive. Ma quando le anomalie raggiungono
una certa massa critica, si ha allora la rivoluzione scientifica: i vecchi paradigmi
vengono ripudiati e sostituiti da nuovi, non necessariamente però nell’immediato.
Alla scienza normale in crisi può seguire un periodo non cristallizzato, in cui la
comunità scientifica è alla ricerca di una nuova struttura complessiva, paradigmatica,
da sostituire alla vecchia.
Kuhn vede il lavoro dello scienziato in termini di «soluzione di rompicapo». Nel periodo
della scienza normale i rompicapo che si presentano allo scienziato si pongono ai
confini della disciplina, per ampliarli, e il lavoro scientifico è allora specificamente
continuista, mirando a un accumulo di nuovo sapere, da aggiungere al sapere precedente.
Nei periodi di rivoluzione scientifica, non solo si ha la ricerca della soluzione
dei problemi, ma, fatto più importante, la ricerca di nuovi problemi.
Cosa Kuhn comunque intenda per paradigmi non è sempre del tutto chiaro, ed è certo
che nel suo saggio del 1962 questo termine è stato utilizzato in molti modi diversi,
e non è mai stato definito univocamente – la Masterman (1970) elenca 22 usi diversi
del termine da parte di Kuhn. Possiamo provvisoriamente definire un «paradigma» come
un enunciato, o una serie di enunciati tra loro collegati, che definisce un determinato
nucleo tematico proprio di una certa disciplina scientifica, che è accettato consensualmente
in modo pacifico dalla comunità scientifica (o anche da una determinata scuola), che
si può ritrovare nei manuali della disciplina, manuali che sono la fonte principale
attraverso cui i risultati su cui la comunità scientifica concorda per quel che attiene
a una certa scienza vengono trasmessi a fini di insegnamento, applicazione tecnologica,
aide-mémoire per gli scienziati stessi, più in generale per la socializzazione della scienza.
Nel 1970 Kuhn, per cercare di risolvere le ambiguità legate a questa espressione,
ha ritenuto di sostituire alla parola «paradigma» due locuzioni, rispettivamente «matrice
disciplinare» e «caso esemplare». La prima sostituisce l’uso di paradigma in senso
ampio, intendendo con ciò un insieme di «elementi ordinati di vario genere» che possono
costituire una «generalizzazione simbolica» ritenuta di valore universale, come ad
esempio la legge di Ohm o la legge di Boyle; ma anche i «modelli», metafore impregnate
anche di metafisica, che la comunità scientifica ritiene comunque accettabili: per
esempio, sostenere che «le molecole di un gas si comportano tra loro come palle da
biliardo». Di più, le matrici comprendono «valori», che consentono ai membri della
comunità scientifica di valutare le soluzioni date ai rompicapo, ad esempio, privilegiando
le soluzioni quantitative a quelle qualitative.
I casi esemplari sono invece paradigmi nel senso ristretto del termine, problemi classicamente
risolti, il cui significato è largamente noto e condiviso nella comunità scientifica.
Un classico esempio potrebbe essere quello della scoperta dei pianeti transuranici
in base alla perturbazione delle orbite dei pianeti più esterni del sistema solare.
L’insieme dei concetti empirici non è però, in questo Kuhn più maturo, legato a una
sorta di capriccio inventivo degli scienziati. I concetti empirici, anzi, vengono
a costituire una sorta di struttura linguistica, un vero e proprio «lessico», in cui
i concetti sono reciprocamente interdipendenti (Kuhn 1983).Questo concetto rende ancora
più forte un aspetto che Kuhn aveva sempre sottolineato: l’impossibilità di trasferire
concetti da una fase scientifica a un’altra, la loro reciproca «incommensurabilità».
Più in alto, in questo capitolo, avevamo fatto l’esempio del concetto empirico di
pianeta nel sistema tolemaico rispetto al sistema copernicano: in quel caso, lo stesso
termine faceva riferimento a due universi empirici differenti. Un altro esempio, speculare,
può trarsi dalla storia della chimica (cfr. Gillispie 1980). Nel 1774 Priestley isolò
quella che chiamò «aria deflogistizzata», e fece partecipe della sua scoperta Lavoisier;
questi, l’anno successivo, ripeté l’analisi di Priestley, ma chiamò il suo prodotto
«ossigeno» e si appropriò del merito della scoperta, dando seguito a una serie infinita
di controversie tra storiografi inglesi e francesi, che fanno il pari di quelle tra
gli storiografi italiani e americani sulla priorità nell’invenzione del telefono,
tra Meucci e Bell, o del telegrafo, tra italiani, russi e serbi, sulla precedenza
nell’invenzione del telegrafo, tra Marconi, Popov e Tesla.
Nel 1962 Kuhn aveva scritto che poteva dirsi che Priestley aveva scoperto l’ossigeno,
ma essendo ancora legato alla teoria alchemica del flogisto non sapeva cosa aveva
scoperto. E che Lavoisier, padre della nuova chimica degli elementi, se non lo aveva
scoperto, lo aveva inventato. Oggi il nuovo Kuhn direbbe, in modo più articolato,
che i due concetti empirici di ossigeno e aria deflogistizzata possono sì in un certo
modo corrispondere alla stessa cosa materiale, ma sono di fatto due cose profondamente
diverse, due elementi ben distinti appartenenti a due lessici scientifici inconciliabili.
Quel che Kuhn tuttora non riesce a spiegare è il motivo per cui si passa da un paradigma
a un altro, da una matrice disciplinare a un’altra. La ragione va davvero ricercata
non nella struttura della scienza, ma nelle regole sociologiche che governano le comunità
scientifiche? L’ultimo Kuhn si affanna a cercare di dare un suo ruolo agli aspetti
razionali del suo discorso, ma non riesce a essere del tutto convincente. Peraltro,
il fascino della sua ricostruzione della storia della scienza in termini di rivoluzioni
è talmente coinvolgente, e per gli esempi che porta, talmente persuasivo, che ha improntato
tutta la discussione storiografica degli ultimi decenni, se non altro costringendo
gli autori a distinguersene (sullo sviluppo del pensiero di Kuhn cfr. Gattei 2000).
1.4. Storiografia della psicologia
Abbiamo sin qui parlato, sia pur molto schematicamente, di storiografia delle scienze
(o delle idee in genere), ma non ci siamo soffermati se non di sfuggita sulla storia
specifica della psicologia. Ora, la storia della psicologia non ha una straordinaria
tradizione storiografica alle spalle. Non è qui mia intenzione fare un breve corso
di storia della storiografia psicologica, ma sarà utile dare una qualche indicazione
dei motivi di questa relativa debolezza della storiografia psicologica.
In primo luogo, va osservato che sono ben pochi gli studiosi, in Italia e nel mondo,
che hanno scelto come loro campo esclusivo di ricerca la storia della psicologia.
In Italia, addirittura si contano su meno delle dita di una mano. In linea di massima,
gli storici della psicologia che nel nostro paese vanno per la maggiore hanno come
principale settore di ricerca un campo differente, sempre all’interno della psicologia:
Paolo Legrenzi è uno studioso dei processi di pensiero, Luciano Mecacci uno psicofisiologo,
Nino Dazzi uno psicologo dinamico, il vecchio Virgilio Lazzeroni uno studioso del
comportamento, il giovane Nicola Stucchi uno studioso del movimento. Noi stessi dedichiamo
la maggior parte del nostro tempo ai problemi dei modelli matematici che sottendono
i processi cognitivi (Luccio) o a quelli della psicologia della salute (Gori Savellini).
Ma, come notava Young 1966 – e da allora la situazione non si è sostanzialmente modificata
– è questa la situazione della storia della psicologia in tutto il mondo, a partire
da quello che è stato il suo fondatore, tuttora ineguagliato (anche se certamente
portatore di una storiografia superata, di impronta idealistica), e cioè Edward Garrigues
Boring – che, come noto, trascorreva ogni anno in luogo delle ferie tre mesi intensissimi
di ricerche storiche, per dedicare il resto dell’anno alla sua attività di psicologo
sperimentale di formazione strutturalista.
Questo fa sì che in Italia, come altrove, non esista, ad esempio, una scuola a cui
si possano formare dei futuri studiosi di storia della disciplina, né un corpus riconosciuto di tecniche, per esempio, che insegni ai giovani studiosi come effettuare
in questo settore quello che è probabilmente il compito primario di uno storico in
qualsiasi altro campo, storia delle idee inclusa: la critica dei documenti. Lo storico
infatti indaga gli eventi del passato in via principale attraverso l’analisi dei documenti
su cui riesce a mettere le mani, siano libri, articoli o lettere, appunti, note a
margine di volumi, ma anche apparecchi, certificati, mobili... E tutti questi documenti
vanno sottoposti a critica, interna ed esterna, che consenta di determinarne, nonché
l’autenticità, la rilevanza.
Purtroppo, però, quel che va constatato più di frequente è che lo storico della psicologia,
non essendo abitualmente tale per professione, troppo spesso non fa riferimento neppure
ai testi originali, se non sono direttamente pertinenti al suo campo di ricerca primario,
ma si accontenta delle cosiddette fonti secondarie; in altri termini, fidandosi di
quel che ha scritto un collega su quel certo autore, si limita a trascrivere, con
minime parafrasi, quanto detto dall’altro. Ma come in certi giochi di società, lo
stesso messaggio, trasmesso di bocca in bocca, giunge a destinazione completamente
travisato, così, nella storia della psicologia, gli esiti finali possono essere veramente
grotteschi. Un caso paradigmatico, che uno di noi ebbe già a segnalare qualche anno
or sono, è quello relativo a Donders (infra, capitolo 3; cfr. Luccio 1993a).
Non può allora stupire il fatto che la vivace discussione apertasi tra gli storiografi
della scienza abbia avuto un’eco molto lontana nella storia della psicologia. Fino
agli anni Cinquanta la disciplina era stata dominata da Boring, che abbiamo già ricordato,
e che aveva una ben precisa concezione storiografica, di stampo idealistico, fondata
sul concetto di Zeitgeist, lo spirito del tempo che si incarna di volta in volta in diversi grandi uomini.
Questa sua concezione non sorprendentemente, nel deserto degli studi storiografici
in psicologia, ha dominato la produzione nel campo per molti decenni. Direttamente
ispirati a Boring sono stati autori come ad esempio Duane P. Schultz, ben noto anche
in Italia, o Samuel Smith, o il primo Watson, senz’altro il più grande promotore degli
studi storici nella psicologia americana. E non è sorprendente che buona parte della
pubblicistica storiografica venisse fino a un paio di decenni fa dedicata ai «grandi
psicologi», in cui appunto si incarnava di volta in volta lo Zeitgeist (per esempio, Watson 1968; Smith 1983).
La discussione storiografica si è però pian piano insinuata anche tra gli storici
della psicologia. Watson (cfr. 1977) ha recitato il suo mea culpa, ha cercato ispirazione in Kuhn ed è giunto alla conclusione che la psicologia non
è ancora una scienza normale, ma va considerata una scienza sostanzialmente «prescrittiva»,
i cui costrutti tuttora sono più enunciati valoriali che empirici. L’ottica kuhniana
è poi apparsa a diversi autori (Palermo 1971; Weimer, Palermo 1973) particolarmente
adatta a studiare alcuni snodi della storia della psicologia, e in particolare le
rivoluzioni che hanno portato prima alla nascita, poi alla caduta del comportamentismo.
Ma vi sono stati altri autori che hanno negato risolutamente la possibilità di un’analisi
in termini kuhniani della storia della nostra disciplina (per esempio, Briskman 1972;
Warren 1971).
Si noterà che parliamo degli anni Settanta. E di fatto dopo di allora la discussione
storiografica si è di nuovo assopita, quanto meno nel nostro campo. I manuali che
escono seguitano a essere zeppi di citazioni di seconda mano, l’impostazione (anche
se meno scopertamente) seguita a essere quella della storia della psicologia come
storia di grandi uomini e grandi scoperte. Quel po’ di discussione rimasto vivo è
confinato nelle riviste specialistiche.
Questo testo è dichiaratamente introduttivo. Pertanto non sarebbe né utile né giusto
che volesse svolgere un ruolo di grillo parlante. Se allora cercherà in qualche modo
di differenziarsi da altri che sono disponibili è perché cercherà di mettere l’accento
più sui punti di discontinuità che su quelli di continuità nello sviluppo della nostra
disciplina. In particolare, cercherà di mettere in evidenza tre aspetti dello sviluppo
storico, che noi riteniamo determinanti:
1. Il realizzarsi di condizioni che rendono possibile una certa acquisizione e la
costruzione di un certo concetto empirico. Queste condizioni possono essere strumentali
(senza l’esistenza di determinati strumenti di misura non possono svilupparsi certi
concetti), ma possono essere culturali (se una cultura non consente che la mente sia
oggetto di studio, è ben improbabile che sorga una disciplina che vuole studiare la
mente).
2. Il crearsi di rotture epistemologiche, e quindi di vere e proprie rivoluzioni scientifiche,
che rendono incommensurabili i concetti sviluppati in una determinata epoca storica
rispetto a quelli sviluppati in un’epoca successiva alla rivoluzione. Come vedremo,
almeno per la psicologia, è ben raro che il lessico scientifico venga però integralmente
cambiato da una rottura epistemologica. Questo non facilita le cose, perché rende
più difficilmente individuabili continuità e discontinuità.
3. Il crearsi di «demarcazioni» (Pêcheux, Fichant 1969, p. 20), e cioè «perfezionamenti,
correzioni, critiche, confutazioni, negazioni di certe ideologie e filosofie precedenti
la rottura epistemologica». In altri termini, vorremmo che fosse chiaro al lettore
che la rivoluzione scientifica non avviene per motivi irrazionali, o sulla base esclusiva
dell’azione delle forze sociologiche regolative della comunità degli scienziati, ma
è frutto di un lavoro scientifico che giunge a maturazione, ma che, come tutte le
attività umane, non è solo lavoro razionale, ma coinvolge lo scienziato anche come
uomo sociale e politico, portatore di valori, legato a ideologie determinate.
Saranno queste tre chiavi di lettura che ci guideranno nel nostro tragitto.
1.5. Sommario
In questo capitolo introduttivo abbiamo cercato di spiegare che la storia della psicologia
ci serve a capire come si sono determinati storicamente i grandi concetti che vengono
impiegati all’interno di questa disciplina e qual è il modo appropriato di utilizzare
il lessico psicologico. Inoltre la psicologia è frutto di un’evoluzione storica complessiva
che ha riguardato, concentricamente, la cultura umana in generale, la storia delle
idee, la storia delle scienze. Capire una disciplina è anche capire i rapporti che
essa ha con il mondo scientifico ad essa contemporaneo, con la cultura, con la società.
Abbiamo poi visto come la storia della scienza vada concepita non in termini continuistici,
ma contrassegnata da una serie di brusche discontinuità, di rotture epistemologiche.
Questa concezione si è affermata negli ultimi decenni grazie soprattutto allo storico
americano Thomas Kuhn, che ha elaborato il concetto di «scienza normale» e di «paradigma»:
secondo Kuhn, il progredire discontinuo della scienza è dovuto all’alternarsi di periodi
di scienza normale, in cui le conoscenze e i concetti fondamentali sono riassumibili
in uno o più paradigmi consensualmente accettati dall’intera comunità scientifica,
o almeno da una scuola di pensiero. La scienza progredisce per «rivoluzioni», in cui
i paradigmi precedenti vengono confutati e sostituiti da nuovi. Kuhn, peraltro, mette
in rilievo soprattutto le dinamiche sociologiche che regolano la vita della comunità
scientifica, e questo lo ha fatto accusare di «irrazionalismo».
Peraltro, abbiamo rilevato che la storiografia della psicologia, praticata di solito
non da storici di professione, è ancora molto immatura e lontana dalla profondità
di questa discussione storiografica. Prevalgono le tesi continuiste, che in psicologia
appaiono improntate soprattutto al presentismo, e cioè alla concezione in base a cui
tutto quello che è avvenuto nel passato va letto come se dovesse convergere verso
lo stato attuale delle conoscenze. E poiché la figura dominante della storia della
psicologia nel Novecento è stata Boring, storiografo idealista che metteva al centro
della sua analisi lo Zeitgeist, la storia della psicologia è stata sinora soprattutto storia di grandi psicologi
e di «precursori».
Nel nostro testo abbiamo cercato di seguire dei criteri storiografici un po’ diversi:
in particolare, parlando delle diverse tappe di sviluppo della disciplina e delle
diverse scuole, abbiamo cercato di fermare l’attenzione su questi tre elementi: a) il realizzarsi di condizioni che rendonopossibile una certa acquisizione e la costruzione
di un certo concetto empirico; b) il crearsi di rotture epistemologiche, e quindi di vere e proprie rivoluzioni scientifiche,
che rendono incommensurabili i concetti sviluppati in una determinata epoca storica
rispetto a quelli sviluppati in un’epoca successiva; c) il crearsi di «demarcazioni», e cioè perfezionamenti, correzioni, critiche ecc.,
precedenti la «rottura epistemologica».
Capitolo secondo. Il lungo passato filosofico
2.1. I primi problemi psicologici
Il termine «psicologia» deriva dagli etimi greci psyché e logos, scienza dell’anima. Non si tratta però di un termine greco, ma di un neologismo
creato nel Rinascimento, non è chiaro da chi. Nel 1520 il poeta dalmata Marko Maruli (o Marcus Marulus, secondo la tradizione latina del nome – vedi Krsti 1964) scrisse un libro, Psichiologia de ratione animae humanae, di cui è rimasto solo il titolo, per cui non sappiamo cosa volesse intendere con
la parola: c’è infatti chi afferma che dovesse trattarsi di una sorta di guida a un
uso corretto della ragione (Massimi 1983), e chi ritiene che invece si tratti di una
vera e propria trattazione di una dottrina della mente (Diamond 1984). Ma, al di là
di questo testo fantasmatico, i primi usi testimoniati del termine sono del 1575,
con Freigius, e del 1583, con Taillepied; ma è solo a partire dal 1590 che Rodolfo
Goclenio lo rese di impiego comune. Di fatto, occorre aspettare il XVIII secolo perché
si parli di psicologia in un senso analogo a quello odierno; in particolare, la distinzione
di Christian Wolff (1728, 1732) tra la psicologia razionale e la psicologia empirica, la prima specificamente filosofica, la seconda «naturalistica», che verrà poi largamente
accettata, individuerà quella bipartizione delle riflessioni psicologiche che sarà
alla base, oltre un secolo più tardi, della separazione della psicologia scientifica
dalla filosofia e della sua autonomizzazione come scienza naturale.
Se il termine compare nel Rinascimento, la riflessione sui problemi psicologici nella
cultura umana è di certo molto precedente, presente in ogni civiltà, e, in Occidente,
da far risalire come minimo ai presocratici. La psicologia ha infatti antiche radici
filosofiche, e più che nel dibattito relativamente attuale sul nesso tra ricerca fisiologica
o psicologica o tra fondamenti anatomo-fisiologici e pensiero, è nella prima storia
della filosofia, e ancora prima nel mito, che troviamo affrontate antinomie rilevanti
e riconosciamo soluzioni che vanno oltre le antinomie stesse.
2.2. La psicologia del pensiero classico
2.2.1. Mente e corpo nel mitoPrima di procedere, è però necessario introdurre un discorso che riteniamo fondamentale
chiarire. Noi siamo propensi a pensare che quanto meno nell’antichità si avesse una
credenza diffusa nell’esistenza di un’anima immortale presente nel corpo, ma da questo
indipendente. Ma dobbiamo renderci conto che questo non è affatto vero: sono molte
le religioni che credono soprattutto nel corpo, e vedono la sopravvivenza dell’anima
in qualche modo legata a quella del corpo. Non è quindi vero che queste forme di pensiero
siano naturalmente connesse al modo di pensare dell’uomo, né è vero che la scelta
monistica sia laica e quella dualistica religiosa. I sumeri credevano, è vero, nell’aldilà,
il paese di Kur, ma questo era estremamente concreto, soggetto alle stesse leggi dell’aldiqua.
Né il defunto aveva comunque speranza di vita eterna. In Kur anime e dèi sono infatti
ancora mortali: qui si muore, come sulla Terra, e perfino gli dèi possono morirvi
(cfr. Kramer 1975, cap. 26).
Né diverso è il caso di molte delle altre grandi religioni del mondo antico. Paradigmatico
è il caso della religione dell’antico Egitto (cfr. Hankoff 1980). Qui, è vero, c’era
un’anima, propria di ogni individuo, il ba; di più, l’individuo possedeva il doppio etereo, il ka. Ma la loro esistenza è indissolubilmente legata alla conservazione di certe parti
del corpo. Se cuore e fegato da un lato, placenta dall’altra, vanno a male, come può
accadere se l’imbalsamazione è mal fatta o la tomba violata, addio ba e ka.
Ancor più evidente è il caso del pensiero ebraico. Noi siamo abituati alla dottrina
dell’immortalità dell’anima, di origine farisaica, ma nelle scritture più antiche
i riferimenti all’anima non sono fatti se non in modo assai impreciso (cfr. Bickerman
1988). È vero che si parlava di Sheol, ma almeno sino all’epoca ellenistica, e comunque
fino al V secolo a.C., nei testi non si parla di anima in senso proprio, né di vita
oltre la morte. Nel mondo ebraico, una chiara affermazione dell’immortalità dell’anima
si ha solo con il movimento apocalittico (III-II secolo a.C.). Così il Libro di Enoch (cfr. Guidetti 1977) afferma l’immortalità dell’anima, ma viene aspramente contestato
da Qohelet (o Ecclesiaste – per esempio, 18).
2.2.2. Mente e corpo nel pensiero grecoIl pensiero religioso greco fu, diversamente da quello delle altre religioni che abbiamo
sopra visto, chiaramente dualistico. Ma quel che tutto sommato più ci interessa non
è tanto l’aspetto religioso, quanto quello filosofico e medico. Dal sapere medico
del corpus ippocratico emerge una lettura del corpo con i suoi equilibri e con le sue crisi.
Vari aspetti della psicopatologia personale e interpersonale sono stati ben collocati
nella ricerca di Ippocrate e della sua scuola. La malattia è determinata dal prevalere
di squilibri nel rapporto con se stessi e con gli altri; il medico che vorrà aiutare
a ristabilire un rapporto armonico con il proprio corpo dovrà egli per primo essere
in equilibrio con se stesso e con gli altri. Questi squilibri fisiologici diventano
frequentemente disarmonie psicologiche. Anche l’isteria risulterà, in periodi storici
diversi, non solo un costrutto sempre interessante, ma pure un’ipotesi in grado di
aiutare nella comprensione persino di disagi psicofisici del nostro tempo; tra gli
altri, solo per fare un esempio, di aspetti psicologici della attuale anoressia. Dalla
tradizione ippocratica giungerà poi sino a noi, attraverso Galeno, una personologia
fondata su quattro tipi temperamentali, rispettivamente collerico, sanguigno, flemmatico e melanconico.
Evidentemente, ci guarderemo bene dal trattare tutti i singoli contributi che gli
autori, specie greci, ma anche latini (soprattutto in età ellenistica), hanno lasciato.
In particolare, a noi non interessano tanto le dottrine specificamente filosofiche,
quanto quegli aspetti del pensiero greco che, saldando il corporeo al mentale, hanno
costituito delle precondizioni per uno studio scientifico della psiche. Anche qui
lo spazio ci obbligherà a selezionare drasticamente il materiale disponibile. Ci limiteremo
perciò ad Alcmeone, a cui si deve soprattutto la straordinaria intuizione di porre
nel cervello la sede centrale del pensiero; a Democrito, a cui si deve la teoria degli
èidola, che tanta influenza eserciterà sino al Rinascimento; ad Aristotele, specie nel commento
di Alessandro, che ha lasciato la più completa teoria psicologica dell’antichità.
Per tutti e tre questi filosofi, ci soffermeremo soprattutto sulle loro idee riguardo
a una precisa teoria psicologica, quella della percezione, perché ci consentirà meglio
di ogni altra cosa di riflettere su come venivano concepiti i rapporti tra corpo (organi
di senso periferici, centri dove si svolgono i processi cognitivi) e attività mentale.
AlcmeoneDi Alcmeone sono rimaste ben poche notizie e scarsissimi frammenti. Evidentemente,
la grande importanza che gli attribuiamo non era altrettanto condivisa dai suoi contemporanei.
Figlio di Pirito, crotoniate, di lui dice Diogene Laerzio (24, A 1): «Anche costui
fu discepolo di Pitagora. Per lo più tratta di medicina». E Aristotele (24, A 3):
«Alcmeone era [giovane] quando Pitagora era vecchio». Sulla sua dottrina la fonte
più preziosa è Teofrasto (24, A 5; cfr. Stratton 1917), che di Alcmeone dice che
prima di tutto definisce la differenza tra uomo e animali; l’uomo, egli dice, si distingue
dagli animali perché capisce, mentre gli animali percepiscono ma non capiscono; per
lui, infatti, percepire e capire sono due attività diverse [...]. Poi parla delle
singole percezioni [...]. L’occhio, dice, contiene fuoco, questo è mostrato dal fatto
che manda scintille quando è colpito. Vede dunque mediante la parte ignea e la parte
trasparente, e tanto meglio vede quanto più è puro. Tutte le percezioni, dice, giungono
al cervello e lì si accordano: ed è appunto per questo che anche s’ottundono quando
il cervello si muove e cambia di posto; perché in tal modo ostruisce i canali attraverso
i quali passano le sensazioni.
Di grande rilievo è anche la testimonianza di Calcidio (24, A 10), che tra l’altro
nota che Alcmeone fu «il primo che sezionò animali viventi». Secondo la sua testimonianza,
[Alcmeone, come Callistene ed Erofilo, afferma] che ci sono due sentieri che partono
dal cervello, dove è la principalissima sede percettiva dell’anima, e giungono alle
cavità degli occhi ove è contenuto lo spirito naturale. Questi due sentieri, che hanno
medesima radice e partono da un medesimo punto, procedono per un po’, nella parte
più interna della fronte, appaiati, poi si separano in una specie di bivio, e giungono
alle cavità degli occhi [...] Che i sentieri per i quali passa la luce partano da
una medesima sede, è dimostrato principalmente dal taglio: ma lo si arguisce anche
da questo, che i due occhi si muovono insieme, e mai l’uno senza l’altro.
Vediamo così che Alcmeone (primo, ricordiamolo, a basarsi su osservazioni anatomiche)
descrive con notevole precisione l’occhio e soprattutto il nervo ottico; lo vede collegato
al cervello; qui (e non nell’occhio, ma neppure nel cuore, come avrebbe creduto anche
Aristotele) pone la sede della percezione; ne discute gli aspetti cognitivi. Di fatto,
si può ritenere, però, che credesse che nell’occhio fosse il fuoco, e che questo venisse
proiettato sugli oggetti percepiti: la sua sarebbe quindi una teoria centrifuga della
percezione. Una teoria centripeta (qualcosa che promana dagli oggetti e giunge all’occhio)
si affaccerà più tardi, solo con gli epicurei.
Secondo Alcmeone la visione è dovuta alle proprietà specifiche dell’occhio, non dello
stimolo. Ma se nell’occhio vi è il fuoco, vi è peraltro anche l’acqua, ed è questa,
per le sue caratteristiche di trasparenza, a essere causa prima della visione. La
concezione di Alcmeone si distingue quindi da quella dei pitagorici, secondo cui è
il fuoco dell’occhio che si proietta sugli oggetti che vengono percepiti.
DemocritoRimanendo nell’ambito della percezione, a Democrito, come abbiamo detto, si deve la
famosa teoria degli èidola. Secondo Democrito (e in generale secondo i sostenitori della teoria degli atomi;
cfr. Sassi 1978) gli oggetti emanavano delle sorte di simulacri aventi la forma, e
in genere le caratteristiche percettive, degli oggetti stessi, una specie di pellicola,
che raggiungeva così gli organi di senso.
Il predecessore immediato della teoria è comunque Empedocle, secondo cui dall’oggetto
si ha «un’emanazione» (aporrhoè) dagli oggetti a «pori» dell’organismo (31 A 89, 31 A 92). Democrito riprende sia
il concetto di aporrhoè, sia quello di poro: ciò che emana dagli oggetti riproduce la forma e il colore di
questi. Ma un aspetto estremamente interessante in Democrito è dato dal fatto che
questa sorta di pellicola viene a incontrarsi con ciò che nello stesso tempo emana
dal soggetto percipiente. Nell’incontro tra èidola provenienti dall’oggetto ed èidola provenienti dal soggetto, l’aria si deforma, costituendo una sorta di stampo, che
non è solo oggettivo, ma comporta anche caratteristiche proprie del percipiente. È
questo stampo che raggiunge l’occhio e viene riflesso dal trasparente dell’occhio
(Stratton 1917, § 50).
L’aria interposta tra oggetto e soggetto è quindi indispensabile alla percezione.
Nello stesso tempo, quest’aria compressa provoca anche distorsioni, ed è alla base
delle illusioni. Fa dire così a Democrito Aristotele, in un passo peraltro critico,
che se tra noi e la volta del cielo ci fosse il vuoto, vedremmo distintamente una
formica (68 A 122).
AristoteleDi problemi della psicologia Aristotele parlò nel De anima (1983a), ma soprattutto, per quel che riguarda la percezione, in uno dei trattatelli
dei Parva naturalia (1983b), il De sensu et sensibilibus. Peraltro, la versione forse più chiara della sua teoria si trova probabilmente nel
trattato De anima di quello che è stato il più grande dei suoi commentatori, Alessandro di Afrodisia.
Nelle opere di Aristotele più accentuata è l’unitarietà dell’uomo, in cui non è immaginabile
una qualunque parte dotata di vita se non in relazione con il tutto; non l’organo
determina la funzione, ma la funzione crea l’organo, origina la vita dandogli senso
e significato. Se guardo, si potrà parlare di occhio che esiste quando lo utilizzo
per vedere. La capacità di percezione è per Aristotele la seconda facoltà dell’anima,
l’anima sensitiva, quella che fa sì che gli esseri viventi, tali in quanto provvisti
di anima vegetativa, sono anche animali. Il senso e il sensibile, l’organo della sensazione
e l’oggetto che viene sentito, sono per Aristotele inizialmente dissimili, ma nell’attività
diventano simili, nel senso che si ha una sorta di assimilazione del senso al sensibile,
attraverso un’alterazione. Come dice Alessandro (39, 14) «la sensazione in atto è
la forma dell’oggetto sensibile che viene a trovarsi senza la materia in quel che
ha la facoltà di sentire». Si dice che il senso «patisce» dal dissimile, divenendo
simile. Come vedremo, quest’idea della sensazione come passione degli organi di senso
la troveremo ancora, sino a Cartesio.
È interessante osservare che per Aristotele la sede dell’anima sensitiva non è come
in Alcmeone il cervello, ma il cuore. Peraltro, nel pensiero classico il cuore venne
con la massima frequenza visto come centro non solo della sensazione, ma anche del
pensiero e delle emozioni, e quest’idea perdurò nel pensiero occidentale ancora sino
alla soglia del XVII secolo, ad esempio con Cisalpino. Secondo Aristotele, l’affezione
degli organi di senso alla periferia dell’organismo deve essere trasmessa alla parte
del corpo sede appunto dell’anima sensitiva, e questa non può che essere nel cuore,
dove si trova l’egemonico dell’anima. Perché il cuore? La risposta, abituati come
siamo al rigore aristotelico, può apparirci un po’ deludente: ancora nelle parole
di Alessandro, frequentemente più chiare rispetto al suo modello:
È ragionevole infatti che ciò in cui soprattutto consiste l’essere dell’animale sia
anche ciò in cui risiede la forma più importante; ma l’essere dell’animale consiste
in special modo nel caldo e nell’umido e tale è la zona del cuore: esso è infatti
il principio e la fonte del sangue di cui ci nutriamo e del pneuma, e questi sono
umidi e caldi. (39, 25-40, 3)
2.3. La psicologia dal pensiero classico al cristianesimo
Nel mondo greco erano comunque accolte istanze diverse, e il passaggio a una visione
cristiana dell’esistenza sarà talora possibile pur senza drastiche lacerazioni. In
questo passaggio, malauguratamente, è proprio la psicologia che viene a essere sacrificata.
Nel pensiero cristiano, almeno sino al Rinascimento, lo studio dell’uomo, anche dal
punto di vista biologico, è visto con sospetto, e non può essere affrontato senza
grandi cautele. L’uomo è infatti interposto tra Dio e Natura, e ogni tentativo di
naturalizzarlo in via diretta viene condannato. Troppo vicino a Dio, la riflessione
sull’uomo deve esser lasciata al teologo; e ciò è particolarmente vero per la psicologia,
perché il pensiero cristiano non discrimina tra studio delle funzioni mentali e studio
dell’anima. Dal punto di vista corporeo, poi, l’uomo è visto sì facente parte della
natura, ma in posizione privilegiata, al culmine di una struttura gerarchica rigida,
che lo pone immediatamente sotto Dio. Ciò rende in certa misura empi gli studi anatomici
e fisiologici; la dissezione dei cadaveri verrà proibita sino al XVII secolo, e i
contravventori rischieranno le dure condanne dei tribunali dell’Inquisizione.
Ma anche il cristianesimo vede per molti secoli i rapporti tra corpo e anima in una
prospettiva ben diversa dalla nostra. Le immagini dei regni dell’oltretomba, così
vivacemente raffigurate da predicatori, poeti come Bonvesin de la Riva, fino a Dante,
o pittori come Hieronymus Bosch, sono agli antipodi di una concezione immateriale
di un’anima svincolata dalle leggi della fisica, priva di determinazioni spazio-temporali.
L’anima può soffrire molto carnalmente nell’inferno, e può godere di delizie assolutamente
terrene nel paradiso cristiano, ma in genere di tutti i «popoli del Libro». Quando
si ha nel XVII secolo la rivoluzione cartesiana, con l’affermazione della diversità
ontologica, sostanziale, tra anima (res cogitans) e corpo (res extensa), a lungo la Chiesa condannerà questo dualismo, salvo rassegnarvisi in tempi recenti.
Comunque, nel passaggio dall’Alto al Basso Medioevo la riscoperta, grazie soprattutto
agli arabi, dei pensatori greci, e in particolare di Aristotele, portarono a una curiosa
operazione: confutatane la lettura che ne davano gli arabi (e in particolare l’averroismo),
la dottrina del De anima dello stagirita passò integralmente, grazie soprattutto a Tommaso d’Aquino, nel pensiero
teologico cristiano, diventandone una colonna e ponendosi come indiscutibile. Si sarebbe
dovuto attendere Cartesio perché fosse possibile un superamento di certe interdizioni.
2.4. Dagli arabi al Rinascimento
Ma intanto il pensiero arabo, molto più libero e laico, cominciava in ogni modo a
penetrare in Occidente, e apriva le menti a riflessioni che poi, una volta realizzatasi
la svolta cartesiana, sarebbero state colte in tutta la loro pienezza. Evidentemente,
gli studiosi cristiani non potevano impegnarsi in discussioni sulla natura della vita
mentale (come abbiamo detto, la Chiesa non lo avrebbe consentito – discutere della
mente era discutere dell’anima), ma aspetti squisitamente psicologici del pensiero
arabo non soffrivano di analoghe interdizioni. Ne vedremo qui una storia esemplare,
per quel che riguarda un fondamentale processo psicologico, tuttora uno dei pilastri
della psicologia scientifica: la percezione visiva.
Nell’832 il califfo abbaside al-Ma’mûn fondò a Baghdad la Casa della saggezza (Bayt
al-Hikma), un centro di studi che introdusse, con traduzioni, commenti e saggi, il
pensiero greco filosofico, medico e scientifico, nell’ambito dell’Islam (cfr. Leaman
1985). La storia che racconteremo riguarda un grande studioso, Alhazen. Vedremo come
le idee di questo studioso arabo del X secolo avrebbero profondamente influenzato
tutta la riflessione percettologica occidentale per oltre sei secoli, sino a Keplero.
2.4.1. AlhazenAbu ‘Ali al-Hasan ibn al-Hasan ibn al-Haytâm, che fu detto in Occidente Alhazen, era
nato nel 965 (anno 354 dell’Egira) in Iraq, presumibilmente a Bassora, dove operò
finché non venne invitato al Cairo da un califfo fatimide, al-Hakim. Frequentò la
scuola di Baghdad e fu certamente influenzato da Alkindi. Morì al Cairo nel 1039,
lasciando una sterminata produzione scientifica non solo in ottica, vista sia dal
punto fisico che anatomico e fisiologico che psicologico, ma anche in matematica,
astronomia, medicina e filosofia.
Di Alhazen a noi interessano in particolare i primi tre libri dell’Ottica, che trattano della visione, affrontando anche il problema della forma e del colore
degli oggetti. Per Alhazen, «la visione avviene per raggi emessi dalla cosa vista
all’occhio [...] per mezzo d’una piramide il cui vertice è nell’occhio e la base nella
cosa vista» (p. 10) (1572, Liber I, pp. 7-10). Per demolire la teoria opposta dell’emissione
dall’occhio, Alhazen ricorse alle immagini consecutive. Era probabilmente già noto
ai tempi che fissare una sorgente luminosa intensa, come ad esempio il sole, portava
alla formazione di una immagine luminosa, visibile anche a occhi chiusi, della stessa
forma della sorgente. È questa l’immagine che viene detta postuma o consecutiva, ed
è dovuta, oggi sappiamo, a un fenomeno puramente retinico. Ora, secondo Alhazen, il
fatto che l’immagine postuma sia percepibile in assenza di stimolo, e anche a occhi
chiusi, smentisce senza ombra di dubbio la teoria in base a cui sono raggi in partenza
dall’occhio e diretti agli oggetti che determinano la percezione.
Il problema va quindi invertito. È straordinario che Alhazen, che parte dalla descrizione
accuratissima dell’anatomia dell’occhio di Galeno, veda questo, per la prima volta
nella storia, come una vera e propria camera oscura. Egli infatti si rende conto del
fatto che i raggi provenienti dalla superficie di un oggetto che penetrino entro una
camera chiusa attraverso un foro posto anteriormente, proietteranno sulla superficie
interna posteriore della camera un’immagine dell’oggetto. Egli, di più, descrive con
cura l’esperienza della luce di più candele che vengono proiettate attraverso un foro
sulla parete di fondo della camera oscura (p. 17).
Peraltro, non è detto che Alhazen abbia rilevato che l’immagine è invertita. È probabile,
perché egli avverte il problema dell’inversione dell’immagine una volta che l’occhio
venga considerato una camera oscura, con la pupilla come foro. Il problema, che oggi
ci sembra insussistente, è quello del perché a un’immagine retinica invertita corrisponde
una visione del mondo non capovolta. Ciò porta allora Alhazen ad affermare che nell’occhio
l’immagine non si forma sulla retina, ma sulla superficie del cristallino, che non
riuscì a riconoscere come lente biconvessa. Peraltro, anche l’idea che la superficie
sensibile fosse la parte posteriore, dal lato interno concavo, del cristallino, era
stata da Alhazen mutuata da Galeno. In questo modo, però, poté evitare di fare i conti
con l’inversione dell’immagine retinica, potendo su tale superficie l’immagine essere
ancora diritta.
Per risolvere il problema dell’apparente inversione dell’immagine nella parte sensibile
dell’occhio Alhazen fornisce due spiegazioni, in parte contrastanti. Secondo la prima,
la cornea e il cristallino avrebbero due raggi di curvatura identici. Ciò fa sì che
i raggi che colpiscono la cornea con un certo angolo di incidenza, e che per rifrazione
proseguono in linea retta, non cambiano inclinazione attraversando la parte anteriore
del cristallino. Secondo Alhazen, di più, la parte posteriore del cristallino sarebbe
sensibile solo ai raggi che incidono perpendicolarmente.
Rimaneva il problema delle scorze. Di cosa erano costituiti questi raggi provenienti
dalla superficie degli oggetti? E come mai i raggi provenienti dai diversi oggetti
non si mescolavano tra di loro? Circa il primo punto, l’esperienza della camera oscura
dimostrava il non mescolamento; infatti, nel passare attraverso il foro anteriore
della camera oscura, «se le luci si mescolano nell’aria, si mescolerebbero anche nell’aria
del foro e lo attraverserebbero mischiate, e dopo il foro non si distinguerebbero.
Ma noi troviamo che non è così, quindi le luci non si mescolano» (p. 17; cfr. Gliozzi
1965, p. 27).
Per quel che riguarda il primo problema, secondo Alhazen si poteva ancora parlare
di scorze, solo che non era necessario pensare che ogni scorza riproducesse interamente
l’oggetto. Si poteva immaginare che ogni punto della superficie di un oggetto inviasse
la sua scorza, che queste scorze mantenessero nel raggio il loro ordine e che questo
raggio costituito da scorze ordinate, che riproducono quindi la forma della superficie
dell’oggetto, potesse impressionare l’occhio. Alhazen è al proposito esplicito: «La
luce naturale e il colore illuminato feriscono gli occhi» (1572, Liber I, p. 1). Il
nome dell’agente fisico convogliato dal raggio fu allora, nella traduzione latina,
lumen, e la sua rappresentazione psichica fu detta lux. Con qualche eccesso di entusiasmo, in questa teoria delle microscorze di Alhazen
si è voluto vedere un anticipo della teoria corpuscolare della luce (Nebbia 1967,
1975). Al di là di questo, è certo che la moderna teoria psicofisica della luce comincia
proprio con Alhazen.
Ma non è solo qui l’importanza di Alhazen. Recentemente Mausfeld (1997) ha mostrato
come a lui possa anche essere fatta risalire una distinzione in senso moderno tra
sensazione e percezione, che appare di notevole rilievo per una considerazione attuale
di questa problematica. Alhazen distingue la sensazione pura (solus sensus) dalla conoscenza (cognitio) e da pensiero e differenziazione (ratio et distinctio). Ora, nel solus sensus, che non è consapevole, si ha (e non è tanto un’esagerazione) una sorta di primal sketch alla Marr (1982 – cfr. infra, capitolo 11), in cui a livello dell’ultimum sentiens si ha un’immagine bidimensionale, dove alla luce corrisponde una sensazione di luce
in quanto tale, e al colore corrisponde una sensazione di colore in quanto tale. Tutte
le altre caratteristiche percettive, dalla grandezza alla forma alla distanza, sono
ottenute per ratiocinatio, attraverso una comprehensio per signum, che non a torto Mausfeld assimila all’unbewußter Schluss, l’inferenza inconscia di Helmholtz, che vedremo più avanti.
Come pervennero le idee di Alhazen in Occidente? Nel 1572 Federico Risner ne tradusse,
per interessamento di Pietro Ramo, il trattato. In realtà, già da secoli le idee di
Alhazen avevano circolato grazie all’opera di un monaco polacco, che aveva peraltro
studiato a Parigi, Erasmus Witelo (ca. 1230-ca. 1275), detto Vitellione in Italia,
per la cui Perspectiva (pubblicata a stampa, peraltro, solo nel 1533, ma che aveva circolato in forma manoscritta)
aveva largamente attinto ai lavori di Alhazen, citato, peraltro, solo di sfuggita
(su Witelo, cfr. Unguru 1975; una più recente traduzione inglese di Alhazen è stata
opera di Sabra. Su Alhazen vedi Gliozzi 1965; Nebbia 1967, 1975).
2.4.2. Keplero e il problema dell’immagine invertitaAbbiamo accennato a Witelo, come all’importatore delle idee di Alhazen in Occidente.
Ma la sua importanza fu tale che Keplero, ad esempio, fondò la sua teoria della visione
proprio sull’opera di quest’ultimo, tanto da chiamare la sua fondamentale opera in
proposito (1604) Ad Vitellionem paralipomena, a cui fece seguire una Diottrica, del 1611. La determinante importanza di Keplero è data dal fatto che questi per
la prima volta diede una completa dimostrazione del fatto che in una camera oscura
si ha un’immagine completamente rovesciata, ma che riproduce perfettamente, punto
a punto, l’oggetto proiettato. Nella proposizione XXIII dei Paralipomena Keplero afferma che ponendo un globo davanti a uno schermo con una piccola apertura,
e ponendo un foglio di carta dietro allo schermo, su questo si formerà la proiezione
dell’emisfero visibile del globo, in modo invertito, con la parte «più pura e distinta
nel mezzo». E come corollario dice che
[la Natura] vuole che tutti i raggi entrino nella pupilla da una cosa visibile per
giungere insieme su un punto della retina, in modo che ogni punto del quadro che ne
risulta sia il più chiaro possibile, mentre gli altri punti non verranno confusi con
altri raggi, più o meno a fuoco.
Keplero, quindi, non vede la questione dell’immagine invertita come un problema. L’immagine
retinica è sì capovolta, ma quel che conta è che riproduca fedelmente l’oggetto.
Un’interessante soluzione al problema fu quella offerta dall’astronomo e matematico
irlandese William Molyneux (1656-98), amico di Locke, di cui avremo ancora modo di
occuparci. Questi (1692/1956, p. 105) osservava che, anche se sull’occhio l’immagine
si proietta invertita,
non è propriamente l’Occhio che vede, questo è solo l’Organo o Strumento, è piuttosto l’Anima che vede per mezzo dell’Occhio.
[...] A mio avviso, Eretto e Inverso sono solo termini di relazione con Su e Giù, o Lontano dal o Vicino al Centro della Terra, in parti della stessa cosa: così che un Oggetto Eretto crea un’Immagine Invertita, e un Oggetto Invertito crea un’Immagine Eretta; e cioè, quella parte dell’Oggetto che è Più Lontana dal Centro della Terra viene Dipinta sulla parte dell’Occhio Più Vicina all’Occhio delle altre Parti dell’Immagine.
2.5. Il cambiamento della concezione dell’uomo con Umanesimo e Rinascimento
Con l’Umanesimo e con il Rinascimento, in Italia più che altrove, e a Firenze, più
che in altri luoghi, inizia un rivolgimento della concezione cristiana medioevale.
Vi è una nuova collocazione dell’uomo nella natura, che è al meglio testimoniata dalla
famosa epistola sulla dignità dell’uomo di Pico della Mirandola (1494): l’uomo con
la sua capacità di innalzarsi fino al divino o di abbrutirsi più degli animali. L’uomo
così viene visto (sia pure con infinite contraddizioni) non più in ottica trascendente,
ma semmai partecipe egli stesso degli attributi della divinità. Ma ciò non consente
ancora una sua analisi scientifica. In ogni caso, l’interesse per la cultura greca
e per quanto si cominciava a sapere della cultura araba dettero frutti unici per la
comprensione dell’uomo e della sua sorte, secondo progetti di vita diversi e concezioni
del mondo tra loro ben differenziate.
Anche qui, le mediazioni culturali sono curiose. Una di queste è rappresentata dall’interesse
per l’astrologia. L’influenza degli astri ha un interesse duplice: da un lato non
toglie libertà all’uomo, poiché, conoscendo pure le potenzialità offerte dall’oroscopo,
non le stelle condizionano l’uomo ma è l’uomo che sceglie la costellazione cui fare
riferimento, determinando quindi la propria sorte. Tra gli altri, Cosimo de’ Medici
scelse il Capricorno, falsificando la sua data di nascita, perché tale costellazione
era più opportuna per coloro che dovevano reggere uno Stato. Dall’altro, si può sostenere
con Pomponazzi una visione deterministica di una natura in cui tutto si influenza
reciprocamente.
Questa nuova visione dell’uomo può sfociare in uno studio non più teologico anche
delle sue attività mentali. Peraltro, perché questo sia possibile, occorre che si
determini una condizione fondamentale: la naturalizzazione dell’uomo, come macchina
biologica, preludio alla naturalizzazione della mente. Sarà questo il compito di Cartesio.
2.6. Cartesio
È giunto quindi il momento di affrontare il discorso dell’importanza che ha avuto
il dualismo cartesiano come precondizione per la nascita della psicologia scientifica.
Il mondo di Cartesio è ancora, come ben notava Lazzeroni (1940), profondamente legato
all’aristotelismo della scolastica, molto più di quanto generalmente non si creda.
Il corpo è quindi popolato di «spiriti animali», che lo percorrono in lungo e in largo
attraverso una miriade di canali. Ma è anche un mondo «pieno», in cui non vi è movimento
che non provochi un altro movimento, attraverso collisioni e vortici che si creano
tra corpi che sono tutti a stretto contatto tra di loro.
Cartesio è però anche e profondamente uomo del suo tempo. La prima metà del Seicento,
il periodo in cui lavora, è l’età in cui Harvey a Oxford scopre la circolazione del
sangue, che rivoluziona profondamente la concezione dell’uomo. Ed è l’età in cui si
realizzano applicazioni straordinariamente ingegnose dell’idraulica, destinate non
solo al soddisfacimento di bisogni produttivi. Si tratta delle spettacolari fontane
che adornano le ville dei ricchi e i parchi con straordinari giochi d’acqua, come
dei robot idraulici – intere orchestre capaci di suonare, ballerine, soldati in marcia,
azionati da sistemi di pompe.
Quando Cartesio parla del funzionamento della res extensa, della «macchina del corpo», come esplicitamente la chiama (Cartesio 1664/1986, p.
75), è a questi robot idraulici che pensa e si riferisce esplicitamente. Ma cos’è
che produce il movimento degli spiriti animali, e infine la modificazione della figura
dei muscoli, che fa poi muovere il corpo? Cartesio individua per primo nell’arco riflesso
(che evidentemente non chiama così) il meccanismo principe per la regolazione del
movimento della macchina corporea. Solo mezzo secolo dopo di lui, per merito particolarmente
della scuola medica cosiddetta «iatromeccanica», lo studio dei riflessi diventerà
una costituente determinante per la comprensione del funzionamento del sistema nervoso.
L’esempio famoso di Cartesio è quello della retrazione di un arto scottato da una
fiamma, un atto riflesso che oggi chiameremmo nocicettivo:
Se il fuoco si trova vicino al piede, le particelle di questo fuoco, che come sapete
si muovono con grandissima velocità, hanno la forza di imprimere il loro stesso movimento
al punto della pelle di questo piede che esse toccano, e tirando con simile mezzo
il piccolo filamento che vedete esservi attaccato, esse aprono allo stesso istante
l’entrata del poro sul quale questo piccolo filamento ha la propria terminazione:
allo stesso modo in cui, tirando una delle estremità di una corda, si fa suonare nello
stesso tempo la campana che è sospesa all’altra estremità.
Ora, essendo allo stesso tempo l’entrata del poro, o piccolo condotto, così aperta,
gli spiriti animali della concavità vi entrano dentro, e attraverso quel condotto
sono trasportati, parte nei muscoli che servono a ritirare il piede dal fuoco, parte
nei muscoli che servono a far volgere gli occhi e la testa verso il piede, e parte
ancora nei muscoli che servono a portare avanti le mani e a piegare tutto il corpo
in sua difesa (1664/1986, pp. 94-95).
Abbiamo visto l’importanza determinante, fin dal Medioevo, dello studio della percezione
per il costituirsi della psicologia scientifica. Di percezione anche Cartesio parla
più volte nei suoi scritti, ma è soprattutto al più volte citato De l’homme, pubblicato peraltro postumo, che deve farsi riferimento. Peraltro, tra il 1619 e
il 1628 Cartesio scriveva un’opera fondamentale, le Regulae ad directionem ingenii (Cartesio 1619-28/1933), incompleta e pubblicata postuma solo nel 1701, la cui prima
parte (Regulae I-XII) tratta soprattutto di questioni di gnoseologia, mentre la seconda (Regulae XIII-XXIV) affronta temi di ordine matematico. La conoscenza attraverso i sensi viene così
affrontata da Cartesio nella prima parte.
Il processo sensoriale viene chiaramente suddiviso da Cartesio in tre livelli. Il
primo, puramente fisiologico, appartiene all’ambito della fisica, ed è condiviso da
uomini e animali. Per Cartesio l’azione dei sensi è passiva, in quanto essi non sentono
che mediante una «passione», suscitata in essi dagli oggetti sensibili, che provocano
comunque un «movimento» sui «condotti» che mettono in relazione gli organi di senso
e il cervello. Il livello dello spirito (della res cogitans) è raggiunto solo al secondo grado, quando la sensazione diventa cosciente. È qui
che la sensazione raggiunge la ghiandola pineale, il punto in cui la res cogitans entra in contatto con la res extensa. Ma ancora la mente non può né identificare né localizzare il percepito, la cui esistenza
si esaurisce nel suo costituirsi come oggetto. La vera percezione, per come verrà
poi distinta dalla sensazione, inizia infatti solo al livello successivo. Per Cartesio,
ci formiamo un giudizio sulle cose esterne attraverso il movimento degli organi corporei
su di esse, a cui sin dalla giovinezza siamo abituati, e così ci costituiamo delle
rappresentazioni mentali del mondo esterno.
Cartesio può disporre di una descrizione anatomo-fisiologica dell’occhio di livello
ben superiore a quella su cui si poteva contare sino al Rinascimento. Inoltre, che
lo stimolo in grado di eccitare il sistema visivo sia la luce, e in particolare i
raggi luminosi provenienti dagli oggetti, è ormai per Cartesio un fatto acquisito.
Ma vi sono aspetti della descrizione della visione di Cartesio che vanno ben al di
là dell’accuratezza con cui indaga su questi meccanismi. Il meccanismo della formazione
dell’immagine retinica diventa contemporaneamente il meccanismo attraverso cui l’uomo
percepisce distanza e localizzazione degli oggetti. Ora, Cartesio mostra come i meccanismi
della rifrazione (e dell’accomodazione pupillare) consentono di mettere perfettamente
a fuoco un solo punto degli oggetti esterni, e man mano che ci si allontana da questo
punto l’immagine diventa sempre più sfuocata. Ciò fa sì che automaticamente l’uomo
orienti l’occhio e modifichi diametro pupillare e curvatura del cristallino per mettere
a fuoco ciò che gli interessa. Ma nello stesso tempo, l’orientamento dell’occhio comporta
una certa azione muscolare: «i nervi dell’occhio sarebbero disposti diversamente se
fosse rivolto altrove» (p. 108); e se si pongono insieme orientamento muscolare e
caratteristiche di maggiore o minore sfuocatezza dell’immagine retinica, si hanno
tutte le informazioni necessarie per determinare «la posizione, la figura, la distanza,
la grandezza, e altre qualità simili» (p. 107). Tra l’altro, Cartesio non trascura
neppure la convergenza binoculare, come prezioso indizio di profondità.
Di grande interesse è anche un’altra osservazione di Cartesio: se si sposta passivamente
l’occhio con un dito, si avrà l’impressione che parallelamente si abbia uno spostamento
degli oggetti esterni, perché «l’anima crederà» che lo spostamento dell’immagine che
si genera così sul fondo dell’occhio sia dovuto a un evento accaduto nel mondo e non
a uno spostamento dell’occhio, non essendosi avuta una modificazione corrispondente
della disposizione dei nervi dell’occhio.
Si badi, però, che ciò è per Cartesio legato soprattutto alle corrispondenze tra i
nervi e le parti del cervello, e non tanto a processi di giudizio (che peraltro non
esclude):
Infine, quanto al giudizio sulla lontananza dell’oggetto, sia esso fondato sull’idea
che abbiamo della grandezza degli oggetti o sul fatto che i raggi che provengono dai
diversi punti di essi non si riuniscono con pari precisione sul fondo dell’occhio,
l’esempio dei quadri di prospettiva ci dimostra abbastanza bene quanto sia facile
sbagliarsi. Infatti quando le loro figure sono più piccole di quanto immaginiamo debbano
essere, e quando i loro colori sono un po’ oscuri, e i loro contorni un po’ confusi,
allora ci sembrano molto più lontani e più grandi di quanto effettivamente siano (pp.
112-13).
Perché è così interessante questo passo? È chiaro che Cartesio ha avuto modo di osservare
delle illusioni di prospettiva, di quelle che non verranno studiate che tra la fine
dell’Ottocento e i primi del Novecento. Alle semplici illusioni prospettiche aggiunge
considerazioni sui cosiddetti «indizi pittorici» della distanza (colore, contorni),
che possono aumentare l’effetto illusivo. Ma, al di là delle apparenze, Cartesio non
sembra affatto parteggiare per l’intervento di un’attività di giudizio, nel creare
l’illusione, ma piuttosto per un’interpretazione in termini di corrispondenza tra
nervi e cervello, e poi ghiandola pineale. Ciò viene illustrato da come egli affronta
un ultimo problema. Forse è stato Cartesio il primo studioso a ritenere irrilevante
il fatto che l’immagine retinica sia invertita, e venga proiettata invertita al cervello.
Già nel 1637, nella Diottrica, Cartesio aveva esplicitamente detto che la mente aveva la capacità, attraverso uno
spostamento di attenzione, di mettere in relazione le parti invertite dell’immagine
con quelle nella «vera posizione». E comunque in De l’homme, se si segue l’argomentazione, appare chiaro che l’immagine cerebrale debba essere
invertita, e la figura presentata è indubbiamente fuorviante. Cartesio, infatti, dice
che l’immagine è causata da un flusso di «spiriti animali» attraverso i pori che «fronteggiano»
(«regardent») le corrispondenti terminazioni delle fibre nervose. Tutto ciò rende
indubitabile il fatto che egli pensava a un’immagine a livello dell’anima, nella ghiandola
pineale, perfettamente corrispondente a quella retinica, e quindi invertita.
Abbiamo accennato alla rivoluzione che Cartesio ha portato all’impostazione del problema
del rapporto mente-corpo. La profondità di tale rivoluzione è stata tale, che oggettivamente
oggi ci è difficile comprendere la sua effettiva radicale portata, tanto profondamente
le idee che ne sono derivate si sono radicate in noi, sia che vogliamo accettarle,
sia che vogliamo respingerle. Ciò che va comunque tenuto particolarmente presente,
per capire il significato della rivoluzione cartesiana, a parte poi le soluzioni «tecniche»
a volte decisamente insostenibili che Cartesio propose su punti specifici (come il
ruolo attribuito alla ghiandola pineale), che in questo modo per la prima volta nel
pensiero occidentale, dopo l’avvento del cristianesimo, si sottraeva al monopolio
della riflessione teologica l’analisi dei problemi propri delle scienze dell’uomo.
Se il corpo era una macchina, poteva essere studiato come tale; ma se lo spirito interagiva
con questa macchina attraverso la ghiandola pineale (o qualunque altro fosse il suo
punto di interazione), lasciando impregiudicato il problema tutto teologico della
sostanza che compone l’anima, nulla vietava di studiare queste modalità di interazione.
Come avrebbe detto qualche decennio dopo Locke (1690), che pure si muoveva su posizioni
opposte a quelle di Cartesio su tanti problemi, lasciando l’anima ai teologi se ne
potevano studiare le funzioni: l’intelletto umano.
2.7. Razionalismo ed empirismo
Come è noto, Cartesio fu il primo grande rappresentante di quella corrente filosofica
che avrebbe preso il nome di razionalismo e che avrebbe avuto tra i suoi esponenti
pensatori del calibro di un Malebranche o di un Leibniz. Ma al razionalismo si oppose
da subito l’empirismo, particolarmente fiorente nei paesi di lingua inglese, e che
riguardo alla percezione aveva da dire cose molto diverse, ma ugualmente fondanti
per la futura psicologia.
Per meglio capire le ragioni dell’empirismo, si può partire da un fatto specifico:
nel 1688 Molyneux, di cui già abbiamo avuto modo di occuparci, rivolse la seguente
domanda in una famosa lettera a John Locke:
Supponiamo che a un uomo nato cieco, e ora adulto, si insegni a distinguere con il
tatto tra un cubo e una sfera. [...] Supponiamo poi che cubo e sfera siano posti su
un tavolo e che il cieco ora veda; chiedo, con la vista, avendoli prima toccati, è
ora in grado di distinguere e dire qual è il globo, quale il cubo?
La risposta era negativa, sia per Molyneux che per Locke (1690, p. 186), come sarebbe
stata negativa nel 1709 per Berkeley.
E non c’è da stupirsene: la corrente filosofica alla quale tutti e tre appartenevano
sarebbe rimasta nota come empirismo proprio perché sosteneva l’assoluta dipendenza
delle strutture dell’intelletto dall’esperienza passata. Di più: secondo gli empiristi,
poiché è la percezione la chiave attraverso cui l’esperienza giunge alla nostra mente,
è la percezione che si struttura in base all’esperienza, e attraverso la percezione
si struttura il nostro pensiero. Il detto della scolastica, Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, acquista negli empiristi il suo più pieno e completo significato: nulla è nella
mente, che non abbia la sua origine nella percezione sensoriale.
Non vi sono idee innate, come volevano piuttosto i razionalisti, a partire da Cartesio;
la mente del bambino alla nascita (e anche qui il detto, di origine stoica, acquista
il suo pieno significato) è solo una tabula rasa, una tavoletta incerata che deve attendere che l’esperienza, attraverso la porta
della percezione, vi scriva le prime parole. Locke (1690) è qui esplicito: dopo aver
dedicato larga misura del primo libro del Saggio a confutare le dottrine innatiste, afferma: «vi è certamente un momento, e non importa
se possiamo determinarlo o meno, in cui i bambini cominciano a pensare» (I, II, 25)
– il che implica che fino a un certo momento il bambino non pensa. E più avanti (II, I, 22):
Seguite un bambino fin dalla nascita [...] e troverete che egli diventa sempre più
sveglio a misura che i sensi forniscono progressivamente sempre più idee alla sua
mente; troverete che pensa sempre di più, man mano che ha più materiale a cui pensare.
Dopo un poco egli comincia a conoscere gli oggetti che gli sono più familiari e che
gli lasciano così delle impressioni durature. Allo stesso modo perviene a conoscere
gradualmente le persone con cui ha a che fare tutti i giorni, distinguendole dagli
estranei; ed è questo esempio ed effetto del fatto che è ormai in grado di distinguere
e di ritenere le idee che i sensi gli trasmettono [corsivo aggiunto].
In effetti, qualche struttura innata era comunque ammessa anche dagli empiristi, o
almeno da alcuni di loro. Così Hume (1739-40) sosteneva che se le strutture percettive
erano di massima apprese, non pertanto non dovevano ritenersi innate le nostre percezioni
più forti o impressioni, e che l’affetto naturale, l’amore della virtù, il risentimento
e tutte le altre passioni provengono immediatamente dalla natura.
Così, se tutti sostenevano che alla base della percezione di profondità, grandezza
e posizione non potesse esserci altro che apprendimento per associazione, Locke, come
più tardi Reid (1764/1822) e Hamilton (1880), pensava che almeno una visione bidimensionale
degli oggetti potesse essere già data senza apprendimento – così, affermava che una
sfera sarebbe stata vista da un bambino nelle prime fasi della visione come un cerchio
piatto e ombreggiato. Ma da Berkeley (1709) a Brown (1820), da Bain (1868) a John
Stuart Mill (1872), empiristi e associazionisti per la maggior parte sostenevano che
la prima percezione dovesse essere un campo visivo totalmente «informe».
Tornando a Locke, questi comunque poneva l’inizio della percezione, e quindi delle
idee, già nell’utero, anche se qui lo stato del bambino «non si differenzia molto
da quello di un vegetale» (II, I, 21). Con la nascita, e soprattutto con l’esperienza
della luce, le cose cambiano drammaticamente, perché così si costituisce la vera conoscenza
con termini di relazioni tra le idee. Anche qui si ha una crescita graduale: sin da
prima dell’acquisizione del linguaggio il bambino dimostra di possedere delle conoscenze,
distingue gli oggetti e le persone familiari, acquisisce il concetto di identità degli
oggetti.
2.8. Da Cartesio agli «idéologues»
2.8.1. La nascita della dicotomia tra «scienze della natura» e «scienze dello spirito»Nella nostra cultura è tuttora molto viva una dicotomia tra «scienze della natura»
e «scienze dello spirito», per utilizzare la famosa espressione di Dilthey, che meglio
di ogni altro l’ha resa comprensibile e popolare anche al di fuori del mondo ristretto
di chi pratica scienza e riflette su di essa per professione. Sembrerebbe, infatti,
ed è questa opinione largamente condivisa, che tra chi si occupa dei fenomeni «materiali»
(di ordine in generale chimico-fisico) e chi si occupa viceversa dei fenomeni «immateriali»
(mentali, sociali, ma per alcuni anche solo legati alla vita in quanto tale) che la
natura ci presenta debba comunque sempre esserci uno iato profondo, un fossato incolmabile.
Pare che diverse debbano essere le procedure di indagine, diversi gli strumenti di
analisi, diverse quasi le forme della razionalità con cui i problemi si affrontano.
Questa dicotomia ha assunto molti nomi: quello oggi forse più popolare distingue le
scienze in hard (scienze «dure» – le scienze della natura) e soft (scienze «molli» – le scienze dello spirito); ed è superfluo dire che i cultori delle
prime nutrono un sovrano disprezzo per i cultori delle seconde, come per il loro oggetto
di studio – e viceversa.
Ma non è sempre stato così, anzi. Questa dicotomia risale infatti al XVII secolo,
il secolo della rivoluzione scientifica, con la nascita della scienza moderna, e probabilmente
uno dei massimi responsabili ne è stato Cartesio. La soluzione cartesiana se da un
lato aveva consentito lo studio scientifico dell’uomo, aveva peraltro presentato anche
un’altra faccia della medaglia che non avrebbe mancato di suscitare perplessità, e
sarebbe addirittura finita per apparire, agli occhi di vari studiosi, come un ostacolo
oggettivo alla nascita della psicologia scientifica. Da un lato, infatti, la res extensa umana entrava a pieno diritto nell’ambito degli oggetti di studio delle scienze naturali:
la biologia, la fisiologia, ma anche la chimica e la fisica. Dall’altro, si veniva
a creare quel curioso fenomeno per cui la rivoluzione scientifica del Seicento avrebbe
finito per considerare l’anima, e in generale il mentale, come una sorta di «pattumiera»
in cui relegare tutto ciò che nello studio dell’uomo non era suscettibile di essere
studiato razionalmente. Per dirla con Burtt (1932, p. 319), il mentale diventa un
«comodo ricettacolo per gli scarti, il cascame, i residui della scienza, più che un
possibile oggetto di conoscenza scientifica».
L’origine di tutto questo, probabilmente, è nella distinzione tra qualità «primarie»
e qualità «secondarie», e nel modo in cui questa distinzione viene posta a fondamento
della scienza moderna, in primo luogo da Galileo nel Saggiatore (1623/1896), diventando un pilastro del criterio dell’oggettività (cfr. Gillispie
1960). Il criterio dell’oggettività afferma quindi che solo alcune delle qualità percepite
degli oggetti possono essere considerate presenti nel mondo come tali: estensione, durezza, peso, moto e numero. Ma le «cose» presenti nel mondo che ci
circonda hanno anche altre qualità: il colore, l’odore, il gusto, la ruvidezza. A
queste altre qualità, secondarie, corrispondono caratteristiche fisiche, che non vengono
però percepite in quanto tali: ciò che è nel mondo, a differenza di quanto avviene
per le altre qualità, le primarie, è la presenza di, poniamo, onde elettromagnetiche
di una certa frequenza, di determinate molecole aromatiche e così via. Se noi parliamo
del colore di un oggetto, parliamo di una qualità che non è la luce che questo oggetto
riflette, che in quanto tale non ha colore, come le molecole in quanto tali non hanno
odore. Il colore, come l’odore, non è nell’oggetto, ma nel percipiente. E lo scienziato
moderno, da Galileo in poi, tralascerà completamente le qualità secondarie, cercando
di individuare solo quel che nell’oggetto è.
L’esempio più evidente, da questo punto di vista, è dato proprio dal colore. Quando
Newton giungerà a scomporre la luce bianca con il prisma, dimostrando che è costituita
da una miscela di luci di differenti frequenze (di differente «colore»), darà la dimostrazione
definitiva del fatto che il colore non stava nella luce che gli oggetti riflettono,
ma in chi gli oggetti li vede.
In altri termini, la situazione che si determinò alla nascita della scienza moderna
è sostanzialmente questa: con Galileo, Cartesio e Newton si apriva la porta alla scienza
moderna, anche per quel che riguardava l’uomo inteso come corpo fisico, tra gli oggetti
fisici. Ma si chiudeva allo stesso tempo la porta al possibile studio su basi scientifiche
analoghe di ciò che era mentale, che apparteneva all’individuo nella sua soggettività.
Il cammino da percorrere per fondare una psicologia scientifica era quindi ancora
lungo.
2.8.2. Il materialismo di La MettrieIl dualismo cartesiano progressivamente venne sempre più visto come un impaccio, e
dopo Cartesio chi non volle scegliere la soluzione dualistica da lui proposta si orientò
verso il materialismo, riducendo tutto a res extensa, o verso l’idealismo, riducendo tutto a res cogitans. E se questi ultimi negarono di massima la possibilità di costruire una psicologia
scientifica, i primi affermarono che l’unico possibile studio scientifico della mente
richiedeva che questa fosse ridotta a materia. In questo cammino fu certamente all’avanguardia
nel XVIII secolo la Francia (anche se con difficoltà questo primato francese viene
riconosciuto nelle storie della psicologia, specie anglosassoni). In particolare,
un ruolo rilevante ebbe Julien Offroy de La Mettrie, che rifiutò decisamente il dualismo,
cercando una soluzione monistica in senso materialista al problema. Già nei titoli
abbastanza provocatori dei suoi libri dimostrava chiaramente quali fossero le sue
idee in proposito: L’u
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