Indice Estratto

Edizione: 2016, VII rist. 2023
Pagine: 356
Collana: Scienze della mente [52]
ISBN carta: 9788859300311
ISBN digitale: 9788858126882
Argomenti: Psicologia clinica e dinamica

Curare i casi complessi

La terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità

Antonino Carcione - Giuseppe Nicolò - Antonio Semerari (a cura di)

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Nell’attività clinica è in pratica impossibile incontrare un paziente con un disturbo di personalità che non sia diagnosticabile almeno per un altro disturbo di personalità e altri disturbi psichiatrici. Già questo dato rende insostenibile l’attuale nosografia categoriale che sopravvive a se stessa per mancanza di alternative e per l’assenza di linee terapeutiche che prescindano dalle categorie. In questo libro gli autori del Terzo Centro propongono un modello integrato di terapia che va al di là delle diagnosi categoriali e punta al trattamento dei fattori generali della patologia della personalità. In questo contesto particolare enfasi viene posta sullo sviluppo delle funzioni metacognitive e sull’integrazione di procedure e tecniche di psicoterapie diverse.

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Indice Estratto

Edizione: 2023
Pagine: 356
Collana: Scienze della mente
ISBN: 9788859300311

Gli autori

Antonino Carcione

Antonino Carcione, psichiatra e psicoterapeuta, tra i fondatori e direttore scientifico del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma, è didatta della Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC e della Società Italiana Terapia Comportamentale e Cognitiva.

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Giuseppe Nicolò

Giuseppe Nicolò, psichiatra e psicoterapeuta, tra i fondatori del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma e direttore del Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze Patologiche della ASL Roma 5 e del Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura di Colleferro, è didatta della Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC e della Società Italiana Terapia Comportamentale e Cognitiva.

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Antonio Semerari

Antonio Semerari, psicoterapeuta, è tra i fondatori della Scuola di Psicoterapia Cognitiva e del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma. Autore di numerosi saggi su riviste internazionali, ha pubblicato tra l’altro: La psicologia dei costrutti personali (a cura di, con F. Mancini, Milano 1985); Le teorie cognitive dei disturbi emotivi (con F. Mancini, Roma 1990); I processi cognitivi nella relazione terapeutica (Roma 1991); Psicoterapia cognitiva del paziente grave (a cura di, Milano 1999). Per Laterza: Storia, teorie e tecniche della psicoterapia cognitiva (2000); I Disturbi di Personalità. Modelli e trattamento (a cura di, con G. Dimaggio, 2003); Il delirio di Ivan. Psicopatologia dei Karamazov (2014); Curare i casi complessi. La terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità (a cura di, con A. Carcione e G. Nicolò, 2016).

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Sommario

Premessa

1. Il problema della diagnosi di Antonio Semerari, Fabio Moroni, Giuseppe Nicolò, Antonino Carcione

1.1. Il problema: un caso complesso

1.2. Il problema della diagnosi: la crisi della nosografia attuale

1.2.1. Le due classificazioni dei disturbi di personalità nel DSM-5: vantaggi e limiti

1.2.2. La complicazione eccessiva della diagnosi

1.2.3. Quale dimensione considerare? I tratti di personalità

1.3. Dalla diagnosi al trattamento

1.4. La diagnosi di Enrico

2. Conoscere la mente di Antonino Carcione, Antonio Semerari, Livia Colle

2.1. La metarappresentazione

2.2. Metarappresentazione e psicopatologia

2.3. La metacognizione

2.4. Funzioni nel dominio della conoscenza della propria mente

2.4.1. Il monitoraggio

2.4.2. L’integrazione

2.4.3. La differenziazione

2.4.4. Comprensione della mente altrui/decentramento

2.4.5. Padroneggiamento/mastery

2.5. Autodirezionalità e regolazione delle scelte

2.5.1. Gli scopi e le euristiche nei disturbi di personalità

2.5.2. La metacognizione e la regolazione delle scelte

3. La metacognizione come fattore generale della patologia della personalità di Ilaria Riccardi, Antonio Semerari, Roberto Pedone

3.1. La co-occorrenza di più diagnosi: problema o opportunità?

3.2. Patologia generale della personalità: gravità, disturbi del Sé e delle relazioni

3.3. La metacognizione tra patologia generale della personalità e manifestazioni fenomeniche

3.3.1. Le disfunzioni della metacognizione nei disturbi di personalità e nei disturbi di stato non psicotici

3.3.2. Le disfunzioni della metacognizione e la patologia generale della personalità

3.3.3. Le disfunzioni della metacognizione come predittori dei disturbi di personalità

3.3.4. Metacognizione ed esito dei trattamenti

4. L’integrazione del trattamento di Giuseppe Nicolò, Antonino Carcione, Donatella Fiore, Stefania D’Angerio, Michele Procacci, Antonio Semerari

4.1. Verso un trattamento integrato dei disturbi di personalità

4.2. Procedure e tecniche della terapia cognitiva

4.3. Obiettivi, procedure e tecniche delle terapie manualizzate dei DP

4.3.1. Terapia cognitiva standard

4.3.2. Schema Therapy

4.3.3. La terapia dialettico-comportamentale

4.3.4. Terapie non cognitive

4.3.5. Interventi strutturati: Good Psychiatric Management

4.3.6. Interventi strutturati: Structured Clinical Management

4.4. L’integrazione del trattamento e il lavoro d’équipe

4.5. L’assessment

4.6. I vantaggi dell’organizzazione

4.7. I limiti della presa in carico

5. Fase di pre-trattamento: il colloquio di assessment e la restituzione diagnostica di Giuseppe Nicolò, Laura Conti, Donatella Fiore

5.1. La conduzione del colloquio nella fase di assessment

5.2. Come s’inizia

5.2.1. Le prime domande

5.2.2. Area interpersonale

5.2.3. Individuazione degli stati mentali problematici principali e ricorrenti

5.3. La restituzione diagnostica: fase di pre-trattamento

5.3.1. La restituzione diagnostica

5.3.2. Tratti e diagnosi di personalità: SCID II

5.3.3. Sintomi

5.3.4. La metacognizione: intervista per la valutazione della metacognizione (IVaM); dalla restituzione diagnostica alla spiegazione del funzionamento del paziente

5.4. Fase conclusiva del pre-trattamento

5.5. Spiegazione del rationale terapeutico

5.6. Il contratto terapeutico

6. La relazione terapeutica di Antonio Semerari, Giovanni Pellecchia, Antonino Carcione

6.1. Gli aspetti problematici della relazione

6.2. L’uso terapeutico della relazione

6.2.1. L’alleanza terapeutica

6.2.2. Formazione dell’alleanza: empirismo collaborativo e contratto terapeutico

6.3. Un caso esemplificativo

6.4. Clima collaborativo e gestione delle flessioni dell’alleanza

6.4.1. Lo stile conversazionale del terapeuta

6.5. Cicli interpersonali

6.5.1. Fattori che influenzano il contenuto e il decorso dei cicli interpersonali

6.5.2. Obiettivi terapeutici

6.5.3. Procedure e tecniche nella gestione dei cicli

6.6. Cicli interpersonali tipici: i cicli acuti

6.6.1. Il ciclo invalidante

6.6.2. Il ciclo aggressivo abusante

6.6.3. Cicli di allarme

6.7. Cicli interpersonali tipici: i cicli cronici

6.7.1. Il ciclo del distacco

6.7.2. Il ciclo competitivo

7. La terapia di Antonino Carcione, Giuseppe Nicolò, Michele Procacci, Antonio Semerari

7.1. Obiettivi, setting e procedure

7.2. Principi di conduzione della seduta

7.2.1. L’atteggiamento metacognitivo

7.2.2. Gli ostacoli alla metacognizione

7.2.3. La regolazione del tono emotivo

7.2.4. Riflettere sui momenti di disorientamento

8. Monitoraggio e integrazione di Antonio Semerari, Antonino Carcione, Ilaria Riccardi

8.1. Lo stato problematico

8.1.1. Criteri per la scelta dello stato problematico da esplorare

8.1.2. Tre principi generali per il monitoraggio degli stati problematici e per la loro integrazione

8.1.3. Aspetti problematici del monitoraggio: emozioni primarie e intenzioni

8.2. Mantenere il livello metacognitivo raggiunto in seduta. Homework e promemoria

8.3. Padroneggiamento degli stati problematici legati ai sintomi gravi

8.4. La gestione iniziale degli stati problematici di rischio

8.4.1. Principi per la gestione del rischio suicidario

8.4.2. I diversi stati mentali suicidari

8.4.3. Il suicidio come tentativo per eliminare la sofferenza

8.4.4. Il suicidio in condizioni di distacco dissociativo

8.4.5. Il suicidio come atto relazionale

8.5. La gestione dei comportamenti impulsivi

8.6. Promuovere l’integrazione

8.7. La gestione degli stati mentali nella fase integrativa: dal cambiamento all’accettazione

8.8. La memoria autobiografica

9. Differenziazione e decentramento di Antonio Semerari, Fabio Moroni, Michele Procacci

9.1. Differenziazione, distanza critica, decentramento

9.1.1. L’ambiguità della differenziazione

9.1.2. Promuovere la differenziazione in psicoterapia

9.1.3. Le credenze nei disturbi di personalità

9.1.4. Le credenze relativamente ben fondatee le credenze compensatorie

9.1.5. Lo sviluppo della distanza critica

9.2. Il decentramento

9.2.1. Decentramento, differenziazione e distanza critica

9.3. Manifestazioni cliniche del decentramento

9.3.1. Differenziazione, decentramento e stati di minaccia

9.3.2. Differenziazione, decentramento e senso d’appartenenza

9.3.3. Differenziazione, decentramento e vergogna

9.4. Differenziazione, decentramento e principi generali di gestione

9.5. Tecniche specifiche per promuovere la comprensione della mente/decentramento

9.5.1. Role playing (attuale e storico)

10. I casi (quasi) impossibili di Giovanni Pellecchia, Antonio Semerari

10.1. Il confine incerto: il margine della trattabilità

10.2. La mente egocentrica, ovvero la fissità dell’attribuzione intenzionale

10.2.1. Primo caso: il dramma di essere troppo visibile (DP paranoide con tratti di personalità istrionicie borderline)

10.2.2. Secondo caso: il dramma di non essere visti (DP istrionico)

10.3. Debolezza del Sé e non integrazione

10.4. Empatia e senso morale

10.5. Il funzionamento narcisistico

10.6. Come affrontare le forme gravi di narcisismo

11. Interventi di gruppo: skills training di Livia Colle, Donatella Fiore

11.1. Gli obiettivi strategici e le caratteristiche procedurali

11.2. La struttura dello skills training

11.3. Le indicazioni per i gruppi di skills training: impulsività/caoticità e ritiro

11.3.1. Pazienti impulsivi/caotici

11.3.2. Pazienti ritirati

11.4. Controindicazioni alla partecipazione allo skills training

11.5. Lo skills training metacognitivo

11.6. Lo skills training per la competenza interpersonale

11.7. Modalità d’invio dei pazienti ai gruppi e contratto

11.7.1. Primo colloquio

11.8. Ostacoli durante il gruppo e drop out

12. Il trattamento farmacologico nel paziente con disturbo di personalità di Giuseppe Nicolò, Michele Procacci, Antonino Carcione

12.1. Introduzione

12.2. Quando serve la farmacoterapia?

12.3. Psicoterapeuta e farmacologo

12.4. Schema di visita psichiatrica

12.5. Trattamento farmacologico del disturbo di personalità

12.6. Prescrizione farmacologica nel paziente con disturbo borderline di personalità: la nostra procedura

12.6.1. Casi di prevalente instabilità affettiva

12.6.2. Casi di prevalente discontrollo degli impulsi

12.6.3. Casi di prevalente sintomatologia cognitiva

12.7. L’uso degli omega 3

12.8. Altri disturbi di personalità

12.9. La durata del trattamento farmacologico

13. Una sintesi: la terapia metacognitiva interpersonale di Antonino Carcione, Teresa Fera, Antonio Semerari

13.1. La terapia metacognitiva interpersonale: un approccio integrato per i casi complessi

13.2. Il timing dell’intervento

13.3. Lo sviluppo del trattamento

13.4. Check-list per valutare l’aderenza al trattamento

Bibliografia

Gli autori

Premessa

Sono trascorsi più di dieci anni dalla pubblicazione con la casa editrice Laterza del volume collettaneo del Terzo Centro I Disturbi di Personalità. Modelli e trattamento, e da allora diverse cose sono cambiate nella nostra concezione di questo tipo di disturbi, nel panorama della psicoterapia e nel nostro modo di lavorare.

Il cambiamento più importante che sta avvenendo intorno a noi e che è penetrato nelle nostre concezioni teoriche è l’abbandono dell’illusione che i disturbi psichiatrici in generale e i disturbi di personalità (DP) in particolare siano entità discrete, che siano separabili gli uni dagli altri con la sottile arte della diagnosi differenziale e che ciascuno abbia manifestazioni, prognosi, decorso e terapia specifici. Nei fatti, quasi tutti i pazienti con diagnosi di DP presentano almeno un altro disturbo di personalità e una varietà di sintomi e di manifestazioni psicopatologiche che caratterizzano altri disturbi psichiatrici. I pazienti che osserviamo e trattiamo nei nostri studi sono molte volte ben più complessi dei quadri psicopatologici «puri» che ci consentono di intervenire tout court con uno dei vari trattamenti manualizzati ed evidence based esistenti. In questo libro abbiamo cercato di spiegare come affrontiamo il trattamento di casi complessi che presentano aspetti psicopatologici multiformi.

Il secondo cambiamento avvenuto in questi anni riguarda l’ambito della psicoterapia. Da un lato sono stati sviluppati protocolli di trattamento sicuramente utili ed efficaci per affrontare almeno alcuni aspetti della patologia della personalità; dall’altro sono state create nuove procedure e tecniche che si sono rivelate efficaci su specifici sintomi e singoli aspetti della psicopatologia.

Il nostro sforzo, in questi anni, è stato quello di integrare tutto ciò che di utile ci sembrava venire dal progresso della psicoterapia per trattare i casi complessi. Abbiamo così modificato il nostro modo di lavorare. Da studio di terapeuti individuali che si scambiano le esperienze e condividono il lavoro di ricerca, il Terzo Centro è diventato una struttura clinica in cui viene coordinato il lavoro di diversi terapeuti e i pazienti più gravi ricevono un trattamento integrato. Coordinare più competenze e integrare diverse procedure terapeutiche si tradurrebbe però in una confusa giustapposizione di interventi senza a) una robusta cornice teorica che garantisca la coerenza concettuale e clinica della terapia, b) una strategia appropriata per stabilire il focus e il timing dei vari interventi e, non ultimo, c) un’adeguata organizzazione del lavoro d’équipe.

Tuttavia, nei tanti cambiamenti intercorsi in questi anni i punti teorici di fondo che guidano il nostro lavoro sono rimasti stabili. Essi sono: 1) il principio cognitivista della centralità, nei processi psicologici, dei significati personali con cui diamo un senso agli eventi; 2) l’importanza, per il benessere psicologico, di quella singolare capacità umana di conoscere qualcosa di così indefinito come gli stati e i processi mentali stessi, capacità che chiamiamo metacognizione.

Nel caso dei disturbi di personalità, significati personali problematici e scarsa metacognizione danneggiano profondamente la capacità del soggetto di costruire un senso di sé coerente e stabile e di creare relazioni umane valide. Strutture di significato, metacognizione e processi interpersonali sono perciò l’oggetto dell’intervento, in un intreccio che ci auguriamo di aver dipanato nel modo più chiaro possibile nelle pagine che seguiranno.

La prima parte è quella più teorica, che illustra l’attuale dibattito sui DP e la cornice concettuale su cui si sviluppa il nostro intervento. Nel primo capitolo viene presentato un caso complesso, quello di Enrico, in modo che il lettore possa farsi immediatamente un’idea del tipo di problemi clinici che andremo ad affrontare. Segue una discussione sui problemi posti dalla crisi della nosografia tradizionale e si introduce l’idea che questa crisi può rappresentare un’opportunità che apre nuove prospettive di ricerca.

Nel secondo capitolo discutiamo il concetto chiave di metacognizione e poi nel terzo proponiamo un panorama delle ricerche più recenti che la pongono come possibile fattore generale della patologia della personalità. Nel quarto capitolo è presentata la struttura gerarchica dell’intervento per i DP, con la distinzione tra obiettivi strategici, procedure e tecniche. Segue una rassegna delle terapie e delle tecniche che influenzano il nostro approccio e che tentiamo di integrare nei nostri interventi. Questa parte è rivolta in particolare agli studenti delle scuole di psicoterapia, in modo che possano farsi un’idea complessiva dell’area dei trattamenti più utilizzati per la cura dei DP.

La seconda parte illustra il trattamento che abbiamo sviluppato per la cura dei casi complessi e che abbiamo chiamato, già in precedenti lavori, terapia metacognitiva interpersonale (TMI). Nel quinto capitolo vengono descritti il primo colloquio clinico, le procedure di assessment e le modalità con cui può essere effettuata la restituzione diagnostica. L’insieme di questi interventi costituisce la fase di pre-trattamento, che si conclude con il contratto terapeutico, ovvero l’accordo tra paziente e terapeuta su scopi, compiti e regole della terapia. Il sesto capitolo esamina il delicato tema della relazione terapeutica, analizzando le difficoltà principali poste dai pazienti con DP e il modo in cui affrontarle. Il settimo capitolo illustra la cornice operativa su cui si sviluppa l’intervento descrivendo obiettivi, setting e procedure dell’intervento di TMI. Nell’ottavo capitolo parliamo di come individuare gli stati mentali problematici, identificando gli elementi cognitivi ed emotivi che lo compongono, e di come sviluppare nel paziente l’abilità di monitoraggio di essi. Viene rivolta particolare attenzione alla descrizione degli stati mentali suicidari e alla loro gestione. Successivamente, il capitolo verte su come sviluppare l’abilità di integrare i vari stati mentali presenti nelle narrazioni delle persone in terapia, promuovendo anche lo sviluppo di buone memorie autobiografiche, utile per la costruzione del senso di sé.

Il nono capitolo affronta il problema delle difficoltà di differenziazione e decentramento, abilità metacognitive necessarie per assumere distanza critica dalle proprie rappresentazioni e uscire da letture di sé e degli altri soggettive, stereotipate e radicalmente egocentriche. Nel decimo capitolo discutiamo il problema della trattabilità dei pazienti in psicoterapia, descrivendo cosa rende alcuni pazienti (quasi) non trattabili.

La TMI consiste in interventi di psicoterapia sia individuale, sia di gruppo, pertanto l’undicesimo capitolo illustra l’intervento di gruppo realizzato al Terzo Centro per promuovere lo sviluppo di abilità metacognitive e di competenze interpersonali.

Come previsto dalle linee guida internazionali, per trattare alcuni pazienti può essere necessario ricorrere all’intervento farmacologico, per cui il capitolo dodicesimo passa in rassegna i trattamenti utilizzati nei DP e descrive come integriamo tale intervento nella TMI.

Il libro si chiude con un capitolo che riassume le linee di intervento della TMI e nel quale proponiamo anche una lista di domande guida che possono aiutare il terapeuta che vuole applicare la TMI a seguirne i passi e le procedure e a valutare l’aderenza al trattamento.

Sarebbero troppe le persone da ringraziare: i colleghi che spesso ci hanno sollecitato a scrivere questo libro, e che ci hanno fornito utili consigli e osservazioni in corso d’opera, gli amici e i familiari che hanno tollerato le nostre assenze dedicate a questo lavoro. Ma non possiamo esimerci dal citare le nostre impagabili segretarie, validissime collaboratrici, Ilaria Palmerini e Sara Testone, che hanno risposto sollecitamente alle nostre, sempre urgenti, richieste d’aiuto.

Sperando di essere riusciti nel nostro intento, non ci rimane che lasciare ai lettori il compito di valutare la bontà di questo lavoro.

Antonino Carcione Giuseppe Nicolò Antonio Semerari

1.
Il problema della diagnosi
di Antonio Semerari, Fabio Moroni,
Giuseppe Nicolò, Antonino Carcione

1.1. Il problema: un caso complesso

Il primo colloquio si era appena concluso e il terapeuta non riusciva a dissipare il senso di confusione rispetto alla diagnosi. Cominciò a scorrere gli appunti.

Enrico è un giovane di 25 anni, studente universitario, dall’aspetto dimesso e dall’eloquio forbito, che da più di un anno è bloccato con gli esami e non frequenta i corsi. Figlio unico, vive in casa con i genitori e si è rivolto al Terzo Centro per un problema abbastanza insolito. Enrico sviene o forse – non sa dirlo – si addormenta improvvisamente mentre gli altri gli parlano, accasciandosi lì dove si trova, sulla sedia o sul divano. Di sicuro perde coscienza e la perde spesso, con una frequenza di 3-4 volte a settimana. Per questa ragione è stato ricoverato presso un prestigioso reparto neurologico di Roma. Dopo una serie accurata di esami, prove e accertamenti, erano state escluse epilessia, narcolessia o altre cause organiche. «È un problema psicologico!»: questo il verdetto dei medici, che gli hanno consigliato di rivolgersi al Terzo Centro.

Durante il ricovero i medici avevano avuto modo di assistere a una di queste perdite di coscienza e non avevano avuto dubbi nell’escludere ogni ipotesi di simulazione. I colleghi avevano gentilmente inviato un video insieme al tracciato EEG e alle misurazioni del tono muscolare. Nel video si vedeva il paziente accasciarsi sulla poltrona, nello stesso momento il tracciato elettroencefalografico mostrava che l’attività cerebrale proseguiva come in stato di veglia (il che permetteva di escludere una narcolessia), mentre l’elettromiografia evidenziava un totale crollo del tono muscolare. «Un faint?», pensò il terapeuta, ovvero una difesa dissociativa da una condizione di minaccia soverchiante caratterizzata dalla perdita del tono muscolare. Interrogando il paziente, però, nessun pensiero o rappresentazione di minaccia sembrava precedere gli svenimenti. Il terapeuta aveva cercato di indagare con cura le emozioni e le rappresentazioni immediatamente prima della perdita di coscienza, ma si era scontrato con un muro di «non lo so», «niente», «non ricordo». Alessitimico e con scarso monitoraggio metacognitivo, aveva annotato.

Comunque, rifletté il terapeuta, gli svenimenti sono il sintomo che lo ha condotto in un centro di psicoterapia, ma Enrico presenta almeno altri due problemi ciascuno dei quali meriterebbe di per sé un trattamento psicoterapeutico. Il primo è il ritiro sociale. Era apparso subito chiaro che Enrico esercitava un evitamento attivo dei rapporti interpersonali. In particolare lo metteva a disagio trovarsi in situazioni in cui doveva interagire con più di una persona. Purtroppo quando il terapeuta aveva cercato di approfondire la natura di questo disagio aveva incontrato il solito muro di «non lo so» e di risposte vaghe. Aveva chiesto esplicitamente a Enrico se temesse di essere criticato o giudicato male, se provasse emozioni di imbarazzo e vergogna, ma gli stati mentali erano rimasti sostanzialmente opachi. Tutto quello che ne aveva ricavato era che Enrico in mezzo agli altri provava una sensazione di disagio vagamente descrivibile come un senso di estraneità e di separatezza; «un qualcosa di strano», aveva precisato.

Enrico, del resto, non sembrava nemmeno soffrire troppo del suo isolamento sociale. Lo trattava come un dato di fatto, con un tono che esprimeva un rassegnato e moderato rammarico. Il ritiro dalle relazioni si era accentuato con l’inizio dell’università, ma sembrava decisamente un aspetto preesistente. La sensazione di distanza e di diversità dagli altri veniva fatta risalire alle elementari. C’era stata, è vero, una relazione sentimentale, una storia finita male con una ragazza, una rottura dolorosa avvenuta all’inizio dell’università, che sembrava aver ulteriormente scompensato il paziente e accentuato il ritiro. «Disturbo evitante?», «Disturbo schizoide?», annotò il terapeuta, calcando sui punti interrogativi.

Tuttavia aveva avuto modo di trattare pazienti con grave ritiro sociale. Le prime sedute erano sempre faticose, con la sensazione di dover cavare ai pazienti le informazioni dalla bocca e con un senso d’impaccio e fatica a mantenere la relazione con loro. Una fatica che rischia di trasformarsi in noia e in voglia di terminare al più presto la seduta. Invece con Enrico non era successo. A parte le difficoltà a esplorare i contenuti emotivi e ideativi degli stati mentali, la conversazione era scivolata via fluida. Certo, non si può far diagnosi sulle sensazioni, comunque l’impressione non era stata quella di trovarsi con una persona con gravi problemi relazionali.

L’altro problema di Enrico, che da solo avrebbe meritato una psicoterapia, era la sua ossessività. Su questo punto il paziente era stato meno opaco. Aveva raccontato di essere spesso assalito dal dubbio angoscioso di non aver chiuso il gas o la porta di casa. L’idea di poter essere responsabile, per trascuratezza o per dimenticanza, di un danno a qualcuno, specie ai suoi genitori, lo riempiva di una fortissima angoscia. Tuttavia, invece di dar luogo a compulsioni, come ci si sarebbe potuto aspettare, questi timori erano all’origine di complesse ruminazioni in cui il paziente cercava di stabilire per «deduzione logica» se avesse effettivamente chiuso o meno il rubinetto del gas o la porta. La spiegazione che ne dava era una dimostrazione, allo stesso tempo, del suo acume e della sua bizzarria. Queste preoccupazioni, aveva detto, lo tormentavano da molto tempo, sicuramente dall’adolescenza, e negli ultimi tempi si erano accentuate. All’inizio aveva effettivamente eseguito continui controlli per verificare che non avesse commesso le temute dimenticanze. Tuttavia si era accorto che i controlli non eliminavano il dubbio sulle dimenticanze: semplicemente lo trasformavano nel dubbio di non aver controllato bene. Per questo aveva deciso di cercare un ragionamento che avesse potuto dargli la certezza.

Il secondo aspetto rilevante dell’ossessività di Enrico era il suo carattere egosintonico. Prestare la massima attenzione a certe cose era per lui un obbligo morale, punto e basta. Non solo non avrebbe potuto, ma non avrebbe mai voluto fare altrimenti. Enrico presenta un disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), non c’è dubbio. Il terapeuta sapeva bene che a un DOC non necessariamente corrisponde un disturbo di personalità di tipo ossessivo. Rilesse una frase che lo aveva colpito e che aveva trascritto quasi parola per parola: «ogni giorno stilo un piano d’azione giornaliero. Cerco di programmare e di seguire la tabella di marcia. Ogni minimo cambiamento rispetto a quanto stabilito, sia che dipenda da me sia che dipenda dagli altri, mi manda in tilt». No, non sempre ossessività di stato e di tratto stanno insieme, pensò il terapeuta, ma questa volta sembrava proprio di sì. Provò a riassumere: disturbi della coscienza, alessitimia e basso monitoraggio metacognitivo, ritiro sociale, ossessività di stato e di tratto, il tutto condito con un pizzico di bizzarria, mentre nel contatto immediato non si percepiscono particolari difficoltà nella relazione. Ma come si mette insieme tutto questo? Quali sono gli aspetti più importanti della sua psicopatologia? Da dove cominciare la cura?

Nell’organizzazione del Terzo Centro, quando un terapeuta ha difficoltà nel ricostruire le interazioni tra i fattori psicopatologici di un caso complesso chiede di discuterne nella riunione clinica che si tiene ogni giovedì mattina e nella quale i terapeuti del Centro analizzano i casi clinici. Essendo materialmente impossibile discutere di tutti i casi, vengono selezionati solo quelli difficili. Di solito questi appartengono a tre categorie: casi in cui il terapeuta incontra difficoltà nel completare l’assessment, casi in cui sono presenti difficoltà o crisi dell’alleanza terapeutica, casi in cui tecniche e procedure di sperimentata efficacia si rivelano inefficaci.

La discussione fu abbastanza concisa. «Ossessività e ritiro sociale, con una certa bizzarria, potrebbe essere un Asperger», osservò qualcuno. Il terapeuta si sentiva di escluderlo. L’impressione era troppo diversa e, all’anamnesi, le relazioni sociali, per quanto difficoltose, non sembravano così gravemente compromesse. Ad ogni modo avrebbe parlato con la collega del Centro esperta in questo tipo di patologia e avrebbe chiesto come indagare meglio; se l’ipotesi fosse rimasta in piedi le avrebbe chiesto di effettuare un colloquio per un’indagine strutturata.

Si esaminò la relazione tra ossessività, dissociazione e ritiro sociale. Non era scontato che vi fosse una relazione diretta. Il ritiro poteva costituire una cornice di personalità indipendente che, però, poteva aggravare ossessività e dissociazione, privando Enrico degli stimoli e del confronto con la realtà esterna.

Si cominciarono a formulare ipotesi sulle relazioni tra i vari elementi. Un’ipotesi sottolineava il primato della dissociazione. In questo caso Enrico sarebbe stato prima un bambino e poi un ragazzo spaventato e confuso dalle relazioni che progressivamente si era ritirato da queste, sviluppando l’ossessività, nel tentativo di fronteggiare le fantasie di minaccia tipiche di un paziente con un disturbo dissociativo. Enrico, tuttavia, non ricordava eventi traumatici particolari nella sua vita. Andavano però indagate situazioni traumatiche più sottili, come l’interazione con un genitore disturbato, traumatizzante e spaventante, non perché aggressivo ma perché, a sua volta, spaventato.

Un’altra possibilità metteva alla base l’ossessività. L’ossessività di tratto manifestata precocemente poteva averlo fatto sentire diverso dagli altri, impossibilitato a condividere interessi e valori con i coetanei. Di qui il progressivo ritiro sociale. In seguito le attività solitarie da ossessivo probabilmente avevano favorito i fenomeni dissociativi.

Non c’erano elementi sufficienti, aveva concluso il coordinatore, per stabilire una gerarchia tra le diverse componenti psicopatologiche. Le diverse ipotesi andavano tutte esplorate. Tuttavia, dal punto di vista del trattamento era possibile formulare un programma di massima, da rivedere successivamente sulla base dell’aggiornamento dell’assessment. La formulazione del programma terapeutico tenne conto dei diversi ostacoli che si ponevano al processo di cura. Ritiro e ossessività erano, al momento, troppo egosintonici per essere affrontati per primi. In questo caso l’ostacolo sarebbe stato la mancanza di alleanza terapeutica. Un ostacolo iniziale decisamente troppo forte per essere preso d’assalto. Al contrario, Enrico si era rivolto al Centro per curare gli svenimenti. Sull’obiettivo di ridurre le perdite di coscienza l’alleanza sarebbe stata facile.

Per trattare questo sintomo il maggiore ostacolo era rappresentato dallo scarso monitoraggio metacognitivo, che rendeva oscuro ciò che accadeva nella mente del paziente nei momenti che precedevano i faints. «Fai appello al suo senso di responsabilità», aveva consigliato il supervisore al terapeuta. «Spiegagli gli homework di auto-osservazione. Spiegagli che questo è il suo contributo indispensabile al successo della terapia. Raccomandagli di annotare qualunque immagine o pensiero gli passi per la mente appena avverte la benché minima diminuzione del tono muscolare. Aggiungi della psicoeducazione sulle emozioni, se necessario. Commenta in seduta ogni dettaglio che viene fuori. Tieni presente che tutto questo, oltre a darci informazioni, potrebbe risolvere il problema. Se diventa in grado di osservare coscientemente ciò che accade nella sua mente al momento dei disturbi di coscienza, i disturbi di coscienza dovrebbero sparire» (vedi Tabella 1.1).

*Tabella 1.1. Corteo psicopatologico di Enrico*
• Perdite di coscienza improvvise (non sono simulate e sono escluse cause organiche come epilessia, narcolessia, ipoglicemia, ipotensione)
• Alessitimia/Distacco emotivo
• Ritiro sociale
• Senso di estraneità relazionale
• Ossessioni e compulsioni
• Personalità ossessivo-compulsiva (attenzione a dettagli, ordine, organizzazione, rigidità, ecc.)

1.2. Il problema della diagnosi: la crisi della nosografia attuale

Perché iniziare un manuale con un caso così complesso? Un manuale non dovrebbe occuparsi di pazienti la cui diagnosi e la cui patologia siano ben definite, così da permettere una descrizione dettagliata e riproducibile dell’intervento terapeutico?

Il fatto è che la complessità di Enrico non costituisce un’eccezione. Al contrario, l’eccezione è costituita dai pazienti con un’unica, ben definita diagnosi. Tra i pazienti che afferiscono al Terzo Centro, quelli che soddisfano i criteri per la diagnosi di un solo disturbo di personalità (DP) costituiscono una minoranza che si aggira sul 35%. Circa il 37% ha almeno due diagnosi, un altro 16% soddisfa i criteri per tre disturbi di personalità e un altro 12% supera le tre diagnosi. I dati del nostro campione, del resto, non si discostano da quelli riportati in letteratura (Zimmerman, Rothschild e Chelminski 2005). Percentuali analoghe le troviamo se consideriamo le comorbilità tra disturbi di personalità e disturbi sintomatici (Asse I del DSM fino al IV-TR; APA 2000). Queste percentuali sono troppo estese perché possano essere attribuite a errore o insufficienza dei criteri diagnostici. Esse sfidano la stessa idea di una nosografia psichiatrica basata su categorie separate e ben demarcabili le une dalle altre. Per ciò che riguarda i disturbi di personalità, il problema della comorbilità o della co-occorrenza ha dominato così tanto il dibattito nosografico negli ultimi anni che chi ha seguito la discussione non può sottrarsi a un senso di stanchezza all’idea di doversene occupare ancora. Eppure bisogna parlarne, perché il problema è sempre lì, vivo e irrisolto, nei tanti casi «reali» come quelli di Enrico. Per il lettore che non ha seguito il dibattito sui DP, legato essenzialmente alla revisione del DSM-IV-TR, proviamo a riassumere, il più sinteticamente possibile, i termini delle questioni salienti.

1.2.1. Le due classificazioni dei disturbi di personalità nel DSM-5: vantaggi e limiti

L’attuale DSM-5 (APA 2013) ci ha consegnato una duplice nosografia dei DP, nessuna delle quali convince pienamente gli esperti del settore. La nosografia ufficiale è rimasta identica a quella del DSM-IV-TR (APA 2000). In essa un disturbo di personalità è definito come un pattern stabile di esperienza interiore e comportamento che devia marcatamente dalla norma, è pervasivo, crea disagio clinicamente significativo o disadattamento sociale ed insorge nella prima età adulta. Nei DSM-III e IV i DP sono stati suddivisi in dieci categorie diagnostiche, a loro volta raggruppate in tre cluster: il cluster A (eccentrico e bizzarro), che comprende i disturbi schizoide, schizotipico e paranoide; il cluster B (drammatico), che comprende i disturbi borderline, istrionico, narcisista e antisociale; il cluster C (ansioso), che comprende i disturbi dipendente, evitante ed ossessivo-compulsivo (vedi Tabella 1.2). Una nosografia ufficiale sopravvissuta a se stessa, se si tiene conto delle critiche e delle prove che, in questi anni, ne hanno demolito i due punti cardine, ovvero la stabilità e la demarcazione delle categorie diagnostiche.

*Tabella 1.2. I disturbi di personalità nel DSM-IV-TR*
Criteri	Disturbi
A) Un quadro stabile e persistente di esperienza interiore e di comportamento che devia notevolmente da quello atteso nel contesto culturale dell’individuo B) Questo quadro stabile e persistente risulta rigido ed esteso ad un ampio spettro di contesti personali e sociali C) Determina un disagio clinicamente significativo o una compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre importanti aree D) L’esordio non deve essere successivo all’adolescenza o alla prima età adulta E) Non è meglio spiegato in termini di manifestazione o conseguenza di un altro disturbo mentale F) Non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o ad una condizione medica	Cluster A – Paranoide – Schizoide – Schizotipico Cluster B – Antisociale – Borderline – Istrionico – Narcisista Cluster C – Evitante – Dipendente – Ossessivo-compulsivo Disturbo non altrimenti specificato (NAS)

Malgrado un DP sia per definizione un pattern stabile, la stabilità non sembra essere un attributo delle diagnosi categoriali. I soggetti che ricevono una diagnosi non rimangono a lungo all’interno della categoria diagnostica ma oscillano nel corso della loro vita, entrando e uscendo da una o più categorie (Fossati et al. 2000). A essere stabili sembrano essere alcuni tratti disadattivi basici che sottendono queste fluttuazioni (per una discussione vedi Clark 2005, 2007).

Ancor più seria per la credibilità della nosografia ufficiale è l’incapacità di delimitare le categorie diagnostiche. Come abbiamo ricordato, circa il 60% dei pazienti con un DP riceve la diagnosi di almeno un altro DP e percentuali analoghe di comorbilità si riscontrano con i disturbi sintomatici (Clark 2007). Ora, essendo per definizione la personalità una, l’idea che un individuo possa avere contemporaneamente due o più personalità «disturbate» appare quanto meno bizzarra.

Proprio la difficoltà a definire i confini delle categorie ha portato alla proposta di una classificazione basata su concetti dimensionali. Secondo questa prospettiva, le diverse sfaccettature dei disturbi di personalità possono essere descritte in modo empiricamente fondato da una struttura di tratti dimensionali organizzata gerarchicamente. All’apice della gerarchia vi sarebbero degli ampi domini (da 3 a 5) entro cui sarebbero collocabili le diverse sfaccettature che una personalità disturbata può assumere. Sono stati proposti diversi strumenti per catturare queste dimensioni (vedi Krueger et al. 2011) ed è stato compiuto un grande sforzo per unificarli.

Questa spinta a modificare la nosografia categoriale del DSM-IV verso un modello dimensionale e le relative resistenze che ha suscitato hanno portato nel DSM-5 alla formulazione di un modello alternativo per la diagnosi di DP,costituito da un sistema misto, categoriale e dimensionale. L’inserimento di tale modello diagnostico ha subito varie vicende. Inizialmente era stato proposto come unico nuovo sistema di classificazione, poi, dopo un lungo e acceso dibattito (vedi Shedler et al. 2010, solo per citare una delle varie critiche rilevanti contrarie a tale sistema), si pensò di inserirlo solo in appendice come «proposta da sottoporre ad ulteriori ricerche». Alla fine, invece, è stato inserito nel manuale in una Sezione III denominandolo, appunto, «Modello alternativo per la diagnosi di DP», creando così un’anomalia nosografica: un manuale con due sistemi di classificazione diversi, entrambi utilizzabili legittimamente, ma entrambi dal futuro incerto.

Tuttavia questo modello contiene alcune importanti novità. Forse la più importante è costituita dal criterio A, che contiene, insieme, una ridefinizione del concetto di «disturbo di personalità» e una formulazione della gravità generale del funzionamento della personalità. Riprendendo una proposta formulata da Livesley (2003), un disturbo di personalità viene definito come un disturbo delle funzioni del Sé e delle relazioni interpersonali. I disturbi del Sé vengono suddivisi in disturbi dell’identità e disturbi dell’autodirezionalità (vedi Tabella 1.3), mentre i disturbi delle relazioni interpersonali includono la mancanza di empatia e le difficoltà a stabilire relazioni intime (vedi Tabella 1.4). Su questi elementi il clinico deve stabilire un livello di gravità lungo una scala Likert che va da 0 (nessun malfunzionamento) a 4 (malfunzionamento estremo).

*Tabella 1.3. Self/Sé nel DSM-5*
Identità	Autodirezionalità
1) Senso soggettivo di sé	1) Capacità di darsi scopi e obiettivi
2) Capacità di regolazione dell’autostima	2) Capacità di darsi standard realistici, flessibili e coerenti
3) Regolazione emotiva	3) Capacità di comprendere e riflettere sui propri processi mentali

*Tabella 1.4. Relazioni interpersonali (DSM-5)*
Empatia	Intimità
1) Capacità di comprendere le esperienze interiori e le motivazioni degli altri	1) Capacità di mantenere relazioni stabili e soddisfacenti
2) Capacità di comprendere le prospettive e le opinioni degli altri anche quando non coincidono con le proprie	2) Capacità e desiderio di impegnarsi in relazioni intime, di cura e basate sulla reciprocità
3) Capacità di comprendere l’effetto sugli altri del proprio comportamento	3) Capacità di cooperazione

Non c’è dubbio che la definizione basata sulle funzioni della personalità coglie l’essenza di un disturbo di personalità meglio del «pattern stabile» della classificazione tradizionale. Inoltre la diagnosi categoriale del DSM-IV trasferita nel DSM-5 non offre di per sé alcuna indicazione di gravità tale che all’interno della stessa categoria possano rientrare casi con livelli assolutamente diversi di funzionamento sociale e sofferenza soggettiva.

Mentre la nuova definizione generale di disturbo di personalità può trovare un facile consenso, a suscitare la maggiore opposizione alla proposta è stato il secondo criterio, il criterio B, che negli intenti degli autori avrebbe dovuto segnare il passaggio ad una nosografia dimensionale. Secondo questo criterio la patologia specifica della personalità viene descritta attraverso un insieme di tratti organizzati in cinque grandi domini: affettività negativa, distacco, antagonismo, disinibizione e psicoticismo. Ciascun dominio è a sua volta composto da diverse sfaccettature, per un totale di 25.

Dunque, secondo il modello alternativo, un DP andrebbe diagnosticato in primo luogo per il grado di alterazione funzionale della personalità nel Sé e nelle relazioni interpersonali (criterio A) e, successivamente, lungo le dimensioni dei cinque tratti maggiori e delle 25 sfaccettature (criterio B). A questi criteri maggiori seguono quelli che definiscono il carattere pervasivo e stabile dei DP (criteri C e D) e quelli per escludere un DP in presenza di altre spiegazioni della patologia (criteri E, F e G).

È anche previsto che specifiche combinazioni di alterazioni nelle funzioni e tratti disfunzionali delineino delle specifiche categorie diagnostiche. Della classificazione tradizionale vengono mantenute sei categorie, costituite dai disturbi antisociale, evitante, borderline, narcisista, ossessivo-compulsivo e schizotipico. Tuttavia, poiché la diagnosi viene fatta primariamente sulla base di disfunzioni e di tratti e poiché vi è ampia possibilità di diagnosticare un DP al di fuori di queste categorie, non è eccessiva malizia pensare che quest’ibrida presenza sia stata un espediente transitorio escogitato dalla task force DSM-5 per non disorientare troppo i clinici abituati alle diagnosi categoriali, in attesa che una volta che la comunità si fosse assuefatta alle nuove procedure si potesse passare ad un sistema coerentemente dimensionale.

Alla fine, dunque, permanendo i due modelli diagnostici nello stesso manuale, la scelta su quale di essi utilizzare viene rimandata ai clinici.

Le critiche, sostanzialmente, ruotano intorno all’idea che il modello alternativo non sia utilizzabile nella pratica clinica quotidiana (Shedler et al. 2010). Ci sono diversi modi in cui essa è stata articolata, ma noi ci soffermeremo su tre argomenti: a) l’eccessiva complessità descrittiva nel raggiungere una diagnosi chiara; b) la natura troppo astratta delle dimensioni dei tratti; c) l’assenza di un’indicazione chiara di trattamento derivante dalla valutazione diagnostica.

Per esempio, se un soggetto con diagnosi di disturbo di personalità borderline (DBP) si sottopone a una valutazione con PID-5 (Personality Inventory for DSM-5, ovvero lo strumento diagnostico self-rating inserito nel DSM-5 per individuare i tratti e le facets) potremmo evidenziare dei tratti che non ci aiutano nella diagnosi ma che forse possono essere interessanti per il trattamento, come la labilità emotiva, la distraibilità, l’ostilità. Da una parte il DSM-IV ci obbligava ad una scelta bianco o nero, dall’altra la nuova proposta del DSM-5 rischia di costringerci a produrre un mero elenco di tratti. Affermare che un paziente antisociale sia manipolativo, menzognero, non empatico e ostile è una verità riconosciuta da tutti, ma come questi tratti interagiscano tra loro per produrre alcune tipiche manifestazioni di tale disturbo non è possibile dedurlo né dal DSM-IV né dal 5. Gli strumenti di valutazione utilizzati non hanno peraltro scale di controllo di validità, ma sono autocompilati dal paziente. Nella pratica clinica sono inutilizzabili per i pazienti meno consapevoli e più manipolativi come, per esempio, quelli con disturbo antisociale. In ultimo, come di seguito spiegato, non è facile stabilire quando un tratto personologico assuma di per sé la dignità di un disturbo. Per essere più espliciti, noi siamo tenuti a trattare i pazienti in cui il disturbo provoca disagio clinicamente significativo, ma questo non equivale ad affermare che i tratti presenti o rilevati in un determinato paziente siano di per sé patologici. Tale problema è esattamente il risultato dell’aver privilegiato l’approccio statistico a quello clinico, per cui è diventato clinicamente rilevante ciò che è statisticamente significativo e non viceversa.

1.2.2. La complicazione eccessiva della diagnosi

Il primo argomento suona all’incirca così: i clinici sono abituati a osservare le costellazioni dei sintomi e a formulare, su questa base, delle diagnosi categoriali da utilizzare per impostare il trattamento come comodo veicolo di comunicazione tra colleghi. Rispetto a questa cultura le procedure del modello alternativo, con la valutazione delle disfunzioni del Sé e delle relazioni e la successiva valutazione dei tratti e delle sfaccettature, sono troppo lunghe, complesse e di difficile comunicazione. Se si volesse imporle, il rischio più probabile sarebbe quello di vederle restare lettera morta. Semplicemente non verrebbero usate e le diagnosi si farebbero affrettatamente ictu oculi. Ciò comporterebbe, poi, un rischio ancora più grave: quello di veder sparire i DP dall’orizzonte culturale di psichiatri e psicologi clinici.

Sono valutazioni che hanno un certo fondamento. Tuttavia, se si fosse convinti della validità del contenuto del modello alternativo, l’atteggiamento tenuto andrebbe contrastato apertamente, piuttosto che rinunciare ad una nosografia valida. È certamente auspicabile disporre di diagnosi così chiare che, col solo pronunciare il nome, siano in grado di veicolare informazioni cliniche significative, ma che si fa quando la realtà non corrisponde all’auspicio? Provate a trasmettere con una semplice etichetta diagnostica l’informazione clinica relativa al caso di Enrico e vedrete come gli aspetti significativi andranno immediatamente perduti. Rapidità diagnostica e semplicità comunicativa sono ideali da perseguire, ma non fino al punto da sacrificare a essi l’accuratezza e il contenuto informativo.

1.2.3. Quale dimensione considerare? I tratti di personalità

Se il primo argomento è debole, non lo è affatto il secondo: i tratti che dovrebbero descrivere gli aspetti fondamentali della personalità si collocano ad un livello troppo generale per essere utilizzabili nel lavoro clinico. D’altronde si tratta di una teoria che nasce in ambito accademico piuttosto che clinico, e in tale ambito è stata prevalentemente testata (Shedler et al. 2010).

Il clinico è interessato in primo luogo all’esperienza soggettiva del paziente. Egli vuole sapere cosa concretamente immagina, pensa, prova il suo paziente, quali sono i suoi scopi e i suoi comportamenti, come vede se stesso e le sue relazioni e come tutto questo concretamente impatta nella sua vita quotidiana. Quali informazioni ci dà in proposito sapere, per esempio, che il paziente ha un’alta «affettività negativa»? Il clinico che si imbatte in una ricerca condotta con una delle principali scale dimensionali può trovare astratti i risultati che, di solito, vengono riassunti in un numero limitato – da 3 a 5 – di tratti generali. I sostenitori dell’approccio dimensionale ribattono che questi strumenti hanno una struttura gerarchica e che i tratti generali sono costituiti da sfaccettature (facets) clinicamente interessanti. Se consideriamo, ad esempio, il PID-5, notiamo che a loro volta le facets sono costruite con le risposte a domande che coincidono largamente con quelle che pongono i clinici. La struttura degli elementi di ordine inferiore può essere perciò utilizzata per tracciare profili articolati e clinicamente significativi dei singoli pazienti. Il lavoro per colmare lo iato esistente tra pratica clinica e concetti dimensionali è possibile e potrebbe dare risultati utili. Tuttavia proprio il fatto che si senta il bisogno di tradurre le dimensioni in termini clinici dimostra quanto il problema sia lontano da una soluzione.

1.3. Dalla diagnosi al trattamento

Le considerazioni precedenti portano al punto più critico del modello alternativo, e nodo cruciale di questo libro: la difficoltà di definire, sulla base delle diagnosi, le linee di trattamento.

Il modello alternativo prevede la valutazione dei tratti di personalità sulla base delle teorie del Five Factor Model (FFM), identificando, come descriveremo meglio in seguito, 5 domini di tratti principali (affettività negativa, antagonismo, disinibizione, distacco, psicoticismo) e 25 tratti di ordine inferiore o facets (introversione, ansia da separazione, ecc.; vedi Tabella 1.5). Se i tratti di ordine superiore definiscono in maniera troppo astratta per il clinico ciò che rende le persone simili tra loro, l’uso delle facets di ordine inferiore spinge eccessivamente nella direzione opposta delle teorie della personalità, verso ciò che distingue il singolo dalle altre persone. In questo modo il modello alternativo, più che a una diagnosi, sembra condurre a un assessment accurato del caso singolo. Fatto encomiabile, per molti versi, ma che presenta il problema delle indicazioni di trattamento. Una diagnosi dovrebbe individuare un gruppo di soggetti sufficientemente omogeneo da rispondere in modo analogo alle stesse linee di trattamento, mentre un’articolazione diagnostica troppo complessa rischia di essere inutilizzabile a questo scopo. In realtà hanno avuto buon gioco Clarkin e Huprich (2011) nell’affermare che tale modello lascia il clinico privo di indicazioni terapeutiche.

*Tabella 1.5. DSM-5: modello alternativo per la diagnosi dei disturbi di personalità (Sezione III)*
CRITERI
Livello di funzionamento A) Moderata o più grave compromissione del funzionamento (del Sé e interpersonale) della personalità, che si manifesta con caratteristiche difficoltà in due o più delle seguenti quattro aree: 1. Identità 2. Autodirezionalità 3. Empatia 4. Intimità
Tratti di personalità patologici B) Uno o più tratti patologici compresi tra cinque grandi domini: 1. Affettività negativa 2. Distacco 3. Antagonismo 4. Disinibizione 5. Psicoticismo che a loro volta comprendono 25 sfaccettature
Pervasività e stabilità C) La compromissione del funzionamento e i tratti patologici sono relativamente inflessibili ed estesi ad un ampio spettro di contesti personali e sociali D) L’esordio non deve essere successivo all’adolescenza o alla prima età adulta
Spiegazioni alternative per la patologia di personalità E) La compromissione del funzionamento e i tratti patologici non sono meglio spiegati in termini di manifestazione o conseguenza di un altro disturbo mentale F) Non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o a una condizione medica G) Non possono essere considerati normali per la fase di sviluppo o l’ambiente socioculturale
DISTURBI
1. Disturbo antisociale di personalità 2. Disturbo evitante di personalità 3. Disturbo borderline di personalità 4. Disturbo narcisistico di personalità 5. Disturbo ossessivo-compulsivo di personalità 6. Disturbo schizotipico di personalità 7. Disturbo tratto-specifico

*Tabella 1.6. Le critiche al DSM-5*
Diagnosi eccessivamente complessa (troppi aspetti da valutare)
Dimensione dei tratti troppo astratta, che nasce in ambito accademico e non clinico (testata su popolazione non clinica)
Dalla valutazione diagnostica non derivano indicazioni chiare per il trattamento

Vi è in questa discussione un aspetto molto pratico che è rimasto largamente implicito. Un momento determinante nel dibattito sui cambiamenti del DSM-5 è stata la pubblicazione sull’«American Journal of Psychiatry» di un commento critico firmato da autorevolissimi psicoterapeuti (Shedler et al. 2010), molti dei quali sono ideatori di trattamenti efficaci per il disturbo borderline. Il fatto è che il tentativo di passare a una classificazione decisamente dimensionale è avvenuto proprio quando per la principale categoria diagnostica si sviluppavano trattamenti di provata efficacia. Così si è fatto strada tra gli esperti il dubbio che non valesse la pena rinunciare alle categorie proprio nel momento in cui si cominciava a curare con successo la più discussa e studiata di esse. Tuttavia per lo stesso disturbo borderline di personalità si pone il paradossale problema che se da un lato esistono prove che esso costituisce una coerente ed unitaria entità diagnostica (Clifton e Pilkonis 2007; Clarkin, Hull e Hurt 1993; Fossati et al. 2000; Sanislow, Grilo e McGlashan 2000), dall’altro la frequente comorbilità con altri DP crea sottoclassi diverse di pazienti che mostrano sintomi e problemi specifici e che richiedono un’articolazione diversificata dei trattamenti (Critchfield, Clarkin, Levy e Kernberg 2008). Dato che il numero delle codiagnosi con altri disturbi di personalità e specifici fattori funzionali, come la capacità di riconoscere e regolare le emozioni (McMain et al. 2013), influenza l’esito dei trattamenti efficaci, vi è un’esigenza diffusa di adeguare il trattamento del DBP alle specifiche e diverse configurazioni psicopatologiche che questo disturbo presenta (vedi Tabella 1.6).

A questo punto il cerchio si chiude, riportandoci al problema di partenza che abbiamo cercato di esemplificare con il caso di Enrico: come strutturare trattamenti efficaci di fronte alle sovrapposizioni delle diagnosi e alla conseguente eterogeneità della psicopatologia? Vedremo come tale questione possa trasformarsi da problema a opportunità di poter comprendere meglio la natura della patologia della personalità.

1.4. La diagnosi di Enrico

Per lasciare ai lettori una riflessione sul confronto tra i due sistemi diagnostici, concludiamo il capitolo con la diagnosi di Enrico secondo i due modelli.

*Tabella 1.7. La diagnosi di Enrico*
Secondo DSM-IV-TR	Secondo DSM-5 (Sezione III)
Diagnosi soddisfatta per: 1. Disturbo evitante (4 criteri) 2. Disturbo ossessivo-compulsivo (6 criteri) 3. Disturbo depressivo (6 criteri)	Livello di funzionamento della personalità: 1. Identità = 3 (severa disfunzione) 2. Autodirezionalità = 3 (severa disfunzione) 3. Empatia = 4 (estrema disfunzione) 4. Intimità = 4 (estrema disfunzione)
Diagnosi sottosoglia per: 1. Disturbo passivo-aggressivo (3 criteri) 2. Disturbo schizoide (3 criteri)	Domini e facets: 11 facets di livello elevato che contribuiscono ai domini di: 1. Affettività negativa 2. Distacco 3. Psicoticismo Il livello più alto viene raggiunto nel dominio del distacco
	Diagnosi soddisfatta per: 1. Disturbo evitante: presenza di tutti i tratti (facets) richiesti: ansia, ritiro, anedonia, evitamento dell’intimità 2. Disturbo ossessivo-compulsivo: presenza di tutti i tratti richiesti: perfezionismo rigido, perseverazione, evitamento dell’intimità, affettività coartata 3. Disturbo schizotipico: presenza di 4 dei 6 tratti richiesti: disregolazione cognitiva e percettiva, eccentricità, affettività coartata, ritiro

2.
Conoscere la mente
di Antonino Carcione, Antonio Semerari, Livia Colle

2.1. La metarappresentazione

Finché la psicologia scientifica è stata comportamentista non poteva occuparsi di come gli esseri umani sviluppassero una conoscenza della loro stessa mente. I comportamentisti avevano aderito con entusiasmo al principio metodologico centrale del neopositivismo logico, principio secondo il quale una teoria scientifica deve essere costruita in un linguaggio le cui proposizioni siano riconducibili ad asserti basati su osservazioni, oppure logicamente riconducibili agli asserti di base. Ogni altra affermazione era considerata «priva di significato». In psicologia questo significava che andavano escluse dal linguaggio scientifico teorie che facessero riferimento a qualcosa di non osservabile, come le rappresentazioni. Se non si poteva parlare di rappresentazioni e pensieri, figuriamoci se si poteva parlare di pensieri sui pensieri o di metarappresentazioni. C’è voluta una rivoluzione, la rivoluzione cognitiva, per poter dare dignità scientifica alla nostra esperienza quotidiana: secondo il cognitivismo il comportamento è mosso da rappresentazioni che chiamiamo scopi e desideri ed è regolato da altre rappresentazioni che chiamiamo credenze. Tuttavia, nell’entusiasmo per la rivoluzione trionfante e affascinati dall’intelligenza delle macchine, i cognitivisti per un po’ trascurarono il fatto che gli esseri umani, oltre a produrre rappresentazioni, ci riflettono sopra, così come riflettono sulle rappresentazioni che attribuiscono agli altri, e che queste riflessioni sui pensieri e gli stati mentali hanno un’enorme importanza nel determinare il loro comportamento e la loro vita sociale.

Per la verità questo problema viaggiava un po’ in sordina, in una specie di scompartimento di terza classe, inconsapevole della propria importanza, nell’ambito della psicologia dello sviluppo e dell’apprendimento. Fu inizialmente la psicologia dello sviluppo a segnalare l’importanza di saper osservare e conoscere i propri processi mentali, cioè di quella che Flavell definì «la capacità di pensare i pensieri», o anche metacognizione (Flavell 1979). Da queste iniziali osservazioni la psicologia dello sviluppo si concentrò sullo studiare, con serietà e modestia, come la metacognizione influenzasse l’apprendimento, ad esempio chiedendosi come influenza l’apprendimento ciò che i bambini sanno alle diverse età su come funziona la loro memoria. Si sfiorava così il cuore del problema più generale: in che modo il tentativo di conoscere i nostri contenuti e processi mentali è qualcosa che struttura la nostra stessa mente in un modo che ci rende tipicamente umani?

Paradossalmente, fu una domanda posta dai primatologi a far emergere l’importanza della questione. Nel 1978 Premack e Woodruff, dopo aver descritto le prodezze di un’intelligentissima scimpanzé, posero alla comunità scientifica la domanda che divenne anche il titolo del loro articolo: «gli scimpanzé hanno una teoria delle mente?». Questo pionieristico lavoro si poneva il quesito di cosa permettesse ai primati di avere una vita sociale complessa e articolata, più simile a quella degli umani che a quella degli altri mammiferi. Gli scimpanzé vivono in gruppo secondo un’organizzazione sociale gerarchica assai complessa, cacciano in gruppo, comunicano tra di loro con un ricco repertorio di gesti e azioni e sviluppano rapporti privilegiati e di maggiore intimità con alcuni conspecifici, con i quali si intrattengono in diverse attività puramente sociali. L’intento di Premack e Woodruff era perciò quello di capire se queste complesse competenze sociali dei primati si basassero su una capacità cognitiva, un ragionamento, che permettesse di interpretare e prevedere il comportamento grazie all’attribuzione di stati mentali. Fu così che nel loro famosissimo articolo si chiesero se gli scimpanzé hanno una teoria della mente. In altre parole, se essi fossero in grado, nel loro «scimpanzese interno», di formulare un ragionamento e una previsione del comportamento basata su attribuzioni d’intenzioni, desideri o emozioni di questo tipo: «Maschio Beta vorrebbe andare da maschio Gamma per provocarlo e rubargli il cibo ma Gamma sembra essere parecchio nervoso al momento, si potrebbe finire per litigare. Meglio tenersi alla larga!». Ai primatologi Premack e Woodruff dobbiamo perciò l’espressione teoria della mente (TOM - Theory of Mind), successivamente adottata dall’intera comunità scientifica interessata allo studio delle capacità mentali che permettono le interazioni sociali (social cognition).

Ad ogni modo, la risposta della comunità scientifica al quesito sugli scimpanzé fu che mancava una prova. Per poter essere certi che un essere vivente possiede una teoria della mente si dovrebbe dimostrare che egli è in grado di prevedere il comportamento dell’altro quando quest’ultimo è guidato non da una rappresentazione corretta della realtà, bensì da una soggettivamente scorretta, ovvero una falsa credenza. Una falsa credenza, infatti, non può essere osservata nel mondo esterno. Essa è un oggetto totalmente mentale, come una fantasia o un falso ricordo, un qualcosa che ha la consistenza del sogno, ma che può spingere all’azione chi la possiede. Chi spiega il comportamento di un altro attribuendogli una falsa credenza mostra, dunque, di sapere che esistono oggetti puramente mentali e, quindi, dimostra di possedere una TOM. Fu con la scoperta da parte di Baron-Cohen, Leslie e Frith (1985) di un deficit di teoria della mente nell’autismo che l’interesse per il modo in cui gli esseri umani conoscono gli stati mentali esplose in tutte le aree della psicologia e coinvolse la clinica e la psicoterapia, dando così il via a infiniti filoni di ricerca e, problema non trascurabile, a una certa babele di linguaggio.

La ricerca successiva sulla TOM ha evidenziato in modo sempre più dettagliato come la capacità di spiegare il comportamento degli altri attraverso un’interpretazione mentalistica sia presente, sebbene in forme semplici e non verbali, già a partire dalla fine del primo anno di vita (Tomasello 2009). I bambini di quell’età sono in grado di formarsi aspettative precise sui comportamenti altrui a seconda delle intenzioni che ne sono alla base e di agire differentemente in risposta a tali intenzioni (Onishi e Baillargeon 2005; Surian, Caldi e Sperber 2007). Inizialmente gli stati mentali non sono ancora rappresentazioni simboliche ed esplicite, non sono verbalizzabili e su di essi non vengono fatti ragionamenti complessi. Eppure i bambini mostrano, modulando in modo appropriato il loro comportamento, di riconoscere le intenzioni e motivazioni che spingono all’azione, di riconoscere che le persone sono agenti mentali e di reagire comportamentalmente in modo adeguato a seconda delle emozioni, intenzioni, conoscenze o desideri degli altri. In seguito, con lo sviluppo delle abilità rappresentative e linguistiche, la teoria della mente si arricchisce e diventa esplicita, ovvero consapevole e verbalizzabile, rendendo l’individuo progressivamente sempre più capace di ragionare sugli stati mentali propri e altrui (Lecce et al. 2010).

2.2. Metarappresentazione e psicopatologia

Il risultato di Baron-Cohen, Leslie e Frith (1985) indirizzò l’interesse dei clinici sul fatto che una difficoltà nel comprendere gli stati mentali potesse svolgere un ruolo non solo in disturbi neurobiologici, come lo spettro autistico, ma anche in altri disturbi, quali i disturbi di personalità caratterizzati da fallimenti in alcuni compiti di vita essenziali e da difficoltà nel formare o mantenere relazioni significative. Per ciò che riguarda i DP, Fonagy (1991) suggerì che una riduzione del «pensare sul pensiero» potesse contribuire a spiegare la sintomatologia borderline. L’idea che un disturbo nella comprensione della mente fosse un aspetto centrale della patologia della personalità si diffuse rapidamente.

Presso il Terzo Centro l’interesse per la metacognizione nacque dal più classico dei problemi psicoterapeutici: cosa rende alcuni pazienti «difficili» dal punto di vista della relazione terapeutica? Innanzitutto, per non impantanarci nella babele del linguaggio, abbiamo definito il costrutto metacognizione, utilizzandolo nell’accezione più simile di Mary Main (la capacità di riconoscere la natura rappresentazionale del pensiero) piuttosto che in quella più ristretta alla quale fanno riferimento gli psicologi dell’apprendimento (cognizione della cognizione). Più precisamente, nel nostro modello per «metacognizione» s’intende l’insieme di abilità che consentono di riconoscere stati mentali propri e altrui, di riflettere e ragionare su di essi e di utilizzare tali informazioni per padroneggiare la sofferenza soggettiva (Carcione et al. 2010, 2011; Semerari et al. 2003).

La nostra ipotesi era, appunto, che un disturbo nella capacità di comprendere la propria mente e la mente del terapeuta da parte del paziente svolgesse un ruolo importante nel creare difficoltà relazionali in psicoterapia. Per testare quest’ipotesi registrammo, trascrivemmo e analizzammo centinaia di sedute di psicoterapia (Semerari 1999) di pazienti difficili. Ciò che emerse da questo lavoro fu che i pazienti difficili presentavano sì un disturbo della metacognizione, ma che il tipo di disturbo, l’area della metacognizione disfunzionale, variava da paziente a paziente. Formulammo così l’ipotesi della specificità del disturbo metacognitivo, o ipotesi del «gioco del tennis» (Semerari et al. 2007). Secondo questa ipotesi, analogamente alla capacità di giocare a tennis, che è dovuta ad un insieme di abilità molto diverse tra loro – velocità, precisione, senso della posizione, abilità nel dritto, nel rovescio, nella battuta –, la metacognizione sarebbe costituita da un insieme di funzioni diverse e tali funzioni possono essere selettivamente e diversamente danneggiate in differenti tipologie di pazienti con disturbi di personalità. Da questa ipotesi nacquero due strumenti di valutazione: la scala per la valutazione della metacognizione (SVaM) – acronimo inglese MAS – (Carcione et al. 1997, 2008, 2010; Semerari et al. 2003) e l’intervista per la valutazione della metacognizione (IVaM) – acronimo inglese MAI – (Semerari et al. 2012; Pellecchia et al. 2015). A questi se ne è recentemente aggiunto un terzo in forma di questionario autosomministrato: la Metacognition Self-Assessment Scale (MSAS; cfr. Pedone et al.submitted).

Non tedieremo il lettore con una rassegna particolareggiata degli studi clinici sulla capacità di comprendere la mente, né con una discussione sui diversi concetti e sulla diversa terminologia utilizzata per designarla nei vari ambiti di ricerca. Ci limiteremo a descrivere il costrutto nel senso in cui sarà utilizzato in questo libro, trattando le somiglianze e le differenze con due concetti clinici largamente presenti in letteratura: il concetto di metacognizione utilizzato da Adrian Wells (2000) e il concetto di mentalizzazione di Bateman e Fonagy (2004). Inoltre, nel descrivere il costrutto e le diverse sottofunzioni in cui si articola, osserveremo come si manifestano clinicamente i disturbi delle diverse funzioni.

2.3. La metacognizione

Gli esseri umani pensano, immaginano, ricordano, fantasticano, prevedono scenari futuri. In ciascuna di queste attività essi creano oggetti mentali, privi di consistenza materiale ma fondamentali nel costruire il mondo in cui viviamo. Chiamiamo tali oggetti rappresentazioni mentali. Inoltre, gli esseri umani sembrano in grado di osservare queste rappresentazioni, di riflettere su di esse e di modificarle. Noi possiamo riferire i nostri pensieri, possiamo sapere quali emozioni ci provocano, possiamo indugiare nel veder scorrere le nostre fantasie, siamo in grado di dire se una certa immagine mentale corrisponde o meno ad un evento realmente vissuto, riflettiamo sui nostri ragionamenti e le nostre credenze al punto da poter darci torto da soli. Allo stesso modo, attribuiamo agli altri pensieri, fantasie, emozioni, processi di ragionamento, atteggiamenti emotivi, attraverso l’osservazione di ciò che dicono e fanno e delle loro espressioni emotive. In sintesi, creiamo oggetti mentali su oggetti mentali, rappresentazioni di rappresentazioni. Chiamiamo queste rappresentazioni di secondo ordine metarappresentazioni. Attraverso le metarappresentazioni gli esseri umani sviluppano la capacità di comprendere gli stati e i processi mentali propri ed altrui e di utilizzare questa capacità per regolare se stessi e le proprie relazioni interpersonali nella vita quotidiana. Chiamiamo «metacognizione» questa conoscenza dinamica, questa cognizione della mente, basata su metarappresentazioni.

Come in ogni sistema di conoscenza, anche nella metacognizione possiamo distinguere domini, contenuti e abilità o funzioni. I domini sono gli ambiti in cui la metacognizione viene applicata. Due macrodomini sono costituiti, ad esempio, dalla distinzione tra conoscenza della propria mente e conoscenza della mente altrui. Un esempio di dominio più ristretto è costituito dall’ambito stesso in cui nacque il concetto, quello della psicologia dell’apprendimento (Flavell 1976), ovvero la conoscenza dei propri processi cognitivi, come la memoria e le strategie di apprendimento.

I contenuti metacognitivi sono costituiti da assunti e credenze su pensieri, emozioni e, in generale, su stati e processi mentali. Un esempio disfunzionale di contenuto metacognitivo potrebbe essere la credenza «se sono in imbarazzo vuol dire che sono un debole». Il ruolo clinico dei contenuti metacognitivi disfunzionali è stato approfondito da Adrian Wells (2000), che li considera rilevanti nella genesi e nel mantenimento di ansia e depressione. Secondo la prospettiva dell’autore in alcuni disturbi, ad esempio nel disturbo d’ansia generalizzato (DAG), esistono due tipi di credenze concernenti l’essere preoccupati e ansiosi. Il primo tipo di credenze ruota intorno all’idea che preoccuparsi per un potenziale evento negativo sia un fatto positivo perché permette di evitarlo e di essere preparati alle conseguenze qualora dovesse verificarsi. Tuttavia, la stessa persona può anche avere credenze negative sul fatto di preoccuparsi. Ad esempio, può ritenere che preoccuparsi e provare ansia sia una prova di debolezza psichica, per cui non sarà in grado di svolgere i suoi compiti, che non reggerà l’impatto emotivo di un eventuale fallimento, che impazzirà e così via.

Secondo Wells, nel DAG queste credenze metacognitive innescano un doppio processo, il cui risultato sarà di mantenere l’individuo in una condizione permanente di ansia e preoccupazione. Le convinzioni positive sul fatto di preoccuparsi all’affacciarsi dell’eventualità di un evento negativo attivano le preoccupazioni concernenti l’evento. Queste preoccupazioni sull’evento (che Wells chiama preoccupazioni di tipo 1) non darebbero luogo, da sole, al DAG se non ci fossero le credenze metacognitive negative rispetto al fatto di preoccuparsi. Quando queste credenze si attivano, l’individuo valuta in modo catastrofico le proprie preoccupazioni e si preoccupa per le proprie preoccupazioni. Queste preoccupazioni – di tipo 2, o metapreoccupazioni – aumentano l’ansia, fanno convergere su di essa le risorse attentive, distolgono dal compito e innescano strategie disfunzionali di coping che, nell’insieme, stabilizzano la sintomatologia. Il ruolo dei contenuti metacognitivi disfunzionali è stato approfondito in particolare nei disturbi d’ansia, tuttavia essi possono avere un peso anche nei DP. Ad esempio, la credenza che le proprie emozioni siano sbagliate può attivare nei pazienti borderline forme di autocritica distruttiva, aumentare il senso d’indegnità e ridurre ulteriormente la capacità di regolazione emotiva (Linehan 1993).

Oltre al ruolo delle specifiche credenze metacognitive disfunzionali tipiche dei diversi disturbi, è stato studiato il ruolo delle abilità necessarie per poter riflettere sugli stati mentali propri e altrui, costruendo metarappresentazioni e ragionando su di esse per risolvere compiti psicologici e fronteggiare la sofferenza (Tabella 2.1). Questoinsieme di abilità consente di: a) attribuire e riconoscere stati mentali a sé e agli altri a partire da espressioni facciali, stati somatici, comportamenti ed azioni; b) riflettere e ragionare sugli stati mentali; c) utilizzare le informazioni sugli stati mentali per decidere, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali e padroneggiare la sofferenza soggettiva. Chiamiamo queste abilità funzioni metacognitive (Carcione et al. 2010, 2011; Semerari et al. 2014).

*Tabella 2.1. Abilità che costituiscono la metacognizione*
• Attribuire e riconoscere stati mentali a sé e agli altri a partire da espressioni facciali, stati somatici, comportamenti ed azioni
• Riflettere e ragionare sugli stati mentali
• Utilizzare le informazioni sugli stati mentali per decidere, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali e padroneggiare la sofferenza soggettiva

Per chiarire l’equivoco che potrebbe nascere da una sovrapposizione che si riferisce al termine metacognizione precisiamo che si parla di «credenze (contenuti) metacognitive» quando l’attenzione del clinico è rivolta alle idee e alle credenze in base alle quali vengono interpretati e valutati i contenuti e i processi mentali: si tratta, dunque, di pensieri sui pensieri, o credenze su credenze. Si parla, invece, di «funzioni metacognitive» riferendosi alle diverse abilità che si esercitano sui contenuti mentali, ovvero alle funzioni che rendono l’essere umano capace di riconoscere i propri pensieri ed emozioni, di ragionarvi in modo coerente, di distinguere tra fantasia e realtà, e così via. Esse costituiscono, per così dire, il saper fare della metacognizione e si rivelano fondamentali per affrontare momenti di difficoltà, ovvero qualora ci si senta in balia di emozioni negative o si debbano affrontare difficoltà relazionali. Alcune funzioni possono essere considerate dominio-specifiche. Ad esempio, la capacità di riconoscere le espressioni emotive dei volti si applica solo nel dominio della conoscenza della mente altrui. Altre, come il distinguere tra rappresentazione e realtà esterna o tra credenze e fatti, sono presenti in ciascun dominio.

Fatta quest’avvertenza, descriveremo brevemente le principali funzioni metacognitive dividendole in base ai domini «sé – altri» e le abilità di regolazione degli stati mentali in base al livello di conoscenza metacognitiva che richiedono per essere efficaci (Tabella 2.2). Ci soffermeremo in particolare su come è possibile valutare clinicamente il disturbo di ciascuna funzione.

*Tabella 2.2. L’architettura della metacognizione con le sue sotto-funzioni*
Autoriflessività	Comprensione della mente altrui	Mastery/padroneggiamento
Monitoraggio	Monitoraggio	Strategie di I livello
• Identificazione cognitiva	• Identificazione cognitiva	Strategie di II livello
• Identificazione emotiva	• Identificazione emotiva	Strategie di III livello
• Relazione tra variabili	• Relazione tra variabili
Differenziazione	Decentramento
Integrazione

2.4. Funzioni nel dominio della conoscenza della propria mente

2.4.1. Il monitoraggio

Il monitoraggio è la capacità di riconoscere le emozioni e i pensieri che costituiscono uno stato mentale, le motivazioni e gli scopi sottesi al comportamento, nonché di cogliere le relazioni immediate tra pensieri ed emozioni. Esso è misurabile attraverso la capacità di rispondere alle domande: «Cosa hai provato?»; «Cosa hai pensato?»; «Perché hai agito in quel modo?»; «Perché provavi quell’emozione?».

Per valutare il disturbo di monitoraggio il terapeuta deve considerare tre fonti di informazione: a) le narrazioni spontanee del paziente; b) le risposte alle domande che sollecitano direttamente l’uso della funzione; c) la chiarezza con cui riesce a formularsi una rappresentazione dello stato mentale del paziente durante la ricostruzione in seduta.

Nel disturbo di monitoraggio le narrazioni del paziente descrivono comportamenti e scambi di dialogo senza riferimento ai pensieri, alle motivazioni e agli scopi ad essi sottesi. Il paziente descrive se stesso in termini generali e comportamentali (ad esempio «tendo a non parlare»; «sto sempre zitto») senza spiegare in termini mentali le ragioni che sono alla base dei suoi atteggiamenti. I riferimenti agli stati emotivi sono rari, vaghi, spesso centrati sulla componente somatica («mi tremavano le mani»; «mi agito»; «ero teso»). Inoltre il paziente ha difficoltà nel rispondere alle domande dirette: «Cosa provava?»; «Cosa pensava?»; «Cosa desiderava o temeva?»; «Perché ha agito così?».

Nel complesso il terapeuta ricava un’impressione di opacità rispetto alla mente del paziente e gli risulta difficile, senza ricorrere ad inferenze, formarsi un’idea dei contenuti mentali. La conduzione del colloquio è percepita come faticosa, con la sensazione di non ricevere abbastanza informazioni o di doverle ricavare a fatica.

Ecco ad esempio come un paziente racconta una discussione con la sua fidanzata.

P.: Lei mi ha detto ‘Non dici mai niente’ e io ho risposto che non dovevo parlare per forza, ma lei mi ha detto ‘Senti, sembra che non ti interessa mai niente’ e io gli ho detto che non era vero e che lei vuol sempre atteggiarsi a quella che sa tutto. E lei ha detto ‘Guarda, meglio che lasciamo stare stasera. Ci sentiamo domani!’ e dopo se n’è andata.

T.: Cosa ha provato in quel momento?

P.: Che ho provato... mah! non lo so... ho pensato... non mi ricordo neanche cosa ho pensato.

T.: Non si ricorda che ha pensato? Ma ci è rimasto male?

P.: Beh sì... un po’ sì...

T.: E questo rimanerci male era più simile alla tristezza, alla rabbia, alla paura...

P.: Più che altro che lei vorrebbe che io mi comportassi in un certo modo.

2.4.2. L’integrazione

L’integrazione è la capacità di riflettere su diversi stati e processi mentali in modo da poter ordinarli secondo una gerarchia di rilevanza e da rendere coerente il comportamento rispetto ai propri scopi a breve e lungo termine. La possibilità di tenere insieme diversi stati mentali permette, inoltre, di osservare le contraddizioni e in certi casi di risolvere i conflitti e, nel tempo, di costruire un senso soggettivo di identità, dando significato e continuità alla propria esperienza.

Data la complessità della definizione conviene soffermarsi sui vari aspetti. Anzitutto, la riflessione integrativa ha lo scopo di darci una visione ordinata e coerente tanto dei nostri stati quanto dei nostri processi.

Cosa significa esattamente una visione ordinata e coerente degli stati mentali? In un determinato momento i pensieri e le immagini che si affollano nella nostra mente con le rispettive connotazioni affettive possono essere diversi e non necessariamente connessi tra loro. L’integrazione permette di cogliere ciò che è più rilevante in un dato momento distinguendo, nel flusso di coscienza, il contenuto essenziale dal rumore. Pertanto, il disturbo dell’integrazione si può manifestare, in primo luogo, con l’affollarsi di temi di pensiero e di emozioni diversi, scollegati gli uni dagli altri, senza che il soggetto riesca a sviluppare un processo riflessivo coerente.

Lucia, una paziente di 25 anni, studentessa, ci offre quest’esempio:

Mi sentivo un completo fallimento, pensavo che non ce la farò a studiare e non riuscirò a fare niente. Tutto inutile, io sono inutile. E mi sono arrabbiata con Ambra [il tono vira improvvisamente dallo sconforto alla rabbia]. È una stronza egocentrica! L’altro giorno ho passato una serata a confortarla per le corna del marito. Leonardo [il partner della paziente] mi ha chiesto di accompagnarlo a Palermo per tre giorni. Vedo tutto grigio quando mi immagino con lui. Ho paura che si stanchi.

I temi espressi sono tutti emotivamente importanti: il senso di fallimento personale, la sensazione di non essere ricambiata per la propria disponibilità dall’amica, l’insoddisfazione nel rapporto sentimentale, il timore di abbandono; essi però scivolano l’uno sull’altro senza che nessuno si stagli sufficientemente da uno sfondo confuso per diventare oggetto di riflessione.

È probabile che se il terapeuta provasse immediatamente a focalizzare su un tema specifico, la paziente tenderebbe a slittare su altri temi, come se non riuscisse a stabilire, almeno sul momento, il grado di importanza di ciascuno, come se tutti fossero ugualmente urgenti e rilevanti in ogni momento e allo stesso tempo mai il principale stato mentale su cui valesse la pena soffermarsi a riflettere.

È da notare come in questo esempio, a differenza del precedente, il monitoraggio sia buono. La paziente riesce a descrivere alcuni dei suoi pensieri e delle sue emozioni. L’impressione generale che questi pazienti trasmettono al terapeuta non è tanto di opacità quanto di confusione e, di conseguenza, il terapeuta avverte una costante incertezza nel decidere su cosa focalizzare il colloquio.

La definizione di integrazione specifica che tale funzione serve a ridurre contraddizioni e conflitti. Se ci riferiamo a un singolo stato mentale questo significa che l’integrazione non solo fa emergere in un dato momento un tema rilevante, ma anche che, all’interno del tema, scopi, pensieri, emozioni e tendenze all’azione sono coerenti tra loro e imprimono una direzione univoca al comportamento. Quando ciò non accade il disturbo di integrazione si manifesta attraverso stati mentali in cui sono presenti allo stesso momento scopi, pensieri, affetti e tendenze all’azione contraddittori e reciprocamente incompatibili, che possono paralizzare o rendere incongruo il comportamento.

Sempre Lucia ci fornisce un esempio di questi stati.

P.: Volevo chiamare Leonardo, avevo voglia di sentirlo. Pensavo che sarebbe venuto e saremmo stati insieme, avremmo fatto l’amore.

T.: E lo ha chiamato?

P.: No, pensavo anche che mi avrebbe risposto scocciato. Che mi avrebbe detto che aveva da fare. Sentivo una rabbia terribile. E poi non ero sicura di aver voglia di parlare con lui.

T.: Scusi, mi sto confondendo, non aveva detto che desiderava stare con lui?

P.: Il fatto è che mi sentivo in colpa con lui.

Diversamente dall’esempio precedente, qui è possibile identificare un tema dominante (la relazione con Leonardo); la confusione in questo caso è data dal fatto che le rappresentazioni relative a esso sono multiple, contraddittorie, e non in grado di guidare il comportamento in modo coerente. Leonardo viene immaginato come la persona amata, ma quasi contemporaneamente anche come qualcuno distante, in grado di generare rabbia e senso di colpa.

Stabilire un ordine e una gerarchia di rilevanza nel variare degli stati mentali è fondamentale per dare coerenza al comportamento e per perseguire i propri scopi a lungo termine. Al tempo stesso è proprio la complessità della nostra mente a renderci creature profondamente incoerenti. Noi possiamo variare il nostro punto di vista e il nostro atteggiamento emotivo verso cose e persone. Possiamo essere furiosi con una persona alla quale vogliamo bene o non avere alcuna voglia di svolgere un’attività che, di solito, ci appassiona. Senza la capacità di riflettere su queste variazioni, per stabilire ciò che è regola e ciò che è eccezione, ciò che conta maggiormente e ciò che conta meno, l’impulso di un momento ci apparirebbe come la nostra inclinazione definitiva e non potremmo né stabilire relazioni né portare avanti piani complessi.

Una terza componente della capacità d’integrazione riguarda la dimensione temporale e diacronica. Oltre che capacità di riflettere sui singoli stati e di stabilire gerarchie e coerenza tra i contenuti, l’integrazione è capacità di riflettere sui processi mentali, ovvero sulle transizioni da uno stato all’altro e sull’evoluzione degli stati nel tempo. Questa capacità ci permette di narrare in modo comprensibile a noi stessi e agli altri la nostra storia psicologica, risultando così una componente fondamentale nel generare il senso soggettivo di coerenza e continuità dell’Io alla base del sentimento di identità personale.

Luigi è uno studente alla vigilia della laurea, frequenta una facoltà che ha scelto per passione ed è normalmente interessato al contenuto dei corsi. Soffre di un disturbo bipolare di tipo II, per il quale viene seguito farmacologicamente e con un sostegno psicoterapeutico. Durante un periodo di flessione dell’umore fa al terapeuta la seguente considerazione:

P.: Non ho nessuna voglia di andare all’università. L’idea di ascoltare le lezioni quando ci penso prima mi dà quasi la nausea. Quando sto a lezione faccio una gran fatica a seguire. Però mi sono reso conto che se resto a casa sto peggio. Invece se riesco a superare il momento di inerzia e ad andare, anche se non sto bene, sto comunque meglio di come pensavo di stare.

Una sofisticata capacità di confrontare gli stati mentali (se resto a casa sto peggio) e di prevedere il loro variare nel tempo (superato il momento di inerzia sto comunque meglio) gli permette di padroneggiare al meglio la fase depressiva e di continuare a perseguire i suoi scopi. Quando manca questa capacità integrativa le azioni si volgono unicamente a fronteggiare il problema contingente e il comportamento perde di coerenza.

Laura soffre di crisi bulimiche e, spesso, dopo le abbuffate entra in uno stato di disperazione in cui si alternano l’angoscia per le sensazioni di alterazione del corpo e la rabbia verso se stessa. In questi stati si infligge dei tagli alle braccia che, successivamente, vive con ansia come momenti di perdita di controllo.

P.: Ho chiesto a Luca [il partner] di starmi più vicino. Ho bisogno della sua presenza. Io non mi fido di me stessa... potrei fare qualunque cosa... gli ho chiesto anche di controllare quello che mangio.

Due settimane dopo, ignorando completamente le sue stesse richieste, Laura afferma:

P.: Luca è una piattola. Mi sta sempre con gli occhi addosso. Detesto quel suo modo di chiedermi come sto. Mi fa sentire una reclusa da ospedale. Ho bisogno di spazio per me.

Dopo qualche giorno Laura torna a commettere dei gesti autolesivi a seguito di un’abbuffata e a chiedere spaventata l’aiuto di Luca.

Nell’insieme le narrazioni spontanee dei pazienti con disturbo di integrazione sono confuse e frammentate. I contenuti di pensiero e le emozioni possono essere riferiti, ma risultare confusi e contraddittori. Il racconto tende a essere ricco di dettagli di cui non si comprende la rilevanza. Il paziente ha difficoltà a rispondere alle domande sui cambiamenti degli stati mentali, che attribuisce a eventi esterni, senza riuscire a spiegare i processi psicologici che li sottendono. Gli stati mentali sembrano compartimenti stagni, in cui la memoria dell’uno non modula né si integra con l’altro.

Nel complesso la mente del paziente evoca una sensazione di caoticità e confusione. Il terapeuta si sente disorientato e in difficoltà a definire con chiarezza gli aspetti rilevanti del caso e il focus dell’intervento.

2.4.3. La differenziazione

Riflettendo sulle proprie rappresentazioni mentali gli esseri umani sono in grado di dire se si tratta di fantasie, opinioni, ricordi, ipotesi, ecc. Per far questo sono richieste due operazioni mentali: la prima consiste nel riconoscere la differenza tra rappresentazioni esterne e rappresentazioni mentali, la seconda permette di riconoscere il grado di distanza che esiste tra i propri oggetti mentali e la realtà esterna. Fantasia è un insieme di rappresentazioni che non hanno alcun vincolo di corrispondenza con la realtà esterna. Credenza è una rappresentazione alla quale attribuiamo un vincolo di corrispondenza maggiore. Queste definizioni si basano sulla capacità di differenziaretra il mondo interno delle rappresentazioni e il mondo della realtà esterna e di differenziare a loro volta le rappresentazioni in base al grado di corrispondenza con la realtà esterna attribuito loro.

La differenziazione permette, perciò, di compiere due operazioni fondamentali tanto per l’adattamento quanto per la psicoterapia: distinguere tra fantasia e realtà e sviluppare una distanza critica dalle proprie credenze, ammettendo la possibilità che possano rivelarsi false. Di conseguenza il disturbo di differenziazione può prendere due forme: la confusione tra fantasia e realtà o l’impossibilità di riconoscere il grado di corrispondenza tra una propria credenza e la realtà e di conseguenza non riuscire a prendere sufficiente distanza critica dalle proprie idee considerandole soggettive e opinabili.

Nel primo caso le rappresentazioni sono prevalentemente immaginative: il paziente vive intensamente le scene immaginate come fossero eventi reali, talvolta agendo di conseguenza.

Francesco, ad esempio, al culmine di una scenata di gelosia ha distrutto il guardaroba della fidanzata strappando tutti i vestiti. Così racconta l’immagine che ha scatenato il suo agito:

P.: Non rispondeva... era come se il suo silenzio fosse un assenso. Aspetti... mi ricordo che si stava truccando davanti allo specchio. Ho immaginato che si stesse truccando dopo un adulterio. Allora ho strappato i vestiti.

Questo tipo di coincidenza tra fantasia e realtà si manifesta di frequente nei pazienti con complesse storie di traumi e di abusi. In seduta questi pazienti possono apparire distaccati, assorti nei loro pensieri, e manifestare emozioni e comportamenti incongrui con la situazione del momento. Ad esempio, possono sobbalzare di spavento senza che sia accaduto nulla nell’ambiente che possa essere connesso con tale reazione, o rispondere in modo incongruo a una domanda del terapeuta, come se stessero seguendo un filo immaginario di conversazione. Rispetto alla loro storia possono essere incerti se alcuni eventi sono realmente accaduti o sono loro fantasie. Nel terapeuta evocano a tratti una sensazione di sconcerto e di sorpresa, venata dalla preoccupazione di non riuscire a comprendere i processi mentali del paziente.

Il secondo tipo di disturbo di differenziazione consiste nel non riuscire a considerare le proprie interpretazioni degli eventi come una credenza soggettiva e opinabile. In questo disturbo le rappresentazioni sono prevalentemente in forma verbale e di dialogo interiore. Il paziente agisce e reagisce emotivamente come se le sue interpretazioni o le sue aspettative fossero dei dati di fatto.

Angela, una paziente di 26 anni, ce ne offrì un curioso esempio un giorno in cui arrivò in ritardo all’appuntamento.

P.: Scusi dottore ho fatto tardi.

T.: Sì mi sono accorto, che è successo? Ha trovato traffico?

P.: No no, ma sono stata proprio sfortunata.

T.: Che è successo? Mi dica pure.

P.: Le due volte precedenti che sono venuta ho parcheggiato nello stesso posto, quindi ho capito che l’avrei sempre trovato libero, sono dunque partita con calma, ma arrivata qui è incredibile, c’era un’altra macchina parcheggiata.

T.: Scusi ma era un normale parcheggio sulla strada?

P.: Sì certo.

I pazienti con disturbo di differenziazione suscitano l’impressione di non essere influenzabili dalle normali argomentazioni. La loro mente sembra autarchica, refrattaria allo scambio comunicativo e alle evidenze. A volte la loro interpretazione degli eventi può risultare idiosincrasica e bizzarra.

2.4.4. Comprensione della mente altrui/decentramento

Oltre un secolo fa Darwin (1872) fornì le prime convincenti prove che ogni essere umano è in grado di leggere al primo sguardo paura, ira, tristezza, vergogna, e un’ampia gamma di altre emozioni, sul volto di qualunque altro essere umano. Ma questa capacità innata, universale e automatica, non è l’unica abilità che gli esseri umani possiedono per comprendere gli stati mentali altrui. Come abbiamo visto, i contributi della psicologia dello sviluppo e della primatologia hanno sottolineato come gli esseri umani siano in grado di attribuirsi reciprocamente molti altri stati mentali, quali desideri, intenzioni, credenze, in parte in modo automatico e in parte in modo consapevole ed esplicito. Tutte queste capacità di comprensione della mente altrui ci permettono di interagire socialmente in modo efficace nella vita quotidiana.

Come hanno sottolineato diversi autori – per esempio Baron-Cohen (1995) o Perner et al. (1987) –, la comprensione della mente altrui richiede la capacità di perspective taking, ovvero di comprendere gli stati mentali dell’altro assumendo il suo punto di vista, mettendosi nei suoi panni.

La comprensione della mente altrui può, infatti, avvenire da due diverse prospettive: egocentrica e decentrata. Frith e De Vignemont (2005) hanno spiegato con chiarezza la differenza tra le due prospettive attraverso il seguente esempio. Immaginate di essere su un autobus e una coppia davanti a voi, un uomo e una donna, sta discutendo animatamente. Da qualche frase colta per caso capite che lui le sta facendo una scenata di gelosia. Un po’ incuriositi osservate la scena e vi lasciate andare a immaginare ciò che può passare per la mente ai due protagonisti. Forse lui si sente insicuro di sé, teme di non poter essere ricambiato da quella graziosa ragazza e trasforma la propria insicurezza in rabbia. Forse lei è così spaventata dalle scenate di lui che, per evitare discussioni, finisce col mentire anche sulle cose più innocenti e quando le menzogne vengono scoperte la gelosia si alimenta. Oppure la gelosia di lui dà a lei la sicurezza di controllarlo, cosicché ama provocarlo civettando con altri uomini davanti a lui. Qualunque scenario possiate immaginare, lo fate ponendovi nella prospettiva delle due persone, in un modo che prescinde totalmente dalla vostra prospettiva. Ciò vale sia nel senso che non vi rappresentate in alcun modo coinvolto nella relazione, sia nel senso che attribuite ai protagonisti punti di vista, preferenze, valori, atteggiamenti che non sono i vostri. Gli autori chiamano questa prospettiva «allocentrica»; essa corrisponde a ciò che abbiamo chiamato decentramento (Semerari et al. 2003), ovvero l’opposto di quello che in italiano viene definito egocentrismo.

È da notare, però, come sia molto più facile mantenere una prospettiva allocentrica o decentrata in situazioni, come quella dell’esempio, in cui non si è direttamente coinvolti nell’interazione. Immaginate che l’uomo si accorga che li state osservando e si rivolga a voi con aria minacciosa. Da quel momento la prospettiva da cui cercate di comprendere la sua mente cambia drasticamente: del suo stato mentale vi interessa soltanto ciò che può darvi informazioni sulla relazione che ha e avrà con voi. Inoltre, quello che cercate nella sua mente è solo ciò che ha importanza per voi, ad esempio se intende aggredirvi fisicamente.

Eppure è proprio quando siamo direttamente coinvolti nell’interazione con l’altro che è più rilevante riuscire a formulare una lettura della mente altrui plausibile e non distorta dai nostri stati mentali, ovvero decentrata. La letteratura recente sottolinea, infatti, come lo studio della teoria della mente non possa prescindere da un coinvolgimento diretto nell’interazione con l’altro, sia nello sviluppo (Reddy 2008), sia nell’età adulta (Schilbach et al. 2013). Per riprendere l’esempio di prima, cogliere correttamente le intenzioni e le espressioni facciali dell’uomo sull’autobus, senza farsi influenzare troppo dalla paura o da esperienze precedenti e/o da aspettative personali, è fondamentale per poter reagire alla situazione in modo adeguato, non egocentrico.

In altre parole, definiamo egocentrica la prospettiva in cui la mente degli altri è vista solo in funzione della relazione che ha con noi in quel momento o in cui attribuiamo pensieri, emozioni o intenzioni che appaiono plausibili solo dal nostro punto di vista e per la nostra storia. È da notare che il termine egocentrismo non ha nulla a che fare con connotazioni morali quali l’egoismo e non coincide necessariamente con una disfunzione, anzi a volte è fondamentale per la sopravvivenza. «Pensar male è peccato, ma quanto ci si azzecca!», sottolineava un famoso politico, ed effettivamente la lettura egocentrica non sempre è di per sé errata, né disfunzionale. Ma il nostro intento non riguarda gli esiti e la specifica performance, quanto piuttosto la competenza di base: saper assumere una prospettiva allocentrica o decentrata nella lettura della mente dell’altro. Decentrare, dunque, significa riuscire a descrivere gli stati mentali e le azioni altrui a prescindere dal proprio punto di vista o coinvolgimento nella relazione, facendolo in modo plausibile e chiaro, senza ricorrere a stereotipi o luoghi comuni. Il decentramento comprende: 1) la capacità di mettersi nei panni degli altri, facendo inferenze plausibili sugli stati mentali altrui a prescindere dal proprio punto di vista; 2) la capacità di ragionare su come gli altri pensano, sentono e agiscono a partire da scopi, credenze, valori, criteri di rilevanza che possono essere diversi dai propri; 3) la capacità di ragionare sulla mente dell’altro a prescindere dal proprio coinvolgimento nella relazione.

Dato che per decentrare occorre comprendere che gli altri hanno punti di vista e credenze diversi dai nostri, differenziazione e decentramento risultano due funzioni strettamente collegate. Entrambi si fondano sulla nozione di credenza come rappresentazione della realtà distinta dalla realtà stessa e, di conseguenza, potenzialmente falsa. In questo senso differenziazione e decentramento costituiscono le funzioni su cui si fonda la nostra capacità di assumere una distanza critica dalle nostre stesse credenze.

I pazienti con DP hanno un’estrema difficoltà ad assumere una prospettiva decentrata. In alcuni casi il livello di egocentrismo è tale da esprimersi in forme primitive di pensiero che Bateman e Fonagy (2004) hanno chiamato «pensiero teleologico». Nel pensiero teleologico all’altro viene attribuita un’intenzione esclusivamente sulla base dell’effetto che il suo comportamento ha provocato sul soggetto.

Agnese, per esempio, torna a casa dopo una lite con la donna con cui ha una relazione. Ha dei lividi evidenti e una tumefazione sul labbro. Non è la prima volta che viene picchiata. Il padre è al corrente della situazione e quando la incontra fa un’espressione che la paziente interpreta in questo modo:

P.: Ha fatto la faccia preoccupata per farmi sentire uno schifo. Mi sono detta se tu vuoi farmi sentire uno schifo allora ti faccio sentire io uno schifo. Gli ho detto ‘che mi guardi così? Non ti ricordi quando non tornavi? Che mettevi le corna a mamma e io me la reggevo? Questi so’ i risultati’.

T.: E suo padre che ha risposto?

P.: Ha fatto finta di cadere dalle nuvole. ‘E adesso che c’entra?’ mi ha chiesto. Allora mi sono incazzata davvero. Ho dato un pugno a una vetrina che si è rotta. Vede questo taglio?

Nell’esempio Agnese compie un riconoscimento dell’emozione presente nel padre (ha fatto la faccia preoccupata), ma nell’attribuire l’intenzione al padre utilizza in modo egocentrico il proprio stato d’animo (l’ha fatto per farmi sentire uno schifo). Il concetto di «pensiero teleologico» si riferisce al fatto che questi pazienti attribuiscono agli altri l’intenzione sulla base dell’effetto provocato in loro dalla condotta degli altri. Alla domanda «Quanto soggettivamente credeva a quello che pensava?» tendono a rispondere che avevano assoluta certezza. Se sollecitati a considerare ipotesi alternative lo fanno senza convinzione o le negano del tutto. Se le credenze riguardano, come nel caso di Agnese, altre persone, il terapeuta ha l’impressione che insistere per favorire una distanza critica possa creare problemi di relazione e che il paziente possa percepirlo schierato contro di lui.

2.4.5. Padroneggiamento/mastery

La metacognizione è conoscenza della mente, ma non certo conoscenza contemplativa. Noi siamo costantemente impegnati a usare questa conoscenza per regolare e influenzare i nostri e gli altrui stati mentali, in particolar modo quando proviamo stati di malessere soggettivo o ci troviamo ad affrontare problemi interpersonali. Per questo motivo, fin dalle origini della scelta del termine metacognizione, il modello del Terzo Centro ha preso in considerazione anche la capacità di regolazione degli stati mentali problematici.

Nella scala per la valutazione della metacognizione (SVaM; cfr. Carcione et al. 1997, 2010; Semerari et al. 2003) questo dominio era definito con il termine inglese mastery – che qui tradurremo con padroneggiamento – per indicare i diversi strumenti a nostra disposizione per regolare gli stati interni fonte di sofferenza psicologica e i conflitti interpersonali. Il padroneggiamento si riferisce alla capacità dell’individuo di affrontare i propri stati interni come problemi da risolvere, anziché come condizioni ineluttabili, e di utilizzare la propria conoscenza psicologica come fonte di informazione per pianificare strategie di coping flessibili e adeguate.

Le strategie di padroneggiamento possono essere distinte e descritte secondo un gradiente che va dalle più semplici, più comportamentali, e che richiedono un ridotto senso di agentività da parte dell’individuo, a quelle più complesse, che richiedono operazioni di rielaborazione metacognitiva. Questo gradiente comprende tre livelli. Un primo livello prevede l’azione diretta sull’organismo (ad esempio, assumendo dosi congrue di psicofarmaci o svolgendo attività fisica) o il ricorso al supporto interpersonale, chiedendo esplicitamente aiuto o cercando nelle relazioni interpersonali una via per uscire da uno stato problematico (ad esempio, chiamare un amico per uscire al fine di gestire la solitudine o il senso d’abbandono). Queste modalità di regolazione vengono definite strategie di primo livello, dal momento che in questi casi l’individuo non agisce attivamente un controllo cognitivo o metacognitivo dei propri stati mentali, ma interviene su alcuni elementi di contesto – il corpo e le relazioni sociali – che indirettamente possono modulare gli stati mentali.

Le strategie di secondo livello prevedono modalità di regolazione più attive e consapevoli, in cui l’individuo decide di imporsi oppure di inibire volontariamente un comportamento o un’attività di pensiero. A differenza delle strategie di primo livello, nel secondo livello l’individuo si percepisce come un agente attivo, in grado di agire intenzionalmente su se stesso attraverso l’azione volontaria o attraverso la distrazione e la regolazione dell’attenzione cosciente. In questi casi il soggetto decide intenzionalmente di attivare o evitare un determinato comportamento o di concentrarsi a pensare, oppure di cercare fonti di distrazione rispetto a uno specifico pensiero problematico (ad esempio, decidere di andare al cinema e vedere un film invece che continuare a rimuginare sul litigio appena incorso con il capo ufficio).

Infine, le strategie di terzo livello sono strategie puramente metacognitive attraverso le quali il soggetto interviene direttamente sui propri stati mentali, mettendoli in discussione in modo critico (ad esempio cercando di formulare interpretazioni alternative rispetto al comportamento di qualcuno che è stato percepito come offensivo) o tollerando, secondo un atteggiamento saggio e meditativo, i momenti di sofferenza ai quali non è possibile porre rimedio (ad esempio tollerare il dolore di un lutto, sapendo che pian piano il dolore diventerà più sopportabile). Possedere una buona competenza di mastery non significa utilizzare prevalentemente o unicamente strategie di terzo livello, bensì essere in grado di muoversi in modo flessibile e articolato tra i diversi livelli di regolazione in base alle specifiche circostanze fonte di sofferenza psicologica.

È importante tener presente che le capacità di regolazione degli stati interni sono cruciali per il benessere psicologico dell’individuo, considerandole però distinte dalle abilità di conoscenza degli stati mentali. Nella pratica clinica, infatti, è molto frequente incontrare pazienti con una buona capacità di descrivere e analizzare i propri stati mentali fonte di sofferenza, ma altrettanto incapaci di rispondere a questi momenti di sofferenza attraverso delle strategie efficaci e non controproducenti (Carcione et al. 2011). A riprova dell’importanza e del funzionamento autonomo delle capacità di regolazione metacognitive esistono molti dati nell’ambito dell’età evolutiva; la regolazione emotiva autonoma, infatti, è una conquista piuttosto tardiva durante lo sviluppo, ed emerge solo intorno all’età scolare (Harris 1989; Sroufe 2000). Nel corso dello sviluppo la capacità di regolazione degli stati interni sembra evolvere da strategie di tipo estrinseco – ossia modulate dall’intervento dell’adulto, che aiuta a ristabilire condizioni di equilibrio in presenza di un’attivazione emozionale – a processi regolatori intrinseci, ovvero messi in atto direttamente dal bambino nei confronti dei propri stati interni (Thompson 1994).

Le difficoltà di padroneggiamento si rivelano nel modo più evidente con le diverse manifestazioni di mancata regolazione delle emozioni e degli impulsi. In questi casi le strategie che abbiamo descritto vengono usate, ma in modo gravemente disfunzionale. Ad esempio, per regolare un’emozione intollerabile i pazienti agiscono sul corpo ferendosi, oppure chiedono costantemente aiuto agli altri, per poi magari insultarli nel caso di mancato aiuto o persino quando lo ricevono. Meno evidenti, ma non meno gravi, sono le difficoltà di padroneggiamento che hanno alla base una mancanza del senso di essere un soggetto e un agente attivo. Manca a questi pazienti la percezione di possedere la capacità di darsi una direzione e di poter attivamente influenzare i propri stati mentali. In queste condizioni, per poter agire sulla propria mente avvertono di dover agire sulla mente degli altri in modo che questi agiscano sulla loro. Questa forma estrema di dipendenza psicologica può manifestarsi in modi diversi a seconda del temperamento del paziente e delle condizioni di vita. Tali modi includono il controllo aggressivo dell’altro, la ricerca continua di cura e attenzioni e gli atteggiamenti passivo-aggressivi. È tipico di questi pazienti dichiarare di non sentirsi capiti quando vengono esortati a un atteggiamento attivo verso la soluzione dei lori problemi. Spesso trasmettono al terapeuta il loro stesso senso di impotenza, con la sensazione che la terapia sia senza risorse.

Altre difficoltà di padroneggiamento si rivelano col rimuginio, che possiamo considerare come un fallimento delle strategie di padroneggiamento di secondo livello. Molti pazienti rivelano un’estrema difficoltà a spostare l’attenzione da alcuni temi anche quando riconoscono pienamente l’inutilità e la dannosità di continuare a pensarci.

All’inverso, molti pazienti caratterizzati da ritiro sociale adottano, per regolare i loro stati di sofferenza, unicamente strategie di evitamento comportamentale e cognitivo. Anche in questo caso la disfunzione nelle capacità di padroneggiamento è data dall’impossibilità di questi pazienti di utilizzare in modo flessibile una maggiore varietà di strategie di regolazione.

Infine, possiamo trovare pazienti caratterizzati da specifiche disfunzioni nel terzo livello di padroneggiamento. In questa categoria rientrano coloro che tendono a una interpretazione ipermentalistica delle azioni proprie e altrui e a un utilizzo ipertrofico della riflessione mentalistica, anche quando non giustificata dagli eventi. La conseguenza può essere quella di agire nelle relazioni interpersonali o nelle scelte individuali in modo poco immediato e sintonico. Un altro esempio di disfunzioni di terzo livello è la difficoltà ad accettare eventi di vita drammatici e dolorosi, per esempio lutti prematuri. In molti pazienti, l’incapacità di accettare i limiti che ciascuno di noi ha rispetto al proprio destino ha come conseguenza l’acutizzarsi e il cronicizzarsi di diverse forme sintomatologiche.

2.5. Autodirezionalità e regolazione delle scelte

Come abbiamo già visto, il DSM-5 specifica che i disturbi di personalità prevedono un malfunzionamento del Sé legato alla carenza di autodirezionalità, intesa come la capacità di perseguire obiettivi esistenziali coerenti e significativi, nel breve e nel lungo periodo, utilizzando standard interni di comportamento costruttivi e prosociali, unitamente alla capacità di comprendere e riflettere sui propri processi mentali (APA 2013).

Nella scala del livello di funzionamento della personalità (LPFS; Bender, Morey e Skodol 2011) inserita alla fine della Sezione III viene specificato che una carenza nell’autodirezionalità fa sì che l’individuo con DP sia eccessivamente orientato o inibito o ambivalente rispetto ai propri obiettivi. Può avere standard personali irrealistici o socialmente inadeguati, che limitano la realizzazione personale. Gli obiettivi possono essere scarsamente sentiti, vissuti solo come mezzo per ottenere l’approvazione esterna, o possono mancare di coerenza e/o stabilità. Gli standard personali possono essere irragionevolmente elevati o eccessivamente bassi o, ancora, vaghi o contraddittori.

I soggetti con DP sperimentano e descrivono in terapia la spiacevole sensazione di vivere la vita degli altri, di non poter effettuare scelte piacevoli se non sentendosi indegni o immorali, o di vivere senza una precisa direzione, navigando a vista. Sembra mancare loro la capacità di riflettere sui propri scopi, di costruire piani appropriati per raggiungerli e di gestire e regolare in modo flessibile ed efficace gli ostacoli, le contraddizioni e i conflitti che la vita pone loro di fronte. In una parola, la difficoltà di regolazione delle scelte costituisce un aspetto centrale della patologia della personalità, da valutare sin dalla fase di assessment (Dimaggio e Semerari 2003; Dimaggio et al. 2007; Carcione et al. 2004).

Per valutare la capacità di regolare le scelte occorre l’integrazione di costrutti funzionali come la metacognizione con quelli cognitivi, di scopi, bisogni e desideri. Fare delle scelte è un’operazione cognitiva incessante, consapevole o, più spesso, intuitiva. Di solito è un’operazione rapida, effettuata selezionando un numero limitato di variabili, e connotata emotivamente.

Per discutere il problema partiamo dalle seguenti domande: esistono delle categorie di variabili che quotidianamente utilizziamo per regolare le nostre scelte? Quali sono le abilità mentali necessarie per regolarle? La rigidità dei disturbi di personalità può essere ricondotta, almeno in parte, a una rigidità nella regolazione delle scelte?

2.5.1. Gli scopi e le euristiche nei disturbi di personalità

Parlando di scelte parliamo anzitutto di scopi. Finora il cognitivismo clinico ha forse troppo trascurato il ruolo degli scopi nella psicopatologia a favore di spiegazioni come l’irrazionalità del ragionamento e delle credenze, che si rivelano quantomeno insufficienti a cogliere l’aspetto finalizzato e motivazionale della condotta (Mancini 2016a).

Anche se scopi e piani d’azione sono interconnessi, non tutti gli scopi richiedono l’elaborazione cosciente di un piano e molte scelte avvengono in modo automatico o inconsapevole. Anche azioni finalistiche complesse possono essere automatiche e non richiedere una particolare consapevolezza, ad esempio l’azione di andare da casa mia al Terzo Centro. Non sempre, quindi, è necessario essere consapevoli del processo decisionale, ma in caso di conflitti tra scopi, di confusione tra essi o di incoerenza del comportamento, la consapevolezza diventa indispensabile.

A fronte di numerose ricerche sulle euristiche di ragionamento in soggetti non patologici e nei disturbi d’ansia, ossessivo-compulsivi e depressivi (Mancini e Gangemi 2001), pochi sono gli esempi di ricerche analoghe nell’area dei disturbi di personalità (vedi Carcione et al. 2004). Ad esempio, sono stati descritti ex consequentia reasoning del tipo «se sono ansioso, allora c’è sicuramente un pericolo» nei disturbi d’ansia (Arntz, Rauner e van den Hout 1995), e «se mi sento in colpa, certamente sono responsabile» nel disturbo ossessivo-compulsivo (Gangemi, Mancini e van den Hout 2007). Altri esempi sono il ragionamento better safe than sorry, descritto nella fobia sociale (Clark 1997; Gilbert 2002), nell’ipocondria (de Jong et al. 1998) e in particolari stati emotivi – ad esempio il timore di colpa (Mancini e Gangemi 2002) –, e la scarsa auto-attribuzione di risorse personali e valutazioni pessimistiche degli investimenti, descritta nella depressione (Leahy 1997, 2001).

Di contro, scarse sono state le ricerche empiriche sui disturbi di personalità. Leahy (2002) ha utilizzato un modello decisionale di tipo economico, la teoria del «portfolio». Ad esempio, individui con disturbo di personalità evitante, dipendente e borderline tenderebbero: a) a percepire una scarsa disponibilità di soddisfazioni attuali e future; b) a richiedere molte informazioni; c) a utilizzare in prevalenza regole per un’interruzione rapida delle perdite; d) a godere dei guadagni in misura minore; e) a scoraggiarsi facilmente; f) a mal tollerare l’imprevedibilità. Soggetti con disturbo di personalità ossessivo-compulsivo sarebbero caratterizzati da cautela e inibizione negli investimenti e avversione al rischio, ma non da bassa autostima.

In generale nei DP ritroviamo gli stessi bias di ragionamento legati a stati emotivi che sono stati descritti nei disturbi sintomatici, con l’aggravante di una minore regolazione emotiva e di una ridotta modulazione metacognitiva.

2.5.2. La metacognizione e la regolazione delle scelte

Volendo didascalicamente raggruppare in classi di variabili le categorie a cui ricondurre gli scopi da soddisfare per favorire l’autodirezionalità, in un precedente volume abbiamo utilizzato tre classi, considerando che gli esseri umani si muovono alla ricerca di un equilibrio non sempre facile tra scopi di natura diversa: a) quelli legati ai desideri edonici, b) quelli legati al sistema dei valori e al sé ideale, c) quelli legati all’adattamento al contesto interpersonale (Carcione, Nicolò e Semerari 1999; Dimaggio e Semerari 2003; Carcione et al. 2004), come schematizzato nella Figura 2.1.

Figura 2.1. Le variabili della regolazione delle scelte

Figura 2.1. Le variabili della regolazione delle scelte

Un equilibrio adattivo tra queste variabili è tanto più realizzabile quanto più conosciamo i nostri scopi, siamo in grado di riconoscere i conflitti tra essi e riusciamo a riflettere su tali conflitti, in modo da stabilire le gerarchie di preferenze che ci consentono di scegliere. L’equilibrio adattivo nelle scelte richiede perciò conoscenza della mente, ovvero metacognizione.

La metacognizione funziona alla stessa stregua del sistema immunitario, nel senso che si attiva quando serve, cioè quando la riflessione è necessaria per comprendere la presenza di ostacoli o di conflitti tra scopi. Qualora la presenza di disfunzioni metacognitive renda carente l’uso di alcuni degli ingredienti decisionali, gli altri tendono a divenire ipertrofici per non paralizzare in ogni caso l’azione (Carcione, Nicolò e Semerari 1999). In questo caso gli individui tendono ad adottare per il processo decisionale strategie di compensazione che finiscono con l’irrigidirsi su modalità stereotipate (Dimaggio e Semerari 2003; Dimaggio et al. 2007). A corroborare ciò, nella stessa LPFS del DSM-5 è evidenziato che l’autodirezionalità può essere carente se le scelte non sono sentite, ma sono funzionali a qualcos’altro (valori, aspettative altrui, ecc.).

Le disfunzioni metacognitive, inoltre, esasperano e rendono rigido l’uso delle euristiche già descritte per i vari disturbi non DP.

2.5.2.1. La regolazione basata su emozioni e desideri e la disregolazione emotiva. Le emozioni sono un ingrediente fondamentale del processo decisionale (Mazzocco 2004) e sono state classicamente considerate come modalità rapide e automatiche di ragionamento orientato alla scelta (Arnold 1960; Frijda 1986; Oatley e Johnson-Laird 1987). L’emozione rappresenterebbe, dunque, proprio quel criterio di soddisfacimento che «attiva» la decisione.

Le emozioni attivano stati di arousal che hanno lo scopo di fornire segnalazioni varie, ad esempio «fare attenzione perché qualcosa di importante sta per capitare»; svolgono una funzione valutativa più generale («questo è giusto e questo è sbagliato») o più differenziata («questo mi fa intristire e quest’altro mi eccita...»), assegnando diversi significati alle proprie rappresentazioni mentali. Un’adeguata regolazione delle emozioni permetterebbe una migliore flessibilità di risposta (Mesulam 1998).

I desiderirappresenterebbero una particolare categoria di scopo in cui si connettono una rappresentazione mentale (di un oggetto specifico o di uno stato mentale generale) e una marcatura somatica dal tono edonico positivo.

Emozioni e desideri favoriscono la tendenza all’azione: posso sapere che vicino al mio studio c’è un’ottima rosticceria siciliana, ma questo non mi impedisce di continuare a lavorare, finché un vuoto allo stomaco e la rappresentazione di desiderio di un arancino fumante mi spingono ad andare a comprarne uno. Una disfunzione riguardo a questo tipo di regolazione può verificarsi secondo tre differenti modalità:

1) un sistema di scelta basato unicamente su emozioni e desideri appare disfunzionale e completamente disadattivo dal punto di vista etico, sociale e interpersonale. Un uso massivo ed unilaterale di tale modalità di regolazione ci farebbe trovare di fronte ad individui con tratti antisociali, governati da mete autarchiche e indifferenti ai valori e alle esigenze degli altri;

2) i soggetti alessitimici, con scarsa consapevolezza dei propri desideri, bisogni ed emozioni, difficilmente riescono a compiere scelte fonte di soddisfazione. La difficoltà a riconoscere i desideri può portare a una ridotta tendenza all’azione o all’uso ipertrofico e compensativo degli altri fattori della regolazione;

3) la disregolazione e vulnerabilità emotiva, unitamente alla difficoltà di integrare stati mentali opposti e/o contraddittori e all’impossibilità di mantenere una stabilità delle rappresentazioni, determina una caoticità nella regolazione delle scelte, che possono così oscillare rapidamente da un fattore all’altro, con conseguente incoerenza del comportamento e difficoltà a perseguire scopi a lungo termine.

Bisogna sottolineare che l’uso scarso o assente di tale variabile, oltre ad essere legato a difficoltà metacognitive, può essere espressione di una mancata legittimazione dei propri desideri e bisogni. Ad esempio, fare una scelta universitaria contraria alle aspettative di un proprio genitore può associarsi alla credenza di compromettere lo scopo di essere un buon figlio.

2.5.2.2. La regolazione basata sul contesto interpersonale: la sintonia interpersonale. Un altro motore di scelta è la regolazione basata sul contesto interpersonale. Il contesto può sollecitare scopi molteplici, a volte contraddittori rispetto ad altri desideri, ma di solito non serve alcuno sforzo per selezionare e attivare coscientemente scopi coerenti col contesto. Immaginiamo di essere impegnati in una partita di tennis. Le mete che ci prefiggiamo in quel momento saranno coerenti col contesto in cui siamo immersi: fare un buon servizio, mettere in difficoltà l’avversario, vincere il set. Immaginiamo che ci venga in mente, in quel contesto, che dobbiamo fare una telefonata, necessariamente ora, che è finalizzata ad un nostro scopo della massima importanza. Se siamo metacognitivamente ben funzionanti diveniamo subito consapevoli: a) di un conflitto tra i nostri scopi; b) della diversa importanza che attribuiamo ad essi; c) di un conflitto tra il nostro scopo di interrompere la partita e quello del nostro avversario di continuarla; d) della legittimità tanto del nostro scopo quanto di quello dell’altro visto dalla sua prospettiva. Si tratta di una consapevolezza non proposizionale, rapida, con aspetti largamente impliciti e che corrisponde a quella che Schilbach (2016) definisce cognizione sociale in interazione. Ma è proprio questo tipo di conoscenza metacognitiva in contesti reali che ci permette di regolare in modo adattivo tale tipo di conflitti.

Alcuni pazienti, in particolare quelli con tratti di dipendenza, hanno difficoltà nel costruire metarappresentazioni come quelle descritte e per compensare tale carenza utilizzano in modo massiccio e unilaterale l’etero-regolazione. Essi assumono attivamente le aspettative e i desideri dell’altro, piuttosto che analizzare la situazione problematica a partire dalla consapevolezza di avere obiettivi diversi (Carcione e Conti 2003, 2007).

2.5.2.3. La regolazione basata su norme, valori e Sé ideale. Una terza fonte di informazioni per la regolazione delle scelte è costituita dal nostro sistema di norme e valori e dalle idee su come vorremmo essere, che si organizzano nella rappresentazione del Sé ideale.

Se per qualche ragione – come una bassa consapevolezza dei desideri o una scarsa sensibilità alla prospettiva degli altri – i primi due fattori svolgono un ruolo ridotto, i valorivengono, di conseguenza, usati come meccanismo vicariante, ma sono fissati in modo rigido e stereotipato (Dimaggio et al. 2001, 2002). Dato che in questi casi l’orgoglio finisce con l’essere quasi l’unica soddisfazione possibile, questo meccanismo contribuisce a creare quel bisogno di coincidenza tra ideale di sé e Sé reale che costituisce un aspetto saliente del narcisismo patologico (Kernberg 1975).

3.
La metacognizione come fattore generale
della patologia della personalità
di Ilaria Riccardi, Antonio Semerari, Roberto Pedone

3.1. La co-occorrenza di più diagnosi: problema o opportunità?

Una volta introdotto il lettore al costrutto della metacognizione possiamo riprendere il discorso che avevamo interrotto alla fine del primo capitolo con la domanda: «come è possibile trasformare la questione della comorbilità da problema a occasione di conoscenza?».

Per rispondere alla domanda occorre chiedersi innanzitutto cosa vuol dire comorbilità dal punto di vista di un quadro psicopatologico. Al di là del fatto formale di formulare più di una diagnosi, l’aspetto sostanziale della co-occorrenza di più disturbi è che gli elementi psicopatologici che sono considerati propri di un determinato quadro clinico si presentano insieme agli elementi psicopatologici caratteristici di un altro quadro clinico. Il fatto che ciò avvenga con la frequenza che abbiamo visto non può essere un caso, ma devono esserci delle relazioni tra gli elementi che giustifichino il loro ricorrere insieme. La domanda diventa dunque: perché questi diversi elementi psicopatologici stanno insieme? Posta tale questione, la comorbilità, oltre ad essere un problema, diventa un’opportunità poiché ci invita ad esplorare le relazioni tra elementi apparentemente eterogenei, relazioni non previste oppure oscurate dall’attuale nosografia categoriale.

Il rapporto tra i fattori psicopatologici di rado si presenta come lineare. Considerando l’evoluzione storica di un caso, un fattore può essere la causa del secondo, ma di solito, una volta che esiste, il secondo fattore retroagisce sul primo rinforzandolo e mantenendolo. Per fare un esempio, il ritiro sociale può causare depressione e la depressione, conseguentemente, può mantenere e/o aggravare il ritiro.

In generale diversi disturbi possono stare insieme perché alcuni elementi psicopatologici di uno possono favorire lo sviluppo degli elementi degli altri. Il caso di Enrico, per come è stato ricostruito, ne è un esempio. Fin dalla prima adolescenza Enrico aveva sviluppato un forte timore di colpa e senso di responsabilità in particolare verso i genitori, secondo lui fragili e sofferenti, che lo spingevano a un atteggiamento perfezionista nello studio («per non dar loro preoccupazioni») e a rituali di controllo per prevenire un temuto danno (per il ruolo di timore di colpa e responsabilità nel DOC vedi Mancini 2016b; Mancini e Gangemi 2004, 2006). Molto presto si accorse che scrupoli, preoccupazioni e valori per lui così importanti non erano condivisi dai suoi coetanei. Ne derivò un senso profondo di diversità, di impossibilità di appartenere ad un gruppo, e un conseguente atteggiamento di ritiro sociale. In questo modo Enrico saltò una tappa cruciale per lo sviluppo della capacità di comprendere gli stati mentali propri e altrui nelle interazioni sociali più complesse: lo scambio e le confidenze nel gruppo di pari in adolescenza. Privo dell’influenza moderatrice dello scambio e delle interazioni sociali, sviluppò regole di condotta sempre più rigide e pe

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