Edizione: 2020, II rist. 2024 Pagine: 264 Collana: Economica Laterza [936] ISBN carta: 9788858141564 ISBN digitale: 9788858133422 Argomenti: Attualità culturale e di costume, Linguistica e semiotica
Questione di virgole è un bestiario ricco e variegato, così come ricchi e variegati sono gli esempi virtuosi che l’autore propone con un gusto per le tassonomie a dir poco entusiasta. Leggendo mi sembrava di capire che all’origine dell’universo non c’è mica il Verbo, bensì una Virgola meditata e al posto giusto.
Alessandro Piperno, “la Lettura – Corriere della Sera”
Questione di virgole è una storia d’amore con la lingua italiana, nella figura del punto e della virgola e del parente negletto: il punto e virgola. Col garbo e la leggerezza del viaggiatore incantato, Luccone ci lascia con la voglia di andare a rileggere i Verga e i Tozzi di una giovinezza italiana orgogliosa e mai rinnegata – e tutto grazie a dei segni di interpunzione.
Tiziano Gianotti, “D – la Repubblica”
Metti, le virgole, al posto giusto. Oppure prendi questo libro e inizia a farti incantare. A legger Luccone non si può che dar ragione a Nicolás Gómez Dávila: a volte basta una virgola per distinguere una banalità da un’idea.
Marco Filoni, “il venerdì di Repubblica”
Pronti a rifare la punta alla vostra punteggiatura? Con Questione di virgole avrete a portata di mano le regole insieme alla passione per le parole. Un libro che, con leggerezza e rigore, ci fa entrare nel laboratorio alchemico della punteggiatura.
Leonardo G. Luccone ha tradotto e curato volumi di scrittori angloamericani come John Cheever e F. Scott Fitzgerald. Nel 2005 ha fondato Oblique, studio editoriale e agenzia letteraria. È autore di La casa mangia le parole (Ponte alle Grazie 2019), suo esordio narrativo.
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La virgola ha fagocitato il punto e virgola e i due punti, e insieme al punto fermo rappresenta il novanta percento della punteggiatura
usata oggi da chi scrive; il punto e virgola, invece, è in via di estinzione. Sta perdendo il ruolo di «pausa intermedia», di
efficace regolatore del traffico sintattico.
Con una sola virgola ben messa si può illuminare una pagina; con una virgola sbagliata
si rischia di cambiare il senso del discorso o, peggio, di fare la figura degli asini.
Eppure, come mostrano gli studi specialistici, i giornali e il web, questi due segni
presentano il massimo grado di incertezza nell’uso sorvegliato. Assistiamo a fenomeni
imponenti e contrastanti: la lingua si impoverisce, i media veloci prendono il sopravvento,
la lettura (nel senso di quantità di testo letta ogni giorno) tutto sommato è in aumento,
ma diminuisce l’abilità di scrittura, a partire dai fondamentali.
Ma perché la punteggiatura è così sfuggente?
Nelle scuole primarie e secondarie, di interpunzione nessuno se ne vuole più occupare,
all’università si scrive (e si corregge) sempre meno e pure chi dovrebbe dare il buon
esempio, cioè giornalisti e scrittori, ha i suoi problemi.
La punteggiatura, come la dizione, sembra un accessorio da affidare al proprio istinto.
Si ragiona «a orecchio» o, come si sente spesso dire, in «base alla respirazione».
La scrittura elettronica, ma anche quella dei periodici, sta contribuendo alla Grande
Semplificazione. I catastrofisti dicono che rimarremo solo con il punto (o «soli con
il punto»). Più che una scrittura telegrafica è un ritorno al telegrafo.
Questo libro tenta di fare chiarezza. Con semplicità e metodo, e la guida di mirabili
scrittori, vengono illustrati gli usi corretti ed errati di virgola e punto e virgola,
a partire da casi reali tratti da romanzi, saggi, periodici, ma anche da testi incrollabili
come le leggi dello Stato, o effimeri, come la paccottiglia cartacea ed elettronica
che ci si manifesta davanti tutti i giorni. Si danno le risposte ai dubbi più frequenti
e si fornisce una vasta casistica di esempi, nella speranza che la scrittura non finisca
in malora come lamentava Gadda nel 1949, severo giudice del premio poetico Le Grazie:
«A proposito di interpunzione e di questioni ortografiche in genere, è da segnalare
che diversi concorrenti sono entrati in gara con le più incerte lezioni degli antichi
[...]. Una vaga disseminazione di virgole e di punti e virgole, buttati a caso, qua
e là, dove vanno vanno, come capperi nella salsa tartara».
Nell’appendice caricata sul web ho raccolto un compendio di «atroci dubbi» e di esercizi,
pure questi d’autore, a soluzione tutt’altro che univoca, sia per mettervi alla prova,
sia per mostrarvi che logica e creatività marciano sempre a braccetto.
Incontreremo scrittori che usano la punteggiatura in modo automatico e naturale, come
se fosse il respiro del testo; altri che la usano come un’arma, come manifesto estetico
ed esistenziale. Emil Cioran sognava un mondo in cui si potesse morire per una virgola;
Gadda avrebbe difeso a oltranza i suoi punti e virgola. E voi?
Pronti a rifare la punta alla vostra punteggiatura? Al termine del percorso, si spera,
scriverete con un po’ meno virgole e qualche punto e virgola in più.
Cos’è la punteggiatura
Folgorazione da virgola
Ve lo dico subito: c’è un verso che mi ha folgorato quando avevo tredici anni:
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia.
Sì, parliamo di Dante, quinto canto dell’Inferno, quello di Paolo e Francesca.
La versione che avevo io si presentava proprio come la vedete. Credo sia il verso
più bello di tutti i tempi.
Sentite come suona statuario, con quell’avverbio fantastico. Come si sta orribilmente? E poi quella virgola seguita dalla congiunzione e dal verbo.
Minos sta lì in tutto il suo orrore e, tanto per mettere le cose in chiaro, ringhia.
Nella versione del mio compagno di banco Gianluca c’era scritto:
Stavvi Minòs, orribilmente, e ringhia.
È sempre un bellissimo verso, ma – lo capivo già allora – non è la stessa cosa. Per
me è importante che quell’«orribilmente» si incateni per bene a «stavvi», e non che
lo segua ingabbiato tra due virgole.
Ma nella testa di Dante come suonava?
Come forse sapete, quelle che leggiamo non sono le virgole di Dante: purtroppo non
abbiamo autografi. E quindi chi cavolo ce le ha messe quelle virgole (e tutti gli
altri segni che troviamo nella Commedia)? perché abbiamo due versioni del mio verso
preferito?
È chiaro a tutti che il senso cambia, e nemmeno di poco?
Insomma, con un semplice segnetto in più si rischia di rovinare tutto.
Se vi fa impressione che non sapremo mai come Dante abbia punteggiato la sua Commedia,
come ci rimanete se vi dico che gli antichi Romani non usavano la punteggiatura? Guardate
l’iscrizione della Colonna traiana, che, tra l’altro, segna l’inizio della tipografia
come la conosciamo oggi.
Avete di fronte agli occhi una scritta bellissima – che entra nel marmo; sentite ancora
il frusciare del pennello grondante pece che scivola sulla pietra; sentite lo scalpellino
che sottrae la materia al blocco. Guardatela, e ammirate la splendida diversità delle
lettere.
Ecco: le lettere sono attaccate l’una all’altra, più o meno alla stessa distanza.
Non ci sono virgole, non ci sono punti, non ci sono frasi, periodi, proposizioni.
Avvicinatevi ancora e vi accorgerete che a dividere le parole ci sono dei puntini
più o meno a metà altezza. Ma ripeto: non c’è punteggiatura. Come facevano i Romani
a scandire bene le parole, le frasi per capirne bene il senso?
Come facevano a orientarsi?
Con la testa accesa, la mente connessa: con la logica, e grazie al naturale appoggiare
delle parole.
La verità, vi prego, su scrittura e lettura
Si scrive di più, questo è certo. Si scrive di più, tutti. Merito, per molti discutibile,
dei messaggi di testo che scandiscono le nostre giornate. La comunicazione scritta
è succinta, ma è continua, continuamente differita, rimandata. C’è sempre la possibilità
di precisare.
Più scrittura vuol dire più consapevolezza. Quando si scrive si affronta la difficoltà
comunicativa, la necessità di sintesi e quella di trovare le parole giuste, il tono
più adatto (aiutati oramai dagli indicatori di emozione, le emoticon, che servono
a sinestetizzare il messaggio).
Si scrive di più e si legge di più, sempre grazie ai device (gli smartphone, i tablet
e più in generale l’accesso alla rete). È una lettura non particolarmente pregiata,
chiaro, che sta erodendo l’autorità della stampa periodica e l’idea stessa di editoria.
Se da un lato si registra un passo in avanti nelle competenze linguistiche minime
da parte dello strato meno alfabetizzato (gli stessi individui che qualche anno fa
non avrebbero letto né scritto quotidianamente), dall’altro si attesta un impoverimento
delle letture negli strati medi e alti. La frammentata ma continua (spesso convulsa)
fruizione attraverso gli smartphone sottrae tempo alle forme più tradizionali dell’informazione
e dell’arricchimento (lettura di libri, riviste eccetera).
Dal punto di vista della scrittura il miglioramento si riverbera sia sulla capacità
complessiva sia su aspetti più specifici come l’ampiezza del lessico e la conoscenza
dell’ortografia. La situazione rimane però grave.
C’è da dire, di contro, che nella maggior parte dei casi gli errori ortografici e
lessicali non compromettono la fruizione basilare del contenuto.
Perché accanirsi su ortografia e punteggiatura, allora?
Perché punteggiatura e ortografia sono l’abito che fa il monaco, sono il condimento
che fa il primo piatto, sono una vasta parte dell’essenziale. Se la sintassi è quella
porzione della lingua che incatena il contenuto al pensiero e lo rende organicamente
espresso, la punteggiatura rappresenta il segno del comando; e l’ortografia è la capacità
di stare al mondo.
Il contenuto deve fluire liscio, senza rumore, senza subire disturbi.
Una cattiva punteggiatura rende un testo come una strada accidentata. Certo che la
si può percorrere, specie se si ha un fuoristrada, ma perché sobbalzare a ogni buca?
Perché procedere con il rischio di rimanere in panne?
Ve la do io la punteggiatura
Perché imparare a usare bene la punteggiatura? Si vive benissimo senza, si vive benissimo
senza usare bene il punto e virgola, anzi si sta da dio usando perfino male il solo
punto e la sola virgola.
La verità è baricentrica a tre atteggiamenti contrastanti: considerare la punteggiatura
qualcosa di così personale da non sentire la necessità di regole (una legittima espressione
di sé, quindi non attaccabile, non negoziabile); considerare la punteggiatura null’altro
che un elemento decorativo; sentire la necessità di un sistema condiviso di segni
ordinatori.
Non giriamoci intorno: la punteggiatura è una parte tangibile della scrittura. La
punteggiatura è il quadro dove sta il testo; minimizzando, è la cornice comprensiva
dei chiodi che tengono la scrittura alla parete.
Sentite questa storiella: c’è uno scrittore di grande talento visivo ma del tutto
incapace di usare la punteggiatura. Appena ha finito il suo romanzo, chiama il suo
editor e gli dice: «Senti, l’ho scritto sul tablet, tutto in minuscolo, e la punteggiatura
non l’ho proprio messa, pensaci tu». L’editor gli risponde: «Sarebbe più facile se
mi avessi mandato solo la punteggiatura corretta, senza le parole».
Questo per dire che nelle scritture che funzionano la punteggiatura è incastonata
nel contenuto e, naturalmente, che una cattiva punteggiatura corrode il contenuto.
Vediamola da un altro punto di vista. La punteggiatura sta in mezzo alle parole, ok,
ma a che serve?
Ci sono persone convinte che le virgole vadano usate quando è bene fare una pausa.
Malissimo!, è così che questi segnetti-formichina finiscono nei posti più impensabili.
Non c’è dubbio che l’aspetto emotivo della lettura abbia la sua parte, ma non si possono
distribuire le virgole a seconda del fiato. C’è chi parla di «relativismo interpuntivo»,
cioè si fa un po’ come si vuole. Punteggiamo a orecchio, a occhio, a sensazione, e
quindi bye bye sistema condiviso. Un po’ come due persone distanti migliaia di chilometri
che comunicano con il codice Morse senza conoscerlo bene.
Allora a che serve la punteggiatura? A guidarci nella selva delle parole? A marcare
i periodi? A enfatizzare le cose più importanti?
Ci arriveremo per gradi. Intanto, a proposito di selve, rileggiamo insieme uno dei
passi più belli della letteratura degli ultimi duecento anni. Vi chiedo la pazienza
di arrivare fino in fondo. Godetevi la magnificenza della prosa e l’imperiosità della
punteggiatura.
E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito argomentare
in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda d’albero di quelli che ci aveva
lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta
in sua assenza. S’affacciò all’apertura (del cancello non c’eran più neppure i gangheri);
diede un’occhiata in giro: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del
paese era andata a far legna – nel luogo di quel poverino –, come dicevano. Viti,
gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede.
Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate,
ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti
di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso,
soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza
l’aiuto della man dell’uomo. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne,
di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle,
di panicastrelle e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino
d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa
di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro
nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto
per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di
cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini
bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di
più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta
di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi,
alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze
al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il
tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria,
e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’
rami, nelle foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini,
ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui
una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso,
gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima
di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co’ suoi chicchi
vermigli, s’era avviticchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano
un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando
i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda,
come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo
era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami
o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso,
pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone.
[A. Manzoni, I promessi sposi, Mondadori, Milano 1952, pp. 642-643]
Ecco, il mio libro potrebbe concludersi con questa frase: «Studiatevi la punteggiatura
di Manzoni». Anzi, basta questo passo. C’è tutto quello che si deve sapere sull’interpunzione:
l’aspetto logico e organizzativo, e un uso maturo, perfino virtuoso, delle virgole
e dei punti e virgola.
Guardiamo quant’è bravo Manzoni nel gestire l’enumerazione:
Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati; qua e là,
rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l’aiuto della man dell’uomo.
Che goduria eh?! Due punti: elemento, descrizione, punto e virgola, altri elementi,
punto e virgola, riflessione e un nuovo elemento introdotto da un elenco di tre aggettivi.
E qui:
Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però
migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni
verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di
bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini
biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le lunghe
spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’ rami, nelle
foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero
si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri.
Guardate, i costituenti dell’elenco sono solo due. Per gestire la complessità della
descrizione Manzoni li separa con il punto e virgola.
Per governare il groviglio sintattico è necessario creare una gerarchia delle informazioni.
Chi legge ad alta voce non può esplicitare la punteggiatura, chi legge è guidato dai
segni, e restituisce un’interpretazione basandosi sulla traduzione mentale dei segni,
sul suo istinto e sulla sua capacità performativa. È come se durante la lettura (ad
alta voce, frase per frase) ci si presentassero due libretti delle istruzioni o, per
i più coraggiosi, due partiture: una che evidenzia l’aspetto espressivo, l’altra l’aspetto
sintattico. Questi due ambiti potrebbero perfino andare in contraddizione. Se la punteggiatura
rimane un fatto personale, l’interpretazione della lettura lo è cento volte di più.
In ogni caso la punteggiatura perfetta – no, no, non spingiamoci a tanto –, la punteggiatura
corretta è invisibile. Non ci si accorge nemmeno che tutto sta filando liscio.
E poi c’è l’ultima frase, parlo di Manzoni, eh! «Il rovo era per tutto», punto e virgola,
elenco di verbi, punto e virgola, congiunzione. Sono sicuro che vi starete chiedendo:
«Ma si può fare?». Sì! La punteggiatura è espressività. La vostra punteggiatura siete
voi.
Ora leggete e rileggete queste frasi perfette:
Il clarino è appeso all’armadio; si cammina sui trucioli; li buttano a ceste nella riva sotto il Salto – una riva di gaggìe, di felci e di
sambuchi, sempre asciutta d’estate.
[C. Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino 2014, p. 8]
Tristissimi giorni furono quelli per Uguccione della Stagnola. Non mangiava più, non
beveva più, non dormiva più; e di giorno in giorno dimagriva, dimagriva, dimagriva;
a guardarlo fisso lo si vedeva dimagrire. Tanto che l’armatura adesso, appena lui
si muoveva, gli ballonzolava addosso; e un giorno che, uscendo di casa, inciampò e
cadde, rotolando per le scale che erano lunghissime finì con lo sgusciare intero intero
da una manica della stessa armatura.
Così, quando arrivò al portone e si trovò libero, completamente libero, come un pulcino
che ha rotto il guscio, gridò: «Viva la libertà!» e corse a sposare Doralice, biondissima
fanciulla.
[Sto, I cavoli a merenda, Adelphi, Milano 1990, pp. 16-17]
La punteggiatura vi sembra astrusa? Viola qualcuna delle vostre convinzioni? Troppi
punti e virgola? Ma no, nel primo esempio abbiamo un cambio di soggetto e un cambio
di passo. Nel secondo esempio, tutta la punteggiatura partecipa all’accumulazione
fino alla frase finale – una specie di liberazione. I cavoli a merenda, del 1920, per chi non lo sapesse, è il «più incantevole libro per bambini» scritto
nel secolo scorso, eSergio Tofano, detto «Sto», è un genio.
Andiamo avanti. I puristi cominceranno a guardarmi male, lo so, ma gli cascassero
pure gli occhi: questa è scrittura sublime:
Il mio padrone è Luigino Pizza, che tutti lo chiamano così a causa delle pizzerie.
Ha una bella faccia e pochi capelli, e somiglia a Bianchi che una volta allenava il
Napoli. È un tipo che pare sempre sereno, ma se fa la faccia seria allora pure i suoi
soldati si mettono paura. Lui, Luigino, fosse per lui, passerebbe la vita a divertirsi
e a cantare le canzoni di Bruno Marino. Ogni volta che va nei piano-bar, a un certo
punto il pianista dice:
«Adesso, signori, la voce calda del nostro amico Luigino».
[G. Ferrandino, Pericle il Nero, Adelphi, Milano 2002, p. 9]
Che sensazione ne ricavate? Vi sembra sgrammaticata con quei «che» strani? È letteratura.
A livello di punteggiatura non ci dà grandi grattacapi: ci sono solo le virgole a
scandire le coordinate e le subordinate. I periodi sono perlopiù binari e la segmentazione
crea proposizioni di lunghezza paragonabile. Tutto questo e la scelta di un linguaggio
in presa diretta dà luogo a un ritmo irresistibile che ci costringe a leggere con
cadenza napoletana.
Perché non provate a scrivere un brano con un intento simile? Pensate a qualcosa che
vi riguarda o che ha a che fare con una vostra situazione di vita. Se vi riesce difficile
ricopiate questo. E guardatelo scritto con la vostra calligrafia. Vi sembra così irraggiungibile?
Leggete ora questi due capoversi:
La Pitti: la disgregazione della persona; pochi giorni fa aggrediva furtiva, stamani
disarticolata, uguale a un oggetto morto posato su una mensola. L’ho dovuta alimentare.
Aveva tumida la lingua e posata sopra la cerchia dei denti inferiori.
La Pitti è giovane, era bella, era intatta, svettante i muscoli della gioventù, sana
in tutte le fibre, e la demenza precoce, la schizofrenia, l’ha scomposta come in una
pagina che un pazzo alterni e schiribizzi le righe e le stesse parole sì che quelle
in basso tentano di respirare in alto, all’opposto luogo, e ogni senso boccheggia
e singhiozza e spaurita la vita batterà le ali verso la morte; perfino temendo, temendo
perfino domandare pietà.
[M. Tobino, Le libere donne di Magliano, Mondadori, Milano 2016, p. 97]
Tutt’altro suono, tutta un’altra storia rispetto ai precedenti, vero? Qui è un fuggi-e-frena,
con la punteggiatura a fare da sciolina e da contrappeso.
E di questo che segue cosa ne pensate?
Correva, sempre più veloce, più sciolto, col cuore che bussava, ma dall’esterno verso
l’interno, come se smaniasse di riconquistare la sua sede. Correva come non aveva
mai corso, come nessuno aveva mai corso, e le creste delle colline dirimpetto, annerite
e sbavate dal diluvio, balenavano come vivo acciaio ai suoi occhi sgranati e semiciechi.
Correva, e gli spari e gli urli scemavano, annegavano in un immenso, invalicabile
stagno fra lui e i nemici.
[B. Fenoglio, Una questione privata, Einaudi, Torino 1990, p. 154]
Niente male, no? Non avete sentito le parole che vi correvano affannate sotto gli
occhi? Merito anche della punteggiatura: virgole e punti, e congiunzioni dopo la virgola.
Detto così sembra facile.
Ora leggete quest’altro pezzo:
Il tema dell’innocenza perduta della sua bella terra, terra di mafia recente, la sola
mafia (la Sacra corona unita) che la giustizia sia riuscita a sconfiggere probabilmente
perché – spiegano gli autori, confortati dai magistrati che hanno fatto loro da consiglieri.
Tra loro anche quel Cataldo Motta protagonista della lotta alla Sacra corona – era
improvvisata e chiassosa, cialtrona e priva di radici e struttura, è nel cuore del
regista.
[P. D’Agostini, Quando è una giovane donna la più corrotta dei Galantuomini, «la Repubblica», 28 ottobre 2008]
C’è troppa roba inzeppata dentro. Quanta fatica per arrivare al verbo principale.
La lettura si inceppa, e si rischia di perdere il filo con tutti quegli incisi e riprese.
Perché Pavese, Sto, Tobino e Fenoglio funzionano benissimo, mentre quest’ultimo esempio
così così? Questione di scrittura. Questione di punteggiatura. Questione di immagine
mentale di quello che si sta dicendo.
Diceva Valéry: «Un testo èchiaro quando non percepiamo il linguaggio di cui è fatto. C’è astrazione nel linguaggio». Quando il testo è chiaro la lingua fila via vellutata.
Non ci accorgiamo nemmeno della complessità. Se invece non è stato fatto un lavoro
di organizzazione e semplificazione del contenuto, quest’ultimo risulterà contorto,
respingente sulla pagina.
Se flettiamo il ragionamento sull’interpunzione possiamo dire che la punteggiatura
è il direttore d’orchestra della chiarezza. In questo senso la sintassi, diceva sempre
Valéry, è «l’arte della prospettiva nel pensiero», e la punteggiatura un perfetto vigile, un regolatore, della sintassi.
La punteggiatura deve essere nitida, deve propagare trasparenza ordinatrice.
Guardate questo esempio. È un testo tradotto, ma è stato fatto un eccellente lavoro
sull’interpunzione.
Ma avendo rivisto un po’ l’una, un po’ l’altra delle camere dove avevo abitato nella
mia vita, finivo per ricordarmele tutte durante le lunghe fantasticherie che seguivano
il risveglio: camere d’inverno dove, quando si è coricati, si ficca la testa in un
nido messo insieme con le cose più disparate, un angolo del guanciale, l’estremità
delle coperte, il capo d’uno scialle, il bordo del letto e un numero dei «Débats roses»,
cementati infine tra loro con la tecnica degli uccelli, cioè posandovisi sopra un
numero infinito di volte; dove, quando il tempo è glaciale, il piacere che si assapora
è quello di sentirsi separati dall’esterno (come la rondine di mare che ha fatto il
nido in fondo a un sotterraneo, nel calore della terra) e, poiché il fuoco è rimasto
acceso tutta la notte nel camino, si dorme dentro un grande mantello d’aria calda
e fumosa, attraversata dai bagliori dei tizzoni che si riaccendono, sorta d’impalpabile
alcova, di calda caverna scavata all’interno della camera stessa, zona ardente e mobile
nei suoi contorni termici, ventilata da soffi che ci rinfrescano il volto e vengono
dagli angoli, dalle parti della stanza che, vicine alla finestra o lontane dal fuoco,
si sono raffreddate; – camere d’estate dove è bello essere uniti alla notte tiepida,
dove il chiaro di luna che si posa sulle imposte socchiuse getta fino ai piedi del
letto la sua scala incantata, dove si dorme quasi all’aria aperta, come la cincia
cullata dalla brezza sulla cima d’un raggio; – a volte la camera di Luigi XVI, così
allegra che nemmeno la prima sera mi ci ero sentito troppo infelice, e dove le colonnine
che sostenevano con leggerezza il soffitto s’allargavano con tanta grazia per mostrare
e difendere lo spazio del letto; – a volte, invece, quella – piccola e col soffitto
così alto, scavata in forma di piramide nello spessore di due piani e rivestita in
parte di mogano – dove, fin dal primo istante, ero stato moralmente intossicato dall’odore
sconosciuto della vetiveria, certissimo dell’ostilità delle cortine viola e dell’indifferenza
insolente della pendola che schiamazzava a tutto spiano come se io non ci fossi stato;
dove una strana e impietosa specchiera quadrangolare, sbarrando obliquamente uno degli
angoli della stanza, si scavava a vivo nella dolce pienezza del mio assuefatto campo
visivo un posto non previsto; dove il mio pensiero, sforzandosi per ore di slogarsi,
di stirarsi in altezza per prendere esattamente la forma della camera e riempire così
fino in cima il suo imbuto gigantesco, aveva sofferto molte dure nottate, mentre giacevo
nel letto con gli occhi alzati, l’orecchio ansioso, la narice aggricciata, il cuore
in subbuglio, aspettando il momento in cui l’abitudine avrebbe mutato il colore delle
tende, azzittito la pendola, insegnato la pietà allo specchio obliquo e crudele, dissimulato,
se non proprio dissolto, l’odore della vetiveria, e alquanto alleggerito lo spessore
apparente del soffitto.
[M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto – Dalla parte di Swann, trad. it. di G. Raboni, Mondadori, Milano 2014, pp. 7-8]
Non è meraviglioso? È un unico periodo! C’è un solo punto. Un capoverso di 471 parole
– quasi tremila battute. Un solo punto ma 6 punti e virgola (quindi uno ogni 78,5
parole), un due punti e una cinquantina di virgole (circa una ogni 9 parole). Provate
a scrivere una frase così – in un romanzo, in un racconto, in un tema o in un documento
ufficiale –, vedrete, chiameranno la polizia.
Se lo osservate superficialmente vi sembrerà un guazzabuglio (vi ricordate di questa
parola?), ma se ci entrate dentro capirete che è un capolavoro di stile, un meccanismo
sintattico sbalorditivo; e se nel leggerlo ad alta voce vi lasciate guidare dalla
punteggiatura arriverete alla fine sani e salvi e coccolati. Anzi: ne vorrete ancora.
E per fortuna ne avete a iosa, di Proust.
Ora leggiamo un autore apparentemente più piano, con una struttura della frase più
semplice:
Me ne sto a guardare, dalla panchina di un viale, la vita che in questa strana eternità
si prepara sotto i miei occhi. L’aria è lucida, di un’umidità compatta. Rivoli d’acqua
piovana (saranno guasti gli scoli nella parte più alta della città) confluiscono nel
viale, e hanno steso sull’asfalto, giorno dopo giorno, uno strato leggero di terriccio.
Poco più di un velo, eppure qualche cosa verdeggia e cresce, e non la solita erbetta
municipale; sono piantine selvatiche. Il Mercato dei Mercati si cambierà in campagna.
Con i ranuncoli, la cicoria in fiore.
[G. Morselli, Dissipatio H.G., Adelphi, Milano 2001, p. 154]
Sentite quanto è levigata la scrittura? Sentite come gli incisi si innestano senza
increspare il flusso di parole, come la desolazione e la solitudine permeano la forma
e il ritmo stesso delle frasi?
Questi risultati si ottengono con un grande lavoro sul testo. Scrivendo, smontando
e limando le frasi; ascoltando le sequenze di parole, dopo la lettura ad alta voce.
Ora dopo la culla di Morselli torniamo a un periodare più ampio, in questo caso non
ben controllato.
Che è quanto si rileva pure nel ritorno a casa di Enrico Metz, specie nell’ultimo
capitolo, con la sua lunga distensione temporale, dando quasi l’impressione del non
sapere come concludere (frutto forse della novità narrativa che mi par di cogliere)
una vicenda che narra d’un celebre avvocato che, uscito con dignità dal crac finanziario
dell’azienda per cui lavora, decide di tornare nella cittadina del Nord in cui è nato
(con la moglie Ivana trattenuta dal lavoro a Milano) col solo desiderio di ritrovare
se stesso, vivere un’esistenza di normalissima quotidianità, tra passeggiate (di sapore
cinematografico un po’ all’americana quelle nel parco), incontri con gli amici, il
lavoro indispensabile.
[E. Paccagnini, Storia ordinaria di un avvocato dopo una vita di crac finanziari, «Corriere della Sera», 22 gennaio 2006]
Qual è il problema? Il mio amico scrittore Sergio Claudio Perroni chiama il fenomeno
«scrittura in apnea» o «effetto Maiorca» (ricordate il grande nuotatore che sfidava
le profondità marine?). Non c’è niente di sbagliato in questo periodo, è solo che
ci costringe a fare i conti con il fiato. Non è questione di virgole mancanti (le
virgole sono 9 su 107 parole, e sono l’unico segno presente insieme a tre coppie di
parentesi) ma di struttura della frase.
Ora però voglio tornare a uno dei punti critici del mio ragionamento. Perché a scuola
non ci allenano ad amare la bella scrittura? L’interpunzione viene lasciata lì a friggere
nelle incertezze o, troppo spesso, abbandonata all’iniziativa personale dei docenti.
A differenza della fisica, della chimica e della geografia astronomica, che possiamo
spedire in soffitta e non avere grosse ripercussioni nel prosieguo della vita, la
punteggiatura sta lì in agguato, ogni volta che smozzichiamo una riga.
A difenderci ci difendiamo, per carità, ognuno di noi sviluppa le proprie strategie
di sopravvivenza – chiamandole «il mio stile», nient’altro che una sequenza di scelte
più o meno coscienti e ripetibili –, e scrive. Sì, scrive. E già ci siamo meritati
una carezza, perché è solo scrivendo e correggendosi che possiamo imparare a farlo
bene. Purtroppo non basta se non c’è una guida.
Spero che grazie a questo libro possiate radunare tutte le vostre incertezze: spero
che abbia il potere di estrarle e di farvele affrontare ad una ad una – finalmente.
Eravate assenti quando la professoressa spiegava l’uso del punto e virgola? O ci avete
capito poco, o l’avete dimenticato? Non fa niente. Ripartiamo.
«Non usate parole che non usate per pensare», questo è ancora Valéry, che prosegue
con lo stesso spirito che voglio infondervi io: «Sforzatevi di non pensare mai con
parole che non siano nette, – che non dominate completamente – e che introducono sensi
multipli o indefiniti».
Non lasciatevi distrarre dal complesso uso del trattino dopo la virgola (abbiamo visto
una cosa simile in Proust prima), perché da questo brano possiamo ricavare una lezione
cruciale. Le parole devono essere nette, ben dominate. Anche la punteggiatura deve
essere netta, dominata, e con «dominata» voglio spingervi a un uso concreto ma personale.
Riconoscibile.
Allora: cosa si può fare e cosa non si può fare con questi segnetti meravigliosi?
E soprattutto: come li hanno usati gli altri, quelli bravi e molto più autorevoli
di noi?
Vi istigherò ancora all’imitazione, anzi al copiato. Almeno all’inizio. Mi sa che
l’avete capito; questa non vuole essere una grammatica, né io ho alcuna pretesa accademica.
Anzi, mi scuso in anticipo con i professori e i ricercatori che dovessero avvertire
un’invasione di campo. Questa è una paziente riflessione su una porzioncina significativa
della nostra lingua, una delle cose che amo di più.
Ogni tanto ci penso: perché non coccoliamo il nostro linguaggio (se avessi scritto
lingua avrei generato risate) quanto il corpo?
Perché non lo sottoponiamo a cure di bellezza o a una manutenzione periodica? Avete
mai sentito uno che dica: «Sto rifacendo il mio linguaggio», così come ci capita una
o due volte nella vita con le case? A tutti è capitato di fare i lavori in casa, no?
E poi per una manciata d’anni ci godiamo un ambiente tutto nuovo. Oppure di fare il
tagliando alla macchina.
La lingua va coltivata, giorno dopo giorno. È un atto di amore organico. È un atto
di passione. È un atto civile. Quando esce una nuova grammatica, io devo correre a
comprarla. Proprio non riesco a farne a meno.
Sapete perché gli ebook non avranno mai successo? Perché non permettono quell’atto
d’amore necessario che è il possesso delle parole. Vedete, allora, che c’è una parte
di noi (tutti, mi auguro) che vuole toccarle, stropicciare la carta che le contiene,
segnare qualcosa a margine.
Riappropriamoci delle nostre parole, e dei binari che le fanno scorrere felici.
Avviciniamoci alla punteggiatura con un po’ di sprezzante curiosa allegria.
Leggete ad alta voce gli esempi che vi ho riportato – fate le voci.
Compiacetevi un po’. Ve lo ripeto: copiate le frasi. Imitatele, fatele diventare vostre.
Il futuro è nella bottega rinascimentale.
Storpiatele.
Contestatele.
Fategli il verso.
«Io l’avrei scritto così.»
Quando leggete una definizione ostica – un po’ bizzosa –, spero siano poche, tornate
subito indietro, rileggetela e correte al primo esempio. Poi a quello successivo.
Poi scrivetela voi una frase così.
È la bottega che fa il mestiere. Provare e provare.
Vorrei vederli i vostri tentativi. Fotografati, postati su Instagram, twitter, facebook
con questo hashtag #lamiapunteggiatura. Se scrivete a mano mi fate contento, io che
ho una calligrafia orrenda.
L’unico modo per non annoiarmi e farvi ricavare qualcosa di buono da queste pagine
è mettere a nudo i miei dubbi. Sono partito da quelli più atroci e ho cercato di raccontarvi
le cose come avrei voluto che le avessero raccontate a me, con pazienza e molti esempi,
recuperando, allo stesso tempo, tutte le parole preziose che avevo conservato.
Già che c’ero, dentro ci ho messo pure le paure dei miei allievi dei corsi di editoria
e degli scrittori con cui lavoro. Alcuni sono davvero bravi, e per loro io non sono
che un orecchio in più.
La natura della punteggiatura
Iniziamo subito col dire che la punteggiatura ha due caratteri: uno logico – e questo è abbastanza rigido, nel senso che non si possono mettere o non mettere
determinati segni in certi posti, e tutto sommato ce la caviamo con cinque o sei princìpi
di buonsenso che una volta capiti è fatta (lasciamo stare per ora che pure queste
regolette potranno essere violate) –, e un carattere espressivo che ha a che fare con la creatività e con le sfumature ritmiche e musicali.
Il primo aspetto è predominante a livello locale (cioè se ci avviciniamo alla frase
con una lente di ingrandimento e la analizziamo porzione dopo porzione). Se invece
guardiamo dall’alto le frasi, i periodi, i capoversi, i paragrafi e i capitoli e l’opera
intera, e poi chiudiamo gli occhi e ci lasciamo guidare dal suono complessivo, allora
sì che sarà la musica a prevalere, e la punteggiatura diventa subito parte indistinguibile
del tono, del registro, della melodia semantica del testo. La punteggiatura è una
delle armoniche del testo.
Queste precisazioni però non devono allontanarci da una verità inviolabile: il testo
nella mente del lettore che legge tra sé e sé, mentre trasmigra dal foglio alla mente,
annoda due contributi, quello dell’opera e uno più personale. Qui si dovrebbe aprire
un capitolo complesso sulla didattica della lettura a scuola, ma non è questa la sede
adatta. Dico solo che un maggiore allenamento alla lettura renderebbe certi meccanismi
più spediti.
Quindi, in soldoni: il testo lo fanno l’autore e il lettore, che interpreta a modo
suo.
Se ci si limita alla sola punteggiatura si può dire che il lettore traduce la proposta
logica e ritmica dell’autore. Questo passaggio rende chiaro che la punteggiatura (e
più in generale la scansione di un testo) non è altro che la discretizzazione di qualcosa
di continuo – la voce, l’opera nella mente dell’autore –, nello stesso modo in cui
le immagini della macchina fotografica vengono catturate da una lente e trasformate
in bit. Mi spiego meglio: salvo casi eccezionali, un testo scritto altro non è che
la traduzione di un flusso continuo che sgorga dalla mente dell’autore. Alla sorgente
questo fluire di parole non ha segni di punteggiatura, e l’autore è il primo interprete
di sé stesso quando, scrivendo, fa delle scelte che imprigionano su carta o su file
la forma che aveva in mente.
La trascrizione – ma potremmo dire «la traduzione» – dell’autore è il primo passo
della normalizzazione di cui parlavo poco sopra. Si dà un peso al vuoto, all’assenza.
Si dà un peso alle divisioni e alle unioni. Legami e separazioni. Allontanamenti e
avvicinamenti. Sottolineature. Subordinazione, gerarchia. Ma anche ritmo, effetto
visivo, eh sì, anche l’occhio si prende il suo.
La pagina alla fine è solo una rappresentazione del contenuto. Si pensi ai testi medievali
dove era determinante il copista, o ai testi ancora più antichi. Sappiatelo: la punteggiatura
che vediamo ora è stata scelta a posteriori, ed è addirittura mutata nel tempo.
Torniamo a Dante, alle terzine con il mio verso preferito, e andiamo a leggerle direttamente
sul più antico manoscritto della Commedia conservato. Si tratta del Codice Landiano
190, trascritto nel 1336 dal copista Antonio da Fermo. Niente autografi di Dante purtroppo.
Virgole zero, apostrofi e accenti non pervenuti. Spazi tra le parole: talvolta incerti.
Punti: pochi. È così che probabilmente Dante l’ha scritta.
La seconda versione mi fa venire i brividi. Si tratta dell’edizione di Aldo Manuzio
curata nel 1502 da Bembo. Siamo nella fucina dell’editoria moderna, probabilmente
nel luogo dove venne impressa la più importante svolta nel campo del sapere.
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo; che men luogo cinghia,
e tanto più dolor, che pugne a guaio.
Stassi Minos orribilmente, et ringhia:
examina le colpe ne l’entrata:
giudica, et manda secondo che avvinghia.
Dico, che quando l’anima mal nata
lì vien dinanzi; tutta si confessa:
et quel conoscitor de le peccata
vede qual luogo d’inferno è da essa:
cignesi con la coda tante volte;
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Come vedete c’è un uso strano del punto e virgola dovuto a Bembo: serviva per indicare
una pausa più debole di quella del doppio punto e introdurre le subordinate. Se prendiamo
la versione del 1726 conservata alla Harvard University (Cambridge, Massachusetts)
invece:
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men luogo cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stassi Minos orribilmente, e ringhia:
esamina le colpe ne l’entrata:
giudica, e manda secondo che avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
lì vien dinanzi, tutta si confessa:
e quel conoscitor delle peccata
vede qual luogo d’inferno è da essa:
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Giochiamo a Trova le differenze? I punti e virgola sono spariti, e pure una virgola.
Punteggiatura a parte, vedete che l’amico Minos ora «stassi» «e ringhia».
Passiamo alla versione del 1921 stampata da Bemporad.
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men luogo cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’entrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
lì vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual luogo d’inferno è da essa:
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Assistiamo al ritorno di un paio di punti e virgola, per il resto è tutto uguale.
L’ultima che esaminiamo è una versione recente, la Zanichelli curata da Pasquale Zoppelli.
Cambiamenti minimi anche stavolta.
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men luogo cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
lì vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual luogo d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Se vi dettassi queste quattro terzine, chi si arrischierebbe a piazzare qualche punto
e virgola? Ci ritroveremmo una selva di punti e di virgole, come è d’uso oggigiorno.
Negli ultimi anni, alla forma dell’autore, alla sua concretizzazione sulla pagina,
dicevamo, va sempre di più sovrapposto il controllo dell’editor (e quindi il confronto
con un curatore) e il vaglio del redattore. La vita dello scritto però comincia quando
la pagina stampata passa nelle mani dei lettori, che mettono in campo le proprie di
rappresentazioni.
Questo gioco della fruizione cambia un po’ quando ascoltiamo un testo letto da qualcuno.
Buona o no che sia la lettura, marcata o no che sia la rappresentazione, quella che
ascoltiamo – l’abbiamo detto prima – è un’interpretazione, una successione di possibili
scelte guidata da un progetto di resa.
Vedete allora che non è molto diverso dall’esecuzione di uno spartito musicale. Quante
bellissime versioni avete ascoltato dei Notturni di Chopin? Alcune definitive e uniche. Lentissime o vigorose, o sussurrate, o freddamente
impeccabili. Molti non sono in grado di distinguerle, ma basta un centinaio di ascolti
per apprezzare le differenze – ognuno le sue. Per lo stesso identico motivo dieci
persone diverse (metteteci pure dentro cuochi e gente comune) cucinerebbero dieci
carbonare diverse con gli stessi ingredienti.
Facciamo un esperimento. Proviamo a leggere queste frasi che differiscono solo per
la punteggiatura finale (riprenderemo il discorso quando, tra poco, parleremo di funzione
ritmico-intonativa):
Tu rimani qui.
Tu rimani qui?
Tu rimani qui!
Tu rimani qui?!
Tu rimani qui...
Tu rimani qui—
La prima è facile. La seconda è una domanda, ci arriviamo tutti. La terza, il punto
esclamativo. Vabbè, metteteci un po’ di enfasi, un po’ di tono.
La quarta: di fronte a ?! vi fermate, vero?! Nei libri questo fascinoso segno di punteggiatura
lo trovate in molte varianti: ?!, !?, ??! Sono stati i fumetti a sdoganarlo (come
la gran parte delle interiezioni colorite, molte delle quali – pur note a tutti –
non trovano posto nei vocabolari).
Cosa significa? Sorpresa, stupore.
Abbiamo bisogno di un segno specifico per rappresentare questa situazione. Non c’è
altro modo per indicarla. Guardate qui:
– Ahò?! Robbi! Com’è andata?! – il Tenaglia era eccitato come se stesse parlando con
Giovanni Soldini dopo il giro del mondo.
[N. Ammaniti, «Fa un po’ male», in Il momento è delicato, Einaudi, Torino 2012, p. 131]
Se volete che il Tenaglia sia proprio il Tenaglia avete bisogno di quel segno.
Dei puntini di sospensione, invece, abbiamo abusato un po’ tutti, ed è sempre più
difficile usarli bene. Stanno a indicare che ci sarebbe molto altro da dire ma il
discorso rimane volutamente in sospeso (a volte perché allusivo, altre volte perché
in effetti non c’è molto altro da dire).
Quando ho il dubbio vado a riguardare la regola numero sette delle famose «Regole
per scrivere bene» di Umberto Eco:
Stai attento a non fare... indigestione di puntini di sospensione.
Il trattino lungo o lunghissimo (questo qui —, da non confondere con quello medio
– e quello breve -) non è codificato nelle nostre grammatiche. Nei paesi anglosassoni
prospera nei libri da almeno cento anni. Ha una funzione precipua e per lo scopo che
ha non è sostituibile. Sta a indicare un’interruzione brusca (volontaria o indotta
da qualcuno, che per esempio ci parla addosso, o qualcosa). Gli editori italiani non
lo amano, anzi nelle loro norme redazionali prescrivono di sostituirlo con altri segni.
Sapete qual è il più gettonato? Indovinate un po’! I puntini di sospensione. Ebbene
sì, tutte le volte che vi imbatterete – nella lettura, intendo – in una situazione
in cui non c’è nulla di sospeso, o allusivo o di ammiccante o di vagamente conturbante
e vi trovate piazzati i puntini di sospensione, c’è un’alta probabilità che siate
di fronte a una sofisticazione interpuntiva. Non sapete quante battaglie ho perso
per diffondere questo segno nella nostra narrativa; se non altro nei libri tradotti.
Comunque, rendere il trattino lunghissimo nella lettura è facile: basta arrestare
di colpo l’emissione del fiato. Guardate questo dialogo:
“John, io e Pamela—”.
“Tu e Pamela cosa?”.
“Pamela è giovane”.
“E tu che scuse hai?”.
“John, io—”.
L’ho interrotto. “Che ci fa qui, lei? Credevi che a David facesse piacere conoscerla?
Che ti passa per la testa?”.
[P. Everett, Ferito, trad. it. di M. Rossari, Nutrimenti, Roma 2009, p. 179]
Ora vi mostro un esempio in cui il trattino lunghissimo sarebbe stato perfetto, ma
per i motivi di cui sopra non c’è. Sono sicuro che, se Buzzati l’avesse conosciuto,
l’avrebbe usato.
“Oh mia deliziosa Ornella” scrive “vorrei che tu sap...”
Il fattorino Ermete sulla porta che annuncia il dottor Bi. vice-prefetto.
“... che tu sapessi” scrive “qu...”
Il telefono: “Qui, il capo di Stato maggiore generale”. Il telefono: “Qui il segretario
particolare di Sua Eminenza l’arcivescovo...”.
“... quando io ti v...” scrive febbricitante con l’ultimo fiato.
Drèn, drèn, il telefono [...].
[D. Buzzati, «Una lettera d’amore», in Sessanta racconti, Mondadori, Milano 2012, p. 400]
Siete d’accordo? Passiamo a qualcosa di diverso. È una porzione di una poesia di Sylvia
Plath:
L’aria è un mulino di uncini—
domande senza risposta,
luccicanti e ubriache come mosche
il cui bacio punge insopportabilmente
nei fetidi ventri d’aria nera sotto i pini d’estate.
[S. Plath, Mistica, trad. it. di A. Ravano, Mondadori, Milano 2002, p. 795]
Capito cos’è il trattino lunghissimo? La punteggiatura qui è tersa, perfetta. La scansione
principale, com’è ovvio in una poesia, è data dalle andate a capo che obbligano la
lettura, forzano certe pause e incatenano certe parole. Soffermatevi sui primi due
versi, e sul riverbero di «L’aria è un mulino di uncini» sul resto della poesia, in
particolare dal terzo verso in poi. Capite perché quell’interruzione è necessaria?
Non preoc- cupatevi, di espressività e intonazione parlo a più riprese nelle prossime pagine.
Torniamo a qualcosa di più classico. Riprendiamo il nostro discorso, rallegrandoci
un po’ con l’incipit dell’Ortis tratto dall’edizione ottocentesca che avevo a casa quando ero piccolo e che già dal
frontespizio sventagliava con gran vanto di essere «autentica» perché basata sugli
autografi:
Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto, e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure,
e la nostra infamia.
Non è un gioiello? Non potete immaginare quante volte l’ho letta e riletta. Non dice
(tolgo la prima parte e l’inciso):
e la vita non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia.
No, nella movenza drammatica data dalla costruzione della frase (i due punti dopo
l’entrata apodittica e ferma, a cui segue un’affermazione altrettanto definitiva e
la segmentazione continua che rende bene le parole strozzate), Foscolo aggiunge un
intarsio. Una ulteriore divisione che ci costringe a stabilire un prima e un dopo,
un piano principale e lo sfondo. Sciagure e infamia. L’«infamia» arriva dopo, pesante,
battente, peggiore delle sciagure.
Fantastico, sono ancora emozionato, ma c’è un ma. Si tratta di un’edizione pirata.
Una delle trenta e passa che prosperavano prima e dopo la morte di Foscolo. Questa
non è la vera, autentica, incontrovertibile stesura definitiva del nostro amato eroe
romantico. Cancellate tutto, ripartiamo da zero.
L’edizione Feltrinelli che trovate in libreria, e che si basa davvero sugli autografi,
si presenta così:
Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure
e la nostra infamia.
[U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Feltrinelli, Milano 2014, p. 39]
Gnè. Voglio sotterrarmi. Chi l’ha messa quella fantastica virgola prima della e? Per chi mi sono esaltato tutti questi anni? È bella lo stesso, ma ritiro tutto quello
che ho detto.
A cosa serve la punteggiatura
Nella Retorica Aristotele se la prende nientemeno che con Eraclito, reo, a suo dire, di punteggiare
in modo vago (si sappia che a quel tempo i segni usati per l’interpunzione erano incerti
e limitati). Il rimprovero verso l’oscuro Eraclito era mosso da un proposito di buonsenso:
la punteggiatura, come abbiamo detto, deve essere semplice e nitida, altrimenti rischia
di perdere la funzione ordinatrice che è chiamata a adempiere.
Analizziamolo il passaggio di Aristotele: «Ciò che si scrive, generalmente, dev’essere
agevole da leggere e da pronunciare. È questo precetto a far sì che la maggior parte
di coloro che scrivono non usi troppe congiunzioni, né frasi complesse da interpungere,
come fa invece Eraclito. È difficile, difatti, inserire i segni di punteggiatura nelle
frasi di Eraclito, perché non si comprende a quale termine si debba collegare una
certa parola, se a uno che la precede o a uno che la segue».
Come vedete ci va pesante. A volte il problema sta nella struttura (cioè nella concezione
della frase), altre volte sta nella testa di chi scrive. Non si può raggiungere la
limpidezza se non c’è limpidezza alla fonte.
Ora però facciamo i bravi, andiamo con ordine e cerchiamo di fissare tre o quattro
concetti fondamentali. Prima di tutto chiariamo di cosa parliamo quando parliamo di
punteggiatura.
Con il termine «punteggiatura» (o «interpunzione») indichiamo una serie di segni non alfabetici che ci permettono di scandire un testo e suddividerlo in unità sintattico-semantiche. Detto così è un po’ oscuro, come Eraclito. Semplifico: la punteggiatura ci aiuta
a leggere e a capire bene. Se la frase è una strada, la punteggiatura è l’insieme
dei segnali. Stop, rallenta, gira a destra, attento deviazione, attenzione pericolo.
Se le frasi sono un tessuto, un abito, la punteggiatura rappresenta le cuciture visibili,
quelle nascoste, quelle doppie, e quelle rinforzate... Leggete questo passo di Rodari
e non potrete fare a meno di essere trasportati dal suo ritmo, e la punteggiatura
ne è il bordone:
In mezzo alle montagne c’è il lago d’Orta. In mezzo al lago d’Orta, ma non proprio
a metà, c’è l’isola di San Giulio. Sull’isola di San Giulio c’è la villa del barone
Lamberto, un signore molto vecchio (ha novantatre anni), assai ricco (possiede ventiquattro
banche in Italia, Svizzera, Hong Kong, Singapore, eccetera), sempre malato. Le sue
malattie sono ventiquattro. Solo il maggiordomo Anselmo se le ricorda tutte. Le tiene
elencate in ordine alfabetico in un piccolo taccuino: asma, arteriosclerosi, artrite,
artrosi, bronchite cronica, e così avanti fino alla zeta di zoppìa.
[G. Rodari, «C’era due volte il barone Lamberto», in I cinque libri, Einaudi, Torino 1995, p. 475]
Che ne dite? Avete fatto le svolte giuste, avete frenato per bene? Avete atteso che
scattasse il verde? Avete rallentato prima dello stop? Ma rallentiamo pure noi e diciamo
le cose con calma.
Nella nostra lingua i segni di punteggiatura codificati sono:
– Il punto (.);
– Il punto interrogativo (?);
– Il punto esclamativo (!);
– La virgola (,);
– Il punto e virgola (;);
– I due punti (:);
– I puntini di sospensione (...);
– Le virgolette (« », “ ”, ‘ ’);
– I trattini (-, –);
– Le parentesi tonde ( );
– Le parentesi quadre [ ];
– La sbarretta (/);
– L’asterisco (*).
Li avete usati tutti questi segni? Fate mente locale per un momento. Le parentesi
quadre? Ma sì, per indicare il taglio in una citazione. La sbarretta? Per indicare
una scelta tra due opzioni.
Un paio di quelli che io aggiungerei per legge li sapete già:
– L’espressione di sorpresa (?!);
– Il trattino lungo o lunghissimo per l’interruzione (—).
Vi dico subito che ai segni propriamente detti aggiungeremo pure lo spazio, gli spazi.
Eh sì, anche gli spazi sono punteggiatura. A proposito di Flaubert una volta Proust
ha detto: «Penso che la cosa migliore dell’Educazione sentimentale non sia una frase ma un bianco».
Un po’ di pazienza, abbiamo bisogno di qualche mattone fondamentale, poi parleremo
di «superpunti» e «punteggiatura bianca» come li chiamano Luca Serianni e Francesca
Serafini.
Cosa fa dunque la punteggiatura?
Interpungere è un esercizio di potere. L’interpunzione è la scienza del fluire del
discorso.
La punteggiatura va considerata in senso più ampio possibile.
Tutto ciò che divide per unire è punteggiatura: dalla divisione in parti, capitoli, paragrafi, capoversi. Gli spazi bianchi, l’andare
a capo, anche questo è punteggiatura. Avete inteso? Sono punteggiatura i segni testuali,
quelli tipografici e il vuoto. È in questo senso che la punteggiatura fa parte dei
segni paragrafematici, quei segni, cioè, secondo la definizione di Arrigo Castellani,
«che servono a completare quel che viene indicato per mezzo dei grafemi». (Vi ricordo
che per «grafema» si intende l’unità elementare della scrittura: una lettera, e più
in generale un carattere.) Se la prendiamo tanto alla larga possiamo dire che sono
legati all’interpunzione pure gli accenti, gli spazi tra le parole, le maiuscole,
l’uso del corsivo, del grassetto e del sottolineato: tutto ciò che rinforza la leggibilità
dell’opera, insomma. Sì, detta così è un po’ grossa.
La punteggiatura ci permette di auscultare il testo: perché se il testo è la musica,
la punteggiatura rappresenta tutte le altre indicazioni (le notazioni), dalla divisione
in battute alle indicazioni ritmiche.
La punteggiatura aiuta a distribuire il peso degli elementi lungo la frase. Bisogna
evitare di avere troppo carico in testa, o sulle spalle, oppure i piedi troppo pesanti.
Vedetela così, una frase (il discorso va esteso all’intero periodo, poi al capoverso
e al paragrafo, e così via) è una trave sospesa nel vuoto, e su questa trave si devono
sedere delle persone (avete presente la famosa foto degli operai del grattacielo in
costruzione di New York?). Le frasi nascono bitorzolute in alcuni punti, o rischiano
di ingrassare male. La punteggiatura ci aiuta a bilanciare il peso delle persone lungo
la trave, per evitare che si impenni. La punteggiatura mette la sciolina alla lettura.
Il peso è di natura morfosintattica, che, detto in parole più agili, vuol dire che
il peso è dato, sia localmente sia su larga scala, dal grado di organizzazione e dalla
complessità del contenuto espresso: contribuiscono al peso, pertanto, sia l’aspetto
logico sia l’aspetto del significato.
Quando si legge, e quindi si imprime un ritmo, si fanno una serie di scelte in tempo
reale di tipo eminentemente espressivo e fonatorio. Durante la lettura, quindi, la
punteggiatura ha la funzione di indirizzamento del flusso di parole.
Sarebbe bello che i segni di punteggiatura fossero univoci e sufficientemente codificati
da rappresentare un metalinguaggio universale, ma non è così.
Su questo aspetto Serianni è lapidario: «Tra le varie norme che regolano la lingua
scritta, quelle relative alla punteggiatura sono le meno codificate, non solo in italiano.
Inoltre, alle incertezze pratiche si aggiunge il disaccordo degli studiosi sull’interpretazione
complessiva del fenomeno, nonché sulla definizione e sulla classificazione delle singole
unità interpuntive». Siamo messi bene! Non sarà proprio questa confusione a generare
distanza? o forse diffidenza. Proviamo insieme a rendere granitici due o tre concetti,
partendo dalla base: il perché usiamo questi segnetti in mezzo alle parole. Se mi
sto ripetendo un po’ scusatemi, è per una buona causa. La punteggiatura è indispensabile
per:
– Traghettare per bene il senso;
– Scandire il testo in blocchi logici e di significato;
– Guidare occhio e voce nell’interpretazione.
Estendendo il discorso che ho fatto in La natura della punteggiatura, ho individuato tre funzioni per descrivere il comportamento della punteggiatura:
– Funzione logico-sintattica;
– Funzione ritmico-intonativa;
– Funzione autoriale (e metalinguistica).
Premetto che una data situazione testuale e un dato segno interpuntivo possono rispondere
contemporaneamente a più funzioni.
La funzione logico-sintattica è la più importante. La punteggiatura è il luminol che rivela la struttura della
frase, mettendo in evidenza i rapporti gerarchici. A colpo d’occhio vediamo la segmentazione
della frase, il primo aspetto da avere chiaro – sempre consapevoli che logica, respiro
e intonazione sono tre ambiti distinti. Mettiamo dei segnetti tra le parole perché
abbiamo capito che la scriptio continua non è molto agevole e potrebbe dare vita a fraintendimenti pericolosi. Per esempio
questo:
Quando tornò la madre dormiva.
[A. Dubus, «Addio», in I tempi non sono mai così cattivi, trad. it. di N. Manuppelli, Mattioli 1885, Fidenza 2015, p. 97]
Il soggetto della frase si chiama Paul ed è di ritorno da una corsetta. Stando alla
frase però si potrebbe desumere che a tornare sia la madre e che Paul stia dormendo,
l’esatto contrario.
Sarebbe stato bene scrivere, e direi che la disambiguazione dovrebbe essere obbligatoria,
così:
Quando tornò, la madre dormiva.
Il contesto aiuta, certo, ma perché non sfruttare gli strumenti a disposizione? Guardate
questo scambio di battute:
«Ti fai venire i nervi per niente. Non ti capisco».
«Non capisci perché sei un superficiale».
[L. Bigiaretti, Il dissenso, Bompiani, Milano 1969, p. 155]
La presenza o meno della virgola dopo «capisci» cambia il senso. Nel primo caso la
battuta suona un po’ come «visto che sei una persona superficiale allora non puoi
capire». Nel secondo: «Non capisci il motivo per cui ti considerano una persona superficiale».
Ancora due:
Crescendo la sua ostilità nei confronti delle donne con cui Paolo si vedeva non era
mutata.
[L. Muratori, Sole senza nessuno, Adelphi, Milano 2010, p. 27]
Qui andrebbe messa una virgola dopo «Crescendo», altrimenti si potrebbe pensare che
sia l’ostilità a crescere.
«Ma perché, tu speri ancora in qualcosa?»
[R. La Capria, «L’occhio di Napoli», in Napoli, Mondadori, Milano 2009, p. 248]
Che dite, se togliamo la virgola dopo «perché» cambia il colore della domanda? Sì.
Guardate ora questo periodo estratto da uno dei tanti manoscritti che ricevo ogni
giorno (vi siete mai chiesti perché continuiamo a chiamarli manoscritti?!):
Decide di frequentare il liceo linguistico, ma va male a scuola soprattutto in latino, è sempre più odiata dalla sorella Clara che invece è magra e bella.
Qui si chiede un po’ troppo alla virgola. È vero che il soggetto delle due frasi rimane
lo stesso ma è anche vero che la coordinata diventa passiva e la virgola, a mio parere,
fatica a reggere il flusso. Un punto e virgola è la scelta giusta. Esempi come questo,
però, sono abbondanti nella scrittura contemporanea. Eccone un altro:
Appena arrivati a casa abbiamo messo la cassetta nel video, senza neanche attaccarci
sopra l’etichettina gialla con il titolo Il mondo dell’amore, così la cassetta rimaneva lì anonima misteriosa, ogni volta per sapere cosa c’era dentro dovevi provarla.
[A. Nove, «Il mondo dell’amore», in Gioventù cannibale, Einaudi, Torino 1996, p. 57]
Cosa dite di quelle due virgole? Ce la fanno? Di contro voglio mostrarvi un esempio
in cui sono presenti virgole apparentemente non indispensabili ma che invece sono
necessarie, perfette. Si tratta del primo articolo della nostra Costituzione:
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Provate a toglierle. Improvvisamente i due aspetti della prima frase si mischiano
un po’, e invece è importante che siano distinti, così come nella seconda frase.
Ora torniamo ai nostri ragionamenti.
Per organizzare con efficacia il discorso suddividiamo il testo in capoversi, paragrafi
e capitoli. Già il primo sguardo ci dà parecchie informazioni. Per esempio un testo
costituito da frasi brevissime suddivise solo da punti suona diverso rispetto a un
testo con periodi di ampio respiro pieno di subordinate e incisi. Cambia la stessa
predisposizione alla lettura. Provate voi stessi: Ammaniti vs Arbasino:
Fausto Coppi era il miglior ciclista del mondo.Il più veloce.Ma soprattutto il più resistente.Non si stancava mai.Era un grande.E non mollava.Non si arrendeva.
Mai.
E tu sei Fausto Coppi.
[N. Ammaniti, Ti prendo e ti porto via, Einaudi, Torino 2014, pp. 389-390]
Rari grattacieli sparsi, colline ripidissime fiorite di case bianche, vertiginose salite, vaste discese abbandonate, ciuffi d’alberi scuri, guglie gotiche o Art Déco, cupole come spumoni rosa: l’estrema città europea dell’Occidente, di una bellezza straziante e disperata, forse percepibile soprattutto da qualche europeo molto disperato e inconsolabile. «Tutto ciò che scompare in Europa» diceva infatti Oscar Wilde «prima o poi ricompare
a San Francisco». [...] Una luce di qualità forsennata, indifferente, orizzonti troncati o spalancati o improvvisamente deserti; e continui vortici di nebbia, invadente e salata, sa di mare. Un pittoresco angoscioso e quasi atroce, perché dà un senso di paura fisica e psicologica.
[A. Arbasino, «Vedute di San Francisco», in America amore, Adelphi, Milano 2011, p. 435]
Capito quello che intendevo? Ammaniti è bravissimo nel rendere un pensiero ossessivo,
una vocina che formicola dentro, ma Arbasino che scrittore, che classe! La sua è una
prosa espressiva, smargiassa, ricca di frasi coordinate e giustapposte; l’aggettivazione
è abbondante e ricorsiva, e la sua punteggiatura è funzionale a tutto questo e crea
una segmentazione architettonica e irruente.
La funzione ritmico-intonativa ci permette di leggere bene il testo perché una corretta scansione aiuta la comprensione.
Dovremmo distinguere tra lettura ad alta voce (in cui interviene pure una componente
emotivo-recitativa piuttosto disgiunta dalla punteggiatura) e lettura endofasica
(cioè a mente), più indicata per lo studio e l’assimilazione dei contenuti. In entrambi
i casi, comunque, la punteggiatura riguarda prevalentemente il piano della traduzione
mentale del testo nel fluire della lettura. Pensate a un attore. A me viene in mente
un performer eccezionale come Louis C.K., in grado, con testi molto semplici, di creare
monologhi piuttosto articolati dal punto di vista della modulazione sonora.
È come se la punteggiatura ci desse gli elementi base della ritmica, diciamo cassa
e rullante. Manca tutto il resto: il beat, le pause, il groove, e chissà quant’altro.
Per dimostrarvi quanto appena detto ho scelto un testo di Giorgio Terruzzi, uno scrittore
con cui ho la fortuna di lavorare. Terruzzi scrive esattamente come legge i suoi testi.
La sua è una scansione molecolare, serratissima. Concentratevi sulla ritmica, come
se fosse un pezzo dei Muse.
Si telefonavano. Ore ed ore di conversazioni. Si scrivevano. Una lettera al giorno, secondo chi viveva vicino a Ferrari. Si vedevano. A Firenze, forse altrove: «Veniva a mangiare a casa mia. Fece coniare una coppa con il Cavallino dedicata a mia madre, la cuoca più brava del mondo». Abbastanza per far scattare pettegolezzi insistenti lungo quel crinale delicato che
fu la vita privata del Grande Vecchio di Maranello, sposato con Laura, legatissimo a Lina, mamma di Piero. Del resto, Fiamma Breschi cercò sempre di allontanare ogni ambiguità: «Eravamo amici, era qualcosa di grande ma di platonico».
[G. Terruzzi, È morta Fiamma, la musa misteriosa che accendeva la vita di Ferrari, «Corriere della Sera», 24 novembre 2015]
They will not force us / they will stop degrading us / they will not control us /
we will be victorious... Ora vi mostro come un’alta densità di segmentazione può portare
a risultati espressivi differenti. Se Terruzzi è secco e battente, qui D’Arzo è carezzevole
e levigato.
All’improvviso, dai sentieri dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l’abbaiare di un cane. [...] Chini attorno al saccone di foglie, al lume della candela, c’eravamo io, e i tre soldati, e qualcosa come sei o sette donne e anche di più. E più in là, ma nell’ombra, ce n’era anche qualche altra, e il maresciallo, e il ragazzo: e tutti quanti cogli occhi fissi sul sacco.
[S. D’Arzo, «Alla giornata», in Casa d’altri e altri racconti, Einaudi, Torino 2007, p. 73]
Altri due esempi quasi opposti di scansione ritmica impartita dalla punteggiatura.
Ondeggiava nell’abito spumoso.
Le brillavano gli occhi, i denti, le dita.
Rovesciava il capo nel trèmolo del riso, si gargarizzava come l’uccelletto che beve.
I lobi nascosti a metà dell’ala dei capelli, spandevano scintillamenti azzurri.
Fosforeggiava.
Donna metallica.
Creatura minerale.
[A. Savinio, Tragedia dell’infanzia, Adelphi, Milano 2001, pp. 66-67]
Tutti, all’infuori di Gurù che aveva abbassato il capo, rimasero un momento a guardare, non già le zampe di capra rimaste allo scoperto, ma piuttosto lui stesso a bocca aperta e non senza inquietudine, come si guarda un pazzo; quindi lo zio si chinò e, tributando paterni buffetti sulle zampe della fanciulla (ritirate ora nervosamente
sul piolo della seggiola) all’attacco dello zoccolo, «eh eh,» ripeté non senza una punta di paterna libidine, «eh eh queste belle gambine...»
e intanto continuava a guardare Giovancarlo, non riuscendo assolutamente a spiegarsi le sue furie.
[T. Landolfi, La pietra lunare, Adelphi, Milano 1995, p. 26]
Savinio è frammentario, verticale, poetico. Landolfi è avvolgente.
La funzione autoriale (e metalinguistica) è quella che permette allo stile personale di sgorgare. Le regole si allentano,
vengono flesse dall’intenzione, dall’effetto che si vuole conferire al testo. La punteggiatura,
pur sempre al servizio del testo, imprime personalità ed espressività. L’autore può
entrare con la propria voce nel testo (si pensi alle parentesi nei Promessi sposi) oppure prendere le distanze da esso (si pensi a certe virgolette su parole o espressioni
non condivise) o mettere in evidenza qualcosa (si pensi ai corsivi di enfasi).
Nell’esempio che segue sembra che il testo sia stato scritto pensando già a una sua
rappresentazione. La punteggiatura è personale e molto espressiva.
Oggi come oggi se questo libro fosse la proposta di un esordiente e una casa editrice
decidesse di pubblicarlo, c’è un alto rischio che verrebbe normalizzato.
E alla fine: che verità è mai questa, che puzza di cadavere, e cresce nel sangue, si nutre di dolore, e vive dove l’uomo si umilia, e trionfa dove l’uomo marcisce? [...] Darrell, lui era uno di quelli che erano tornati. Aveva visto il ventre del mare, era stato qui, ma era tornato. Era un uomo caro al cielo, diceva la gente. Era sopravvissuto a due naufragi e, dicevano, la seconda volta aveva fatto più di tremila miglia, su una barca da nulla, per ritrovare terra. Giorni e giorni nel ventre del mare. E poi era tornato. Per questo la gente diceva: Darrell è saggio, Darrell ha visto, Darrell sa. Io passavo i giorni ad ascoltarlo parlare: ma del ventre del mare lui non mi disse mai nulla. Non gli andava di parlarne. Non gli piaceva nemmeno che la gente lo volesse sapiente e saggio. Soprattutto non sopportava che qualcuno potesse dire di lui che si era salvato. Non poteva sentire quella parola:salvato. Abbassava la testa, e socchiudeva gli occhi, in un modo che era impossibile dimenticare. Lo guardavo, in quei momenti, e non riuscivo a dare un nome a ciò che leggevo sul suo volto, e che, sapevo, era il suo segreto. Mille volte, ho sfiorato quel nome. Qui, su questa zattera, nel ventre del mare, io l’ho trovato. E ora so che Darrell era un uomo sapiente e saggio. Un uomo che aveva visto. Ma, prima di ogni altra cosa, e nel profondo di ogni suo istante, lui era un uomo –inconsolabile. E davvero salvato è solo colui che non è mai stato in pericolo. Potrebbe anche arrivare una nave, adesso, all’orizzonte, e correre fin qui sulle onde, e arrivare un istante prima della morte e portarci via, e farci tornare, vivi, vivi: ma non sarebbe questo che, davvero, ci potrebbe salvare. Anche se ritrovassimo mai una qualche terra, noi non saremo mai più salvi. E quel che abbiamo visto rimarrà nei nostri occhi, quel che abbiamo fatto rimarrà nelle nostre mani, quel che abbiamo sentito rimarrà nella nostra anima. E per sempre, noi che abbiamo conosciuto le cose vere, per sempre, noi figli dell’orrore, per sempre, noi reduci dal ventre del mare, per sempre, noi saggi e sapienti, per sempre – saremo inconsolabili.
[A. Baricco, Oceano mare, Bur, Milano 2001, pp. 121-122]
Di pasta diversa ma ugualmente riconoscibile sono Pasolini e Ammaniti.
La luce del mito che ritorna e si ripete, se così posso esprimermi: ma in tal caso il mito resta indefinito, non appartiene a nessun momento concreto del ritorno delle stagioni, legandosi a una divinità di una qualsiasi religione: no: eravamo nel pieno dell’estate, e il tempo pareva non essere mai cominciato; si era nel cuore di qualcosa – appunto silenzio, azzurro, pienezza – di cui non contava il passare: ma la sua fissità: cosa che succede appunto per i giorni ricordati.
[P.P. Pasolini, Petrolio, Mondadori, Milano 2015, p. 17]
Mi sono fermato. Ero sudato. Ho preso fiato e l’ho chiamata