Capitolo V. «Civilizzati» e «incivili». Nel corso delle sue peregrinazioni in Europa, narrate in un resoconto dato alle stampe nel 1672, il gentiluomo francese Jouvin de Rochefort una sera cenò in una malga del Sudtirolo. Imbarazzatissimi per la presenza di un signore di tanto riguardo, i bovari fecero accomodare l’ospite sulla «più bella delle loro sedie, cioè un catino rovesciato», e apparecchiarono la tavola «su cui non c’erano né tovaglia, né tovaglioli, né coltelli, né forchette, né cucchiai». In una scodella di legno vennero servite delle rape fatte cuocere «in una pignatta con della farina, del sale, del burro e del latte», in un’altra scodella sei uova, mezzo formaggio e qualche pezzo di pane. Per l’occasione venne portato un po’ di «vino svanito» (di solito i bovari bevevano solo latte). La famiglia si accomodò per terra intorno alla tavola. Il padre allungò all’ospite il piatto con le uova: questi ne prese una e distribuì le altre ai commensali. Poi il padre gli porse quello con le rape: vi «misi subito la mano» – narra il gentiluomo – «il resto della famigliola fece lo stesso, nessuno osò prenderne ancora se non dopo che ne ebbi mangiate altre». Gli fu portata una tazza di legno dove gli fu servito il vino: «bevvi alla salute di tutta la compagnia, che non osò fare lo stesso». Qualcuno si alzò per bere del latte e gli portò un po’ di formaggio e un piatto «di piccoli frutti, assai simili all’uva nell’aspetto e nel gusto, che crescono nel bosco e sulle montagne» (dei mirtilli?)1. Un interno assai misero, quello dei bovari sudtirolesi. Ma simile ad altri interni di campagna dell’epoca, ad esempio quelli descritti nel 1694 dal riminese Girolamo Cirelli, pur dotati di qualche comodità in più, come una sorta di tovaglia, presumibilmente delle sedie e forse anche maggior abbondanza di cibo. Scrive infatti Cirelli: «[I villani] non adoprano tovaglia, ma solo un mantile, che altro non è che un pezzo di tela con l’estremità di color torchino, quale mai non cuopre tutta la tavola. Non anno [sic] tovaglioli, ma si nettano la bocca con le maniche del giupone, o della camiscia. Mangiano senza forchetta, e cuchiaro, e invece del quale adoprano una fetta di pane sopra la stessa tavola, dove mangiano tengono le pignatte ancor lorde di cenere, ed anche il caldaro. Tutto il pane tengono in massa in mezzo alla tavola [...] Nel piatto della minestra tengono ancora la carne, quale spezzano con le mani [...] Pongono similmente il vino in mezzo della tavola, bevendo tutti senza distinzione allo stesso boccale»2. «O tondo o tovagliol non aspettare / ché qua non usan queste bagatelle [...] Non s’ha fastidio a domandar da bere: / in mezzo sta il boccal e la scodella: / con questa beve il chierico e il messere / che di bicchier in su non si favella», aveva scritto un secolo prima l’anonimo autore di una sorta di inchiesta in versi sulle condizioni di vita dei montanari del Frignano, una zona appenninica dell’Emilia3. Già nel mondo antico si consigliava di usare delle tovaglie per evitare che le pentole lasciassero la loro impronta sul tavolo. Allora la raccomandazione nasceva da una concezione magica della realtà: poiché si riteneva che tra la pentola e la sua impronta, così come in altri casi analoghi, ci fosse un legame di simpatia e l’una appartenesse all’altra, si pensava che agire sull’una fosse come agire sull’altra. Si credeva dunque che fosse possibile fare magie che avevano come oggetto la pentola agendo sulla traccia di cenere da essa lasciata. Per non correre il rischio che qualcuno ne approfittasse per fare qualche maleficio bisognava pertanto evitare che essa lasciasse tracce sul tavolo. La tovaglia serviva a tale scopo4. Nonostante dietro l’uso della tovaglia si celassero queste antiche credenze, il suo impiego in Età moderna non era universale. Nel capitolo precedente, d’altronde, abbiamo visto che anche avere tavoli, sedie, vasellame e utensili da cucina non era sempre ovvio. Soffermiamoci dunque ora sul significato culturale e sociale di tale diffusione non uniforme. Esso emerge in modo particolarmente chiaro nella descrizione di Cirelli, nella quale la povertà della mensa, la scarsità di vasellame e posate appaiono come qualcosa di più che non un mero segno di miseria materiale: nella misura in cui esse si intrecciano in modo inestricabile con la mancanza di educazione dei contadini, appaiono infatti una manifestazione di quella che agli occhi di Cirelli e di buona parte dei cittadini e delle classi sociali medie e alte appare come l’animalità, la belluinità dei villani. La loro ignoranza delle buone maniere testimonia a contrario il profondo valore di distinzione sociale del saper stare a tavola «come si deve». L’esser «villano» si tinge di connotazioni negative in contrapposizione all’«urbanità» delle borghesie cittadine e alla «cortesia» dei ceti aristocratici5. «A tavula e tavulinu / si canusci u’ cittadinu», recita un proverbio rilevato in Calabria, dove peraltro ancora nel nostro secolo molti interni domestici contadini risultavano improntati ad un’estrema povertà. «Allora non avevamo tavola, mettevamo tutto su un treppiede, tutti intorno a ruota; eravamo noi otto persone, mettevamo il treppiede in mezzo, aggiustavamo il focolare e là dovevamo mangiare», testimonia un’anziana donna intervistata nei primi anni Settanta, le cui parole sono peraltro in buona parte confermate da quelle di altri intervistati6. Certo il vocabolario delle buone maniere non è lo stesso dappertutto, né esprime sempre gli stessi contenuti dal punto di vista sociale. Le buone maniere, e tra queste quelle relative al comportamento a tavola, giocano tuttavia un ruolo importante nel definirsi del processo di civilizzazione, cioè nella creazione di un insieme coerente di caratteristiche e comportamenti ritenuti positivi, la civiltà appunto. Tale processo accomuna tutta l’Europa, seppur con diverse declinazioni nei differenti contesti7. Verso la metà del Cinquecento, secondo il francese Calviac, «i tedeschi mangiano con la bocca chiusa e trovano disgustoso fare diversamente. I francesi, al contrario, aprono a mezzo la bocca e trovano poco elegante la maniera usata dai tedeschi. Gli italiani masticano con minor vigore, i francesi più robustamente, e quindi trovano troppo delicata e artificiosa la maniera degli italiani». Inoltre, «gli italiani in generale preferiscono avere un coltello per ciascuno. I tedeschi, poi, lo considerano tanto importante che è per loro motivo di grande fastidio che il loro coltello venga preso o richiesto da altri. I francesi, al contrario, in un’intera tavolata di persone si servono di due o tre coltelli senza che il chiederli o prenderli rappresenti un problema, e così il porgerli, quando siano richiesti». L’autore si sofferma anche sul diverso uso di cucchiaio e forchetta nelle tre nazioni: i tedeschi a suo avviso tendono a privilegiare il cucchiaio, gli italiani la forchetta, i francesi li usano entrambi a seconda di come risulta loro più comodo8. Soffermiamoci brevemente anche noi sulla storia delle posate, elemento importante nella trasformazione del rapporto degli occidentali con il cibo e dunque anche rispetto ai mutamenti delle capacità di controllo degli istinti, delle pulsioni, del corpo e della gestualità9. «La fame è fame, ma la fame placata con carne cotta mangiata con forchette e coltelli è una fame diversa da quella placata trangugiando carne cruda con l’aiuto di mani, unghie e denti»10, anche se poi non è detto, naturalmente, che chi mangia con le mani sia per forza privo di capacità di autocontrollo, tanto in generale, quanto più specificamente in rapporto al mangiare. Chiunque mangi con le posate tuttavia, non può avventarsi sul cibo come un animale. Deve imparare a maneggiare degli strumenti, a coordinare le mani e la bocca, ad aspettare di aver predisposto un boccone prima di ingollarlo... Almeno nel campo dell’alimentazione deve insomma acquisire quel minimo di autocontrollo che chi assume il cibo con le mani può avere ma può anche non avere. Posate, tovaglie, tovaglioli, piatti e bicchieri. Il cucchiaio, che deriva il suo nome da cochlea, cioè conchiglia, è in uso già presso gli antichi Egizi. Roma ne conosce di due tipi, realizzati in osso, bronzo o argento: uno, definito appunto cochlear o cochleare, viene usato soprattutto per mangiare molluschi, uova o per somministrare medicinali; l’altro, detto ligula, piatto, a forma di foglia d’alloro, è forse impiegato soprattutto per infilzare i cibi, tanto che di recente è stato considerato antenato della forchetta più che del cucchiaio. Durante il Medioevo pare che il cucchiaio, in genere in legno, più raramente in oro e argento, sia tutto sommato di impiego abbastanza raro. Verso la fine del periodo ha tuttavia larga diffusione e se ne producono in materiali ricchi e preziosi (avorio, cristallo, oro e argento). La tipologia si diversifica, soprattutto in Inghilterra, dove spesso il cucchiaio nelle grandi famiglie ha inciso lo stemma del casato11. Anche il coltello ha una lunga storia. Lame più o meno rudimentali risalgono, ovviamente, alla notte dei tempi. Ma il coltello piccolo per uso in senso lato «domestico», differenziato dal coltello per altri impieghi, pare sia stato portato dai «barbari» invasori. Mano a mano che la società diviene meno bellicosa, l’uso del coltello, la cui vista può suscitare paura e ricordare situazioni di violenza, a tavola verrà limitato. Non si arriverà ad una situazione analoga a quella vigente in Cina, dove esso è bandito dalla mensa. Ma durante il Rinascimento l’affinarsi delle buone maniere comporta la nascita del coltello da tavola dalla punta arrotondata. Esso si diffonde parallelamente all’uso di tagliare le carni sul piatto. Ma la sua crescente fortuna è connessa anche al declino dell’abitudine di infilzare i cibi con la punta della lama per prenderli e portarli alla bocca. Tale declino è in buona parte legato all’imporsi della forchetta12. Gli antichi Romani impiegavano forchettoni e forse anche una sorta di forchetta, ma soprattutto per maneggiare le vivande in cucina. Inventate forse a Bisanzio, le forchette vere e proprie, quelle usate per portare il cibo alla bocca, sono presenti in area bizantina e in Italia già nel X-XI secolo. Il banchetto per le nozze tra la principessa greca Argillo e il figlio del doge di Venezia, celebrate nel 955, è forse la prima occasione in cui su una tavola dell’Europa occidentale compare tale posata. Mentre tutti mangiano con le mani la raffinata principessa usa infatti una forchetta. Associate al mondo bizantino, nella situazione di tensione creatasi con lo scisma tra la Chiesa ortodossa e la Chiesa di Roma (1054) le forchette verranno presentate dal clero cattolico come simbolo del demonio e il loro uso sarà bollato come peccato. E questo stigma peserà per secoli: ancora nel Seicento, quando in Italia il loro uso è ormai frequente, Monteverdi ogni volta che per buona educazione è costretto a impiegarle fa dire tre messe per espiare il peccato commesso13. In Italia è dal Tre-Quattrocento che le forchette cominciano a comparire in modo un po’ meno sporadico14. Così a Napoli già ai tempi di Roberto d’Angiò (1309-1343) c’è chi consiglia di mangiare la pasta, calda e scivolosa, infilzandola con una sorta di punteruolo di legno, antenato della forchetta di metallo. Certo allora si trattava di un cibo costoso e di uno strumento il cui uso era limitato agli ambienti di corte. Ma anche prima di divenire un alimento popolare, la pasta – e con essa la forchetta – conosceranno un certo successo negli ambienti borghesi15. È dall’Italia pertanto che la forchetta passa negli altri paesi europei nel corso dell’Età moderna. Ma la sua diffusione è piuttosto lenta. In Francia è presente già nel Cinquecento, come testimonia lo stesso Calviac. A corte viene forse introdotta da Caterina de’ Medici, che nel 1533 sposa Enrico II. Suo figlio Enrico III cercherà di renderne obbligatorio l’impiego a suon di ordini e regolamenti. Essi avranno però anche l’effetto di suscitare larga derisione contro i raffinati italianofili che non toccano il cibo con le mani. L’avversione della nobiltà francese per la forchetta verrà definitivamente meno solo nella seconda metà del Seicento. Ma ancora verso il 1730 essa non è d’uso comune neppure ai vertici della società e addirittura a corte c’è chi mette le mani nel piatto16. In Inghilterra Giacomo I ne fa uso, ma alla sua morte (1625) non avrà quasi imitatori. Un secolo dopo (1725) solo il 10% delle famiglie inglesi risulterà in possesso di forchette e coltelli da tavola17. E in Germania la penetrazione sarà, se possibile, ancor più lenta: le forchette cominciano timidamente a far capolino sulle tavole dei più raffinati solo a fine Seicento. Un secolo più tardi, tuttavia, nei ceti medio-alti di tutt’Europa il loro uso è ormai consolidato. In seguito esso si impone anche negli altri ceti sociali18. Ma quando la forchetta è ormai presente su ogni tavola, sono passati più o meno mille anni da quella festa di nozze durante la quale la raffinata Argillo ne aveva forse per la prima volta fatto sfoggio nell’Europa occidentale. Ben più rapida, almeno tra i ceti elevati, è stata la diffusione del piatto, che dal Cinquecento sostituisce i taglieri lignei in uso nel Medioevo. Per quanto fossero noti già in epoca medievale è soprattutto allora, infatti, che accanto a semplici piatti di legno si moltiplicano quelli di peltro, di stagno o d’argento. Lo sfoggio che attraverso i piatti può essere fatto in occasione dei banchetti viene talvolta combattuto anche attraverso leggi suntuarie: così Pio V impone di sostituire i piatti d’argento con piatti di terracotta e maiolica (in Spagna e in Italia la produzione di maiolica aveva cominciato a svilupparsi già in epoca medievale)19. «Un tempo la minestra la si mangiava dal piatto comune, senza cerimonie» e «nello spezzatino si intingevano dita e pane», recitano i versi di una canzone francese del Seicento. «Oggi ciascuno mangia la zuppa dal suo piatto e bisogna servirsi con garbo di cucchiaio e forchetta»20. A partire dal XVI secolo, nella buona società si diffonde in effetti la tendenza a fornire a ogni convitato un piatto, un bicchiere, un cucchiaio, un coltello (più lentamente, come detto, una forchetta), uno o più tovaglioli, non di rado cambiati più volte dalla servitù durante i banchetti, così come si faceva con le tovaglie. Si abbandona poi l’uso di passare al vicino questo o quell’utensile. Solo le posate di servizio restano comuni. Ma portarle alla bocca diviene segno di maleducazione e inciviltà21. Insieme alle sedie, anche piatti, bicchieri e posate individuali, isolando ogni commensale dai suoi vicini, contribuiscono pertanto a por fine a quella che un autore ha definito come «promiscuità conviviale»22. Non dappertutto, tuttavia, le trasformazioni sono univoche e lineari. Se la parola italiana «posate» viene da «posare» e fa dunque riferimento al fatto che si tratta di oggetti messi sulla tavola23, nell’area tedesca il termine corrispondente Besteck in origine designava il fodero del coltello che ciascuno portava alla cintura. In seguito in tale fodero si cominciarono a portare anche cucchiai e poi forchette: si trattava dunque, a quanto pare, di una dotazione prevalentemente maschile. E rigorosamente individuale (si ricordi il giudizio di Calviac, secondo il quale i tedeschi non amavano prestare il proprio coltello). Solo col tempo si sarebbe realizzato il passaggio a posate disposte sulla tavola che ciascuno usa individualmente ma che non sono sue proprie24. Ma neppure in questo caso si sarebbe arrivati immediatamente a situazioni simili a quella attuale. Nei villaggi tedeschi, infatti, se in Età moderna tutti avevano almeno un cucchiaio di legno, anche le famiglie che conoscevano il lusso delle posate possedevano spesso solo un coltello da tavola e una forchetta. Si trattava, insomma, di posate per così dire al singolare, il cui uso era riservato al padre oppure alla madre di famiglia. Nel villaggio svevo di Kirchentellinsfurt solo negli anni Sessanta dell’Ottocento sarebbe divenuto usuale, tra i ceti medio-alti, possedere più posate25. Anche in Italia ancora in tempi recenti l’uso della forchetta poteva disegnare, a tavola, precise gerarchie: noi donne «mangiavamo tutto con le mani. Solo gli uomini avevano la forchetta», racconta Genoveffa, nata nel 1906 nel Trevigiano, figlia di un muratore e moglie di un contadino proprietario26. Tovaglie da un lato e, dall’altro, tovaglioli, piatti e posate individuali sono insomma divenuti di uso davvero pressoché universale, almeno nel mondo occidentale, solo di recente27. «Quando mangiavamo la minestra eravamo tutti insieme, ma dei bicchieri ce n’era tre o quattro e dicevamo: ‘vuota te che adesso bevo io’», ricorda una donna di nome Teresa nata nel 1898 a Mercatale, in provincia di Arezzo28. E in Calabria ancora qualche decennio fa c’erano case in cui tutti bevevano dallo stesso bicchiere o, più spesso, dalla stessa brocca, e si pulivano con un’unica salvietta29. Testimonianze relative agli anni Cinquanta del nostro secolo ci riferiscono di famiglie di quelle stesse zone in cui aveva viaggiato Jouvin de Rochefort riunite intorno al desco a mangiare mosa fatta di latte, burro e farina da un unico recipiente posto in mezzo alla tavola, ogni membro dotato solo di un cucchiaio personale (siamo in un’area tedesca) destinato – una volta finito il pasto – a venir pulito sommariamente, magari con un lembo del grembiule oppure sul retro dei calzoni o della gonna, e a venir poi appeso alla parete30. |