Capitolo V. Uomini e donne nella preparazione del cibo Cuochi, cuciniere e libri di cucina. Ma riguardiamo con più attenzione chi sono coloro che mangiano e sono presenti nella cucina posta nel sotterraneo di villa Albergati. Ecco i cavalcanti Gaetano Barselli e Andrea Bontà, il cuoco Antonio Ungarelli, il sottocuoco Gesualdo Pasudetti, il servitore Antonio Ercolin. Ed ecco Giacomo Merli, il bracciante che abita a pigione in una casa del senatore e che d’estate, durante il periodo che quest’ultimo passa in campagna, lavora al suo servizio54. Gaetano, Andrea, Antonio, Gesualdo, un altro Antonio, Giacomo... In cucina ci sono insomma solo uomini. Sono uomini, in particolare, il cuoco e il sottocuoco. Aveva scritto a metà Seicento Vincenzo Tanara, un altro gentiluomo bolognese, nella sua Economia del cittadino in villa: «ardirei in buona Economia affermare, che tornasse il conto tener più tosto un Huomo Cuoco, che una Donna»55. Non si può negare che il suo consiglio fosse seguito: in Età moderna le cucine delle grandi famiglie erano in genere spazio di lavoro quasi esclusivamente riservato agli uomini56. Gli uomini erano preferiti perché la preparazione e l’allestimento del cibo richiedevano un personale di assoluta fiducia57: dunque un personale prevalentemente maschile, in una società organizzata in base a rigide gerarchie di genere. Chiunque serve in cucina deve essere «polito, fedele e intendente. Chi non sà, che per ordinario è più netto il più sporco Huomo, che la più polita Donna?», spiegava Tanara. Ladre e sprecone le donne erano poi talvolta «vinolente, malediche, ò streghe». E che dire della loro intelligenza? «L’havere à paragonare la intelligenza ordinaria d’un huomo con quella della donna, è ingiuria grande al nostro sesso», sentenziava l’autore, che continuava sciorinando un vasto catalogo di argomentazioni misogine a sostegno della preferenza da accordarsi ai cuochi maschi58. Oltre che di sesso maschile, il personale che si occupava del cibo, e in particolare quello addetto al servizio a tavola nelle dimore principesche, almeno nella prima Età moderna era spesso anche di alta estrazione sociale. «Tre sono gli officj honorati, che sogliono dare li Principi grandi per la cura della bocca loro; cioè quello dello Scalco, del Coppiero, e del Trinciante: e ognuno di questi non si suol dare se non a persone molto nobili, fidate, e domestiche», scriveva un autore a fine Cinquecento59. Dalla competenza tecnica e dall’affidabilità del personale di cucina e di sala dipendeva infatti la vita del padrone: gli avvelenamenti erano molto temuti, come dimostrano anche le numerose fiabe europee in cui il cuoco è un omicida al servizio di un padrone infernale cannibale60. Significativamente in italiano tanto il mobile su cui si appoggiavano i cibi freddi e i piatti, quanto la modalità di porgere le vivande senza toccarle con le mani, prendendole tra due tovaglioli, tra due pezzi di pane o tra due piatti avevano il nome di «credenza», derivato dal verbo latino credo, dare fiducia61. Dalla competenza e affidabilità del personale addetto ai cibi dipendeva, in parte, anche l’onore della casa: i banchetti, infatti, erano uno dei luoghi privilegiati tra quelli in cui si metteva in scena il fasto e l’ostentazione di ricchezza così intimamente legati alla gestione del potere durante l’Ancien régime: un pasto ordinario degli zar russi prevedeva che venissero serviti circa 150 piatti diversi, 50 tipi di bevande forti, una decina di varietà di birra e di kvas62. Credenze e piattaie messe in bella mostra cariche di vasellame d’argento, decine di portate, centinaia di pietanze rese meravigliose da ingegnosi artifici, spettacolari fontane di vino, grandiose statue di burro, «idre con sette teste di pasta frolla», pavoni e fagiani rivestiti delle loro piume e «adornati di perle, coralli e fettucce d’oro e d’argento», cavalli, tori o altri animali arrostiti da cui uscivano uccelli, lepri, conigli vivi, «puttini fatti di zuccaro», castelli e navi di pasta: i banchetti erano un teatro dove i potenti rappresentavano la loro posizione di vertice e in tal modo la consolidavano. Soprattutto nella prima Età moderna ad assistervi non mancavano neppure gli spettatori63. Non stupirà, allora, che i governi, e in particolare quelli che si ispiravano a principi un po’ più egualitari e democratici degli altri, come quello veneziano, tentassero talvolta di colpirli con leggi suntuarie64. Investiti della gravosa responsabilità di assicurare il successo a manifestazioni caricate di così importanti significati, i cuochi e il personale addetto all’alimentazione pare fossero non di rado sottoposti ad un’intensa pressione psicologica dagli esiti talvolta devastanti. È particolarmente significativo, da questo punto di vista, il caso dello svizzero Fritz Karl Watel, detto Vatel, responsabile degli approvvigionamenti e della preparazione della tavola del principe di Condé. Nel 1670, allorché il principe invitò Luigi XIV a fargli visita nel suo palazzo di Chantilly, Watel si convinse (peraltro a torto) che il pesce che doveva essere cucinato non sarebbe arrivato. Allora, in preda alla disperazione, si uccise, incapace di sopportare tanto disonore (suo, ma evidentemente anche del principe)65. Non a caso nella trattatistica che illustrava i compiti dello stuolo di servitori addetti a cibi e vivande che popolava le dimore più nobili e ricche si parlava esclusivamente di uomini: scalchi, trincianti, canovari, cantinieri, bottiglieri, credenzieri, cuochi, sottocuochi, sguatteri, spenditori66. Solo nel Settecento (e poi più massicciamente nell’Ottocento) le cucine delle classi superiori si popolarono di donne, cuoche e cuciniere: a Tolosa, per esempio, nel 1695 una fonte riporta la presenza di 68 cuochi e 2 cuoche; nel 1789 i maschi risultavano 52, le femmine 173. (Ancor oggi invece i cuochi dei ristoranti più rinomati sono quasi tutti maschi: finalmente le capacità femminili in cucina sono riconosciute ai più alti livelli, ha dichiarato di recente la prima donna-chef italiana ad aver ottenuto tre stelle nella guida Michelin67). Proprio nel Settecento la cucina francese, che rappresentava un modello in tutt’Europa, sviluppò un nuovo gusto per la naturalità e la semplicità che portò a servire anche nei grandi banchetti piatti un po’ meno complicati e ad apprezzare la «cucina borghese» tradizionalmente preparata dalle padrone di casa e dalle loro serve. In Francia il primo libro di cucina rivolto alle donne apparve nel 1746. Scritto da un uomo, Menon, La Cuisinière bourgeoise era destinato a divenire un vero best-seller, tra i libri di ricette francesi del Settecento: in poco più di cinquant’anni avrebbe avuto ben 62 edizioni, per un totale di circa 93.000 copie68. A differenza che nei palazzi dell’élite, nelle famiglie delle classi medie e basse, infatti, la preparazione del cibo era affidata alle donne. Anzi, proprio in quanto compito che richiedeva abilità e al quale era strettamente connesso il benessere materiale della famiglia, sembra venisse delegato al personale domestico più raramente di compiti come lavare o pulire69. Non a caso nelle fiabe europee «il far da mangiare è evidenziato come un’operazione centrale del ménage insignita di un’evidente ritualità» e gestita dalla padrona di casa: al contrario, «le azioni dello spazzare, del lavare ecc. sono assegnate significativamente alla sguattera, alla Cenerentola»70. Anche la volontà di distinguersi da ciò che avveniva nelle case dei ceti medio-bassi sarebbe pertanto all’origine della preferenza mostrata dalle famiglie aristocratiche per i cuochi di sesso maschile71. Ma, rispetto alla divisione sessuale del lavoro di cucina, la situazione e la sua evoluzione nel tempo sembrano diverse nei differenti contesti. In Inghilterra, infatti, le alternative tra la cucina preparata da uomini e quella fatta da donne da un lato e tra la cucina dell’élite e quella della maggioranza della popolazione dall’altro si intrecciavano con l’alternativa tra cucina alla francese e cucina inglese: solo ai vertici della società si mangiava alla francese e i cuochi erano uomini, secondo la tradizione d’oltremanica. Il resto della popolazione mangiava all’inglese e le cuoche – fossero le donne di casa o delle serve – erano donne. Nel Settecento, tuttavia, solo poche dimore aristocratiche seguivano la moda gallica72. In questo senso sembra che anche da signore di livello sociale medio e medio-alto ci si aspettasse una certa competenza nella preparazione del cibo73. Il tema meriterebbe ricerche più approfondite ma parrebbe che in Italia e in Francia l’attività di cucina fosse maggiormente sentita come una pratica che poteva sì essere raffinata e apprezzata, ma che era pur sempre ancillare. Dame e damigelle, pertanto, sembra che non se ne occupassero affatto. Non «dee la buona madre di famiglia sdegnarsi di porre anco talvolta le sue mani in opera», spiegava un autore. Ma «non nelle cucine o ’n altre cose sordide che posson bruttare il corpo»74. Come spiegare tale supposta differenza? Allo stato attuale della ricerca si possono avanzare solo ipotesi. Ci si può chiedere, ad esempio, se essa fosse legata al persistere, nell’Europa neolatina, di antichissime tradizioni di origine romana. Stando a quanto affermano Tito Livio e Plutarco, nel trattato di pace tra i romani e i sabini che seguì al ratto delle sabine gli sposi delle ragazze rapite si erano impegnati a non imporre loro lavori umilianti, come macinare il grano e cucinare. Tali lavori vennero così affidati a schiavi. In seguito la preparazione dei cibi venne rivalutata: in particolare dopo la guerra d’Asia contro Antioco (186 a.C.) nei banchetti si impose un lusso crescente. Allora, dice Tito Livio, «i cuochi, che per i nostri antenati erano solo gli ultimi tra gli schiavi, ed i meno utili, incominciarono a diventare molto cari, e un mestiere basso fu ritenuto un’arte»75. Apprezzato o disprezzato, il lavoro in cucina, ai vertici della società romana, pare fosse insomma un’attività schiavile e maschile. Ma forse, senza cercare radici tanto lontane, le differenze rilevate dipendevano dal fatto che in Inghilterra la cucina aveva caratteristiche «domestiche» più spiccate che in Francia. In Inghilterra, infatti, soprattutto dopo le rivoluzioni secentesche, la corte non aveva né un potere né un ruolo di arbiter elegantiarum paragonabili a quelli della corte francese (o delle corti italiane del Rinascimento76), dove i banchetti avevano l’evidente funzione «pubblica» di ostentare e consolidare il potere del re o del principe e dove pertanto i nobili erano sollecitati a impegnarsi in una competizione giocata, per così dire, anche a colpi di arrosto, statue di burro e fontane di vino. In parte proprio per la minor capacità di attrazione della corte, la nobiltà inglese continuava d’altronde a vivere almeno alcuni mesi dell’anno nelle residenze di campagna. Insieme al fatto che in Inghilterra esisteva una piccola nobiltà (gentry) di cui era difficile individuare con esattezza i confini inferiori, anche questo elemento contribuiva probabilmente a spiegare perché la cucina britannica avesse spiccate caratteristiche domestiche e femminili77. Da questo punto di vista è significativo che nell’Inghilterra cinque-seicentesca venissero pubblicati testi classificabili nel genere letterario delle «raccolte di segreti», scritti (o attribuiti) a nobildonne e indirizzati alle dame per istruirle nelle arti necessarie a compiere al meglio i doveri legati al loro rango, che contenevano anche ricette di cucina. Testi simili apparsi in italiano e in francese fornivano invece al massimo «ricette di marmellate, di conserve, di sciroppi» e di altre specialità zuccherate, all’epoca associate alle terapie, ma non ricette di cucina vere e proprie78. Libri come The Good Huswifes Jewell (1585) di Thomas Dawson, The English Hus-wife (1615) di Gervase Markham e altri analoghi contenevano discussioni di carattere medico, indicazioni per curare le malattie più comuni, capitoli sulla lavorazione del latte, sulla preparazione della birra, sui modi di conservare gli alimenti. Il mio libro descrive tutte le qualità che deve avere una donna per essere perfetta, sosteneva Markham, cioè competenze nei seguenti ambiti: «medicina, cucina, preparazione di dolciumi [banquetting stuff], distillazione, profumi, lana, canapa, lino, lavorazione del latte, fabbricazione della birra, preparazione del pane, e altre cose relative alla gestione della casa»79. Libri del genere continuarono a venir pubblicati anche nella seconda metà del XVII secolo e nel XVIII. Certo tra Sei e Settecento in Inghilterra apparvero traduzioni di libri di ricette d’oltremanica e testi inglesi più simili ai libri di cucina francesi e italiani, vale a dire volumi scritti da cuochi professionisti, indirizzati a loro colleghi e incentrati sulla preparazione e la presentazione del cibo. Ma si trattò di un fenomeno limitato, e che si esaurì nei primi decenni del XVIII secolo. I manuali di istruzioni del tipo «la padrona di casa di campagna» erano ben più numerosi e almeno a partire dagli anni Trenta del Settecento dominarono il mercato. Non sempre le autrici erano donne. Tra quelli che ebbero grande successo, il primo dovuto ad una penna femminile fu The Queen-Like Closet, di Hannah Wolley, apparso nel 1670. Nel Settecento, comunque, furono numerosissimi i testi scritti da donne per altre donne, in genere per le padrone di casa o per le domestiche che cucinavano nelle dimore della borghesia e della piccola nobiltà80. In Francia invece il primo volume di ricette che si rivolgeva anche alle donne apparve solo nel 1746 ed era scritto da un uomo, come si è detto. E in Italia il più antico volume che si presentava come scritto da mano femminile (ma forse non era tale) era la Cuciniera piemontese, pubblicato nel 1771, sul cui frontespizio compariva una donna vicina ai fornelli intenta a portare un piatto a quattro persone sedute attorno ad un tavolo81. D’altronde, a mia conoscenza gli unici dati italiani attualmente disponibili relativi alla femminilizzazione del personale di cucina si riferiscono a Bologna, dove tale fenomeno sembrerebbe molto più tardo che in Francia. Nei nove fascicoli giunti sino a noi di un censimento realizzato nel 1796, nei quali è annoverato circa un decimo della popolazione bolognese, non è citata neppure una cuoca di sesso femminile. Negli status animarum82 della parrocchia cittadina di San Giovanni in Monte, abitata da molti nobili, una cuciniera viene indicata nel 1810, ma non ne risulta alcuna né nel 1820 né nel 1830. Solo in seguito il loro numero comincia ad aumentare. Nel 1850 sono il 2% degli addetti a cibi e vini; nel 1857 il 10%, nel 1899 il 48%. In quel periodo sono il 48% anche nella vicina parrocchia di San Bartolomeo, la cui composizione sociale è un po’ più «borghese». Forse proprio per questa diversa composizione in tale parrocchia la femminilizzazione è più precoce: già nel 1840 cuoche e cuciniere sono l’11% degli addetti. Anche in questo caso, tuttavia, non ne vengono citate né nel 1810, né nel 1820, né nel 183083. Il fatto che cuoche e cuciniere non venissero esplicitamente citate non significa però che non ci fossero serve che cucinavano. Senza dubbio nelle case in cui non c’era un cuoco buona parte delle serve generiche si occupava anche di far da mangiare. «Fo un pan che ognun gode» e «una cucina saporosa e delicata», dichiara la «donna qual narrando le sue virtù, cerca di trovar padrone», le cui vicende sono raccontate ne La fantesca, un componimento poetico apparentemente cinque o seicentesco ricco di allusioni sessuali ricamate però sulla concreta attività delle serve84. Ma una cosa era occuparsi della preparazione del cibo tra mille altre attività, altra cosa era dedicarsi solo alla cucina: e questo processo di specializzazione delle serve femmine e di sostituzione, da parte loro, dei cuochi maschi appare appunto un fenomeno che a Bologna sembra piuttosto tardo, rispetto ad altri contesti europei. C’è dunque da chiedersi se e quanto la città emiliana sia rappresentativa della situazione italiana nel suo complesso. Quali ne fossero i tempi e le tappe, queste trasformazioni della composizione del personale domestico coinvolgevano, comunque, solo una minoranza della popolazione. Complessivamente le donne delle classi sociali medie e basse si occupavano della preparazione del cibo per i loro familiari molto più delle donne di alta estrazione sociale. Certo quelle che non avevano casa, che vivevano in squallide stanze prive di focolare o che erano troppo povere per comperarsi il combustibile si limitavano a mendicare un po’ di cibo, oppure ad acquistare alimenti già fatti o che non avevano bisogno di essere cotti, primo tra tutti il pane. Nelle città, in fondo, oltre a persone caritatevoli o a istituzioni che si occupavano di soccorrere i poveri, c’erano osterie, commercianti di alimentari, donne del popolo che integravano i redditi familiari vendendo cibi da loro preparati ai passanti per la strada, a qualche vicino o ai carcerati85. E dunque in tempi «normali», quando non c’era carestia, anche chi non cucinava in un modo o nell’altro poteva comperarsi o procurarsi qualcosa da mangiare. In certe zone tendeva poi a prevalere una dieta fredda che non richiedeva alcuna cucina. Integrata solo di tanto in tanto da qualche minestra, l’alimentazione dei contadini dell’Italia meridionale era ad esempio incentrata sul consumo di pane, formaggio e vino86. Ma tutte le altre donne si occupavano di solito di preparare il cibo per sé e per i loro familiari. Possiamo dunque facilmente immaginarcele mentre seguono la bollitura di qualche pietanza nell’immancabile pignatta attaccata alla catena del camino: tra i ceti popolari la bollitura è infatti, a quest’epoca, il tipo di cottura più diffuso, come testimonia anche l’abbondanza di pentoloni e la minor diffusione di padelle rilevata nel capitolo precedente87. Ma, come si è visto, la presenza di padelle tende a diffondersi, seppur non dappertutto. Così ci possiamo anche immaginare le nostre donne sedute su un basso sgabello, con una padella in mano sulla fiamma, attorniate da contenitori e brocche appoggiati sul pavimento: intente in un’attività rasoterra che solo nel corso del Settecento tenderà, soprattutto per le cittadine, ad innalzarsi un po’ (Figg. 43, 50 e Tav. 12). Si diffondono infatti treppiedi dotati di un piano d’appoggio e scaldati da carboni ardenti sui quali porre le pentole con le pietanze da cuocere o da riscaldare; fornelli in muratura (peraltro noti già da tempo) alimentati a legna o a carbone e lentamente, dal 1750 circa, cucine economiche di metallo88. Allattare. Ma la distanza – per non dire estraneità, almeno nel caso italiano – delle donne dell’élite rispetto alla preparazione del cibo coinvolgeva anche altre declinazioni del «nutrire». In particolare quella spesso presentata come compito per natura femminile di cui la preparazione di pranzo e cena per tutta la famiglia costituirebbe l’ovvio prolungamento, cioè l’allattamento dei bambini. Le donne dell’élite e i loro mariti, infatti, abitualmente davano i loro figli a balie «mercenarie». Le balie erano tenute in casa oppure erano pagate per allattare e allevare presso di sé i neonati loro affidati89. Poiché avere una balia in casa era molto più costoso, solo poche famiglie si potevano permettere un lusso del genere. Alcune lo riservavano al primogenito. L’ordine di nascita e il sesso dei neonati potevano infatti incidere sul trattamento loro riservato. Sappiamo così che nella Firenze rinascimentale i maschi erano affidati a balie tenute in casa più delle femmine, che lo stesso valeva per i primogeniti rispetto ai cadetti, che le bambine erano svezzate prima dei loro fratellini90. Non sempre tuttavia le femminucce erano trattate peggio dei maschietti. Gli studi condotti su alcune famiglie dell’aristocrazia laziale del Seicento rivelano che in quel contesto l’ordine di nascita influenzava il trattamento dei neonati più del loro sesso, mentre dalle ricerche relative alla Gran Bretagna emerge che i tempi di svezzamento dipendevano solo in minima parte dal fatto che il poppante fosse una bimba o un bimbetto91. E in ogni caso era la realtà stessa, in una sorta di nemesi, a ribaltare in handicap alcune di quelle pratiche che all’epoca erano considerate dei privilegi. La mortalità dei bambini dati a balia era infatti più alta di quella dei bambini allattati dalla madre. E, almeno nella Firenze rinascimentale, colpiva più duramente i maschi che non le femmine92. Soprattutto sottolineando le influenze negative che la balia poteva avere sul poppante, medici e scienziati erano d’altronde concordi nel patrocinare l’allattamento materno, anche se nel Cinquecento e, in parte, nel Seicento, in genere non censurarono il baliatico, come invece avrebbero fatto sempre più duramente in seguito93. Ma perché allora le famiglie dell’élite affidavano i loro bambini a balie? «Bisogna conservarsi [...] per non venire a noja del marito. L’allattare smagra, fa tristo il colore o rende floscio ciò che deve essere consistente. E poi un impaccio sì grande? Come si potrebbe più godere un divertimento, andare alla Commedia, all’Opera, al Ballo, alla conversazione, star fuori di casa fin presso al giorno?»94. Questi erano, secondo un polemico sostenitore dell’allattamento materno, i «pretesti» addotti dalle signore per giustificare il ricorso al baliatico. In effetti la moda e le convenzioni sociali volevano che le gentildonne avessero sempre una certa figura, poco compatibile con un seno turgido di latte o afflosciato dai ripetuti allattamenti, e che si impegnassero in un’intensa vita sociale dai ritmi incompatibili con le poppate. Oggettivamente, poi, gli stretti e rigidi corsetti che l’eleganza imponeva alle dame potevano creare problemi alle mammelle95. Né si può negare, d’altronde, che se da un lato le pratiche utilizzate dalle nobildonne per arrestare la lattazione dopo il parto provocavano spesso infiammazioni o addirittura tumori, dall’altro le donne che allattavano avevano davvero spesso il seno rovinato da ferite e dai morsi dei bambini, non di rado svezzati dopo che avevano messo i denti. Allattare faceva poi dimagrire, e ciò all’epoca non era certo considerato un vantaggio. In contesti in cui la dieta era spesso poco equilibrata dal punto di vista dell’apporto di sali minerali e calcio, l’allattamento poteva infine portare alla caduta dei denti e dei capelli, e a patologie anche più gravi. Non era insomma così infondata la credenza che l’allattamento abbruttisse le donne, le «consumasse» e le invecchiasse precocemente. E poiché si credeva che le donne del popolo, e in particolare le contadine, fossero più robuste delle dame e avessero un latte più abbondante e migliore, ecco che l’allattamento sembrava più tollerabile per le popolane che non per le nobildonne. Per i bebè d’alto rango avere una balia di campagna appariva pertanto agli occhi di taluni una soluzione migliore, da certi punti di vista, che essere allattati dalla propria madre96. Di fatto, tuttavia, non erano certo questi gli unici motivi per cui si ricorreva al baliatico. Nel Cinque-Seicento era diffusa la credenza, originariamente dovuta alle teorie di Galeno, che la donna che allattava dovesse evitare i rapporti sessuali. Si riteneva infatti che essi, e ancor più le gravidanze, avessero effetti negativi sulla qualità del latte, e dunque sul benessere del poppante. Per quanto riguarda i rapporti sessuali, nel Settecento tali convinzioni si capovolsero, ma sino ad allora senza dubbio molti uomini ritennero che affidare ad una balia i propri figli fosse un modo per salvare capra e cavoli, cioè per garantire al bambino un «buon» latte senza dover rinunciare al sesso con la propria moglie97. Nella Roma secentesca la scelta della balia era un affare femminile98, ma in molti contesti era lo stesso paterfamilias che si occupava anche di questa faccenda, ed era sempre lui che contrattava le condizioni lavorative della donna, spesso non con lei ma con suo marito (il «balio»)99. La decisione di ricorrere ad una nutrice era infatti in genere presa dal padre, per quanto le donne potessero avere voce in capitolo100. Una volta presa tale decisione si trattava di trovare la persona adatta a svolgere un compito tanto delicato. «Che in un col latte succhiansi da Bambini le inclinazioni di quelle, che si danno loro per Balie» restò infatti per secoli credenza profondamente radicata101. Nella decisione di affidare i figli a una nutrice giocava probabilmente un certo ruolo anche la consapevolezza, diffusa già in Età moderna, che l’allattamento ritarda il ritorno alla fertilità dopo il parto102. L’ansia maschile di assicurarsi il sospirato erede e qualche figlio di riserva, nel caso l’erede designato fosse morto o non si fosse rivelato all’altezza della situazione, gravava infatti le mogli della responsabilità di «produrre» figli in gran numero, in modo da assicurare la continuità del nome e del patrimonio familiare103. (Paradossalmente però, come detto, la mortalità dei bambini nutriti dalle balie era più alta di quella dei bambini nutriti dalla madre.) La stessa frequenza delle gravidanze, d’altronde, finiva con ogni probabilità per spingere le donne che potevano permetterselo a cercare di alleggerirne almeno un po’ il peso ricorrendo alle balie104, sebbene poi il fatto di non allattare avesse, per così dire, anche effetti perversi: come già accennato provocava spesso infatti pericolose e dolorose infiammazioni al seno105. Se dobbiamo credere alle denunce polemiche di alcuni autori, l’allattamento e la cura dei bambini potevano d’altronde esser visti come uno dei tanti lavori fastidiosi e faticosi che i ricchi delegavano ad altri e che poi proprio per questo consideravano indegno svolgere in prima persona. «L’allattare è un impiego da villana, e non da donna civile», fa dire Giuseppe Antonio Costantini alle signore che non vogliono nutrire i propri figli106. Volenti o nolenti le nobildonne e in parte anche le cittadine dei ceti borghesi non allattavano insomma i propri figli. Ma dedurre da ciò che loro e i loro mariti fossero indifferenti ai propri figli sarebbe scorretto. Semplicemente le une e gli altri vivevano in un contesto in cui la vita, la morte, i valori, gli interessi e gli affetti si dipanavano, si intrecciavano e si esprimevano in modo diverso rispetto ad oggi107. Secondo alcune stime sembra comunque che nel complesso non più del 4% dei bambini venisse affidato ad una nutrice, pur con differenze tra un contesto e l’altro. A metà Settecento a Parigi la percentuale pare ad esempio si aggirasse attorno al 10%, a causa però soprattutto del gran numero di trovatelli di origine rurale che vi affluiva. Tra i ceti popolari venivano nutriti da balie, infatti, quasi solo i bambini accolti nelle varie istituzioni che si occupavano dell’infanzia abbandonata. In campagna le contadine di solito allattavano sia i propri figli sia quelli degli altri che prendevano a balia. In città il ricorso alle nutrici era più diffuso, ma era frequente solo nel caso di donne che lavoravano in ambienti particolarmente pericolosi e malsani o che svolgevano attività i cui ritmi erano incompatibili con l’allattamento, come le lavoratrici della seta di Lione108. In grande maggioranza i bambini venivano cioè nutriti dalla propria madre. Una volta svezzati, tuttavia, pare fossero talora accuditi anche dagli uomini: un’incisione realizzata da Adrien van Ostade nel 1648 riproduce in modo piuttosto realistico un interno contadino in cui un uomo seduto su una sedia tiene un bambino in braccio e lo imbocca con un cucchiaio, in un quadro di Giuseppe Maria Crespi si vede un vecchio che culla un neonato... (Fig. 45 e Tav. 22). Rispetto alla pratica del baliatico, qualche primo cambiamento si avviò nel Seicento: molte donne delle classi medie olandesi pensavano che l’allattamento dei figli facesse parte dei compiti di una buona madre e le puritane inglesi lo ritenevano addirittura un dovere religioso109. Ma solo nel Settecento, e in particolare dopo la metà del secolo, si cominciò ad assistere ad un più o meno rapido declino del ricorso a balie tra le élites dei vari paesi europei110. L’abbandono di tale pratica era probabilmente legato al diffondersi del controllo delle nascite, che permetteva di dedicare maggiori energie ad ogni figlio. Ma giocava un ruolo anche la rinnovata enfasi sui vantaggi dell’allattamento materno tanto per il neonato quanto per la madre, tra i quali proprio il suo potere sterilizzante poteva ora apparire come un’attrattiva. E alla trasformazione contribuiva pure la maggior disponibilità di mezzi nell’alimentazione artificiale dei neonati ed una maggior fiducia in essi. Né doveva essere priva di influenza la crescente sensibilità delle classi alte per l’igiene, che portava a guardare con maggior sospetto le case contadine delle balie e a privilegiare, dunque, in caso di ricorso al baliatico, l’assunzione di una nutrice disposta a trasferirsi presso la famiglia del neonato. Il diffondersi dell’allattamento al seno nelle famiglie dell’élite si inseriva così, rafforzandola, in quella vasta costellazione di trasformazioni della famiglia che vedeva intrecciarsi una crescente sottolineatura dell’importanza dell’amore nella scelta del coniuge, una maggior enfatizzazione del ruolo materno delle donne, una diminuzione del numero dei figli per coppia e un aumento delle loro speranze di vita111. Da certi punti di vista ai vertici e alla base della scala sociale l’evoluzione andò però in direzioni opposte. Con lo sviluppo dell’industrializzazione e del lavoro femminile in fabbrica, infatti, tra le donne di estrazione popolare il ricorso alle balie divenne più comune di quanto fosse stato in precedenza112. Donne nutrici. In Età moderna, dunque, differenze di ceto e di cultura rendevano il rapporto delle donne con la preparazione del cibo relativamente poco lineare: dappertutto tra i ceti medio-bassi e bassi le donne generalmente allattavano i loro figli e cucinavano. Ma ai vertici della scala sociale i cuochi erano uomini e le gentildonne non allattavano. In Inghilterra, tuttavia, sembra che le donne di ceto medio e alto si occupassero della preparazione dei cibi più che in Francia e in Italia. Il baliatico, inoltre, non ebbe mai sul suolo inglese una diffusione paragonabile a quella di molte altre zone del continente, e il suo declino fu in genere più precoce che altrove113. «Persino le donne di qualità allattano i figli», notava un viaggiatore straniero nel 1784114. C’è dunque da chiedersi se tra i due fenomeni ci sia qualche nesso. Complessivamente, comunque, più o meno a partire dal Settecento i vari compiti legati alla sfera del «nutrire» sembrerebbero aver accomunato le donne di tutt’Europa e di tutti i ceti sociali più di quanto fosse avvenuto in precedenza, al punto da divenire un elemento centrale nella definizione stessa della femminilità115. Anche per le donne nobili e ricche divenire madri significava sempre più spesso nutrire i propri figli. Le trasformazioni dei libri di cucina e della manualistica relativa alla gestione della casa parrebbero poi indicare che in misura crescente ci si aspettava che tutte le donne sapessero cucinare, sia che preparassero il cibo in prima persona sia che delegassero il compito al personale di servizio, che dovevano comunque saper controllare e istruire116. Nel contempo, gli uomini tendevano a sparire dalle cucine, che si popolavano di un numero crescente di cuoche. Certo si potrà obiettare che con lo sviluppo dell’industrializzazione molte donne dei ceti popolari dovevano ricorrere al baliatico e lavorando in fabbrica non riuscivano a far da mangiare. In effetti è probabilmente vero che, mentre le donne dell’élite si avvicinavano, per così dire, alla sfera dell’alimentazione, le operaie entro certi termini se ne allontanavano. Ma quando l’idea che le donne fossero delle nutrici ebbe conquistato l’élite, il fatto che le operaie si occupassero poco di alimentare i propri figli e le proprie famiglie venne considerato una delle tante aberrazioni portate dal lavoro di fabbrica, laddove per secoli era parso assolutamente normale che le nobildonne lasciassero a cuochi di sesso maschile il compito di preparare il pranzo e nonostante tutto accettabile, pur tra mille critiche, che non allattassero i propri figli117. |