Capitolo V. Romani, cristiani e «barbari». L’importanza e il valore del pane nell’alimentazione europea era il frutto dell’integrazione di due diverse tradizioni: da un lato quella romana, che pur non disdegnando il consumo di latte, formaggio, verdure e carne, era incentrata sulla triade pane, vino e olio; dall’altro quella dei popoli «barbari», che privilegiava la carne, i latticini, la birra e il sidro, sebbene integrati da pappe d’avena e focacce d’orzo. L’integrazione aveva comportato principalmente due fenomeni: l’affermarsi del valore del «mangiar carne» e la diffusione del pane. Il valore alimentare della carne andò imponendosi insieme alle vittorie delle tribù germaniche, destinate a divenire il ceto dirigente dell’Europa alto-medievale: da allora chi poté permetterselo consumò quanta più carne possibile. I romani inoltre avevano esaltato la frugalità, mentre i «barbari» diffusero la convinzione che la capacità di ingollare grandi quantità di cibo e bevande fosse un positivo segno di forza138. A partire dal XII-XIII secolo nuove mode alimentari avrebbero visto nella raffinatezza degli alimenti consumati, piuttosto che nella loro quantità, un segno di distinzione139. Ciononostante le élites rimasero superalimentate: si è calcolato che nel Cinquecento alla corte di re Eric di Svezia si consumassero in media 6500 calorie al giorno e che i famigli di Mazzarino nel Seicento arrivassero alle 7000-8000140. Consumi del genere finivano per avere effetti negativi sulla salute. Non a caso la gotta – dovuta ad un eccessivo consumo carneo – rimase, per secoli, la malattia delle élites europee (rispetto ai paesi nordici, la dieta praticata nel mondo mediterraneo continuò comunque a prevedere un minor apporto di proteine animali)141. Paradossalmente, nella preparazione di cibi per lo svezzamento dei poppanti l’esaltazione del valore della carne portò, tra i ceti superiori, a privilegiare preparati a base di brodo e carne che fornivano un apporto nutritivo più carente sia di quello del latte materno sia di quello delle pappe e panate usate nei ceti inferiori142. Ma se il valore della carne era stato imposto dalle vittorie delle tribù germaniche, specularmente il valore alimentare del pane (ma anche del vino e dell’olio) si diffuse insieme al cristianesimo, religione mediterranea che aveva fatto di tali cibi elementi centrali del suo culto143. Protestanti e cattolici. Non a caso, allora, la rottura dell’unità religiosa europea provocata dalla Riforma ebbe contraccolpi anche sul terreno dell’alimentazione. A Zurigo, anzi, fu proprio rompendo la Quaresima e mangiando salsicce che la Riforma prese avvio, nel 1522144. I protestanti rigettarono la normativa dietetica della Chiesa romana, che imponeva nel calendario annuale la presenza di numerosi giorni di magro (anzitutto la Quaresima) con la loro alimentazione a base di pesce, di oli vegetali, di verdure. Ciò comportò il riacutizzarsi di antiche differenze, mai del tutto scomparse, tra un Nord vorace e carnivoro e un Sud frugale e vegetariano. Si delinearono così due Europe, che non si fronteggiavano solo sul piano religioso, ma anche su quello alimentare145. Da un lato c’era un’Europa protestante affamata di carne e di grassi animali; un’Europa nella quale il consumo di pesce – almeno in certe zone, come l’Inghilterra – era diminuito ed era stato più o meno bandito l’olio, dal Seicento sostituito dal burro anche nelle insalate. Era stata così inaugurata una moda delle salse cremose che avrebbe rappresentato una vera «mutazione del gusto». La moda si sarebbe infatti diffusa tra i ceti alti e medi di buona parte del continente sostituendo quella delle salse magre e acide a base di vino, aceto, succo di agrumi e spezie. Dominante nel Medioevo, la passione per le spezie era d’altronde destinata a declinare proprio nel momento in cui dalle terre di recente raggiunte (con viaggi intrapresi anche per facilitare l’approvvigionamento dei tanto desiderati aromi) affluivano montagne di pepe, cannella, chiodi di garofano: ormai alla portata di troppe borse, tali spezie sarebbero state snobbate dai ricchi, che le avrebbero lasciate ai palati dei ceti sociali più bassi o alle cucine delle zone più marginali146. Ma torniamo alle contrapposizioni tra le diverse Europe. Accanto a quella protestante, c’era un’Europa cattolica più sobria e affezionata ai prodotti della terra, e nella quale il calendario religioso comunque proibiva il consumo di carne e grassi animali per circa 140-160 giorni all’anno147. D’ispirazione italiana, la moda delle verdure sulle tavole dell’élite francese del Cinquecento e del Seicento sembra fosse stata significativamente favorita dalla Chiesa della Controriforma148. Come tutti gli schemi rigidi, anche questo rischia però di semplificare troppo la realtà. I confini tra i costumi alimentari «nordici» e quelli «meridionali», infatti, non coincidevano né con quelli nazionali (era così in Italia e in Francia), né con quelli confessionali e religiosi: se alcune zone cattoliche in cui l’approvvigionamento d’olio era difficile avevano ottenuto dalla Chiesa la facoltà di usare il burro nei giorni di magro, i paesi che privilegiavano l’olio non erano, ovviamente, tutti cattolici149. Ciò ci ricorda che, oltre all’Europa protestante e a quella cattolica, c’erano l’Europa orientale e quella balcanica. In quest’ultima, a proposito di contrapposizioni al contempo alimentari e religiose, per i greci di religione cristiana esaltare la frugalità significava difendere la Chiesa dal rischio d’islamizzazione150. Ancor più che la Chiesa cattolica, le Chiese ortodosse imponevano un calendario fitto di giorni di magro: in Russia i giorni in cui il consumo della carne era vietato e quello dei latticini e del pesce limitato erano circa duecento151. Pratiche alimentari e identità di gruppo. In effetti le pratiche alimentari sono un elemento importante nella definizione delle identità di gruppo152. Una delle esperienze e talvolta delle difficoltà dei viaggiatori, quantomeno in passato, era legata proprio alla necessità di doversi cibare con alimenti inusuali, talvolta addirittura con cibi da loro ritenuti proibiti: la scarsa presenza di viaggiatori musulmani in Europa è stata ricondotta anche ai problemi incontrati nel rispettare le pratiche alimentari e igieniche previste dalla loro religione. Al contrario, l’assenza di cibi impuri nella normativa dietetica cristiana, che si limita a stabilire un calendario alimentare (e solo per cattolici e ortodossi, non per i protestanti), avrebbe favorito l’espansionismo europeo nel mondo. Tale assenza avrebbe addirittura contribuito a facilitare le conversioni dal cristianesimo all’islam. La difficoltà, per i musulmani, di abbandonare repulsioni alimentari introiettate avrebbe invece costituito una delle cause del limitato numero, tra di loro, di rinnegati153. Certo la battaglia tra islam e cristianità si giocava anche a livello alimentare: i polacchi, per esempio, davano particolare risalto al consumo di maiale per rimarcare la loro identità religiosa rispetto ai confinanti gruppi islamici. In Spagna la dieta seguita permetteva di scoprire false conversioni. Gli stessi rinnegati attribuivano all’alimentazione un ruolo centrale nel definire la loro appartenenza religiosa154: alla domanda, postagli dall’inquisitore, «si have fatta ed osservata la setta turchesca [cioè la religione islamica] et in che modo», il rinnegato greco Giovanni Mangiali rispose significativamente che per tredici anni aveva «fatta ed osservata la legge di turchi como essi turchi, magnando carne li venerdi, sabbato, vigilie, le quattro tempora e la quadragesima». Disse poi che non aveva mangiato maiale in presenza di musulmani e aveva «fatto la quadragesima ad usanza turchesca» (aveva cioè rispettato il ramadan)155. Analogamente Rosa Paleotti, una ex schiava «turca» convertita al cristianesimo che tra Sei e Settecento vive a Bologna, finisce davanti all’inquisitore per aver mangiato carne nei giorni di magro156. Le pratiche alimentari e culinarie sono d’altronde uno degli elementi identificativi delle comunità ebraiche. A partire dai numerosi divieti contenuti nella Bibbia vengono infatti sviluppate tradizioni che – pur diverse nelle varie comunità, in parte per le contaminazioni e gli scambi con il mondo circostante – sono riconosciute come espressione del «mangiare alla giudia» tanto dagli ebrei quanto dai cristiani. Il fatto che una certa pietanza sia identificata come ebraica non significa comunque che sia sempre e necessariamente kasher, vale a dire in regola con i divieti biblici e la normativa rabbinica; o – quantomeno – non significa che sia sempre e necessariamente tale tra gli ebrei italiani, che a quanto pare in Età moderna sono meno rigidi e scrupolosi di quelli levantini, nordafricani e ashkenaziti. Vuol dire, semplicemente, che è «tipica» della cucina ebraica. In Italia fino al tardo Ottocento sono ad esempio identificate come tali le melanzane, che gli ebrei mangiano soprattutto fritte e poi macerate nell’aceto, pur cucinandole anche in mille altri modi. Eppure di melanzane non si parla nelle fonti scritte relative alla cucina ebraica: si tratta infatti di un alimento consumato dagli ebrei poveri, e come tale disprezzato tanto dagli ebrei ricchi quanto (sembra) da buona parte della popolazione italiana. Altri cibi «alla giudia» fanno invece venire l’acquolina in bocca anche a golosi di religione cristiana: nella seconda metà del Settecento, Angelo Jesi, fornaio kasher in via dell’Aquila a Reggio Emilia, fa ad esempio delle chizze (sottili sfoglie di pasta fritta riempita di fegato d’oca oppure di cacio o ricotta) famose in tutta la città. Cuochi, fornai e pasticcieri cristiani non disdegnano d’altronde di cimentarsi nella preparazione di pietanze «alla giudia». Tra i cibi identificati (in Italia) come tipicamente ebraici si possono annoverare «i marzapani e le frittelle con miele e cannella, i pâté di fegato grasso e i salsiccioni d’oca, la carne stufata del Sabato con fagioli e ceci, con ‘pevere e aglio’ [= pepe e aglio], i carciofi fritti ‘a rosa’ e l’indivia cotta al forno con pesce azzurro». Così, se da un lato la circolazione della cultura alimentare tra ebrei e cristiani è evidente, dall’altro esiste una cucina giudaica con caratteristiche specifiche e radicate. Tanto radicate che l’ebreo modenese Isacco Ottolenghi, convertitosi al cristianesimo nel 1767 all’età di sessantaquattro anni, confessa apertamente che i dubbi che l’hanno a lungo trattenuto dal farsi battezzare riguardavano soltanto «i cibi»: temeva infatti che «mutarli alla sua età gli nuocesse»157. In effetti in occasione delle conversioni la «risocializzazione alimentare» gioca un ruolo importante. Sappiamo ad esempio che nella Casa dei Catecumeni di Bologna gli ebrei che stavano per passare al cristianesimo erano costretti a mangiare cibi vietati dalla loro religione come salami e altre carni di maiale, pesci senza squame e lumache158. Gli agognati piaceri della carne. Così l’alimentazione traccia precisi confini culturali o, se si vuole, le diverse culture si esprimono e si caratterizzano anche a livello alimentare. In questo senso la diffusione del pane tra i popoli germanici si era realizzata in concomitanza con il procedere della cristianizzazione. Dal punto di vista pratico, la sua produzione era ovviamente legata all’abbandono del nomadismo da parte delle tribù «barbare» e alla diffusione delle pratiche agricole. In epoca alto-medievale, comunque, anche tra i ceti più bassi il consumo di pane, polente, pappe di cereali era stato costantemente integrato dai prodotti dell’allevamento e della caccia. A partire dal IX secolo, tuttavia, da un lato l’aumento della popolazione e la conseguente espansione dei coltivi avevano portato ad una riduzione dei boschi; dall’altro, soprattutto a partire dal X-XI secolo, i signori laici – in particolare nelle aree meno marginali – si erano appropriati dei diritti d’uso sull’incolto creando riserve in cui i contadini non potevano cacciare e limitando i diritti di spigolatura e quelli di erbatico e ghiandatico159, che rendevano possibile l’allevamento di pecore e maiali. Le città, inoltre, in alcuni casi avevano riservato ai soli cittadini (cives) lo sfruttamento di intere zone boschive. Infine i proprietari delle terre – fossero signori laici, monasteri o, soprattutto in Italia e nelle Fiandre, città – si erano accaparrati le nuove eccedenze. L’alimentazione dei contadini ne era risultata profondamente trasformata: la carne, soprattutto la selvaggina e la carne fresca, aveva cominciato a comparire sempre più di rado sulle loro mense, dove sino ad allora era stata presente, anche se in misura inferiore rispetto a quelle dei ceti dominanti. La dieta era diventata più ampiamente vegetariana (cereali e verdure). Ma non erano state solo le differenze qualitative tra la dieta dei ricchi e quella dei poveri ad accentuarsi. Tra il XII e XIII secolo era andata delineandosi – grazie anche alle minuziose politiche annonarie messe in atto dai centri urbani – quell’opposizione tra il regime alimentare di contadini e cittadini cui facevo cenno sopra160. In una prima fase, comunque, l’espansione dei coltivi e la crescita economica europea avevano permesso di mantenere un buon equilibrio tra popolazione e risorse. A partire dal 1270, tuttavia, a causa dell’aumento demografico tale equilibrio si era rotto: era stato il ritorno della fame. Indebolita dalla malnutrizione, ottant’anni dopo la popolazione europea era stata falcidiata dalla peste (1347-51)161. I sopravvissuti e i loro figli avevano così potuto tornare ad un regime alimentare più ricco ed equilibrato. Fin verso la metà del Cinquecento l’Europa ricomincia pertanto ad essere carnivora. Ma le differenze che sono andate delineandosi non vengono cancellate. Vengono riproposte in altra forma. I ceti superiori continuano a privilegiare selvaggina freschissima, orientandosi tuttavia ora più su fagiani e pernici che su cervi e cinghiali. I cittadini abbienti, grazie agli sviluppi commerciali, si danno soprattutto al consumo di carne bovina, che non a caso sui mercati urbani è la più costosa. Quelli più poveri, quando sono in grado di scegliere, si orientano sulla carne ovina, nello sforzo di distinguersi dai contadini, che mangiano carne di maiale salata. Ma non mancano, anche in questo caso, le differenze pure tra un tipo e l’altro di carne di maiale: nella Bologna d’Età moderna, per esempio, mortadelle e salami, pur fatti di maiale, sono prodotti di lusso costosi e prelibati, in gran parte destinati all’esportazione162. Né mancano ovviamente le differenze tra le varie zone e/o culture: nei secoli qui studiati il consumo di carne di maiale è particolarmente diffuso nell’Europa centro-settentrionale, mentre quello di carne ovina è alto in varie zone della Penisola balcanica e tra gli ebrei163. Ma torniamo alla cronologia. A partire dalla metà del Cinquecento di nuovo ci si scontra con i limiti rappresentati dall’impossibilità di espandere la produzione allo stesso ritmo della crescita demografica, nonostante la rimessa a coltura di terreni da tempo lasciati alla macchia, l’estensione dei campi e la riduzione delle zone destinate all’allevamento. Espandere i coltivi infatti non basta: si dovrebbe riuscire a incrementare la produzione. Già nel tardo Medioevo sono state introdotte importanti innovazioni tecniche e c’è stato un netto miglioramento delle conoscenze agronomiche. In particolare ci si è resi conto che inserendo le foraggiere nelle rotazioni agrarie si arricchisce il terreno e diviene possibile nutrire un maggior numero di capi di bestiame aumentando, in tal modo, tanto la produzione di carne e latte quanto la disponibilità di letame con cui concimare i campi. Ma le nuove tecniche agrarie vengono applicate solo in zone limitate dell’Olanda e della Pianura Padana. Solo nel Settecento si assisterà così a quella rivoluzione agricola che forse, se si fosse realizzata due secoli prima, avrebbe permesso di far fronte alle esigenze alimentari della massa crescente degli europei164. Nel Cinquecento, infatti, la popolazione europea torna probabilmente a livelli simili (84 milioni) a quelli raggiunti alla vigilia della peste trecentesca (90 milioni). E nel corso dell’Età moderna aumenta ulteriormente: gli europei sono circa 111 milioni verso il 1600, 125 un secolo dopo, 140-145 nel 1750, 187 o 195, a seconda delle stime, alla fine del XVIII secolo165. Le condizioni alimentari finiscono così per deteriorarsi. Di nuovo diminuisce il consumo di carne166. In Sicilia, per esempio, la media era di 16-26 kg all’anno per abitante alla Giudecca di Palermo alla metà del Quattrocento, o di 20-22 kg a Castrogiovanni: a partire dagli anni Trenta e Quaranta del XVI secolo la carne scompare dalla dieta normale dei contadini e dei salariati agricoli (resiste in città, si rafforza tra i ceti privilegiati)167. Certo non per tutti il calo è drammatico come per i contadini siciliani, né la tendenza ha sempre e per tutti lo stesso segno, tanto più in contesti da sempre caratterizzati da profonde differenze nel consumo di carne: si è stimato che a Parma nel 1580 il consumo medio pro-capite fosse di circa 20 kg; nella «grassa» Bologna, nel 1593, di 46 kg; di 38 a Roma nel 1600-1605 (ma di 21,5-24,7 nel 1785-89)168. Complessivamente, tuttavia, la tendenza alla contrazione del consumo è evidente: i salariati agricoli delle campagne intorno a Narbonne, in Linguadoca, ne consumano circa 40 kg all’anno tra il 1480 e il 1534. Ma da allora la razione comincia a ridursi, arrivando a 20 kg nel 1583. A Berlino, nell’Ottocento, si mangia un quarto di libbra al giorno laddove alla fine del Trecento se ne mangiavano tre169. A Napoli nel 1770 si macellano 21.800 bovini per circa 400.000 abitanti: due secoli prima se ne abbattevano 30.000 per una popolazione che era circa la metà170. Per molti insomma, sempre più spesso la minestra è davvero «vedova», come si dice in Toscana di quella senza carne171. Ma se il consumo di carne diminuisce, aumenta quello di pane, la cui qualità, tra l’altro, peggiora. Anche nelle città, dove dal Duecento si mangiava pane bianco, il pane, soprattutto quello destinato ai più poveri, comincia a divenire più scuro: al frumento cominciano a venir mescolate proporzioni più o meno ampie di cereali inferiori o addirittura legumi, non senza le proteste di chi, quel pane, deve mangiarlo. Ciononostante talvolta del grano non resta neppure traccia. Se nel Trecento pare che il consumo di pane giornaliero potesse collocarsi, nelle città italiane, tra i 550 e i 700 grammi, i dati relativi a periodi successivi sembrano costantemente e dovunque improntati a razioni più abbondanti: nel Seicento, a Siena, sembrano oscillare tra i 700 e i 1200 grammi; a Ginevra si ritengono accettabili razioni di 1100 grammi; a Beauvais gli amministratori degli istituti di carità stimano che 1300 grammi di pane o 850 grammi di pane e una zuppa siano il vitto minimo giornaliero; nel Settecento a Parigi i poveri mangiano fino a 1500 grammi di pane al giorno172. A parte Norvegia e Islanda, dove si mangiava molto pesce173, la dieta diventava insomma più monotonamente incentrata sul pane o comunque sui cereali. Si è stimato che nel Seicento in Italia derivi da essi tra il 15 e il 19% dell’apporto calorico delle diete dei ricchi, oltre il 50% di quello dei braccianti siciliani. Tra i ceti popolari pare che in genere non si scenda sotto quest’ultima soglia. Ma per buona parte della popolazione europea i cereali forniscono tra il 75 e il 90% delle calorie giornaliere174. L’alimentazione torna pertanto ad essere fortemente dipendente non solo dal ciclo stagionale del mondo agricolo ma anche, e con più gravi conseguenze, dall’andamento annuale della produzione cerealicola: i raccolti andati male hanno un forte impatto sulla mortalità. È quello che avviene nelle migliaia di piccole crisi locali e nelle grandi crisi dell’Età moderna (quella che travolge tutt’Europa nel 1556-57 o quella del 1590-93; quelle che investirono la Francia nel 1662, nel 1693-94, nel 1709-10, nel 1739-41; la Finlandia nel 1696-97; la Germania nel 1739-40; l’Inghilterra nel 1741-43; la Spagna e l’Italia nel 1764-67; i paesi nordici nel 1771-74)175. Ma gli aumenti del prezzo dei cereali non hanno conseguenze uniformi sulla mortalità: nelle aree a monocoltura esse sono più drammatiche che nelle zone dove è presente una gamma più vasta di prodotti. In questo senso in Francia sono più gravi nel Nord cerealicolo che nel Midi. Inoltre, per varie ragioni, hanno effetti meno devastanti in Inghilterra che sul continente. Nel Settecento poi il nesso tra aumento del prezzo dei cereali e crescita della mortalità si allenta un po’, anche grazie allo sviluppo del commercio cerealicolo176. La lotta alla fame. In parte, la dipendenza dalla produzione cerealicola fu infatti contrastata attraverso il commercio locale e internazionale dei grani. L’esportazione aumentò da paesi e zone quali la Germania orientale, la Polonia, la Livonia, l’Estonia, la Scania, la Moscovia, la Boemia e l’Ungheria «grazie» al sempre più pesante asservimento dei contadini, costretti a produrre grano e a mangiare cereali come orzo o avena. Ma dalla fine del Seicento aumentò anche l’esportazione dall’Impero turco, dalla Sicilia, dagli stati barbareschi e, dal XVII secolo, quella dall’Inghilterra e dalle sue colonie d’America. Fu solo nel Settecento, tuttavia, che si cominciò a risolvere tutta una serie di problemi legati al trasporto dei grani su lunga distanza e il commercio poté raggiungere livelli un tempo impensati177. |