Capitolo V. Riso, grano saraceno, pomodori, peperoncini e fagioli. Ma l’intensificazione del commercio non fu certo l’unica arma impiegata nella lotta alla fame. In parte, la dipendenza fu infatti combattuta grazie all’introduzione e/o allo sviluppo della coltivazione di piante alimentari del tutto nuove o semplicemente prima meno sfruttate178. È il caso del riso, originario dell’Asia meridionale, conosciuto grazie agli arabi in Spagna, da dove nel Cinquecento si sarebbe diffuso nei Paesi Bassi, in Lombardia venne coltivato con moderne tecniche capitalistiche fin dal Quattrocento. È il caso del grano saraceno, non panificabile ma adatto anche a terreni molto poveri e/o di montagna. Noto da tempo, in Europa occidentale fu messo a coltura su scala meno marginale solo a partire dal Cinquecento, in particolare nei Paesi Bassi, in Germania, in Francia e in Italia settentrionale179. Ed è infine il caso delle piante venute dall’America: peperoni e peperoncini si inserirono abbastanza rapidamente nella dieta della Penisola iberica, e poi in Italia meridionale, nei paesi slavi meridionali e in Ungheria, divenendo un economico sostituto dell’agognato pepe. I pomodori, pur conosciuti in Italia, in Spagna, in Provenza e in Linguadoca già nel XVI-XVII secolo, si diffusero invece nel resto d’Europa solo dalla fine del Settecento. Come i tacchini si inserirono senza difficoltà tra il pollame europeo, così i fagioli affiancarono senza problemi i legumi tradizionalmente noti in Europa, cioè ceci, lenticchie, piselli, fave. E spodestarono quasi, assumendone in molte lingue anche il nome, i fagioli allora presenti nel mondo europeo, analoghi a quelli oggi chiamati fagioli dall’occhio, che botanicamente sono un’altra specie (dolichos) rispetto ai fagioli venuti dall’America (phaseolus). Essi contribuirono così all’apporto proteico delle diete dei ceti più bassi180. Un discorso più esteso meritano il mais e la patata. Mais, miglio di Spagna, granoturco o frumentone... Portato da Colombo dall’America già al ritorno dal suo primo viaggio, nel 1493, il mais si diffuse precocemente: nei primi anni del Cinquecento era coltivato in molte regioni della Spagna; verso il 1520 era presente in Portogallo e nella Francia sud-occidentale; dieci anni più tardi nell’area veneta, da dove poi si espanse nella Penisola balcanica e in Ungheria. Prodotto nuovo al quale bisognava trovare un nome, fu variamente battezzato, fatto che in alcuni casi ne rende difficile l’identificazione. Venne infatti definito miglio grosso, sorgo, grano grosso, melega per associazione o confusione con cereali da tempo conosciuti; miglio (meillet) di Spagna nella Francia sud-occidentale con riferimento alla zona da cui era stato introdotto; granoturco in Portogallo, nell’Italia settentrionale e in Germania con un uso del termine «turco» che era forse sinonimo di «straniero» più che identificativo di una zona precisa; grano di Rodi, grano d’India, grano arabo, grano d’Egitto con tutto un variegato sbizzarrirsi di fantasie sui suoi luoghi d’origine. Nonostante la precoce diffusione a lungo rimase un prodotto marginale, usato come foraggio o relegato tra le colture ortive, che tuttavia avevano il vantaggio di non essere sottoposte alla decima e ai canoni fondiari. In questo senso serviva «per fare otto o dieci volte la polenta» ogni anno, come fa dire l’agronomo Giovanni Battarra ad uno dei protagonisti del suo dialogo Pratica agraria (1778)181. Significativamente, veniva dunque cucinato come i cereali da tempo utilizzati in Europa, non secondo le modalità americane: si era importato un prodotto, ma non la tecnica gastronomica che nel luogo d’origine presiedeva alla sua utilizzazione. Come nel caso delle altre colture «nuove», anche in quello del mais nel Seicento le tendenze espansive risultarono un po’ contenute: ripresero, e questa volta con un ritmo e una portata molto superiori, nel XVIII secolo. Allora furono spesso gli stessi proprietari terrieri a incoraggiare la fuoruscita dalla clandestinità ortiva di una coltura dall’alto rendimento e a favorire il processo di sostituzione dei cereali inferiori tradizionali con il mais. Una volta inserita nei patti agrari, infatti, la coltura maidica smetteva di sfuggire al canone e, grazie alle sue alte rese, aumentava le entrate dei proprietari. Il suo alto rendimento, inoltre, rendeva possibile destinare più terra alle colture per il mercato e meno, invece, a quelle necessarie al sostentamento delle famiglie contadine. Non di rado i contadini cercarono di opporsi a tali tentativi, ma senza grande successo, tanto più che le gravi carestie della metà del Settecento lasciavano ben poca scelta182. Nei Balcani, per esempio, il mais cominciò a venir coltivato nei campi dopo la crisi del 1740-41, prima affiancando e poi sostituendo l’orzo e il miglio con cui tradizionalmente si preparavano gallette e farinate. Lo stesso avvenne in varie zone dell’Italia settentrionale, dove la polenta di granturco finì per divenire l’elemento centrale dell’alimentazione dei contadini. «Polenta ed furmenton e acqua ed fos», polenta di frumentone e acqua di fosso: questa la loro dieta, avrebbero denunciato in un canto i contadini di Galeata, in Romagna. Che in molte zone del nostro paese l’alimentazione fosse incentrata sul mais e che, nel caso dei braccianti, si riducesse davvero a polenta e acqua sarebbe stato confermato anche dai rilevatori dell’Inchiesta Jacini (1877-84)183. Ma le conseguenze di un’alimentazione tanto monotona non erano solo noia e frustrazione del palato. Dall’imporsi della dieta maidica derivarono infatti gravi conseguenze per la salute dei contadini, a causa delle carenze nell’apporto di vitamina PP, responsabili della pellagra: una malattia il cui decorso provoca ferite purulente, follia e morte. Segnalata per la prima volta nelle Asturie nel 1730, essa flagellò a lungo la popolazione della Francia meridionale, della Pianura Padana, dei Balcani184. Tartuffoli, «tartoffeln», «pommes de terre», patate... Assimilabile ai cereali conosciuti, e in particolare al miglio, con cui da sempre si preparavano polente e altri cibi, il mais suscitò forse in misura minore, rispetto alla patata, atteggiamenti di rifiuto e di chiusura. Pur coltivato all’inizio in orti e giardini come pianta esotica e di lusso, il tubero arrivato dall’America venne a lungo guardato con sospetto, forse anche per il parziale persistere di quella gerarchia dei valori alimentari (cui facevo cenno sopra) che tendeva ad associare alla sfera dell’animalità ciò che cresceva sottoterra. Comunque sia, anche chi della patata propagandava le virtù finiva talvolta paradossalmente per associarla all’alimentazione animale. «Da queste radici si fa pane, si mangian cotte in varie maniere, e avidamente son mangiate da buoi, pecore, porci, pollami, piccioni etc., per cui si ingrassano moltissimo», scriveva ad esempio il già citato Battarra185. In tale clima di sospetto non mancò chi sostenne che i «tartuffoli» o «tartufi bianchi», come vennero precocemente chiamate le patate in Italia, provocavano flatulenze, né chi disse che portavano addirittura la lebbra. In effetti, mal selezionate, le patate delle prime generazioni talvolta erano davvero un po’ tossiche. Non stupisce allora che, pur conosciute in Perù nel 1539, ancora nel 1781 nei paesi lungo il fiume Elba suscitassero una tale avversione che non si trovavano servitori disposti a mangiarle: piuttosto che cibarsi di tartoffeln cambiavano padrone186. Fu solo sotto la spinta del bisogno, in particolare durante la carestia del 1770-72, che si ampliarono le coltivazioni del tubero dai molti vantaggi: permetteva di avere il raccolto quasi assicurato anche in campi occupati per mesi da un esercito; aveva una resa più o meno doppia rispetto al grano; in alcune zone non era sottoposto alla decima. Alla luce del ruolo della fame nell’espansione della coltivazione delle patate, non stupisce allora che esse, importate in Inghilterra, pare, nel 1588, non si diffondano sul suolo inglese ma nella più povera Irlanda. Nel XVIII secolo sono ormai l’alimento principale della popolazione dell’isola: si è calcolato che la dieta quotidiana di un uomo adulto fosse costituita da 5 kg di patate e una pinta di latte (con un apporto di circa 3850 calorie), oltre ad un po’ d’avena e di piselli187. C’è da chiedersi che diversa percezione della fame, rispetto a noi, potessero avere persone abituate a ingollare quantità così cospicue di cibo. Qualsiasi ne fosse la percezione, molti la sperimentarono drammaticamente a metà Ottocento, quando un paio di raccolti andati male furono sufficienti a provocare uno dei più terribili disastri demografici della storia europea. Ma anche i conflitti, come si accennava, favoriscono la diffusione delle patate. Nell’Alsazia tormentata dalla guerra si coltivano patate a partire dal 1660. Vent’anni dopo sono attestate in Lorena, dove nell’arco di un secolo diventano un elemento cardine della dieta contadina. Hanno un certo successo anche in Svizzera, in Svezia, nelle Fiandre, dove la loro diffusione è «incoraggiata» dalla guerra della Lega di Augusta (1688-97), dalla guerra di successione spagnola (1701-14) e da quella di successione austriaca (1740-48), che coincide con la carestia del 1740. In Germania, già all’inizio del Seicento la patata è coltivata negli orti, ma si diffonde soprattutto «grazie» alla guerra dei sette anni (1756-63), alla carestia del 1770-72 e alla guerra di successione bavarese (1778-79). E se in Prussia Federico Guglielmo I (1713-40) e Federico il Grande (1740-86) ne incoraggiano la diffusione con vari provvedimenti, sarà proprio in tale paese, dove si trova prigioniero durante la guerra dei sette anni, che Parmentier «scoprirà» le patate, di cui diverrà uno degli apostoli. La centralità assunta dal pane nella dieta della popolazione fece sì, tuttavia, che in genere non si utilizzasse il tubero americano come facevano le popolazioni amerinde, cioè seccandolo, ma lo si interpretasse, per così dire, a partire dal pane stesso: inizialmente si cercò, infatti, di farne pagnotte e panini (che la patata fosse panificabile era convinzione anche di Parmentier)188. In realtà la patata non è tale: al massimo può essere usata in mistura. Così in effetti veniva utilizzata in Alsazia. Secondo una testimonianza del 1773 vi si preparava infatti il pane «mescolando la patata con l’avena e con le vecce». Chissà che gusto aveva. «Sarebbe più saporito se contenesse un terzo di frumento», commentava però il testimone189. Le trasformazioni della geografia alimentare e il peggioramento della dieta. A fine Settecento, dunque, la geografia dei prodotti alimentari vegetali risulta ormai profondamente trasformata rispetto a quella che era stata due-tre secoli prima: tra le tante contrapposizioni che, con qualche forzatura, si possono rintracciare in Europa, ora c’è anche quella tra l’Europa centro-settentrionale «mangiapatate» e l’Europa meridionale e sud-orientale più o meno massicciamente «mangiapolenta». Non mancano naturalmente le zone di confine, come l’Italia settentrionale, in cui si usano entrambi i prodotti, mentre restano forti le peculiarità locali e regionali190. A fine Cinquecento il già citato Itenerario di uno peligrino incognito descrive la montagna appenninica del Frignano come una zona dove «carne non si magna» e dove il «pan è di castagna»191. Nelle aree montane del mondo mediterraneo, in effetti, la castagna – seccata, bollita, ridotta in farina o usata per fare pagnotte, ciacci e polente – continua a rimanere elemento centrale della dieta, oggettivamente piuttosto ricco, comunque, di principi nutritivi192. In Italia i napoletani, ma anche gli altri meridionali, sempre più si trasformano da mangiatori di pane, cavoli e carne, in «mangiamaccheroni», epiteto inizialmente attribuito ai siciliani, che già nel XII secolo producevano pasta secca (la pasta fresca era invece conosciuta sin dall’antichità). La pasta è destinata a divenire un elemento importante della dieta popolare solo a partire dal Seicento. Ancora non si tratta però della pasta con la «pummarola in coppa»: la salsa di pomodoro comparirà solo verso il 1830. Confezionata in varie fogge, in genere con farina di frumento, si mangia con il formaggio grattugiato: è dunque un alimento più ricco e nutriente rispetto alle pietanze preparate con i prodotti d’oltremare193. In definitiva, la dieta delle popolazioni europee, tra Cinque e Settecento, complessivamente peggiora: non per tutti, ovviamente, né ovunque allo stesso modo. Ma il trend sembra piuttosto chiaro, e da certi punti di vista accomuna il contadino veneto costretto ad un regime alimentare quasi esclusivamente maidico e i primi operai inglesi, per i quali comincia a profilarsi una dieta, che diverrà comune nei primi dell’Ottocento, incentrata sul consumo di pane e tè zuccherato194: due prodotti, tè e zucchero, che vedono il loro consumo in crescita nel corso dell’Età moderna. Zucchero, tè, caffè, cioccolata e superalcolici. Lo zucchero, di origine indiana, era conosciuto fin dal Medioevo. Inizialmente era stato usato in farmacia e poi, dal Cinquecento, si era diffuso sulla tavola come condimento di lusso con cui accompagnare qualsiasi pietanza: la passione per l’agrodolce sarebbe declinata solo nel corso del Seicento e del Settecento195. Nel corso dell’Età moderna il consumo di zucchero andò aumentando anche grazie allo sviluppo della produzione dovuto all’introduzione delle piantagioni di canna da zucchero lavorate da schiavi prima in Sicilia, nelle Baleari, a Creta e a Cipro, e poi nel Nuovo Mondo196. Il tè, di origine cinese, era invece arrivato dall’India all’inizio del Seicento: le prime balle vennero scaricate ad Amsterdam nei primissimi anni del secolo. Il suo consumo si sarebbe diffuso soprattutto in Inghilterra, conquistando prima le élites e poi anche i ceti popolari. Dall’Asia era giunta anche la moda del caffè, che a partire dalla seconda metà del Seicento avrebbe dato vita a nuovi luoghi e nuove forme di socialità (i caffè, appunto). A Londra la moda dei caffè dovette coinvolgere anzitutto gli uomini, se le donne nel 1674 lanciarono contro di essa una petizione. Ma un secolo dopo in Germania, dove gli uomini restavano fedeli alla birra, pare fosse una bevanda tipicamente femminile197. In Italia tra Sette e Ottocento era ormai una bevanda accessibile a tutti: «fin i più vili lavoratori, ne vogliono di mattino», scriveva Giuseppe Maria Galanti. «Essi lo tengono per digestivo. Felicemente per i loro nervi, quello che si dispensa nelle botteghe a buon mercato, non ha altro caffè che il colore»198. Proprio per il suo effetto stimolante, il caffè divenne uno dei simboli della razionalità e dell’efficienza borghesi. In questo si contrapponeva all’uso della cioccolata (il cacao era stato importato dall’America), diffusa soprattutto tra gli aristocratici oppure, forse un po’ paradossalmente, ai nostri occhi, come bevanda da assumere nei giorni di magro e durante i digiuni per «tenersi su». Come avvenne per altri prodotti nuovi, anche tè, cacao e caffè furono impiegati in un primo momento in ambito medico, e solo in seguito passarono a quello alimentare199. A questo proposito va detto, tuttavia, che la distinzione tra farmaco e alimento in Età moderna era diversa rispetto ad oggi. All’epoca non si disponeva infatti dei mezzi chimici della farmacia moderna. La dietetica giocava pertanto un ruolo centrale: si credeva che il cibo agisse sull’individuo che lo assumeva. Dunque la scelta e il dosaggio degli alimenti apparivano fondamentali per guarire da una certa malattia o per conservarsi in buona salute. Dire che tè, caffè e cacao furono inizialmente usati in ambito medico, in riferimento all’Età moderna, significa dunque che all’inizio si attribuirono alla loro assunzione virtù terapeutiche che in seguito vennero ridimensionate o dimenticate. Una delle caratteristiche dei secoli qui studiati, infatti, è proprio l’allentarsi dei rapporti tra gastronomia e dietetica200. Ma prima che questo percorso venisse compiuto, straordinarie virtù terapeutiche erano state in una prima fase attribuite anche all’acquavite, come dice anche il suo nome, che letteralmente significa acqua della vita. Prototipo di tutti i distillati, da questo punto di vista essa ebbe una sorte simile a quella di zucchero, tè, caffè e cioccolata. A partire dal Seicento, infatti, cominciò lentamente a passare dallo studio dell’alchimista e dalle botteghe degli speziali alle taverne e alle osterie. E si moltiplicò in rhum, acquaviti di sidro, grappe, kornbrand, whisky, vodka, gin e via discorrendo. Rese infine possibile la produzione di rosoli e liquori. Inizialmente elitaria, la diffusione di tali bevande avrebbe in prospettiva contribuito ad acuire il problema dell’alcolismo201. |