Capitolo V. «Mo’ a dirli [= dirle] il vero noi eravamo tanto poverette». Non creda invece che «adesso beva acqua», dice nel 1578 Margarita De Magni della nipote Francesca De Caranti, di cui è responsabile, per spiegare durante un interrogatorio come mai abbia tollerato che la ragazza avesse una relazione illecita con un uomo dal quale trae qualche vantaggio materiale. «Volevatte [= volevate] voi che andasse a rubare?» Dal suo punto di vista lo scopo di evitare una miseria tanto nera da costringere a bere acqua giustifica il comportamento della nipote, e dunque anche la sua condiscendenza202. Anche agli occhi di Sebastian Münster o di Jouvin de Rochefort il fatto che i contadini bevessero solo latte o acqua appariva come un segno di profonda indigenza203. Bere «acqua ed fos» era presentato dai contadini di Galeata, lo si è visto, come un segno della loro povertà e analogo era stato, un paio di secoli prima, l’intento dell’autore del già citato Itenerario laddove diceva che nel Frignano «il vino è di fontana chiara», è cioè acqua pura204. Ancora una volta le gerarchie sociali si rispecchiavano negli alimenti. Alle gerarchie delle fortune entro certi limiti corrispondevano gerarchie delle bevande. La distinzione non correva, tuttavia, solo tra bevande alcoliche e non, ma poteva seguire il grado alcolico. O meglio, forse, la loro acquosità, visto che all’epoca la gradazione non si misurava. I mezzadri della Toscana, che di vino era ed è importante produttrice, ne bevevano solo nei giorni di festa e in occasione dei grandi lavori agricoli. Per il resto si accontentavano dell’«acquerello» o «acquato»: bevanda dal nome rivelatore, fatta mettendo le vinacce derivate dalla spremitura dell’uva in un contenitore con dell’acqua e facendole poi fermentare. E l’operazione veniva compiuta non una, ma anche due, addirittura tre volte, fino a quando non se ne traeva davvero che acqua solo vagamente colorata205. Passando dalla campagna in città si può ricordare che i ricchi riservavano ai servi, come s’è visto, il «vino da famiglia», di qualità inferiore a quello che bevevano loro206. Rispetto ai criteri attuali, tuttavia, nella valutazione della qualità dei vini accanto all’«acquosità» entravano in gioco anche altre variabili, come l’acidità e il colore, che in alcuni casi rendevano inapplicabile l’associazione tra vini acquosi e classi sociali inferiori appena proposta. I gusti delle classi superiori non furono sempre e ovunque gli stessi e anzi fino al Seicento il vino nero era considerato un alimento rozzo, adatto ai ceti inferiori207. «La carne di vacca, di manzo, di porco, il pane di grano rosso, le fave, il cascio, le olive, il vino negro e altri cibi grossi fanno il seme grosso e di cattivo temperamento: il figliuolo che si genererà [dopo averli mangiati e bevuti] averà forza grande. Ma sarà furioso e d’ingegno bestiale», notava un autore esprimendo quella circolarità, da noi già notata, tra cibo e qualità delle persone208. Se i più miseri tra i cittadini bevevano solo acqua e i montanari optavano tra il ruscello e il latte, le bevande alcoliche erano comunque le bevande principali di larga parte della popolazione, fosse la loro gradazione più o meno forte. Le bevande alcoliche più diffuse erano il vino e la birra. Il vino era diffuso soprattutto nell’Europa mediterranea ma era apprezzato dai ceti elevati di tutto il continente. La birra era prevalente nell’Europa settentrionale e orientale ma era consumata anche nella Penisola iberica. In Francia era considerata una bevanda «da poveri»: non a caso il suo consumo cresceva nei momenti di crisi. La geografia appena tracciata non era comunque statica: nel corso del tempo probabilmente si realizzò una riduzione della coltivazione della vite e del consumo di vino nei paesi dell’Europa settentrionale, mentre la birra conobbe un crescente successo, anche grazie al diffondersi dell’impiego del luppolo, che ne allungava i tempi di conservazione, rendendola più commerciabile. Nel Settecento tuttavia a Parigi, nei Paesi Bassi e in Inghilterra (non però in Germania) si registrò un calo dei consumi dovuto alla crescente concorrenza dei superalcolici209. Per quanto riguarda i consumi, sebbene i dati disponibili non siano sempre univoci, molti studiosi concordano nel ritenere che fossero mediamente molto alti: quelli di vino raramente inferiori al litro al giorno; quelli di birra anche superiori. Nel Seicento nelle famiglie inglesi pare che tutti, adulti e bambini, ne bevessero quotidianamente circa tre litri a testa. Non stupisce allora che le ricette di pappe per lo svezzamento dei bambini potessero prevederne l’impiego210. Tale largo consumo era giustificato dalla necessità di integrare l’apporto calorico della dieta: tra i braccianti siciliani a fine Seicento il vino forniva più di un terzo delle calorie giornaliere211. Ma era legato anche alla difficoltà di procurarsi acqua potabile, alla diffusione della credenza che l’acqua facesse comunque male alla salute212, al bisogno di facilitare la masticazione e la deglutizione del pane raffermo e al consumo di cibi particolarmente salati: «la carne salata di maiale aveva sortito il suo effetto, bisognava innaffiarla e questo fu fatto in abbondanza», ricorda Ménétra213. Il sale era usato tanto per conservare la carne o il pesce, quanto per insaporire cereali o legumi di per sé piuttosto scialbi: si stima che se ne consumassero tra 3,4 e 8,8 kg all’anno a testa, a seconda delle zone, laddove oggi la media è di 2,2 kg214. (Non mancavano però neppure le zone, soprattutto nelle Alpi, nei Carpazi e nei Pirenei, in cui le difficoltà di approvvigionamento portavano a carenze che favorivano l’insorgere di malattie come il gozzo215). Ma non si beveva birra o vino solo per la sete indotta dalla carne salata o perché l’acqua del pozzo faceva venire la diarrea. Lo si faceva anche per procurarsi uno stato di euforia e di eccitazione necessario – come lo spreco dei giorni di festa – a combattere le insicurezze, le paure e le fatiche della vita quotidiana, ad allontanare lo spettro o i crampi della fame e a fantasticare sul mondo di cuccagna. A questo scopo, anzi, la popolazione d’Età moderna pare facesse ampio uso anche dei semi oppiacei del papavero e di piante allucinogene, assunte peraltro anche involontariamente in mezzo ai cereali macinati o tra le verdure della minestra216. |