Capitolo VI.

Filare, tessere, cucire, comperare...

Filare e tessere. Filare: le donne d’Età moderna filano, filano, filano, come ci ricordano anche tante fiabe, da quella di Raperonzolo a quella della Bella Addormentata nel bosco. Non a caso in molte zone fuso e conocchia sono simbolo della donna onesta e laboriosa, al punto da conservare talvolta tale valore simbolico anche nello scenario opulento e lontano dall’urgenza della vita quotidia­na dei matrimoni aristocratici1. È probabilmente proprio la possibilità di filare negli interstizi tra un’attività e l’altra, oppure contemporaneamente ad altre attività, a conferir loro tanto ­valore. Senza dubbio l’abbandono di tale pratica ha segnato una cesura profonda nell’esperienza femminile e probabilmente anche nella costruzione dell’identità di genere delle donne.

In Età moderna, le ragazze filano per produrre i loro corredi, una volta sposate per le necessità della loro famiglia. A quest’epoca, tuttavia, filano anche per il mercato. Se nella filatura meccaniz­zata della seta, precocemente sviluppatasi a Bologna2, sono presenti anche maschi, la filatura domestica è invece un’attività quasi esclusivamente femminile3: e lo è in misura maggiore della tessitura. La tessitura organizzata da mercanti che forniscono la materia prima a lavoratori a domicilio, infatti, vede coinvolti anche uomini, accanto alle donne4. La tradizionale produzione domestica di filati e tessuti per l’autoconsumo rappresenta comunque la trama in cui si inserisce lo sviluppo protoindustriale incentrato sulla produzione a domicilio5.

Produrre, riciclare, acquistare. Nella confezione di vestiti e biancheria, le attività di filatura e tessitura si accompagnano al lavoro con ago e filo, per produrre abiti nuovi o riadattarne di usati: riciclati all’infinito in famiglia, acquistati al mercato dell’usato, ottenuti in dono, dati in elemosina, ereditati da padroni e padrone, talvolta rubati, gli abiti circolano infatti da una persona all’altra, in un gioco senza fine di adattamenti e riadattamenti6. Si tratta di un gioco al quale partecipa buona parte della società: in Francia uno dei privilegi delle nobildonne che servono la regina è quello di ricevere i suoi abiti smessi7. Ma per i domestici avere i vestiti vecchi dei padroni è usuale a tutti i livelli sociali. Metterli dopo averli modificati o venderli sono alcune delle opportunità loro aperte. In un contesto in cui la produzione di capi di abbigliamen­to non ha ancora raggiunto dimensioni di massa, il commercio dell’usato gioca un ruolo importante: non a caso in molte città bancarelle, mercatini, rivendite di capi smessi sono presenti in aree centrali, come le strade intorno a piazza Navona a Roma8.

«I vestiti e la biancheria del defunto sono stati impiegati, in parte per l’uso dei [...] figli, e per l’altra parte sono stati venduti al fine di far pregare Dio per [il] defunto», dichiara la vedova di Pierre Richandeau, fabbricante di nastri, nella Parigi del Settecento9. Come lei si comportano tanti altri che vendono gli abiti di un parente scomparso, non di rado per pagare le spese legate alla sua ultima malattia o alle esequie. I costi della malattia di un congiunto possono anzi essere tali da costringere i familiari ad alienare o ad impegnare sui monti di pietà i propri vestiti10. Qualsiasi oggetto, in effetti, anche un vestito, può fungere da riserva di valore a cui ricorrere in momenti difficili. «Chi ha impegnato il ferraiuolo, chi la cappa, chi un lenzuolo, chi l’anel della mogliera, chi ha venduto la lettiera, chi il giupone e le calzette, le banzole e le cassette, le careghe e i credenzon. Mala cosa è la pigion», recita Il lamento de’ poveretti i quali stanno a casa a pigione, e la convengono pagare di Giulio Cesare Croce11.

Così presso i rigattieri affluiscono vestiti di persone defunte; abiti alienati per saldare qualche debito; oggetti rubati; vestiti smessi dai ricchi... Il fatto che gli abiti vecchi dei padroni vengano ceduti ai servi non esclude tuttavia che anche in famiglie di un certo livello i vestiti siano aggiustati e riciclati, a giudicare da quanto avviene a Como in casa Odescalchi negli anni Settanta del Cinquecento o in casa del barone e della baronessa Schomberg, a Parigi, nella seconda metà del Settecento12.

Ma naturalmente si fa ricorso anche ai venditori di stoffe da un lato e ai sarti dall’altro, in città e anche in campagna. Per quanto riguarda il mondo rurale, gli studi condotti sull’Inghilterra mostrano il moltiplicarsi, già nel Seicento, dei venditori ambulanti che portano fin negli angoli più remoti del paese piccoli libri, nastri, tabacco a poco prezzo, stoffe da cui fare lenzuola, tende, camicie, biancheria personale...: da Roland Johnson, che vi muore nel 1683, gli abitanti della sperduta Penrith, nel pittoresco ma povero Cumberland, possono così comperare tele d’Olanda, percalle, calicò e mussola indiani, stoffe di seta e di lino, tessuti ­scozzesi, e poi ancora guanti, manicotti, nastri e altri elementi decorativi13. Un po’ in tutt’Europa accanto ai venditori ambulanti esistono inoltre sarti che girano da una casa all’altra sostandovi finché non hanno confezionato i vestiti per tutti i membri della famiglia14.

La produzione domestica per l’autoconsumo, sia di tessuti sia di vestiti, nel periodo qui analizzato resta insomma importante, ma la sua egemonia viene sempre più seriamente intaccata dallo sviluppo dell’industria tessile, dal commercio di stoffe e vestiti, dalla confezione professionale di abiti: fenomeni distinti, ciascuno con una propria cronologia, ma non privi di interrelazioni. «Attorno ai tessili si intreccia, per lo più, un reticolo di scambi monetari», nota un autore. E poiché ciò implica la vendita di una parte dei prodotti agricoli per procurarsi la moneta necessaria a tali scambi, ecco che anche grazie ai prodotti tessili, o addirittura soprattutto grazie ai prodotti tessili, «all’interno dell’economia di sussistenza si apre una breccia attraverso la quale penetrano relazioni monetarie»15.

Prezzi calanti e dotazioni crescenti. In questo senso non stupisce che in Toscana crescano tanto i consumi quanto gli scambi dei contadini: lo stock di vestiti e biancheria, nei bauli e negli armadi di ogni casa, tende a lievitare. Come già si è accennato il numero delle lenzuola possedute da ogni famiglia nel Settecento è doppio rispetto a due secoli prima e anche camicie e vestiti sono probabilmente più numerosi. Ma non si può dimenticare che se da un lato la crescita della popolazione e la relativa stabilità delle tecniche agricole, fino al XVIII secolo, portano ad un forte aumento del prezzo dei cereali, dall’altro le innovazioni sei-settecentesche che accrescono la produttività nel settore manifatturiero fanno calare i prezzi relativi dei prodotti tessili. In questo senso, fatto 100 il prezzo del grano da un lato e dei tessuti dall’altro nel periodo 1565-74 sul mercato di Pisa, esso risulta rispettivamente di 223 e 75 negli anni 1774-83. E nei due secoli in esame il costo relativo dei tessuti rivela una costante tendenza al calo. Così i contadini che possono permettersi di vendere grano, nel lungo periodo vendono a prezzi crescenti, mentre acquistano stoffe che costano relativamente sempre meno16.

I dati disponibili mostrano che tendenze analoghe caratterizzano anche altre realtà. In Olanda i prezzi, tra il 1450 e il 1810, crescono complessivamente quasi quattordici volte (13,85) ma l’aumento del prezzo dei beni tessili è molto più contenuto (4,60). In Inghilterra i prezzi dei prodotti tessili rimangono stabili o addirittura calano, nonostante l’inflazione molto alta, a partire dalla seconda metà del Cinquecento. Già prima dell’avvio dell’industrializzazione si verifica insomma una diminuzione del loro costo: e una diminuzione notevole, stimata di entità analoga – in termini relativi – a quella avutasi durante la prima metà dell’Ottocento. Adozione del filatoio a ruota; impiego di minor quantità di filato o uso di materie prime più scadenti; sviluppo protoindustriale; accresciuta concorrenza di nuovi tessuti più leggeri ed economici prodotti altrove in Europa oppure in Asia; maggior sfruttamento dei lavoratori nel settore tessile; dif­fondersi di sussidi ai poveri da parte delle comunità di appartenenza che rende possibili salari molto bassi; miglioramenti nella distribuzione: questi sono gli elementi che gli storici hanno preso in considerazione per spiegare il fenomeno, enfatizzandone ora l’uno ora l’altro17. Qualunque sia il ruolo di ciascuno, ad essi nel corso del Settecento si vengono affiancando importanti innovazioni relative alla tecnologia e all’organizzazione del lavoro che portano al decollo industriale18. Alla luce dell’andamento calante, almeno in termini relativi, dei prezzi dei tessuti in diversi contesti europei, dalla Toscana all’Inghilterra sino alla Polonia settecentesca, non stupirà comunque il lievitare della dotazione di vestiti e biancheria rilevato da tante ricerche. Anche senza spendere di più diviene possibile acquistare un maggior numero di capi. E questo è naturalmente un elemento di grande importanza in società in cui, tra i ceti popolari, una quota del reddito oscillante tra il 60 e l’80% è assorbita dalle spese alimentari (oggi nei paesi occidentali esse assorbono tra il 20 e il 33% della spesa: una percentuale non dissimile da quelle rilevate analizzando le spese dei nobili di Antico regime)19.

Ma il minor costo relativo dei vestiti e dei tessuti non basta sempre a spiegare l’arricchirsi dei guardaroba. Le indagini condotte su Parigi mostrano, infatti, che il valore dell’abbigliamento di ciascuna famiglia nel corso del Settecento cresce anche se misurato in grano: vendendo i vestiti lasciati da un defunto all’inizio del secolo si sarebbero potuti comperare, in media, 128,3 setiers di grano, mentre verso il 1789 se ne sarebbero potuti acquistare ben 32420. Tra i salariati il valore degli abiti sul totale dei beni mobili passa dal 5 al 10%, tra i domestici dal 10 al 25%21. Nei loro armadi, accanto a gonne o culottes22, aumentano la biancheria, i fazzoletti, e altri capi secondari: di quattro volte in quelli maschili, di cinque in quelli femminili23.

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