Capitolo VI.

Proteggersi e farsi belli

Il freddo e la peste. Proteggersi dal freddo è, in effetti, uno dei bisogni a cui rispondono i vestiti, dei quali generalmente si dice che svolgono tre funzioni, cioè quella di riparare, quella di coprire le parti ritenute vergognose e quella di ornare: Schutz, Scham e Schmuck, per dirla con la triade di parole usate dai tedeschi che significano per l’appunto protezione, pudore e ornamento. Ad esse vanno comunque aggiunte anche le funzioni di veicolare messaggi e di marcare appartenenze e distanze, come vedremo nelle prossime pagine. Ma se i vestiti devono riparare dai rigori del clima, non stupisce scoprire che – nell’Europa ancora mal riscaldata dell’Età moderna, investita dai gelidi inverni di quella sorta di piccola glaciazione che caratterizza il periodo tra il tardo Cinquecento e i primi decenni dell’Ottocento65– gli abiti dei nostri antenati sono spesso confezionati con tessuti pesanti e che talvolta sono foderati di pelliccia, in particolare nelle zone più fredde. Né stupisce il fatto che gli abiti possano venir portati gli uni sopra gli altri in una serie isolante di strati66.

Ma in un contesto in cui va imponendosi un’immagine del corpo come luogo minacciato da aggressioni esterne, come vittima di orribili malattie che lo contagiano infiltrandosi attraverso le sue aperture e i suoi pori, il vestito svolge un’azione di difesa e protezione anche ad un altro livello: rappresenta una corazza contro la peste e le malattie. Le gorgiere e i colli arricciati che dominano la seconda metà del Cinquecento e buona parte del Seicento servono allora anche a rinserrare il corpo in una sorta di armatura difensiva67. In tempo di peste si arriva addirittura a proporre un abbigliamento specifico, che protegga dal contagio costringendo, per così dire, i miasmi pestilenziali a scivolare via senza far danno. Durante le epidemie «gli abiti che si devono portare sono di raso, di taffettà, di sete marezzate, e simili, che non hanno peluria e sono così lisci e stretti che solo a fatica un’aria malsana o qualunque altra infezione può penetrare o attaccarvisi, soprattutto se li si cambia spesso», scrive un autore68.

La tipologia dei vestiti e le idee che la circondano testimoniano insomma anche di una società ansiosa, che si sente attaccata da misteriosi agenti patogeni e cerca pertanto di difendersi come può. Non è forse casuale allora che l’alleggerirsi dell’abbigliamen­to da un lato e la ripresa dell’uso del bagno dall’altro cominci­no ad avviarsi dopo la scomparsa della peste dal continente europeo: essa imperversa ancora nel 1709-12 nei Balcani, in Austria e in Boemia, nell’Europa orientale e baltica; nel 1720-22 in Provenza; nel 1743 a Messina e a Reggio Calabria. E nell’Europa orientale e balcanica continuerà a mietere vittime fino all’Ottocento. Ma buona parte dell’Europa occidentale ne è libera già a partire dal 167069.

Le trasformazioni del guardaroba. Nel corso del Settecento, in effetti, i tessuti vanno facendosi più leggeri, ariosi e colorati. Ovviamente rispetto a tale trasformazione un ruolo di primo piano è giocato dallo sviluppo dell’industria tessile e dalle speculazioni imprenditoriali. Forse ha un certo peso anche il miglioramento dei mezzi di riscaldamento. Comunque sia le ricerche condotte su Parigi mostrano che durante il XVIII secolo nei guardaroba maschili, dove pure i tessuti pesanti continuano a predominare, quelli di lana leggera, come le flanelle, o di cotone, come le anchine, si fanno strada per giacche e gilè. Certo i colori scuri continuano a essere molto diffusi. Blu, gialli, verdi e rosa, motivi a righe e a quadri ne erodono però in parte la supremazia. Ormai anche «l’uomo del popolo respira l’aria della moda», scrive uno storico.

Naturalmente non cambiano solo i tessuti e i colori, ma anche le fogge. Biancheria a parte, tra Sei e Settecento i capi principali, per salariati e domestici, sono la giacca, la culotte, cioè il ­pantalone al ginocchio, e il giustacuore, lunga sopravveste. Tali capi sono presenti, rispettivamente, nel 65, 80 e 95% degli inventari. I più fortunati possiedono anche un mantello, annoverato dai notai nel 27% dei casi. Qualcuno ha un cappotto, parecchi un cappello.

Tra il 1775 e il 1790 la situazione si presenta molto diversa. Nell’84% degli inventari ci sono abiti completi, con giacche e culottes abbinate. Il gilè sostituisce il giustacuore. La redingote, l’aderente soprabito dalla vita accentuata che i nobili avevano adottato all’inizio del secolo, è ora presente anche nei guardaroba popolari e fa concorrenza a mantelli e cappotti. A giudicare dagli inventari sono invece rari i pantaloni, che durante la Rivoluzione daranno il nome ai sanculotti. Sanculotto letteralmente significa infatti vestito senza culotte, cioè con i calzoni lunghi invece che con i calzoni al ginocchio che assurgono durante gli anni rivoluzionari a simbolo dell’aborrito Ancien régime.

Quasi tutti ormai hanno poi un cappello in testa e scarpe ai piedi. Se tra Sei e Settecento le scarpe erano presenti solo nel 37% degli inventari, ora la percentuale è del 75%. Ma probabilmente i reali possessori sono di più, soprattutto nel primo periodo. Non è escluso, infatti, che i morti vengano seppelliti con le scarpe addosso, e che dunque chi ne ha solo un paio le porti con sé nella tomba. E non è neppure escluso che tale bene costoso scompaia prima che il notaio possa registrarlo nell’inventario. Gli inventari sono insomma una fonte utile e ricca, ma da prendere con la dovuta cautela, in particolare rispetto ai capi di abbigliamento. Se da un lato permettono di individuare con una certa precisione trasformazioni di tessuti, fogge e colori, dall’altro non consentono conclusioni altrettanto sicure rispetto ai mutamenti quantitativi. Ciononostante, l’aumento dei capi disponibili che gli inventari registrano è indubitabile e significativo: «là dove il notaio ne censiva, intorno al 1700, due», ora «se ne trovano tre o quattro»70.

Per quanto riguarda in particolare la dotazione di scarpe, i parigini appaiono decisamente meglio forniti rispetto ai contadini toscani. Se nel Cinquecento, nel contado pisano, l’analisi dei beni di 60 famiglie rileva la presenza di solo 14 paia di scarpe, e dunque si può dedurre che non più del 4% della popolazione ne sia fornito, nel Settecento in Toscana ce ne sono in genere 20 paia ogni 50 famiglie e, come si sa, si tratta di famiglie complesse, ampie e numerose. La stragrande maggioranza indossa degli zoccoli, o sta a piedi nudi.

A quest’epoca i contadini toscani, il cui abbigliamento tra Cinque e Settecento non subisce trasformazioni radicali, oltre a camicia e cappello indossano pantaloni di lana, talvolta di lino e di fustagno, piuttosto ampi, in genere «ammezzati», cioè lunghi fin sotto il ginocchio (fino al Cinquecento avevano portato calze di panno attillate lunghe fino al piede, mentre dai primi decenni del­l’Ottocento adotteranno i pantaloni lunghi). Per proteggere il polpaccio indossano calzini. Sopra la camicia portano un panciotto corto, senza maniche, detto «camiciola», «camiciotto» o «corpetto» e, in inverno, un «giubbone» corto, talvolta imbottito di bambagia, oppure una «casacca», più lunga e dotata di falde. Il cappello, di paglia o di feltro, non manca quasi mai, e nei periodi più freddi i più fortunati si proteggono con «tabarri» dotati di cappuccio, corti «ferraioli», «zimarre» talvolta foderate di pelliccia, «palandrane», «mantelli» e via discorrendo71.

E le donne? A Montaigne, nel Cinquecento, le contadine toscane erano apparse «molto belle». Nel Settecento un altro viaggiatore francese, Lalande, le giudicava assai carine: esse, racconta, «hanno delle semplici gonne, corte e leggere, di solito blu o scarlatte, e dei corpetti senza maniche, tali per cui delle loro camicie non si vedono che le maniche. Intorno alle spalle del corpetto c’è una gran quantità di nastri di diversi colori, che esse lasciano cadere e volteggiare al vento». Oltre a gonna, camicia e corpetto indossano un grembiule che, dal Settecento, è sempre più spesso di tela indiana. In testa hanno cappelli di paglia, cuffie oppure «sciugatoi», cioè scialli che possono essere portati, oltre che in testa, al collo o sulle spalle. Ma accanto a tale abbigliamento ­tradizionale nel Settecento vanno diffondendosi le «andrienne», vestiti interi scollati e aderenti al busto; i «fisciù», cioè scialli da collo di trina; i capi di seta, un tempo riservati ai ceti cittadini medi e alti. L’analisi degli inventari e i giudizi dei contemporanei ­mostrano insomma che nonostante la povertà non manca una certa cura dell’aspetto esteriore. Le donne, soprattutto, hanno non di rado qualche indumento ricercato da indossare la domenica oppure, ancor più, in occasione del matrimonio72. Studi recenti, d’altronde, mostrano bene l’importanza dell’«apparire» per mantenere la propria rispettabilità anche tra i ceti sociali medio-bassi delle società di Ancien régime, in particolare nel Settecento73, quasi che il crescere della disponibilità di beni renda più neces­sario che in passato sfruttarne le potenzialità nelle relazioni so­ciali. Si ricordi la vecchia contadina, già incontrata, che diceva che avrebbe preferito aver le corna piuttosto che far mancare a sua figlia la roba nel corredo74.

Ma se l’abbigliamento delle contadine toscane nel corso del Settecento presenta qualche innovazione e arricchimento, quello delle parigine appare investito da una vera rivoluzione. Tra Sei e Settecento esso era costituito da gonna, talvolta accompagnata da una o più sottogonne, camicia, grembiule, mantello, cuffia o qualche altra protezione per il capo. Come quello delle contadine era insomma diviso in due all’altezza della vita, secondo un uso che si era delineato a partire dal Cinquecento75. Negli anni a cavallo tra XVII e XVIII secolo, tuttavia, erano meno della metà gli inventari di popolane che registravano corpetti e corsetti: i loro corpi apparivano dunque abbastanza sciolti, diversamente da quello che accadeva alle donne ricche strette nei loro bustini76. E se tutte avevano le calze, a giudicare dagli inventari quelle che disponevano di un paio di scarpe erano una minoranza.

Gli abiti erano prevalentemente di lana, la biancheria e i grembiuli di lino o di canapa. Il cotone era ancora raro e, tra le popolane, era rara anche la seta, che invece era presente nei guarda­roba dei ricchi, maschi e femmine. I colori erano scuri: neri, grigi e marroni. A quest’epoca peraltro il nero era il colore più usato anche da nobildonne, gentiluomini e, in misura anche maggiore, borghe­si: a Parigi tra Sei e Settecento neppure i ricchi erano variopinti. Essi si distinguevano soprattutto per il fatto di avere molti capi bianchi.

Nel corso del XVIII secolo, tuttavia, si moltiplicano i vestiti interi, si diffondono i corsetti. Compaiono camicette, casacchine e mantelline. Fisciù e altri ornamenti sostituiscono il vecchio fazzoletto da collo. La lana cede il passo al cotone e la seta si diffonde. Le scarpe compaiono ai piedi di tutte. Le donne si tingono di blu, di giallo, di verde, di bianco, di tutta una serie di sfumature di colori chiari. Se i borghesi, uomini e donne, continuano a prediligere il contrasto bianco/nero, il popolo, così come la nobiltà, a fine Settecento ha un abbigliamento meno cupo, più allegro e vivace77.

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