Marcella Emiliani – Purgatorio arabo. Il tradimento delle rivoluzioni in Medio Oriente

Particolare di copertina
Cosa è successo negli ultimi quindici anni nel mondo arabo?

Nessuno aveva presagito che scoppiassero nel 2011, nessuno sa come andranno realmente a finire. Parliamo delle Primavere arabe, che hanno messo in moto un rivolgimento epocale che alcuni definiscono addirittura “un inferno”. Io mi fermo ad uno stadio più interlocutorio e preferisco usare il termine “purgatorio” proprio perché l’esito ultimo è tuttora imprevedibile. Un mondo sta scomparendo e – come succede sempre nei momenti di transizione – si teme l’ignoto e il baratro che potrebbe aprirsi o si sta già spalancando sotto i nostri piedi. Nel caso della sponda sud del Mediterraneo in relazione all’Italia, il paragone è particolarmente calzante. Ma mentre continuiamo a chiederci cosa è andato storto, sulle Primavere arabe abbiamo solo due certezze e di quelle ci dobbiamo accontentare, per ora.

Innanzitutto i motivi per cui sono scoppiate sono ancora di estrema attualità in Medio Oriente: una crescita economica insufficiente a garantire una sopravvivenza decente a popolazioni con tassi di natalità ormai insostenibili; una sconfortante e irredimibile corruzione a qualsiasi livello dell’amministrazione pubblica e degli scambi economici; un divario sempre più marcato tra ricchissimi e poverissimi, che si traduce in una crescita esponenziale del settore informale dell’economia e in inarrestabili processi di spopolamento delle campagne col loro contraltare di inurbamenti incontrollati; tassi di disoccupazione che cancellano qualsiasi speranza di un futuro migliore per i giovani e li inducono a cercare fortuna nei paradisi totalmente immaginati dell’Europa, paradisi che finiscono però per consegnarli ad un’emarginazione certa.

E, soprattutto, un deficit cronico di democrazia a casa loro che tale rimane anche se la ritualità democratica con tanto di urne, osservatori e controlli viene ormai rispettata nella forma, non certamente nella sostanza. Troppo spesso poi queste democrazie “cosmetiche” vengono inscenate ad uso e consumo delle grandi agenzie di credito internazionali come la Banca mondiale o il Fondo monetario internazionale che, per erogare crediti e aiuti, pretendono feroci tagli di spesa e l’“adeguamento” al sistema democratico di stampo occidentale. In merito, di questi tempi sembra non essere più un assioma che democrazia significhi automaticamente benessere; inoltre la scarsità di risorse, in sé e per sé oppure indotta da Programmi di aggiustamento strutturale (Pas) delle agenzie di credito, in termini di democratizzazione spesso si traduce nella creazione di un numero abnorme di partiti che non hanno un reale respiro nazionale ma fanno riferimento a identità esclusive, localistiche, settarie o tribali, che possono innescare a loro volta instabilità sociale e conflitti.

Un caso a sé è rappresentato dalle monarchie ed emirati del Golfo che, dall’alto dei loro introiti petroliferi o gasieri, non hanno problemi di cassa (e comunque prima o poi le riserve di greggio e gas si esauriranno) ma proprio dal 2011 hanno cominciato ad intravvedere all’orizzonte disordini causati dall’assenza di rappresentanza e dal disprezzo dei diritti umani, civili e politici che riservano ai loro sudditi. Nella maggioranza dei casi re ed emiri hanno reagito alla vecchia maniera, comprando con elargizioni di vario tipo il consenso dei propri concittadini, ma in prospettiva l’antico rimedio non può più bastare. Ergo, l’Arabia Saudita insegna, hanno cominciato a varare programmi di modernizzazione che dovrebbero traghettarli nel Terzo Millennio non solo con la costruzione di grattacieli che hanno ormai stravolto lo skyline dei loro orizzonti, ma con riforme che – sebbene molto lontane dalla nostra idea di democrazia – hanno timidamente cominciato a lasciarsi alle spalle il medioevo istituzionale in cui sono vissuti fino ad oggi.

Tutto questo, ripetiamo, in Medio Oriente potrebbe causare altri disordini e il profondo scontento dei giovani, che costituiscono la maggioranza della popolazione, potrebbe riaffiorare come un fiume carsico per trovarsi nuovamente di fronte a brutali repressioni. Tanto per fare solo un esempio: nell’unico paese per cui ci si azzarda a dire che la Primavera del 2011 ha avuto successo, la Tunisia, il 2018 si è chiuso con scioperi, scontri con la polizia e manifestazioni di protesta contro il Fondo monetario internazionale il cui Pas – seguito all’erogazione di un prestito di 2,8 miliardi di dollari – starà pure risanando il debito, ma coi suoi tagli al welfare, alla sanità, all’impiego pubblico e alle sovvenzioni per calmierare i prezzi dei beni di prima necessità come il pane e il carburante sta impoverendo ancora di più la popolazione. E l’icona di questa rabbia impotente è tornata ad essere l’immagine di un giovane, Abderrazak Zorgui, reporter precario in una tv locale, che si è dato fuoco il 24 dicembre a Kasserine, esattamente come fece Mohamed Bouazizi nel dicembre 2010, il cui sacrificio innescò la rivolta non solo in Tunisia ma in gran parte della regione.

La seconda certezza relativa alle Primavere arabe è che sono iniziate e si stanno ancora svolgendo sotto forma di conflitti in un momento storico di grande disordine internazionale. È finita nel 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la Guerra fredda dello scontro bipolare Usa-Urss bloccato solo dal terrore che incuteva l’eventuale uso della bomba atomica da parte delle due superpotenze. Ma è finita anche la successiva era dell’unipolarismo americano, che ha avuto una breve stagione innanzitutto perché Mosca con Vladimir Putin è resuscitata come Federazione Russa e ha cominciato a riconquistare le posizioni che aveva perso con lo sgretolamento dell’Urss, soprattutto nell’area del Mar Nero, in Medio Oriente e in Asia; in secondo luogo perché è decollata anche la Cina che ha acquisito una statura “economico-imperiale” in un mondo per ora multipolare che vede l’Europa sempre più in declino, gli Stati Uniti di Trump trincerati dietro i muri dell’America first e nuove potenze in ascesa in quello che una volta veniva chiamato Terzo Mondo. In Medio Oriente sono almeno tre gli Stati che sulle ceneri delle speranze accese dalle Primavere arabe hanno alimentato o strumentalizzato guerre solo per i loro fini egemonici: l’Arabia Saudita, l’Iran degli ayatollah e la Turchia.

A strumentalizzare le Primavere arabe, specie quelle degenerate in guerre civili, è stata anche un’“entità” che si aggira in tutto il mondo come un convitato di pietra: il terrorismo islamico nelle sue materializzazioni proteiformi da al-Qaeda del defunto Osama bin Laden al Califfato defunto di Abu Bakr al-Baghdadi. Anche se è stato sconfitto, il Califfato ha però imparato a sopravvivere non solo per avvelenare qualsiasi altra Primavera si manifesti nel mondo arabo e musulmano, ma anche per minare alla base la pacifica convivenza e la stessa ragion d’essere delle democrazie occidentali. Nel frattempo il medesimo terrorismo islamico è stato a sua volta strumentalizzato dai regimi mediorientali che hanno represso in maniera sanguinosa ogni opposizione usando come giustificazione proprio la lotta globale al terrorismo che in questo modo finisce per incidere anche sulla ridefinizione degli equilibri regionali in corso. In altre parole, la situazione in Medio Oriente oggi è talmente “liquida”, per dirla alla Bauman, che è difficile prevedere l’esito delle Primavere arabe, tanto più in quanto gli equilibri regionali si stanno ridisegnando in contemporanea a quelli internazionali.

Alcune note di chiarimento su come è organizzato questo volume. Sebbene nel 2011 manifestazioni di protesta e rivolte abbiano investito diversi paesi, abbiamo scelto di trattare solo quelli in cui le cosiddette Primavere hanno allontanato dal potere dittatori di lungo corso, come Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto, o dove hanno scosso lo status quo fino alle più drammatiche conseguenze, come è avvenuto in Libia, Yemen e Siria, passando per il Bahrein dove il re Hamad bin Isa al-Khalifa è stato salvato dall’intervento armato dell’Arabia Saudita. Per amor di cronaca segnaliamo comunque che dimostrazioni contro i governi in carica si sono verificate anche in Marocco, Algeria, Iraq, Giordania, Arabia Saudita, Oman e Kuwait. Inoltre, per quanto la fuga del dittatore tunisino Ben Ali abbia sortito un innegabile effetto domino in tutta la regione, quello delle Primavere non è stato un movimento unitario, ma una sequela di rivolte diverse da paese a paese che consentono analisi comparate, ma solo fino a un certo punto. Nell’esposizione, perciò, abbiamo seguito un criterio grosso modo cronologico ma abbiamo esaminato soprattutto la peculiarità di ogni singola protesta quanto a cause ed effetti e come si è inserita nel contesto mediorientale e nella sua conflittualità pregressa.

Sotto questo profilo sottolineiamo fin da subito che la scelta di partire dagli Stati della sponda sud del Mediterraneo, Tunisia, Egitto e Libia, oltre che da motivi cronologici e di contiguità geografica, è stata suggerita dal fatto che sono estranei al mega-scontro settario sunniti-sciiti in atto ad est del Canale di Suez dove le guerre civili in Yemen e Siria, e quella sfiorata in Bahrein, sono invece pienamente inscritte nella guerra per procura tra l’Arabia Saudita, che si presenta come l’incarnazione statuale del vero sunnismo, e l’Iran, che ambirebbe a diventare il Vaticano dello sciismo. Sempre ad est del Canale di Suez si stanno giocando altre partite che riguardano gli Stati dell’Africa settentrionale solo tangenzialmente, ovvero le mire espansionistiche dell’Iran ma anche della Turchia del presidente Erdo?an, non a caso due paesi che hanno alle spalle i fasti di grandi imperi del passato.

Questo il calendario delle Primavere analizzate:
Tunisia, 14 gennaio 2011: fuga del presidente Zine el-Abidine Ben Ali a seguito delle manifestazioni per la morte – avvenuta il 4 gennaio 2011 – di Mohamed Bouazizi, il giovane che si era dato fuoco per protestare contro la miseria in cui era costretto a vivere da un regime dittatoriale e corrotto.
Egitto, 25 gennaio: prima grande manifestazione in piazza Tahrir al Cairo; l’11 febbraio Hosni Mubarak viene costretto dagli ex “colleghi” militari a lasciare la carica di presidente della repubblica.
Yemen, 27 gennaio: prima grande manifestazione di protesta nella capitale Sana’a.
Bahrein, 14 febbraio: prima grande manifestazione di protesta nella capitale Manama.
Libia, 15 febbraio: manifestazioni di protesta e scontri fra dimostranti e polizia a Bengasi, capoluogo della Cirenaica.
Siria, 15 marzo: anche a Damasco, la capitale, iniziano grandi manifestazioni di protesta, ma è l’arresto e la tortura di alcuni giovani a Dar’a, nella “Siria profonda” rurale ai confini con la Giordania, a scatenare le piazze il 18 marzo. I giovani erano stati incarcerati per aver scritto sui muri: «Il popolo vuole la caduta del regime».

L’arco temporale preso in considerazione va dal 2011 al 2018 compreso. Nel capitolo Gli ultimi sviluppi vengono analizzati a grandi linee gli avvenimenti del primo semestre del 2019 negli Stati teatro delle Primavere, a eccezione della Tunisia, la cui situazione è aggiornata fino ai risultati delle elezioni politiche e presidenziali.

Marcella Emiliani, Purgatorio arabo. Il tradimento delle rivoluzioni in Medio Oriente


Marcella Emiliani ha insegnato Storia e istituzioni dei paesi del Mediterraneo, Sviluppo politico del Medio Oriente e Media & Conflict-Medio Oriente presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna e Storia e istituzioni del Medio Oriente, Relazioni internazionali del Medio Oriente e Politica delle risorse energetiche presso la Facoltà di Scienze politiche “Roberto Ruffilli” dell’Università di Bologna.

Gian Carlo Caselli – Guido Lo Forte, Lo Stato illegale.

Lo stato illegale
Mafia e politica da Portella della Ginestra a oggi

Cosa nostra è una organizzazione criminale che ha affermato, troppo spesso in maniera indisturbata, la propria ‘sovranità’ di Stato illegale.
Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte mostrano che le mafie non sono tanto il prodotto di una arretratezza economica e culturale, quanto di una caratteristica perversa della società e dello Stato italiani.

Quasi trent’anni ormai ci separano dalle stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992.

Questo duplice attacco al cuore della democrazia – che Andrea Camilleri ha paragonato in quanto a potenza simbolica all’abbattimento delle Twin Towers – aveva naturalmente come obiettivo l’uccisione di due pilastri dell’antimafia come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Fu tuttavia chiaro fin da subito (in un caso e nell’altro) che la ferocia criminale rispondeva anche a un disegno politico di Cosa nostra. Disegno che trovò ancora più evidente realizzazione con le stragi che seguirono nel 1993 a Firenze, Milano e Roma.

Nel giro di pochi mesi si consumò una tragedia nazionale che sembrò scuotere irreversibilmente le coscienze e che provocò una reazione finalmente determinata dello Stato contro la mafia. Con risultati – è bene ricordarlo – straordinari. La mafia siciliana è stata indubbiamente indebolita e destrutturata da indagini e condanne. Ma altre organizzazioni criminali sono cresciute in rilevanza e potere, occupando vaste aree prima estranee a una radicata presenza mafiosa. E la questione della criminalità organizzata resta ancora oggi – purtroppo – in primo piano.

Dispiace, per contro, dover rilevare che l’attuale politica antimafia è inadeguata, così come difettosa è la rappresentazione mediatica del fenomeno, oscillante tra il diffuso silenzio informativo e il noir delle mattanze napoletane e foggiane o il folclore sulla latitanza (e peggio… sulle camicie) di Matteo Messina Denaro.

Di fatto, la mafia continua a essere considerata un problema di ordine pubblico, la cui pericolosità si coglie soltanto in situazioni di emergenza, quando cioè mette in atto strategie sanguinarie. Non è (solo) così: sfugge, non casualmente, che la mafia è un vero e proprio “sistema di potere criminale”, funzionale a sempre nuove rapacità e nuovi interessi. Perché c’è una “richiesta di mafia”1 in ambito politico, economico e imprenditoriale; vale a dire che la forza della mafia risiede non solo nella sua organizzazione interna, ma anche e soprattutto nelle “relazioni esterne”, cioè nelle laide connivenze o complicità e nelle vili coperture di cui essa gode – strutturalmente – in pezzi consistenti del mondo legale. Possiamo anzi dire che Cosa nostra è stata (e può continuare a essere) componente e strumento di un sistema criminale più ampio. Un sistema criminale raffigurabile come un complesso edificio, in cui l’associazione ha rappresentato – per le sue tradizioni criminali e per la sua potenza storica – una pietra angolare; ma che, come tutti gli edifici, ha anche altri piani e altri abitanti variamente comunicanti fra loro.

Tutto ciò proietta, sulla storia della mafia, vari interrogativi, ai quali questo libro cercherà di rispondere. Quando si è verificata una trasformazione della mafia da “semplice” organizzazione criminale a entità politica? E ancora: è possibile parlare di una “politica” di Cosa nostra, di un suo “ordinamento istituzionale”, di “funzioni di governo interne” paragonabili a quelle di uno Stato? Quale ruolo hanno avuto nella storia del nostro Paese le “relazioni esterne” di Cosa nostra con segmenti della società e dello Stato (con l’alternarsi di situazioni di coesistenza, di compromesso, di alleanza, o – al contrario – di conflitto)? Che ruolo hanno avuto in questo contesto le stragi mafiose? Infine, quali sono gli scenari attuali della mafia e le sue potenziali prospettive “politiche”?

Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte, Lo Stato illegale. Mafia e politica da Portella della Ginestra a oggi


Gian Carlo Caselli è stato giudice istruttore a Torino, ha guidato la Procura della Repubblica di Palermo, è stato procuratore generale e procuratore della Repubblica di Torino. Attualmente dirige l’Osservatorio di Coldiretti sulla criminalità nell’agricoltura e sulle ‘agromafie’.

Guido Lo Forte è stato pubblico ministero a Palermo e a Messina. Con la Direzione distrettuale antimafia di Palermo ha curato, tra l’altro, i processi Andreotti, Dell’Utri e Carnevale nella fase delle indagini e del dibattimento di primo grado.

Lezioni di Storia – Brescia: I volti del potere

I volti del potere
I VOLTI DEL POTERE
Brescia, 8 febbraio – 28 marzo 2020

#LezionidiStoria 

Il sabato alle 11.00 al Teatro Grande di Brescia

Programma

sabato 8 febbraio – ore 11.00
LUCIANO CANFORA
Catilina, il potere del congiurato

Militare e senatore, è rimasto noto soprattutto per il tentativo di sovvertire la Repubblica romana, e in particolare il potere oligarchico del Senato. Lo storico e uomo politico romano Sallustio ha voluto – nel suo celebre ritratto – evidenziarne le caratteristiche del criminale perfetto, spingendosi ben oltre il già terrificante ritratto delineato da Cicerone. Ma chi fu davvero Catilina? E perché, per un momento non breve, resta al centro della vita politica di Roma?

Luciano Canfora è professore emerito dell’Università di Bari.

sabato 22 febbraio – ore 11.00
ALESSANDRO VANOLI
Carlo Magno, il potere in una corona

È la mattina di Natale dell’anno 800: Carlo Magno avanza in San Pietro e china la testa davanti al Pontefice per ricevere dalle sue mani la corona imperiale. Un evento senza precedenti: l’atto di nascita di uno spazio geopolitico completamente diverso da quello dei Romani. Un’Europa che ha perduto il Mediterraneo e che si è aperta verso il Nord. Una riflessione sul potere e sulla nascita di quello spazio politico in cui ancora oggi viviamo.

Alessandro Vanoli, storico e scrittore

sabato 29 febbraio – ore 11.00
MARIA GIUSEPPINA MUZZARELLI
Caterina da Siena, il potere di una madre non madre

Si nega il cibo fino allo sfinimento per non subire la volontà altrui. Parla con i potenti, financo col Papa, quando la prerogativa femminile era il silenzio. Si sposta nel mondo quando le sue sorelle restano recluse. Comanda, suggerisce, motiva, restando spesso in seconda linea, a tratti quasi annullandosi. Una donna che perfettamente combina la capacità di essere al tempo stesso dentro e fuori gli schemi della società del suo tempo.

Maria Giuseppina Muzzarelli insegna Storia medievale e Storia delle città all’Università di Bologna.

sabato 7 marzo – ore 11.00
MAURIZIO VIROLI
Machiavelli, il potere della parola e delle armi

Sulla scena dell’azione politica l’uomo di potere deve essere capace di far leva anche sull’ambizione e sulle debolezze dei suoi interlocutori, destreggiandosi con abilità e astuzia nei momenti favorevoli come negli improvvisi rovesci della fortuna. Per il raggiungimento dei propri fini, la forza della parola di certo non è meno importante di quella delle armi. Un messaggio che, se già ci viene dalla retorica classica e umanistica, a maggior ragione risulta attualissimo oggi, nell’epoca della comunicazione.

Maurizio Viroli è Professor Emeritus of Politics della Princeton University e Professor of Government della University of Texas di Austin

sabato 14 marzo – ore 11.00
PAOLO GALLUZZI
Galileo, il potere della scienza

Marzo 1610. Galileo pubblica il Sidereus Nuncius, l’opera che afferma la validità della teoria eliocentrica delineata da Copernico. Il drammatico cambiamento di scenario segna l’inizio di un’età nuova – animata da personalità di straordinaria caratura intellettuale, quali Keplero, Cartesio, Newton – un’età nella quale sono rimessi in questione non solo i principi della cosmologia, ma anche quelli della fisica e della filosofia, della religione e dell’antropologia. Una rivoluzione epocale!

Paolo Galluzzi è Direttore del Museo Galileo di Firenze.

sabato 28 marzo – ore 11.00
ALBERTO MARIO BANTI
Napoleone, il potere delle idee

È con lui che si afferma la prima dittatura “democratica”, formalmente ratificata da un plebiscito popolare; è lui che compie il gesto inaudito di incoronarsi “Imperatore” da solo; è sempre lui che, distribuendo potere ai suoi familiari, pare riconfermare il valore ereditario del sangue… Tutto questo dallo stesso uomo che, prima di ogni battaglia, per anni aveva caricato di entusiasmo e infinita fiducia i suoi soldati, facendo leva sul valore universale delle idee egualitarie della Rivoluzione.

Alberto Mario Banti insegna Storia contemporanea all’Università di Pisa.

Biglietti: intero posto unico 8 euro – abbonamento (6 incontri) 30 euro. Biglietto studenti 50% sul prezzo intero.

Info: 0302979333; biglietteria@teatrogrande.it; www.teatrogrande.it

Lezioni di Storia Festival: Napoli 27 febbraio – 1 marzo 2020

Noi e loro: Festival Lezioni di Storia
Lezioni di Storia Festival – Napoli 27 febbraio-1 marzo 2020


NOI E LORO

A Napoli torna il Festival delle Lezioni di Storia

DAL 27 FEBBRAIO AL 1 MARZO 2020


Quarantanove appuntamenti, quattordici eventi collaterali, alcuni tra i più noti storici italiani e stranieri: le Lezioni di Storia che da oltre dieci anni registrano il tutto esaurito nei grandi teatri italiani si sono trasformate in Festival e, dopo il successo della prima edizione, Napoli si prepara al secondo anno.

A Napoli dal 27 febbraio al 1 marzo ospiti eccezionali provenienti da tutta Europa si confronteranno nelle varie sedi del festival: al Teatro Bellini sede principale e al Museo MANN, al Museo MADRE, al Conservatorio a Majella, all’Accademia di Belle Arti e al Liceo Vittorio Emanuele II, prestigiosi partner nella realizzazione di questa iniziativa.

Tema di questa seconda edizione: ‘Noi e loro’. Nel corso della storia le persone si sono definite per appartenenza a un gruppo: una famiglia, una città, una nazione ma anche una chiesa, un partito politico, la tifoseria di una squadra di calcio. Questa identità collettiva si è costruita quasi sempre per differenza o contrapposizione con un altro gruppo: come dire, siamo ‘noi’ perché non siamo ‘loro’. Ma quanto degli ‘altri’ è invece entrato, senza che ce ne accorgessimo, a definire la nostra identità? Comprendere le ragioni e i modi in cui l’umanità fin dalle sue origini si è costituita e divisa in ‘noi’ e ‘loro’ consente forse di immaginare un ‘noi’ universale e un mondo meno frammentato e conflittuale senza quei muri fisici e culturali che dividono i tanti ‘noi’.

Il tema ‘Noi e loro’ sarà sviluppato nelle forme più diverse attraversando letteratura, arte, cinema, fumetti e musica. Per aiutare il pubblico ad orientarsi e scegliere tra lezioni, dialoghi, performance teatrali, incontri in libreria, anche quest’anno il festival è stato suddiviso in una serie di percorsi tematici, come In questione, in cui si tratteranno le tematiche del nostro tempo attraverso la lente della storia; Il tempo della musica, per raccontare la storia partendo da Beethoven arrivando al Blues; Il Mondo a Napoli, per illustrare la fortissima identità multiculturale della città.

Sul palco, nelle sale, nelle aule magne, nelle librerie di Napoli, si alterneranno i più autorevoli storici italiani e stranieri. Andrea Giardina e Ivano Dionigi parleranno del rapporto dei greci e dei romani con i ‘barbari’, ponendosi la questione di quanto i nostri antichi antenati fossero accoglienti o razzisti.

Eva Cantarella ed Elisabetta Vezzosi tratteranno dei conflitti tra donne e uomini, sul lavoro e in famiglia, e delle lotte per ottenere pari diritti sociali e politici. Simona Colarizi parlerà dei rapporti tra generazioni dalla prima guerra mondiale al ‘68.

Alessandro Barbero attraverso Dante ci dirà del conflitto tra guelfi e ghibellini mentre Alessandra Tarquini si chiederà cosa ha voluto dire nella storia essere di destra e di sinistra e se questa distinzione abbia ancora senso oggi.

Paolo Naso parlerà dell’identità religiosa nel rapporto tra cattolici e seguaci di altre confessioni nel corso del Novecento. Ma la costruzione dell’identità può avvenire anche nell’alimentazione: Massimo Montanari spiegherà come si ritrovi un affascinante intreccio tra diverse culture nella storia degli spaghetti al pomodoro. Quanto dunque gli ‘altri’ contribuiscono a definire il ‘noi’ ce lo racconterà Francesco Remotti.

Gianni Mura e Beppe Smorto ci parleranno di tribù sportive e di come a volte la propria identità  si possa trovare nella maglietta di una squadra. Al centro del racconto ci saranno grandi e piccoli avvenimenti storici, dalla distruzione di Pompei sotto la lava del Vesuvio raccontata da Massimo Osanna al viaggio di una galea veneziana fino a Istanbul raccontato da Alessandro Marzo Magno o alla odissea dei neri nell’America schiavista raccontato da Alessandro Portelli. Tanti e diversi saranno i protagonisti di queste lezioni napoletane, come i navigatori italiani raccontati da uno dei più grandi storici europei, David Abulafia, ai patrioti risorgimentali di cui parlerà Elena Bacchin, da Cavour e Giolitti e De Gasperi descritti da Marco Meriggi, al rapporto tra Hitler e Mussolini nella trattazione di Christian Goeschel.

A Napoli non poteva mancare una lezione sulla visione della storia di Totò di cui ci parlerà Emilio Gentile e il racconto di John Foot sulla passione dei napoletani per Maradona, perfino quando nei mondiali del ‘90 giocò contro l’Italia proprio a Napoli. Verranno raccontati personaggi reali ma anche immaginari che hanno alimentato la fantasia di molte generazioni creando lo stereotipo dei buoni e dei cattivi, dai tre porcellini fino a Joker, come ci racconterà Alberto Mario Banti.

Si dedicherà un’attenzione speciale a Napoli, città di lunga e straordinaria storia, che verrà esplorata attraverso lo sguardo degli stranieri, nella letteratura come nel cinema, da Goethe a Stendhal, da Billy Wilder a Fassbinder ricostruiti da Matteo Palumbo, Antonella Di Nocera e Bruno Roberti. Saranno trattati alcuni temi che attraversano tutta la storia come nella lezione di Luciano Canfora sul cosmopolitismo e in quella di Alessandro Vanoli e Amedeo Feniello sugli italiani e i loro nemici. Altri temi saranno invece legati a precisi momenti storici, come nella lezione di Mascilli Migliorini su Hernán Cortés o in quella di Silvia Ronchey sulla storica bizantina Anna Comnena. Si parlerà di arte e politica nell’intervento di Aldo Trione sulla pittura da Picasso a Banksy; di musica in quello di Giovanni Bietti su Beethoven e la musica folkloristica europea. Altamente musicale sarà la lezione-spettacolo a cura di Pasquale Scialò sulle canzoni napoletane nei cafè-chantant. Vanessa Roghi ricostruirà le differenze tra il modo di fare storia in Italia e Inghilterra attraverso la polemica tra De Felice e Mack Smith.

Grandi questioni di attualità saranno ricostruite in chiave storica: Maurizio Viroli lo farà su nazionalismo e patriottismo, Giovanni Vecchi su ricchezza e povertà. Si parlerà anche dei problemi del Mezzogiorno: Carmine Pinto racconterà una storia di brigantaggio e Gabriella Gribaudi una di camorra. Si parlerà di Europa nella lezione di Domenico Conte sul rapporto tra Croce e Thomas Mann. E si parlerà di Africa nell’intervento di Olindo De Napoli sul colonialismo italiano. Altra tematica quella delle guerre antiche – in particolare  Gennaro Carillo si occuperà della guerra tra greci e persiani – e di guerre contemporanee, come nella lezione di Luigia Caglioti sui ‘nemici interni’. Laura Pepe racconterà l’umanità degli dèi greci e Sergio Brancato i superpoteri dei personaggi dei fumetti contemporanei. Due i dialoghi a più voci “Chi fa l’agenda della storia?” con Alessandro Barbero, Antonio Carioti, Giovanni Carletti, Simonetta Fiori e Titti Marrone e “L’insegnamento della storia del Novecento” con Gennaro Carillo, Paolo Frascani, Alessandro Laterza, Maria Teresa Sarpi ed Elisabetta Vezzosi.

Questi sono solo alcuni degli incontri previsti nei quattro giorni del Festival, a cui si aggiungono appuntamenti collaterali, visite guidate ed eventi di musica e spettacolo.

L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti, sarà possibile prenotarsi on line a partire dal 13 febbraio.
Il programma e tutte le info
sono disponibili su www.lezionidistoriafestival.it.

Il Festival è progettato e ideato da Editori Laterza con la Regione Campania ed è organizzato dall’Associazione “A voce alta” e dalla Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, con la partnership di MANN, Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina – Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Accademia di Belle Arti, Conservatorio San Pietro a Majella e Liceo Vittorio Emanuele II.

Promozione e Comunicazione sono a cura della Scabec, società in house della Regione Campania.

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Carmela Morabito, Il motore della mente

Il motore della mente
Qual è l’intimo nesso tra percezione e azione,
tra mente e corpo?

Carmela Morabito delinea i percorsi teorici degli studiosi più diversi – filosofi, psicologi, neuroscienziati – che hanno portato ai modelli della mente odierni.

Il riconoscimento della valenza cognitiva del movimento, e più in generale l’attenzione nei suoi confronti nell’ambito delle scienze della mente, sono legati alla recente affermazione del cosiddetto ‘paradigma motorio’, ovvero un modello di mente che è andato definendosi a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso in chiara contrapposizione con la concezione tradizionale della mente che ha caratterizzato la filosofia moderna e che è stata alla base delle scienze cognitive nel Novecento.

Il termine paradigma, com’è noto, viene dal greco: lo troviamo per esempio nelle opere di Platone e di Aristotele con il significato originario di modello, progetto o esempio. Tuttavia, a partire dalla metà del Novecento esso ha acquisito un’accezione specificamente epistemologica, convenzionalmente legata alle riflessioni del filosofo della scienza Thomas Kuhn espresse nell’opera intitolata La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962).

In quest’accezione, un paradigma scientifico è considerato essenzialmente una concezione del mondo, cioè un insieme di orientamenti teorici, assunzioni metafisiche (vale a dire presupposti sulla realtà) e procedure sperimentali condivisi da una comunità scientifica in un dato momento. In estrema sintesi, e fuori da ogni specialismo esasperato, il paradigma può essere inteso come un quadro di riferimento condiviso dagli studiosi in un determinato momento storico per studiare e spiegare un dato o un insieme di fenomeni.

Alla luce di queste premesse, parlare di paradigma motorio in relazione alla mente implica un modello teorico dello sviluppo e del funzionamento del nostro apparato cognitivo basato su una concezione della mente sostanzialmente radicata nella corporeità e nelle capacità di movimento di un organismo. Di questo legame tra mente e corpo, cognizione e movimento, tuttavia, va decisamente sottolineata la valenza innovativa rispetto alla concezione tradizionale delle funzioni cognitive classicamente basata su un presunto susseguirsi di sensazione, percezione e, punto culminante dell’elaborazione cognitiva, produzione di rappresentazioni mentali per la gestione del movimento e del comportamento in senso lato.

Il paradigma motorio è dunque la cornice teorica di riferimento, il contesto esplicativo, di quella che può essere definita una teoria motoria della mente, una teoria per la quale non c’è una separazione sostanziale tra percezione e azione, tra afferenze sensoriali ed efferenze motorie; una teoria secondo la quale, quindi, il cervello non è un semplice recettore di informazioni e un produttore di risposte in un organismo staccato dall’ambiente, che egli ha il compito di conoscere e con il quale si trova a dover interagire. E il punto fondamentale, il ‘cuore’ di questo nuovo modello della mente basato sull’importanza e sulla valenza cognitiva del movimento, è proprio il riconoscimento, all’interno di una prospettiva teorica biologica e integrata, dunque ecologica e complessa, dell’intimo nesso tra percezione e azione.

Il movimento e le sue relazioni con la percezione e la memoria, infatti, mostrano oggi di avere una grande valenza euristica per lo studio dei meccanismi delle funzioni cognitive. Il cervello umano, inteso come organo sviluppatosi per predire le conseguenze dell’azione, si pone come oggetto di studio interdisciplinare di psicologia, neurofisiologia, neuropsicologia, filosofia e scienze cognitive, modellizzazioni matematiche e scienze del movimento. Ciascuna disciplina contribuisce a descrivere il comportamento a diversi livelli di spiegazione e di complessità applicando strumenti di analisi diversi sia dal punto di vista concettuale che da quello metodologico; tutte però convergono nello spazio teorico, vasto e articolato, costituito da scienze cognitive e neuroscienze sistemiche o olistiche per la definizione di una nuova immagine dell’uomo, che ne individui le radici genetiche ben ‘al di sotto’ e ben ‘prima’ della coscienza e della volontà, nelle pulsioni vitali dell’organismo e nella sua interazione con l’ambiente, nella cinestesia (la tensione costante della ricerca verso un al di sotto, e un prima sarà – come si vedrà – il ‘filo rosso’ di tutta la nostra ricostruzione storica ed epistemologica, l’elemento propulsore che ha spinto l’analisi nel corso del tempo nella direzione di un obiettivo convergente: individuare le basi neurobiologiche della mente).

Radicandosi nell’intersezione teorica di discipline diverse, volte allo studio del comportamento, della mente e del sistema nervoso, il nuovo approccio basato sull’azione oggi attribuisce al movimento corporeo un ruolo fondamentale e basilare nello sviluppo della cognizione e della conoscenza. Tramite la reciproca fecondazione euristica di una fenomenologia del comportamento con i modelli dei meccanismi causali ad esso soggiacenti, le neuroscienze cognitive definiscono, infatti, di giorno in giorno in modo sempre più solido – con strumenti sia sperimentali che clinici – una ‘fisiologia dell’azione’ in base alla quale è col corpo (non solo con il cervello) e le sue capacità di movimento e di azione che noi pensiamo e conosciamo.

Naturalmente, è un corpo non più inteso come macchina automatica di derivazione cartesiana (corpo come sistema chiuso, privo della conoscenza di sé e del mondo, i cui movimenti sono funzione solo della disposizione relativa delle sue parti, generatore di risposte motorie a stimoli sensoriali), bensì come macchina biologica, costitutivamente dotato di scopi e in attiva e costruttiva interazione col proprio ambiente (vero e proprio generatore di ipotesi che preseleziona le informazioni sensoriali in funzione degli scopi dell’azione). In questa prospettiva teorica l’azione, piuttosto che come semplice espressione motoria dell’elaborazione sensoriale, è concepita come ‘melodia cinetica’ attiva e finalizzata, come insieme strutturato di movimenti coordinati in funzione di un fine specifico. Il movimento corporeo assume dunque un ruolo fondamentale e basilare nello sviluppo della cognizione e della conoscenza.

La mente è ‘formata’ dai movimenti e per i movimenti (tradizionalmente invece semplicemente li pianifica); il movimento non è solo la mera esecuzione di comandi dei centri cerebrali superiori (la mente), ma – capovolgendo i termini della relazione – l’attività mentale stessa è concepita in funzione della produzione dell’azione; pensare equivale a decidere quale movimento realizzare successivamente.

Ne emerge una mente incorporata, una filosofia della mente basata sulla natura biologica, dinamica e integrata (temporale, storica) dell’organismo, che ‘inverte’ la concezione tradizionale (logico-astratta) dello sviluppo della mente e del comportamento in base a uno schema non lineare e propone (o meglio, come si vedrà tramite la ricostruzione storica, per molti versi ‘ripropone’) una concezione organicamente integrata nell’interazione globale dell’organismo col suo ambiente.

La mente è intrinsecamente un sistema motorio: il pensiero, la memoria, la conoscenza, la percezione, la coscienza, la motivazione, il significato, tutte le funzioni mentali nel loro complesso, affondano le loro radici in abilità motorie costruttive specie-specifiche.

Contro la concezione tradizionale di derivazione cartesiana si rivendica, in questo modo, la matrice biologica dei fenomeni mentali: contro il soggetto epistemico universale sul quale si è basata la filosofia moderna – un soggetto concepito non biologicamente, dunque separato dalla ‘realtà esterna’ che egli si porrebbe l’obiettivo di conoscere – si produce così una profonda trasformazione concettuale che radica le funzioni cognitive nella biologia e nella storia, nell’esperienza vissuta e condivisa, nella cultura. «Il cervello è concepito sempre più come uno strumento appositamente progettato per creare relazioni sociali, per favorire i rapporti umani e la socialità, letteralmente si ammala nella solitudine e nell’isolamento sociale». E «la coscienza è rivolta verso gli altri».

‘Nessun uomo è un’isola’, così si suol dire. Il Sé non è isolato, ognuno di noi è in costante contatto con altre persone, altri Sé, che forniscono un riferimento sia per noi sia per i nostri sensi. […] L’attività neurale stessa è sociale; non c’è dunque una distinzione netta tra i livelli neurali e i livelli sociali; il cervello e le CMS (strutture corticali mediali) sono intrinsecamente, o di default, neurosociali. Neurale o sociale? Questa domanda pone una falsa dicotomia. Il cervello, specialmente le CMS e il loro ruolo nell’esperienza del Sé, ci insegnano che tale dicotomia è un’illusione.

Ne deriva un modello del vivente, dell’ambiente e della mente che supera le limitazioni del meccanicismo e lo spartiacque metafisico che ha diviso per secoli il corpo dalla mente. E se l’incarnazione della mente (embodiment), basata su una concezione corporea e non proposizionale della rappresentazione, emerge dalle acquisizioni più recenti delle neuroscienze cognitive, fondamentalmente dallo studio del movimento, in questo senso oggi nel modello motorio si può forse individuare una via teorica al superamento della contrapposizione dicotomica fra meccanismo corporeo e rappresentazione mentale, fra soggetto e oggetto, fra mente e mondo.

Presupposto essenziale è una visione sistemica dell’organismo, per cui dal tradizionale approccio acontestuale si passa ad esaminare i fenomeni in contesti sempre più ampi e si considera imprescindibile per un’autentica comprensione delle funzioni cognitive il fondamentale rapporto tra l’organismo (con i suoi scopi, bisogni, emozioni, relazioni, storia e cultura) e l’ambiente, tra l’osservatore e il fenomeno. «Non ci sono fattori genetici che possano essere studiati indipendentemente dall’ambiente e non ci sono fattori ambientali che funzionino indipendentemente dal genoma […] I geni sono sempre ‘geni in contesto dato’».

Si profila dunque un tipo di spiegazione fondamentalmente basato su un costruttivismo interattivo che assume la coevoluzione di specie e ambiente e l’interazione individuo/mondo in un quadro teorico di riferimento caratterizzato dall’integrazione complessa e dinamica: dell’organismo con l’ambiente (richiamando la Umwelt di von Uexküll), del corpo col cervello e del ‘corpocervello’ con la mente (si pensi – e lo si vedrà nello sviluppo della ricostruzione storico-epistemologica che segue – alle più recenti acquisizioni delle neuroscienze cognitive: Damasio, Edelman, Changeux, Ramachandran…).

La concezione classica della mente – legata al dualismo mente/corpo che ha separato in maniera drastica, ‘ontologica’, il corpo con le sue funzioni biologiche dalla mente con le sue funzioni cognitive – ha sempre dato per scontata una priorità logica, epistemologica e biologica della percezione rispetto all’azione e concepito quest’ultima sostanzialmente in funzione delle possibilità che un organismo ha di interagire col suo ambiente in base, da un lato, ai vincoli biologici cui è sottoposto e, dall’altro, alle risorse cognitive che il suo apparato sensoriale-percettivo gli rende disponibili (anch’esse, in fondo, considerabili in termini di vincoli parzialmente biologici). «Un vincolo può limitare il numero delle possibilità legittime, ma non è la causa del messaggio in uscita»; l’architettura «aperta» su cui si tornerà in conclusione è un esempio tipico di «vincoli che svincolano» e non dettano un esito determinato.

Secondo la nuova concezione della mente e del rapporto mente-corpo, che va emergendo in modo sempre più chiaro dagli sviluppi della filosofia della mente e dai suoi raccordi teorici con le neuroscienze cognitive contemporanee, invece, le cose non stanno così: nel rapporto tra organismo e ambiente la mente non produce solo le ‘uscite’, ma anche le ‘entrate’ (termini ovviamente fondati sulla metafora della mente come computer che è stata alla base della scienza cognitiva del Novecento, riferiti dunque all’input e all’output di un elaboratore), così come il corpo non si limita ad attuare comandi motori, ma contribuisce al momento stesso della pianificazione del comportamento tramite la presenza costitutiva ed essenziale delle possibilità specie-specifiche di movimento e di azione nel momento stesso della percezione.

L’analogia classica cervello-computer va letta al contrario: i cervelli non sono macchine sofisticate, semmai le macchine sono cervelli imperfetti.

Questa posizione teorica è efficacemente sintetizzata dall’asserzione di Alain Berthoz e Jean-Luc Petit: «l’azione o l’atto, e non la rappresentazione, è all’origine della cognizione», un’affermazione che può efficacemente segnare il passaggio da un paradigma all’altro nella concezione contemporanea dell’apparato cognitivo e del comportamento. La mente infatti, alla luce di questi presupposti, viene considerata sostanzialmente come un sistema motorio, nel senso che le funzioni cognitive – la percezione, la memoria, il linguaggio, la coscienza, la motivazione e così via – vengono ritenute un prodotto di abilità motorie costruttive, cioè capacità motorie attraverso le quali l’individuo costruisce sé stesso e il suo rapporto con il mondo che lo circonda, costituendo così il proprio ambiente di riferimento (Umwelt).

Carmela Morabito, Il motore della mente. Il movimento nella storia delle scienze cognitive


Carmela Morabito è storica della psicologia e delle neuroscienze cognitive.

Roberto Mordacci, Ritorno a Utopia

In copertina: Dodecaedro tagliato vuoto. Da
Il ritorno a Utopia, un viaggio necessario

Questo libro intende riabilitare il concetto di utopia. Quest’ultimo ha subìto nel linguaggio comune una serie di fraintendimenti e torsioni di senso che lo hanno reso sospetto e lo hanno circondato di un’aura negativa. Vi sono tre modificazioni essenziali che hanno investito il concetto di utopia. La prima lo interpreta come l’idea di un oggetto impossibile da ottenere. Ciò che è utopico, si dice, non può essere reale e, per quanto sia oggetto di un’aspirazione potente e magari anche diffusa, deve essere considerato alla stregua di un ircocervo, di una creatura fantastica che non può esistere nella realtà perché vìola le fondamentali leggi della natura. In questo senso, chi si balocca con le utopie è un immaturo, oppure è soltanto un poeta di scarso valore, perché la poesia autentica, all’opposto, è profondamente intrecciata con il reale. L’utopia così intesa è dunque anche opposta alla verità, perché ciò che non è possibile è contraddittorio e appartiene al regno del non essere e delle opinioni fallaci. Tacciare di utopia un’idea, in quest’ottica, equivale a dichiararla falsa e perniciosa, se non altro in quanto perdita di tempo.

La seconda accezione di significato attribuita all’utopia la pensa piuttosto come irrealizzabile. Nell’utopia si auspicano cose, come la giustizia e la felicità, che non sono intrinsecamente impossibili, ma non si daranno mai nella realtà umana per quella che è: l’utopia è possibile, ed è anche buona, ma di fatto non si realizza mai. Si comprende la legittimità del desiderio e la si giustifica come aspirazione, ma si fa appello a un realismo disincantato che esclude tali speranze dalla storia. Quest’ultima è una vicenda assurda, contorta, spesso sanguinosa e sistematicamente deludente, dalla quale non ci si può attendere alcuna utopia realizzata. Chi sogna questo non è necessariamente un irresponsabile ma è quanto meno un ingenuo, un idealista politico che andrà incontro a sonore smentite e che, infine, avrà gettato la sua vita in un’impresa tanto allettante quanto disperata. Contro l’utopia, si invoca qui il «sano realismo» delle lotte di potere, della strategia e della tattica come dinamiche efficaci nella storia, in opposizione alle «idee astratte» di chi prova a immaginare per gli esseri umani un modo differente di stare in relazione fra loro.

Il terzo significato cui si riconduce l’utopia la vede come un inganno. I pensatori utopici, si dice, sono in realtà dei dittatori mascherati, individui che hanno bisogno di ordinare a proprio uso e consumo una realtà nella quale si trovano a disagio. L’utopia è il prodotto di un pensiero che, per ribaltare i torti che rendono la società così ingiusta, finisce per immaginare una realtà ancora peggiore, quasi vendicativa, in cui pochi eletti posti al vertice costringono tutti gli altri ad adattarsi alle loro fantasie. L’utopia è un pericolo e una minaccia, un progetto di sovvertimento dell’ordine sociale allo scopo di instaurare un nuovo e inquietante regime, inevitabilmente totalitario e liberticida. Occorre coltivare una sana diffidenza verso le utopie, perché nascondono sempre il rovescio di ciò che promettono: l’ingiustizia invece dell’equità, la disperazione invece della felicità. Bisogna fermare gli utopisti prima che facciano danno, perché certamente le loro immagini sono seducenti, ma essi getteranno la maschera non appena avranno acquisito il potere.

Ebbene, nessuno di questi significati appartiene al senso originario dell’utopia. Almeno, non per come essa è stata formulata a partire dall’opera che ne ha coniato il nome, l’Utopia di Sir Thomas More. È proprio da questo modello che partiremo ed è a esso che fondamentalmente ci atterremo qui, spesso contrapponendolo ad altre utopie che lo hanno seguito. Non ci addentreremo filologicamente nel testo dell’enigmatico racconto di More, ma cercheremo di rintracciarne lo spirito, il senso profondo e soprattutto il concetto. Il nucleo originario e tuttora pulsante dell’utopia deve essere in qualche modo riportato alla luce proprio contro le sue distorsioni, che sono divenute prevalenti nel senso comune contemporaneo. Questo recupero non è affatto una nostalgia. Di utopia abbiamo urgente bisogno, oggi, e occorre, di fronte alle contorsioni folli dell’attuale assetto del mondo, riscoprire la profondissima ragionevolezza del pensiero utopico, il suo realismo, la sua concretezza. E la sua validità anzitutto politica, non solo letteraria o intellettuale.

Per altro, vi sono tracce significative di un ritorno dell’utopico nella cultura odierna. Per restituirle alla loro genuinità e riconoscerne il valore, distinguendolo dalle mistificazioni, si deve però rintracciare e definire l’essenza dell’utopia, offrirne una definizione chiara e distinta e opporla ai termini e ai significati che vi si sono innestati sopra e intorno.

La modernità è sempre stata segretamente mossa dalle proprie utopie, le ha anticipate e in parte persino realizzate. Ne ha poi scoperto il lato oscuro, che si è manifestato nelle distopie: l’immagine inquietante di un futuro in cui l’organizzazione sociale perfetta si rovescia in un incubo totalitario. L’età contemporanea si è arresa a quell’incubo, lo ha preso per più vero delle utopie stesse e ha così perduto la capacità di pensare in avanti. Se si concede credito alle diagnosi postmoderniste, che dichiarano tramontata ogni modernità e, con essa, ogni utopia, si finisce nella nostalgia di un passato mitizzato, ovvero in ciò che Bauman chiama una «retrotopia», con l’aggravante di arrestarsi in un pensiero così deprimente da bloccare ogni iniziativa. Ciò di cui, invece, il mondo contemporaneo ha un assoluto bisogno è proprio la capacità tipicamente moderna di pensare il futuro come una possibilità buona, ovvero come un’opportunità per il cambiamento. Superata l’illusione che il progresso si produca automaticamente, per un destino o per una necessità storica o tecnologica, resta il compito di immaginare strutture e relazioni sociali che siano meno ingiuste, meno autodistruttive, più vivibili, anche se non perfette.Si tratta di provare a tracciare piuttosto un’anterotopia, ossia l’immagine credibile di un futuro in vista del quale agire con decisione.

Il ritorno a Utopia è un viaggio necessario, per quanto il suo percorso resti difficile da immaginare con precisione. Si hanno indizi, si osserva l’orizzonte e si prova a immaginare come possa essere fatta quella terra in cui sappiamo che giustizia e armonia accadono, sono una realtà semplicemente quotidiana e nemmeno perfetta, ma solida e tenace, affidata a una saggezza conquistata nel silenzio. La navigazione è data all’ingegno di ognuno e di tutti, ma prima di salpare occorre rintracciare e ordinare tutte le informazioni che possiamo raccogliere su che cosa sia la meta che intendiamo raggiungere. E quelle informazioni si trovano precisamente nell’immagine della giustizia e del bene che abbiamo imparato a chiamare ‘utopia’.

Roberto Mordacci, Ritorno a Utopia


Roberto Mordacci insegna Filosofia morale e Filosofia della storia presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Marta e Simone Fana, Basta salari da fame!

Basta salari da fame!
Una dura, documentata denuncia
del sistema capitalistico

Oggi in Italia si guadagna meno di trent’anni fa, a parità di professione, a parità di livello di istruzione, a parità di carriera. Vale per tutti, tranne per quella minoranza che sta in alto.
Non è una casualità, né un fatto nuovo. Perché la questione salariale nel nostro paese, ma non solo, è un pezzo di storia politica che può essere raccontata con le retoriche di chi continua a comandare o dalla viva voce di quanti quel comando lo subiscono sulla propria carne viva. Abbiamo quindi deciso di ripercorrerla, connettendo il filo che lega il passato con il presente, dove il futuro appare una proiezione di un tempo lontano, ma il cui volgere non è affatto scontato.

Il nostro punto di partenza è il dopoguerra, quando la frantumazione del lavoro e le condizioni di sfruttamento intensivo, dentro e fuori i settori privilegiati della nuova industrializzazione, erano la norma. Per due decenni uomini e donne, dalle campagne alle città, tornarono a unirsi in organizzazioni politiche e sindacali, a fare inchieste, a denunciare, a lottare per un salario minimo dignitoso. La crisi internazionale di metà anni Settanta fu colta come momento propizio per sferrare un duro colpo a quella maggioranza che pareva indomita, accerchiandola con una retorica che attribuiva agli aumenti salariali la causa della galoppante inflazione e la perdita di competitività e, di fatto, decretando la sconfitta di quel movimento. Su queste basi ideologiche furono portate avanti le politiche di austerità sia monetaria che fiscale, permettendo alle imprese di procedere alle proprie ristrutturazioni fatte di esternalizzazione e frantumazione dei processi produttivi.

Un meccanismo che nel tempo, dai primi del Novecento fino ai giorni nostri, caratterizza la strategia aziendale di protezione dei profitti e gestione del ciclo economico, facendo del costo del lavoro un fattore variabile su cui scaricare il rischio aziendale e le fluttuazioni della domanda interna ed esterna.

Ma è grazie all’ingente apparato retorico e ideologico, a corredo di tale offensiva, che i salari tornarono ad essere l’agnello da sacrificare in nome dell’interesse aziendale, eretto ad unico interesse nazionale. Se ne convinsero persino i sindacati, accettando non soltanto di congelare i salari ma anche di assestarsi lungo una dinamica di compatibilismo con le richieste del mercato. Non più agente politico che morde e attacca, ma soggetto che smussa gli angoli e cura le ferite più laceranti di un processo trentennale di riforma del lavoro che si è spinto talmente oltre da aver istituzionalizzato anche il lavoro gratuito, considerandolo pratica del tutto normale.

Nonostante tutto questo, le aziende continuano tenacemente a esigere sconti fiscali, sgravi e ovviamente salari più bassi.

In un paese che conta il 14% di forza lavoro in condizioni di povertà lavorativa, dove il 30% dei giovani occupati non guadagna più di 800 euro al mese – come ha dichiarato l’Inps

– e dove ex ministri dello Sviluppo economico sbandierano tra le virtù del Made in Italy quanto poco vengono pagati i laureati italiani rispetto ai colleghi europei.

Milioni di persone sono già vittime di queste politiche che rischiano di coinvolgere strati sempre più ampi della società, perché l’avidità dei profitti non guarda in faccia nessuno e sfrutta tutti i meccanismi di oppressione di cui dispone per costringere a una condizione di vulnerabilità sempre più individui e famiglie, di qualsiasi genere, età ed etnia. Ma per farlo ha bisogno che la possibile unità di questa parte della società venga quotidianamente celata e la frantumazione sfruttata

a proprio vantaggio, facendo credere che le identità dei singoli lavoratori siano irriducibilmente distinte e non possano coalizzarsi. Quando la frammentazione interna al mondo del lavoro non è sufficiente a contenere il conflitto sociale, bisogna trovare comunque argomenti che spostino il centro dell’attenzione dalle sue vere cause, da chi sfrutta e decide di sfruttare. Da qui il mito della tecnologia che separa i bravi, meritevoli di salari elevati, da quelli poco produttivi, che invece non hanno diritto che a salari da fame. Ma, anche questa volta, la teoria a monte di una retorica sempre più diffusa si rivela, quando non del tutto inefficace, parziale e incompleta a spiegare i divari salariali esistenti. E allora è giusto andare a guardare oltre, scoprire e riscoprire quali teorie riescono a dare spiegazioni soddisfacenti dei fatti che accadono nella società, in che modo è possibile e doveroso aggiornarle e/o contestualizzarle meglio. Ad esempio, a qualcuno potrà sembrare sorprendente, ma ad altri no, che il problema non sia la tecnologia in sé ma il suo governo: chi ha il potere di comandare quali macchine e in che modo queste devono entrare nei processi produttivi, affiancarsi e/o sostituire i lavoratori, e quali? È una scelta politica, non tecnica.

Le pagine che seguono non hanno alcuna pretesa di esaustività sulla storia anche attuale della questione salariale.

Hanno però come obiettivo la ricostruzione, seppure parziale, di un pezzo della nostra storia attraverso le immagini del passato e i numeri del presente, analizzati con gli occhi di chi crede che una battaglia non combattuta è una battaglia persa in partenza. Ma per lottare bisogna sapersi riappropriare di strumenti teorici e retorici che permettano di avanzare e di costituire un fronte più vasto possibile, sapendo che le condizioni attuali non sono sicuramente favorevoli.

Siamo partiti qualche anno fa con l’idea che l’Italia aveva bisogno di una campagna a tutto spiano contro il lavoro povero in tutte le sue forme, dagli appalti al lavoro gratuito, dai tirocini al demansionamento. Crediamo sia necessario dire senza mezzi termini che nessun lavoratore, neppure part time, può essere povero, può cioè guadagnare meno di mille euro al mese. Niente di rivoluzionario, ma si tratta di un primo obiettivo – per quanto moderato – che sfida l’aumento delle disuguaglianze che dai luoghi di lavoro e non lavoro si estendono a tutta la società. Nell’ultimo anno, per una forma più o meno ossessiva rispetto alle urgenze ma anche alle carenze politiche, abbiamo iniziato a pensare che la questione del salario minimo anche in Italia avrebbe potuto rappresentare un passo importante per quella battaglia. Consapevoli però che il salario minimo non è positivo di per sé, ma lo diventa quando riesce a incidere e migliorare le condizioni di tutti i lavoratori, partendo dai tanti, troppi, che oggi vivono in stato di povertà pur lavorando regolarmente nel rispetto dei contratti collettivi vigenti. È uno strumento capace di mettere il bastone tra le ruote a chi pensa di poter rimanere a galla a colpi di esternalizzazioni e lavoro in affitto. Un risultato non scontato, ma che dipende da quanto siamo pronti a strappare ancora una volta al fronte padronale, ad attaccare su quel che ci spetta non accontentandoci di quello che sono disposti a regalarci, senza timore di indebolire alcuna struttura intermedia.

Così abbiamo scelto di entrare anche nel dibattito contingente che contrappone il salario minimo alla contrattazione collettiva, mostrando come questa paura appare fondata solo in un contesto in cui si avalla la frantumazione del mondo del lavoro, permettendo alle aziende di individualizzare i rapporti lavorativi. Un dibattito importante, ma che abbiamo scelto di affrontare con autonomia, confrontandoci con quanto avviene nel resto del mondo, nei paesi a noi più vicini, ma anche in quelli apparentemente più lontani, dove vigono sistemi diversi di fissazione dei salari, studiando il modo in cui questi riescono a reagire alle crisi e al governo delle crisi.

Siamo fermamente convinti che lo strumento salariale è un meccanismo e non può in nessun caso risolvere da solo molte altre questioni dirimenti, a partire dalla democrazia nei luoghi di lavoro, nell’organizzazione del lavoro, nelle scelte strategiche dell’azienda. Allo stesso tempo, esso non può essere barattato con maggiori livelli di sfruttamento, allungamento dei tempi di lavoro, detassazioni di alcun genere a favore delle imprese. Rimane appunto un pezzo utile da accompagnare ad altre rivendicazioni, come la sicurezza nei luoghi di lavoro la cui assenza provoca oggi circa tre morti al giorno, il rispetto dei contratti vigenti, i controlli contro l’evasione contributiva.

Ma, insomma, in qualche modo bisogna pure iniziare, e crediamo sia importante partire da qualcosa che possa unire la classe lavoratrice nell’obiettivo di stare tutti un po’ meglio, di recuperare una boccata di ossigeno senza il quale la resistenza viene a mancare. I capitoli che compongono questo libro vanno usati come pezzi di un attrezzo, un marchingegno fatto di parti più o meno indipendenti tra di loro che se messe assieme provano a restituire le ragioni di una storia ancora tutta da scrivere, in cui la classe lavoratrice può e deve assumersi la responsabilità di svolgere un ruolo da protagonista e non da comparsa.

Marta e Simone Fana, Basta salari da fame!


Marta Fana ha conseguito un dottorato di ricerca in Economia presso l’Institut d’Études Politiques di SciencesPo a Parigi.
Simone Fana è laureato in Scienze politiche all’Università di Perugia. Si occupa di servizi per il lavoro e formazione professionale.

Insieme a quel lupo che ora non è più

 

Alla vigilia di Natale del 1968, la missione Apollo 8 portava un equipaggio umano in orbita intorno alla Luna. Sarebbe diventata celebre una foto scattata nel corso di quella missione: rappresenta il globo terrestre che sorge oltre l’orizzonte lunare, una colorata isola di vita – verde la vegetazione, bianche le nuvole, blu l’acqua – in un universo buio.

Quell’isola colorata è la nostra straordinaria casa comune: con Cartoline dal Pianeta Terra proviamo a leggere degli angoli del pianeta che raccontano quanto delicata sia questa maestosa bellezza.

Per tutti coloro che vorranno continuare a riflettere sulla delicatezza del pianeta che chiamiamo casa e sui modi per abitarlo in modo sostenibile, appuntamento a Lucca, dal 6 al 9 ottobre 2022, con Pianeta Terra Festival, un evento ideato e progettato da Editori Laterza e promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, con la direzione scientifica di Stefano Mancuso. Sarà una manifestazione multidisciplinare: si parlerà di ecosistemi, di clima, di nuovi modelli economici, di energia, di agricoltura, di alimentazione, di sviluppo urbano, ma anche di nuove visioni politiche, sociali, filosofiche, antropologiche, artistiche. Una rivoluzione per la sostenibilità sarà il titolo di questa prima edizione.

 

 

Arriviamo infine al primo ingresso; l’idea di Sachimine di una montagna pensata per essere vissuta sostenibilmente dall’uomo si scontra con la brutale distesa di cemento che si apre davanti al tempio che si trova lì di fronte. A fianco corre un sentiero, popolato da un solitario e anziano viaggiatore che scambia poche parole con Alena; a quanto pare ha vissuto queste zone quando a scuola ancora insegnavano cosa fossero e ha deciso di tornarci adesso che è in pensione. Questo infatti è parte di un loop, un percorso rituale di lunghezza variabile (di solito sulla ventina di chilometri), che gli yamabushi percorrono una volta al giorno per un periodo che va dai ventuno ai cento giorni. Il sentiero è coperto dai cedri secolari e giganteschi dell’altare, nascosti in quella stessa nebbia che avevo visto la mattina e che non accenna ad andarsene, irradiando nella tarda mattinata una luce dorata e quasi tangibile.

Il vento che muove gli alberi e le nuvole trasforma i raggi che filtrano dalle chiome in uno strano teatro d’ombre. S’interrompe bruscamente: al volgere di una curva la foresta sparisce, il fianco delle colline si mostra completamente disboscato. Non un albero è rimasto in piedi, nemmeno quei pochi che vengono solitamente lasciati per favorire la ricrescita del bosco quando viene tagliato per ragioni commerciali. Alena ne sapeva già qualcosa, ma non me ne aveva parlato, forse per favorire l’effetto sorpresa. È un disboscamento che preoccupa, non solo per la brutalità, ma anche per la vicinanza all’Omine Okugake che, in quanto Patrimonio dell’Umanità protetto dall’Unesco, non dovrebbe essere alterato in nessun modo. Davanti a noi invece il verde dei boschi circostanti lascia spazio a una ferita gialla, malsana, a tronchi grigi e sbiaditi, un colpo inflitto senza chiedere permesso, perdono. In mezzo alla desolazione passiamo di fronte a una pietra che marca la posizione di un altare chiuso al tempo del consolidamento; Alena dice che lì è dove i cacciatori in passato chiedevano perdono alla natura per il taglio degli alberi o per l’uccisione degli animali, lasciando un’offerta agli dèi. Tutto questo è sparito: quella che abbiamo intorno è macelleria.

La spiegazione del taglio arriva da quello che si presenta come l’ultimo cacciatore di Yoshino, Ippei Shimonaka. Amico di Alena, ha un ristorante, ma vanta numerose generazioni di cacciatori prima di lui. Prima ancora della foresta ci parla subito del desiderio di tramandare l’arte anche ai suoi figli; non c’è più nessuno che lo fa, ci dice, mentre ci serve un delizioso cinghiale cucinato con un’arte unica e antica – solo sakè, salsa di soia e cipolline verdi.

Si siede nel ristorante completamente vuoto – credo che abbia aperto in questo periodo solo per noi – dicendo che il taglio è stato fatto per far posto agli alberi di ciliegio. Yoshino è in effetti uno dei posti più famosi in tutto il paese per la fioritura dei sakura, un evento da cui i giapponesi sono così ossessionati da avere una parte dei programmi meteo dedicata solo a quello. Aumentare il numero dei ciliegi vuol dire aumentare quello di turisti, che da soli portano in quelle due settimane di fioritura il guadagno che serve agli albergatori per sopravvivere il resto dell’anno. È uno sbaglio però, è uno sbaglio, dice in un inglese appena accennato, criticando la via che è stata intrapresa, nominando spontaneamente quell’abbandono della foresta che inseguo ormai da qualche giorno. Lui dei boschi ne parla come fosse un agricoltore; dice che vanno coltivati, che i posti dove crescono i funghi vanno manutenuti e non sfruttati troppo, che bisogna prendere alcuni tipi di legname e non altri per pulire la foresta e farla respirare. Lui lo sa bene, perché la sua famiglia non è solo di cacciatori ma anche di forestali, e da oltre un secolo. Solo che ormai nella sua, come in altre famiglie, i bambini e i ragazzi vanno a scuola, spesso lontano, i giovani vanno in città o preferiscono fare altri lavori, vivere di turismo, guadagnare di più, ma soprattutto lasciarsi alle spalle uno stigma che le attività agricole sembrano avere addosso ovunque si vada nel mondo, dall’Europa all’Asia.

La manutenzione della foresta deve farla una ditta; per loro è un lavoro, nient’altro. Per noi era la vita, ci dice, sostenendo che chi non vive nei boschi che mantiene non ha interesse ad agire secondo certe regole e certi tempi che garantiscono il benessere degli alberi. Lo fanno solo per soldi; quando il denaro finisce, finisce così l’attenzione verso la foresta. Gli nomino il cambiamento climatico e lui non si tira indietro come il forestry guy: mi parla dell’aumento esponenziale dei cinghiali e dei cervi, che distruggono la foresta, arrivano ai campi, aumentano il conflitto tra l’uomo e la natura. Prosperano secondo lui proprio per il cambiamento climatico, per via dell’aumento delle temperature che ne fa sopravvivere molti di più durante l’inverno, ma anche a causa dell’abbandono delle campagne: gli mostro la foto fatta con il drone in mattinata e mi indica gli spazi dove un tempo arrivavano le case, i campi, e dove ora c’è foresta. Pare come se la città si sia ritirata, o meglio che sia scomparsa quella zona cuscinetto tra i luoghi dove camminano i turisti, gli abitanti di Yoshino, e quelli frequentati da cervi e cinghiali. Lupi che possano ridurne il numero non ce ne sono più, sterminati in epoca Meiji a furia di esche avvelenate alla stricnina ispirate dallo sviluppo agricolo americano di quei tempi. L’ultimo esemplare di tutto il Giappone fu catturato a pochi chilometri da qui, vicino al villaggio di Higashiyoshino; ne rimane una statua e un solitario haiku:

Io cammino
Insieme a quel lupo
Che ora non è più

La scomparsa di quella che era considerata, qui come in Europa, una specie nociva fu celebrata come un successo, perché il diffondersi della rabbia trasmessa dai cani domestici e la deforestazione selvaggia avevano esacerbato il conflitto con l’uomo. L’impatto della sparizione è però evidente, ma ancora adesso in Giappone si fa fatica a comprenderlo. È strano, perché sarebbe bastato guardare al pantheon shintoista per capirlo: l’okami, il lupo messaggero degli dèi della montagna, è anche il protettore delle messi proprio dai cinghiali e dai cervi. Senza di lui, sparisce il satoyama ed è guerra tra gli spiriti montani e l’uomo. Oggi ne abbiamo la prova.

 

Lorenzo Colantoni | Ritorno alle foreste sacre