CONSTANTER ET NON TREPIDE
trad. di N. Mataldi
David Randall è senior news writer e foreign editor dell'"Independent on Sunday" di Londra. In Italia scrive regolarmente per "Internazionale".
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Come si fa a selezionare i migliori giornalisti di ogni tempo? Beh, se la mia esperienza può servire a qualcosa, non è poi così difficile. Il segreto è, credo, di averne scelto un numero così piccolo, cioè di aver stabilito una soglia molto alta. Se si fosse trattato di selezionare i quaranta migliori cronisti di ogni tempo, sarebbe stata un’altra storia: qualunque bravo reporter avrebbe avuto le sue buone chances per entrare nel novero. Ma una dozzina? Rimane abbastanza facile. E poi per quali ragioni proprio tredici? Perché tanti sono i cronisti che io colloco sul piedistallo più alto del giornalismo.
Per prima cosa ho circoscritto la selezione ai cronisti della carta stampata. I servizi radiotelevisivi sono frutto di un lavoro di squadra; fanno affidamento su suoni e immagini – talvolta anche più che sulle parole del cronista – e spesso, per avere senso e completezza, devono essere introdotti da un conduttore o da un annunciatore. Il fatto stesso che lavorassero in squadra mi ha indotto a escludere Woodward e Bernstein del caso Watergate (e i loro direttori, Ben Bradlee e Howard Simons, che in quella vicenda svolsero un ruolo altrettanto cruciale). Sono rimasti tagliati fuori anche gli autori di quelle cronache giornalistiche che prendono la forma di un libro, perché queste presentano margini temporali ampi, con scadenze dilatabili fino alle settimane, se non ai mesi; e, in effetti, come si fa a comparare un testo scritto in due anni con uno sfornato in 45 minuti? E restano fuori pure columnists e commentatori itineranti. Dunque, niente Henry Louis Mencken, esclusione che poteva apparire bizzarra, finché non ho esaminato i suoi pezzi migliori nell’ambito di quella che si può definire – in ogni tempo – cronaca e, strano a dirsi, ho trovato poco.
Fissati questi paletti, ho poi scelto i cronisti con l’unico criterio che, da ex capocronista di tre quotidiani nazionali britannici, mi era possibile adottare: ho immaginato di dirigere una redazione «olimpica» e di poter selezionare il mio staff tra i reporter di ogni tempo. E così la maggior parte dei giornalisti qui ritratti è finita nel mio elenco nel giro di mezz’ora, e l’unico cronista di cui fino ad allora non sapevo nulla e che ho «scoperto» durante le mie ricerche è stato Meyer «Mike» Berger, del «New York Times».
Vorrei tuttavia elencare anche quei reporter che stavo per scegliere, ma che alla fine non ce l’hanno fatta: Isidor Feinstein Stone (gli ho preferito George Seldes, come esponente dei «guastafeste»), Lincoln Steffens, Marguerite Higgins (grande acchiappa-notizie, pessima scrittrice), Ida Wells-Barnett (la sua denuncia dei linciaggi costituì un evento storico, ma fece la cronista per troppo poco tempo), Gloria Emerson del «New York Times», Winifred Bonfils, Marvel Cooke, Gay Talese, John Pilger del «Daily Mirror» e Robert Fisk dell’«Independent». Forse la prossima volta...
Infine, qualcuno farà rilevare l’assenza di qualsiasi rappresentante delle minoranze. La spiegazione è semplice: in questo libro ognuno rappresenta solo il proprio talento e il proprio lavoro. Il sesso, l’aspetto, le preferenze sessuali e i precedenti culturali non hanno giocato alcun ruolo nella selezione. Posso affermarlo in totale onestà, ma è anche vero che mi ha molto turbato il fatto che i volti di questo libro appartengano tutti a cronisti bianchi. Ho così frugato ripetutamente nel mondo del giornalismo alla ricerca di una figura d’eccezione da includere. Ed ero quasi sul punto di inserire Marvel Cook, a spese di qualche collega le cui inchieste e il cui stile erano, a mio avviso, molto migliori, quando mi sono reso conto che, facendo una scelta di tipo paternalistico, avrei sbagliato. Allora mi sono fermato. Insomma, se qualcuno vorrà suggerirmi il nome di giornalisti non bianchi all’altezza di quelli qui presentati, sarò ben felice di scoprirli e di includerli nelle prossime edizioni di questo libro.
Una volta scelti quelli che per me sono i più grandi, dovevo ordinarli in qualche modo. Ma come? Con un criterio alfabetico? Troppo noioso. Cronologico? Stessa storia. Allora ho deciso di presentarli secondo una mia personale graduatoria di merito, in parte per semplice gusto, ma anche nella speranza di suscitare un dibattito: non solo sui nomi ma anche sui criteri di bravura nel mestiere di reporter. Nei cronisti che reputo meritevoli di stare nel mio libro io cercavo alcune qualità: l’intensa curiosità nel condurre ricerche – sulla carta, sullo schermo e di persona – approfondendo e dettagliando quanto più nei limiti di tempo a disposizione; la ferma volontà di superare qualunque ostacolo nella ricerca della notizia (o l’accortezza e l’abilità nell’evitarlo); una notevole capacità di interpretare il materiale di cui si dispone (non riflettere sul reale significato di una vicenda resta il peggior difetto del cronista medio); un senso della prospettiva, del contesto e la capacità di percepire che quel che si è scoperto potrebbe non esaurire tutta la storia; la freschezza e l’inventiva nell’uso delle parole (gli spacciatori di luoghi comuni sono pregati di astenersi). La combinazione di queste qualità è cosa rara nel giornalismo (anche se non così rara come pensano alcuni critici); e possederle tutte, a un livello alto, è il criterio che mi ha consentito, in questa ricerca, di separare il grano dal loglio.
Ed eccoci finalmente ai motivi che mi hanno spinto a realizzare questo libro. Innanzitutto, da molti anni volevo rendere un omaggio scritto al meglio di una razza – i cronisti – che a mio avviso rappresenta la parte più utile del giornalismo. Senza i cronisti, i giornali (e la società) si nutrirebbero solo di congetture, commenti e chiacchiere. I cronisti sono i nostri cacciatori-raccoglitori, sguinzagliati a cercare notizie fresche, mentre il resto, tutti noi, se ne sta semplicemente seduto attorno al fuoco del bivacco a rimasticare il «grasso» dell’ultima settimana, in attesa del loro ritorno. Seconda cosa, speravo che identificare in un libro i grandi potesse offrire ai cronisti una serie di modelli, o almeno la sensazione che potessero esistere dei termini di paragone che vanno al di là delle loro redazioni o, addirittura, del loro tempo. Terzo, mi piacerebbe pensare che i personaggi di queste pagine rappresentino, per le nuove generazioni di cronisti, non solo punti di riferimento da ammirare e da cui imparare, ma, come avviene nello sport, protagonisti di record da uguagliare e, magari, persino da superare. Dopotutto, nessuna epoca più di quella attuale ha bisogno di cronisti qualificati. A beneficio del futuro è possibile che i cronisti redigano, come si suol dire, la prima bozza della storia; ma per il presente, l’hic et nunc, forniscono qualcosa di ancora più prezioso: la materia prima con cui giudichiamo il nostro mondo e coloro che ricercano il potere al suo interno. E la nostra migliore difesa nei confronti di demagoghi, ciarlatani, agitatori e imbonitori, e verso tutte le menzogne e le mezze verità che questi spacciano, sono i cronisti, specie i grandi.
Ogni generazione di giornalisti, almeno finché la sua forza non comincia ad affievolirsi, si ritiene l’unica depositaria di sfide sconosciute alle generazioni precedenti. Per gente abituata a pensare all’altro ieri come a una cosa morta e alla prossima settimana come a una pianificazione a lungo termine, la storia non appare come gran maestra di insegnamenti. I cronisti del passato, specie quelli di più di cinquant’anni fa, sono considerati personaggi di solito verbosi e che ebbero vita facile – non dovendo, come i loro colleghi dei nostri giorni, affrontare la concorrenza di molti altri media, i sofisticati raggiri delle fonti ufficiali di regime, le tecnologie sempre più complesse e le incertezze della vita moderna.
Un’idea veramente stupida, questa, ma, come vado scoprendo anno dopo anno in innumerevoli conversazioni, sempre più invalsa. Da qui nasce questo breve tentativo di mostrare come il mondo del cronista sia cambiato nell’arco temporale coperto dal mio libro. Se non altro, potrebbe fornire alcuni riferimenti cronologici, e far capire, a chi è meno ferrato di storia, per quali ragioni, per esempio, i cronisti che seguirono la guerra civile americana non potevano sollevare la cornetta, fare telefonate a carico della redazione e dettare il pezzo (per la risposta, si veda più avanti la data dell’invenzione del telefono).
Storicamente parlando, il primo giornalista che incontriamo in questo libro è William Russell, del «Times», la cui notorietà è legata alle sue cronache della guerra di Crimea, nel 1854 e 1855. Russell apparteneva a un mondo in cui già esistevano la stenografia Pitman e il nastro dattilografico, così come il cablogramma (un messaggio via telegrafo fu usato per la prima volta nel 1844 dal «Times» di Londra come base per un articolo di giornale). Il telegrafo era però troppo costoso, e la sua diffusione insufficiente, perché negli anni Cinquanta dell’Ottocento potesse essere usato per le corrispondenze dall’estero. Gli articoli di Russell furono perciò scritti a mano (a matita – sul campo, molto più pratica di una penna, che richiedeva l’inchiostro) e spediti al giornale sotto forma di lettera. Da qui la parola «corrispondente».
Altre caratteristiche del contesto professionale di Russell erano: la mancanza di rivali (questo significava che, a fargli concorrenza, erano solo i succinti comunicati ufficiali); l’assenza di agenzie di stampa (l’Associated Press, fondata nel 1848, all’epoca non forniva corrispondenze dall’estero, mentre la Reuters, nata nel 1851, era appena agli inizi); pochissimi limiti imposti alla lunghezza dei pezzi (in buona sostanza, Russell scriveva tutto quello che poteva e il giornale lo stampava, non necessariamente tutto in una volta, né sempre nell’ordine in cui l’aveva scritto); l’impossibilità di sapere se il suo testo era arrivato a destinazione; l’impossibilità assoluta, per i giornali, di pubblicare foto (questo spiega la prosa forbita di alcuni cronisti vittoriani); la mancanza di qualsiasi subordinazione ai militari (un bene, nel senso che non c’erano restrizioni sui luoghi dove poter andare; un male, perché in pratica non riceveva nessuna assistenza o informazione ufficiale).
Dieci anni dopo, quando finì la guerra civile americana, i giornali si erano così diffusi che quel conflitto fu seguito da almeno 150 corrispondenti e l’Ap si era ben consolidata (nel 1861, per esempio, il governo smise di distribuire i propri comunicati solo ad alcune testate privilegiate e cominciò a diffonderli attraverso l’Ap a tutti quelli che erano abbonati al servizio). L’influenza delle agenzie di stampa sullo stile giornalistico si sarebbe rivelata enorme. Rivolgendosi a giornali le cui posizioni politiche potevano divergere ampiamente, le notizie d’agenzia dovevano quanto più possibile essere esenti da palesi pregiudizi. Come disse nel 1862 Lawrence Gobright, principale corrispondente dell’Ap da Washington, in una deposizione al Congresso:
Il mio lavoro è comunicare i fatti. Gli ordini ricevuti non mi consentono di esprimere alcun commento sui fatti che comunico [...]. Non agisco come un politico appartenente a una scuola, ma cerco di essere veritiero e imparziale. I miei dispacci si limitano ai fatti e ai loro dettagli.
Fu un colpo di fortuna, a quell’epoca, che a trovarsi sul posto per annotare il discorso di tre minuti di Lincoln a Gettysburg fosse un corrispondente occasionale dell’Ap, Joseph L. Gilbert, e non un polemista di passaggio.
Notizie di agenzia a parte, in genere gli stili di scrittura erano ancora digressivi e la classica struttura degli articoli a «piramide invertita» (il pezzo comincia dal vertice, la conclusione con gli elementi essenziali, per poi guadagnare complessità fornendo via via maggiori dettagli: «Più di cinquanta persone sono morte schiacciate da...» e così via) avrebbe richiesto molti decenni prima di diventare la norma. Questo era dovuto in parte al pubblico (agiati, istruiti e senza altre fonti di notizie, i lettori non potevano far altro che spulciare i fitti testi per scoprire che cosa succedeva), in parte alla moda del momento e, inevitabilmente, in parte al fatto che i corrispondenti venivano pagati a riga. Si prenda questo passo del «New York Times» del 1860:
Bristol, Inghilterra, 17 dicembre 1860 – Un insolito livello di agitazione è stato provocato qui questa mattina da un allarme di incendio; e la costernazione è stata accresciuta non poco quando è diventato noto che la conflagrazione era scoppiata tra il naviglio nel porto galleggiante. La prua a mare della nave, a bordo della quale è scoppiato l’incendio, e che ne è risultata distrutta, era un’ottima nave di costruzione americana, appartenente a una ditta di New York, con una portata di 1.400-1.500 tonnellate.
Ovvero, come noi oggi renderemmo la stessa serie di fatti: «Una nave di New York è stata distrutta ieri da un incendio mentre era all’ancora nel porto di Bristol». Ma, dopotutto, se sei pagato un penny a riga, la brevità non è tua amica.
Anche l’impaginazione aveva (e ha) una sua influenza sullo stile di scrittura, e uno degli elementi che ritardarono l’avvento della struttura a piramide invertita furono i titoli a più livelli che introducevano gli articoli più importanti. Per esempio, oggi a noi potrebbe apparire ridicolo che Gobright dovesse cominciare così il suo resoconto dell’uccisione di Lincoln:
Il presidente Lincoln e la moglie, insieme ad altri amici, questa sera si sono recati al teatro Ford, per assistere alla rappresentazione del Nostro cugino d’America.
Ma nei giornali dell’epoca queste parole sarebbero arrivate solo dopo che il titolista aveva quasi esaurito i punti essenziali della storia, scandendo, livello dopo livello, i succosi titoli («Orrore al teatro – Il presidente fatto segno di un colpo di pistola da un assassino – Riportate ferite mortali...» ecc.). Per esempio, il «Philadelphia Inquirer» strutturò su ben 18 livelli la titolazione dell’articolo sull’assassinio di Lincoln: insomma, il lettore arrivava alle parole del cronista solo dopo essersi sorbito questa presentazione in stile PowerPoint. A quel punto, una struttura a piramide sarebbe apparsa decisamente ripetitiva.
La facilità di accesso era l’altra grande caratteristica del giornalismo vittoriano,
e in alcuni settori (come cronaca nera e sport) sarebbe durata fino agli ultimi decenni
del ventesimo secolo. Per esempio, Gobright raggiunse il palco presidenziale del teatro
Ford a meno di un’ora dall’attentato a Lincoln e poté esaminare la scena di persona
(e notare lo squarcio in una bandiera provocato dall’assassino John Wilkes Booth saltando
in basso per fuggire); e nel 1881 Franklin Hathaway Trus-
dell, cronista della National Associated Press, poté aggiornare il suo servizio sul
presidente James Garfield, moribondo, entrando in punta di piedi nella sua camera,
alla Casa Bianca, per ascoltare il respiro del grand’uomo e poi prendere appunti su
carta intestata della Casa Bianca.
Come si può ben immaginare, le prime restrizioni furono dettate per le corrispondenze di guerra (l’esercito britannico impose le sue regole ai corrispondenti perlopiù come reazione alle attività a tutto campo di Russell), anche se nei primi anni del ventesimo secolo gli alti ufficiali trattavano cronisti come Richard Harding Davis quali loro pari e come onorati confidenti. La prima guerra mondiale mise fine a tutto ciò – per sempre.
Il graduale formalizzarsi dei rapporti tra cronisti e mondo ufficiale fu una risposta a due fattori: primo, la professionalizzazione della stampa man mano che si rivolgeva a un mercato di massa; secondo, e dettato dall’importanza dei media nelle democrazie, il bisogno, percepito dalla grande industria e dalla burocrazia, di tenere in qualche modo a bada quei rompiscatole.
La professionalizzazione (significativa, sebbene a un non addetto ai lavori possa apparire banale, fu la creazione del primo «obitorio», o archivio dei ritagli, da parte del «New York Herald», nel 1860) spesso andò di pari passo con la tecnologia. I cinquant’anni che precedettero la prima guerra mondiale videro: la diffusione delle macchine da scrivere (la tastiera di tipo «qwerty», come quelle attuali, nacque nel 1873 e, tre anni dopo, Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain fu il primo romanzo dattiloscritto); la prima macchina da scrivere portatile (1892); il telefono (nel 1880 ne erano in uso 50.000, e quattro anni dopo furono inaugurate le interurbane, anche se ancora nel 1901 il «New York Times» aveva soltanto due apparecchi); il miglioramento dei servizi d’agenzia (l’Ap diramò il suo primo «flash» – un messaggio in telegrafese quanto più breve possibile per denotare notizie di particolare importanza – nel 1906); il graduale – e fu davvero graduale – inserimento delle donne nel giornalismo (il «Washington Post» assunse Calista Halsey, la sua prima cronista, nel 1878); i progressivi miglioramenti dei processi di stampa e fotografici, che resero possibile la realizzazione di giornali illustrati e ad ampia tiratura; la diffusione delle ferrovie e, negli Stati Uniti, della Rural Free Delivery (la consegna gratuita nelle aree rurali), il che significò, per un numero sempre più ampio di lettori, essere raggiunti in tempi brevi e a prezzi contenuti.
I decenni 1890-1920 videro l’affermarsi di tre elementi chiave per il lavoro del reporter: il capocronista («news editor» in Gran Bretagna, «city editor» negli Stati Uniti), la struttura a piramide invertita nella presentazione delle notizie e, come suo sottoprodotto, l’attacco o cappello («intro» in Gran Bretagna, «news lead» negli Stati Uniti), che condensava gli elementi essenziali nel primo paragrafo in modo da «prendere il lettore per la gola», nelle parole di Paul O’Neill.
Dietro tutto questo si celava quel grande catechismo del giornalismo («Chi-cosa-dove-quando-come e perché?») il cui primo uso attestato si ebbe a Chicago nel 1892, ma che ancor oggi viene inculcato ai praticanti. E ad abbracciare questo trentennio in cui il mestiere di cronista assunse caratteristiche distintamente moderne fu uno dei personaggi più influenti di tutta la storia del giornalismo: Charles Chapin, capocronista del «New York World» per vent’anni, a partire dal 1898. Di rado le storie del giornalismo riconoscono il potere e l’influenza dei capocronisti, in gran parte perché questi libri in genere sono scritti da persone che non hanno mai lavorato in una redazione. Ma la vita dei reporter è governata dalla qualità e dalla ferocia dei loro capocronisti, e nessuno meglio di Chapin impersona il capocronista dal cuore di pietra, reale o inventato che sia. Chapin diresse la redazione del «World» con l’autorità assoluta e capricciosa di un monarca medievale; terrorizzava i cronisti ora per ora; alla minima infrazione li licenziava (si vantava di averne fatti fuori 108, tra i quali il figlio del proprietario del giornale); e godeva nelle tragedie (quando i suoi uomini assemblarono la cronaca dell’affondamento del battello da diporto General Slocum, con 1.021 morti, molti di loro piansero e alcuni vomitarono mentre annotavano i dettagli di bambini stritolati tra gli ingranaggi della ruota del piroscafo. Non Chapin, che letteralmente ballava per la redazione, sprizzando soddisfazione per una vicenda tanto sensazionale, e fermandosi ogni tanto per leggere ad alta voce i bollettini più scioccanti).
Ma questo mostro conosceva il suo mestiere meglio di quanto l’abbia mai conosciuto la maggior parte dei giornalisti. Fu il primo caporedattore a capire le potenzialità del telefono per i servizi di cronaca, e disseminò per la città i suoi addetti al «lavoro di gambe» con l’ordine di comunicare per telefono le notizie fresche appena spuntavano. Gonfiò le sue redazioni di «riscrittori», penne che avevano il compito di trasformare nudi fatti in storie avvincenti, benché a volte non fedelissime, e pretese un alto numero di articoli per pagina, costringendo i cronisti a scrivere pezzi spediti, con gli elementi di maggiore interesse condensati in quello che abbiamo imparato a chiamare attacco. Quando, nel 1918, Chapin lasciò il «World» (e lo fece in manette, avendo ucciso la moglie Nellie), il modo di scrivere un articolo aveva già i caratteri distintivi del giornalismo moderno, specie i pezzi d’apertura. Da allora, l’unico grande cambiamento è consistito nella quantità di dettagli che vengono condensati nell’attacco (facciamo un esempio. Nel 1932 il «New York Times» scrisse: «Charles Augustus Lindbergh Jr., di venti mesi, figlio del colonnello e della signora Charles A. Lindbergh, è stato rapito tra le otto e trenta e le dieci di ieri sera dal suo lettino nella camera al secondo piano della residenza dei suoi genitori a Hopewell, vicino Princeton, nel New Jersey». Trent’anni dopo, i dettagli da taccuino della polizia erano scomparsi dal primo paragrafo; lo stesso giornale avrebbe riferito da Dallas in appena dodici parole: «Il presidente John Fitzgerald Kennedy è stato ucciso oggi da un assassino»).
In quegli anni – che coincisero con l’avvento della radio e del cinema – nacque anche l’uso generalizzato di battute per aprire certi tipi di articoli. Era uno stile di scrittura che si richiamava tanto al music-hall e al vaudeville quanto alla letteratura, ma per fortuna attecchì e da allora è stato fonte di grande divertimento, non sempre innocente (un esempio famoso fu il caso di Richard Loeb, uno dei due studenti dell’Università di Chicago che nel 1924 uccisero un ragazzo. I due furono condannati a morte e, dodici anni dopo, Loeb venne ucciso da un compagno di prigione per avergli fatto delle avances. La leggenda vuole che Edwin Lahey, del «Chicago Daily News», cominciasse il suo articolo così: «Richard Loeb, il famoso studente d’inglese, ha chiuso ieri la sua sentenza con una proposta»).
Infine, nel processo di professionalizzazione dei cronisti, furono introdotti i corsi di giornalismo. La prima scuola aprì nel Missouri, nel 1904, e dieci anni dopo almeno 39 università offrivano corsi di giornalismo, frequentati ogni anno da oltre duemila studenti. Si aggiunga la nascita dei premi Pulitzer, nel 1918, ed ecco a disposizione del cronista motivato e consapevole tutti gli strumenti per raggiungere quella che gli addetti ai lavori considerano l’eccellenza.
Di fronte alle richieste – e alle libertà – dei giornali, tanto le aziende quanto i governi risposero con quelle che divennero note come «pubbliche relazioni», espressione usata per la prima volta nel 1897. In quello stesso anno la General Electric inaugurò un ufficio pubblicità, di lì a poco l’amministrazione del presidente William McKinley fu la prima a distribuire comunicati stampa e, così, cominciò a svilupparsi un’industria che combina in ugual misura forme di disponibilità e di offuscamento. Da tale invenzione, passarono appena 17 anni per avere il primo caso di quella che si sarebbe rivelata la rovina di molti reporter: la foto-posa orchestrata (uno sciopero in una miniera di Rockefeller, nel Sud del Colorado, culminò nel massacro di Ludlow quando diversi minatori, due donne e undici bambini morirono sotto colpi d’arma da fuoco. Dato che John D. Rockefeller venne aspramente criticato, come tentativo di rispondere agli attacchi gli fu consigliato di visitare le miniere dando a vedere di interessarsi e, in questo modo, manifestando in pubblico il suo spirito caritatevole, fino ad allora sconosciuto).
Dunque, nel 1920 il mondo del cronista aveva tratti già distintamente moderni – salvo per un aspetto chiave: i giornali costituivano gli unici veicoli di massa dell’informazione. Il mutamento di questa condizione fu lo shock che il ventesimo secolo aveva in serbo per i giornalisti. Prima i cinegiornali e la radio, poi la televisione, infine internet. Ognuno di questi mezzi ha rappresentato due novità: una nuova fonte d’informazione e un modo alternativo di passare il proprio tempo. Insieme a un aumento delle entrate, del possesso di auto e delle occasioni di svago, i mezzi elettronici hanno offerto alla gente molte più cose da fare che non aprire semplicemente il giornale sulla veranda o in salotto e leggerlo dall’inizio alla fine. E i giornali non sarebbero più stati il mezzo più rapido per informarsi sul mondo.
Quali che siano state le risposte a questi cambiamenti da parte dei proprietari di giornali (acquistare un’emittente televisiva, avviare una dotcom) o dei direttori (gonfiare la sezione dei servizi speciali, assumere altri tre columnists), gli effetti sui cronisti fanno discutere. L’idea convenzionale è che i direttori abbiano cominciato a dire: «Questo l’ha detto la tv, noi dobbiamo cercare la storia ‘dietro la notizia’». Da qui, ci spiegano, l’aumento delle informazioni di base e dei pezzi di colore. Ma quando va a fuoco il municipio, l’articolo di fondo del giornale è pressoché identico a come sarebbe stato cinquant’anni fa. Il vero motivo della proliferazione di informazioni di base, articoli di colore e box sta probabilmente nell’enorme aumento dello spazio disponibile. Nell’era dei giornali a fascicoli, tutti i giorni, nei quotidiani c’è di più di tutto. E partendo dall’idea che il numero degli eventi su cui c’è qualcosa da dire non è cresciuto più rapidamente della popolazione, si riempie lo spazio extra con box, informazioni di base, riquadri, caratteri cubitali, insomma andando un po’ oltre la classica regola delle cinque W (chi-cosa-dove-quando-come e perché). E, in molti giornali, ritroviamo più articoli scandalistici: discussioni presentate come «liti», spesso una pura montatura da parte della redazione o del cronista.
Quello che la televisione ha cambiato è l’agenda delle notizie. Se una storia, per quanto inconsistente, rimbalza in televisione ed è vista da un gran numero di lettori, allora riprenderla è quasi obbligatorio per tutti i giornali, tranne il più serio. Ci vuole poco per capire che questo è anche uno dei motivi principali che sta dietro l’ascesa della cultura delle celebrità. Per i quotidiani britannici a grande tiratura la televisione è grosso modo l’agenda. I giornali statunitensi, in quanto locali, sono in genere meno soggetti a questa tendenza, anche se hanno subito un processo altrettanto insidioso: l’erosione del numero delle città con due quotidiani. Questo fenomeno, al di là di quanto possa lasciar intendere l’esibizione annuale di eleganza stilistica e capacità investigativa dei premi Pulitzer, ha indubbiamente portato a giornali più fiacchi e a cronache meno incisive. Dopotutto, se sei l’unico quotidiano cittadino, chi vuoi che ti ridicolizzi se arrivi tardi su una storia? Ben pochi responsabili di giornali statunitensi trascorrono la notte in redazione come faccio io: a esaminare con ansia le pagine dei sette quotidiani rivali che arrivano intorno alle nove e tre quarti di sera, nel timore che abbiano un’angolazione migliore su uno dei nostri servizi o, peggio ancora, una buona storia che noi non abbiamo. (L’ascesa dei quotidiani monopolisti ha inflitto un colpo mortale anche al tipo di idiota patriottismo locale che un tempo divertiva i tipi metropolitani più sofisticati. Temo che siano finiti i tempi in cui i giornali scovavano un’assurda prospettiva locale per una storia internazionale. Una volta succedeva. L’esempio migliore? Probabilmente, nel 1917, il titolo che il «Bronx Home News» impostò sulla diceria che, in passato, Lev Trotskij fosse vissuto nel quartiere per tre mesi: «Un uomo del Bronx guida la Rivoluzione russa».)
L’altro grande cambiamento degli ultimi decenni è stata la crescita di quelli che Daniel Boorstin definiva «pseudo-eventi»: conferenze stampa, foto-pose, trovate, «sondaggi», attività di lobbying, manifestazioni non spontanee e tutti gli altri trucchi di governi, mondo degli affari, politica, gruppi di pressione e cause varie. Ogni giorno il cronista medio deve fare i conti con tutto ciò, prima ancora di arrivare allo spin-doctoring, a quella presentazione artificiosa dei fatti che – non si può fare a meno di pensare – a volte è solo una versione contemporanea di un processo di camuffamento ed edulcorazione sempre esistito. La differenza oggi, a parte un indubbio aumento del fenomeno, è che le parcelle strappate da rispettabili spin doctors, e la loro stessa fame di attenzione personale, richiedono un alto «profilo» laddove in precedenza questo non esisteva – e i cronisti invariabilmente si prestano al gioco.
Ma la preparazione giornalistica, quando si presenta al più alto profilo (cosa che praticamente non succede da nessuna parte in Gran Bretagna), cerca di reggere il passo con l’altra faccia della corsa alle armi dell’informazione. Chi inizia a lavorare oggi in una redazione giornalistica statunitense forse non ha grande familiarità con le sigarette né ci sa fare con i dadi; in compenso, ha una conoscenza dei dati computerizzati (come creare un foglio elettronico, dove trovare informazioni online e così via) da impressionare positivamente i suoi loschi predecessori. E dispone di personal computer (lanciati nel 1981); telefoni mobili, cellulari (dove un tempo dovevano contendersi i telefoni a gettoni), satellitari, nonché di internet: il mezzo per fare ricerche su ogni argomento, rintracciare e contattare fonti, condividere le conoscenze tramite gli archivi giornalistici e spedire un pezzo da qualsiasi parte del mondo. La scusa di Dorothy Parker per non aver rispettato una scadenza («qualcuno aveva preso la matita») non reggerà più.
In cambio di questo kit, i cronisti devono tollerare il fatto di lavorare in un ambiente molto più strutturato. Sono finiti i tempi in cui Roy Thomson poteva arrivare al «Times» e scoprire con orrore – siamo negli anni Sessanta – che la sua redazione dava alloggio a una serie di eccentrici personaggi abilitati alla professione. Troppi giornali sono gestiti da contabili perché oggi succedano di queste cose, o perché si abbiano gli organici che, spesso e volentieri, permettevano a un comune giornalista di passare intere giornate (o, in casi spettacolari, intere settimane) fuori dall’ufficio. Oggi un film che ritraesse fedelmente il lavoro della maggior parte dei cronisti li mostrerebbe seduti in permanenza davanti a un computer, in quello che assomiglierebbe a un call center. Lo spazio per osservare la vita da vicino, per incontrare persone (e non soltanto le tue fonti), per gli amori, per le bevute, per le sciocchezze, per le baraonde, per il gioco d’azzardo, per le avventure e per mettersi nei guai, è oggi molto ridotto. Com’è tutto diverso, molto, molto diverso dalla vita dei grandi cronisti...
L’anno è il 1854 e la Gran Bretagna è una potenza mondiale incontrastata. Controlla un impero che comprende Canada, India, Indie occidentali e Australia, e che presto comincerà ad annettere ampie porzioni dell’Africa. La maggioranza dei suoi abitanti crede in Dio, nel paese e nel diritto di ricchi e gente di buona famiglia di comprare l’ingresso negli alti ranghi dell’esercito, così come la facoltà di uscirne.
Si avverte una minaccia. È a parecchie migliaia di chilometri dalla madrepatria, ma il governo teme che, se non sarà tenuta a bada, metterà a rischio la prosperità e la sicurezza della nazione. Si invocano così vecchi obblighi e nuove alleanze, si sventolano bandiere e l’esercito viene mandato a dissuadere un impero ambizioso. È la Russia, terra governata da un re dittatore, dove vige ancora la servitù della gleba e che, in modo indefinibile, sembra una minaccia ai valori civili e democratici della madrepatria. Il campo di battaglia è la Crimea, anche se a Londra pochi saprebbero indicarla sulla carta geografica. Ma gli inglesi sventolano comunque le loro bandiere e attendono le notizie delle vittorie che, in quanto cittadini della nazione più potente sulla Terra, si aspettano di diritto.
Fu in queste circostanze che si fece conoscere un personaggio con la barba e l’aspetto trasandato che rispondeva al nome di William Howard Russell. Era il corrispondente del «Times» e le cronache che scrisse da quel conflitto scossero la Gran Bretagna come mai aveva fatto nessun altro articolo. Lettori delle classi medie e alte lessero i suoi dispacci e rimasero sconvolti, nel profondo del loro animo compiaciuto, dall’apprendere che l’esercito mandato sul campo dalla loro superiore nazione era mal rifornito, organizzato in modo deprecabile, guidato da aristocratici incompetenti, gestito da un governo inefficiente e, peggio di tutto, così incurante del benessere dei suoi soldati che migliaia di loro morivano non in battaglia ma nelle luride baracche spacciate per ospedali. Le cronache di Russell furono, in un certo senso, un duro colpo per l’Inghilterra vittoriana; anche perché, causa non ultima, nessuno aveva mai scritto in quel modo.
Non c’era da meravigliarsi. Per arrivare a scoprire queste carenze, per quasi due anni Russell dovette cavarsela da solo sul campo, senza alcuna assistenza, subendo l’ostilità pressoché costante di autorità militari per niente abituate all’idea di un cronista invadente tra i piedi, e per di più sapendo che in patria, nel frattempo, la sua onestà e il suo patriottismo erano altamente vilipesi. Ma mentre ogni riga vergata veniva minuziosamente esaminata dalle massime autorità del paese alla ricerca di inesattezze, Russell tenne duro. Dopo aver appreso verità imbarazzanti che contrastavano con il credo popolare, ci vollero bravura e cura, ma soprattutto coraggio, per riferirle e continuare a ribadirle malgrado gli attacchi pubblici. Ed è per questo motivo che un uomo nato quasi una generazione prima dell’inizio dell’era vittoriana, e che scriveva in una prosa lenta e aggraziata che oggi sembrerebbe una lingua straniera, può reggere il confronto con i più brillanti rappresentanti del mestiere di giornalista e figurare in questo libro.
Ci mancò poco, tuttavia, perché Russell non comparisse mai in alcun libro. Nel 1844, al suo primo incarico importante da cronista, combinò un tale pasticcio che solo la carità del direttore del «Times» lo salvò dal licenziamento. Il giornale lo aveva mandato a Dublino a seguire il processo per sedizione contro il leader irlandese Daniel O’Connell, uno degli eventi più importanti di quell’anno. Poiché all’epoca il telegrafo non era ancora entrato in funzione, l’unico modo perché la notizia del verdetto arrivasse rapidamente a Londra era che qualcuno la portasse di persona. I due massimi quotidiani, il «Times» e il «Morning Herald», avevano così fatto meticolosi preparativi per far tornare i cronisti alla base, noleggiando navi a vapore, treni e carrozze speciali. Questi mezzi erano tutti in attesa quando, nel tardo pomeriggio di un sabato di agosto, la giuria si ritirò per deliberare. Prevedendo una lunga attesa, il resto della stampa andò a rifocillarsi; Russell, invece, sedeva fuori dal tribunale, a riflettere su quale fosse la mossa migliore, quando il suo fattorino corse a informarlo del rientro in aula della giuria. Russell si precipitò dentro, ascoltò il primo giurato pronunciare il verdetto di colpevolezza e sfrecciò via, deciso ad arrivare per primo a Londra con la notizia. Saltò su una carrozza, poi su un treno speciale per il porto di Kingstown, s’imbarcò sulla Iron Duke, la nave noleggiata dal «Times» e, nel giro di mezz’ora, questa aveva preso sufficiente velocità da cominciare a puntare verso la costa del Galles. Mentre la nave partiva, Russell notò che il piroscafo dell’«Herald» era ancora placidamente all’ancora. Il cronista del «Times» arrivò a Holyhead, prese il treno speciale per Londra, cercò di dormire ma senza riuscirci, a causa degli stivali stretti, se li tolse, raggiunge Londra dopo sette ore, a piedi scalzi si fiondò nella vettura in attesa e, finalmente, uno stivale calzato e l’altro sotto braccio, si precipitò tutto sbilenco nel cortile del «Times». Anni dopo descrisse quello che poi avvenne: «Mentre entravo in Printing House Square, un uomo in maniche di camicia, che presi per il tipografo del ‘Times’, si fece avanti e disse: ‘Lieto di vederla di ritorno sano e salvo, signore. Allora, l’hanno ritenuto colpevole, no?’. ‘Sì, colpevole, amico mio’, risposi».
Sfortunatamente l’uomo nel cortile non era un tipografo del «Times», ma un cronista che lavorava per il «Morning Herald». Così, il giovane Russell offrì su un piatto d’argento uno scoop al giornale rivale, che debitamente lo pubblicò. Qualcosa della cagnara che ne seguì all’interno del «Times» si può cogliere dai due collerici biglietti mandati a Russell da Moberly Bell, l’amministratore del giornale. Il primo recitava, in tono minaccioso: «Lei si è comportato molto male [...]. Si rende necessaria un’inchiesta». Il secondo, scritto dopo che il direttore aveva salvato la pelle al giovane cronista, cominciava con le parole «Per la sua imprudenza, lei ha rischiato di troncare i suoi rapporti con noi», quindi proseguiva: «Lasci che le ricordi di tenere le labbra chiuse e gli occhi aperti [...]. La scorsa sera avremmo dato centinaia di sterline per impedire che le scappassero di bocca quelle sue poche parole».
Ammonito, ma risparmiato, Russell proseguì nel mestiere di cronista, seguendo quasi tutti gli eventi più importanti dell’alta età vittoriana: la febbre delle ferrovie, la carestia irlandese, l’Esposizione internazionale, i funerali di Wellington, la guerra di Crimea, l’Ammutinamento indiano, la guerra civile americana, l’incoronazione dello zar Alessandro II, la Comune di Parigi, la guerra franco-prussiana, il primo tentativo di deporre un cavo transatlantico, le guerre del Sudan e con gli zulu.
L’uomo che avrebbe assunto un ruolo di primo piano nel diciannovesimo secolo nacque nei pressi di Dublino, il 28 marzo 1820. Il padre era un rappresentante di prodotti industriali. Da piccolo, Russell rimase affascinato dai soldati che si addestravano vicino la sua abitazione e, mentre frequentava il Trinity College di Dublino, si gingillò con l’idea di tentare la carriera militare o quella di avvocato. Poi, però, a vent’anni, il cugino gli chiese di aiutarlo a seguire le elezioni irlandesi per il «Times» di Londra. Avendo una qualche conoscenza di quello che passava localmente per dibattito pubblico, Russell pensò che un buon posto per seguire le elezioni a Dublino potessero essere non i comizi elettorali o le sale riunioni ma il pronto soccorso degli ospedali, dove i candidati sarebbero stati portati alle prime sassate. E, come era prevedibile, quando una processione di candidati insanguinati cominciò a essere spinta dentro le astanterie, Russell era lì, pronto a intervistarli. Il «Times» ne fu impressionato, lo invitò a Londra e lo assunse come stagionale nella redazione parlamentare del giornale, a 5 sterline e 5 scellini la settimana. Il lavoro spesso significava restare in Parlamento fino alla conclusione dei dibattiti, alle quattro o alle cinque del mattino, poi farsi a piedi le due miglia fino agli uffici del «Times» per presentare i suoi resoconti. Ma Russell primeggiava in questo mestiere e presto fu a capo dei cronisti che seguivano la valanga di disegni di legge sulle ferrovie che allora investiva il Parlamento. Ce n’erano così tanti che, se fossero stati approvati tutti, il loro finanziamento avrebbe richiesto tutti i capitali disponibili nel paese. Naturalmente, fu una classica frenesia speculativa, sempre più facile da riconoscere con il senno di poi che sul momento. Ma il «Times», guidato da Russell, non si fece mai raggirare. Il cronista rifiutò le bustarelle offerte per pompare diversi progetti, segnalò correttamente molti di quelli inutili, sicché il giornale guadagnò in prestigio più di quanto avesse perso in entrate pubblicitarie.
Nel 1846, con il matrimonio alle porte, Russell accettò un posto meglio pagato al «Morning Chronicle» e fu per questo giornale che seguì la carestia irlandese. Ma presto fu di ritorno al «Times», per occuparsi di cronaca parlamentare e poi, via via, per imporsi come il miglior articolista «di colore» del quotidiano. Fu incaricato di seguire l’Esposizione internazionale e i funerali di Wellington, anche se questo comportò il richiamo da una vacanza in Svizzera (anche se il suo non fu un viaggio di ritorno rapidissimo, nel 1852). Così, quando nel 1854 si profilò la guerra con la Russia e il «Times» ottenne il permesso di inviare con l’esercito un proprio corrispondente, il prescelto fu Russell. «Sarai di ritorno entro due mesi», gli assicurò a febbraio il direttore John Delane. Non fu certo quella l’ultima volta che la parola di un redattore si sarebbe rivelata priva di ogni valore: Russell sarebbe stato via per due anni.
Dopo una cena di addio al Garrick Club, organizzata in suo onore da Dickens e Thackeray, Russell raggiunse Southampton, dove s’imbarcò con i reggimenti della guardia reale e cominciò un viaggio che lo avrebbe portato a toccare Malta, Gallipoli (sui Dardanelli), la Bulgaria e infine la Crimea, il 14 settembre. Qui la Gran Bretagna era pronta a entrare in guerra, insieme alle alleate Francia e Turchia, contro la Russia. Benché non fosse il primo corrispondente di guerra (ce n’erano già stati, ma si trattava perlopiù di soldati in servizio attivo che avevano raccontato le battaglie come fossero incontri sportivi), Russell fu il primo giornalista di grande levatura a seguire un importante conflitto.
Ciò che Russell diede ai lettori dei quotidiani (e all’epoca il suo giornale vendeva oltre il quadruplo delle copie dei rivali messe assieme) fu nientemeno che la loro prima vera idea di che cosa fosse la guerra. Ne illustrò l’ardore (la Brigata pesante che carica alla battaglia di Balaklava, nell’ottobre 1854):
Come bagliori di fulmini attraverso una nube i Greys [il Secondo Dragoni] e gli Enniskilliners trafissero le masse scure dei russi [...]. Ci fu un clangore di acciaio e un leggero gioco di lame di spada nell’aria, poi i Greys e le giubbe rosse scomparvero in mezzo alle colonne scosse e tremanti.
Ne descrisse i momenti di forza d’animo (battaglia di Inkerman, novembre 1854):
Un proiettile arrivò proprio in mezzo allo stato maggiore – esplose addosso al cavallo del capitano Somerset, squarciandolo [...] colpì il cavallo del capitano Gordon e lo uccise all’istante, poi dilaniò la gamba del generale Strangway, che rimase così appesa a un brandello di carne [...]. Il povero vecchio generale non mosse mai un solo muscolo della faccia. Disse semplicemente, con voce pacata: «Qualcuno è così gentile da sollevarmi dal mio cavallo?».
Ma anche il caos (battaglia per Sebastopoli, giugno 1855):
Gli uomini di diversi reggimenti si mischiarono in una confusione inestricabile. Il Diciannovesimo non badò agli ordini degli ufficiali dell’Ottantottesimo, né i soldati del Ventitreesimo diedero ascolto ai comandi di un ufficiale che non apparteneva al reggimento. Gli ufficiali non riuscivano a trovare i loro uomini – gli uomini avevano perso di vista i loro ufficiali.
E ne fece quasi la contabilità (dopo la battaglia di Inkerman):
I barellieri erano sparsi sulla collina [...] a cercare tra i cespugli i morti o i moribondi. I nostri uomini avevano acquistato una facilità sconvolgente nella loro diagnosi [...]. Uno della squadra si faceva avanti, sollevava la palpebra se era chiusa, guardava attentamente l’occhio, scrollava le spalle, dicendo sommessamente: «È morto, può aspettare», e tornava alla barella; altri tiravano il piede e con quel gesto arrivavano a conclusioni altrettanto corrette.
Della guerra dipinse lo squallore (dall’ospedale russo dove Russell entrò dopo la caduta di Sebastopoli, all’inizio del 1855):
In un lungo e basso stanzone [...] fiocamente illuminato da finestre rotte e senza vetri, giacevano [...] i cadaveri putridi e marcescenti dei soldati, lasciati morire di estrema agonia, negletti, non curati, stipati quanto più possibile l’uno accanto all’altro, qualcuno sul pavimento, altri su orribili trespoli e telai o su pagliericci, zuppi e saturi di sangue [...]. Molti, ancora vivi, giacevano con i vermi che strisciavano sulle loro ferite [...]. Molti, con gambe e braccia rotte e storte, le schegge dentellate conficcate nella carne viva, imploravano aiuto, acqua, cibo o pietà.
E, insieme, la sua futilità (dopo la caduta di Sebastopoli – evento osservato da visitatori in berretto sportivo da marinaio):
Eserciti stanchi, separati l’uno dall’altro da un mare di fiamme, si appoggiano alle loro armi e fissano con diversi sentimenti tutto quel che resta dell’oggetto dei loro conflitti.
E le sue leggende. Alla fine dell’ottobre 1854, su un crinale che si affacciava su Balaklava, Russell assistette a una delle gesta belliche più famose della storia. Tre settimane dopo (tanto tempo le sue lettere impiegavano per raggiungere Londra), il «Times» pubblicò il suo resoconto della carica della Brigata leggera, in cui partirono 673 cavalleggeri e ne tornarono meno di 200:
Alle undici in punto la nostra Brigata di cavalleria leggera diede l’assalto al fronte [...]. Avanzarono in due linee, accelerando il passo mentre si avvicinavano al nemico [...]. Alla distanza di 1.200 iarde l’intera linea del nemico vomitò, da trenta bocche di ferro, un diluvio di fumo e fiamme tra cui fischiavano le palle mortali [...].
Con un grido di incoraggiamento che fu l’urlo di morte di molti nobili compagni, si lanciarono nel fumo delle batterie; ma prima che scomparissero alla vista, la piana fu cosparsa dei loro corpi e delle carcasse dei cavalli [...]. Nel momento stesso in cui stavano per ritirarsi, un reggimento di lancieri fu scaraventato sul loro fianco. Il colonnello Shewell, dell’Ottavo Ussari, vide il pericolo e guidò i suoi uomini dritto contro di loro, facendosi largo con tremende perdite [...]. Gli artiglieri russi, quando la tempesta della cavalleria fu passata, tornarono ai loro cannoni. Videro la loro cavalleria confondersi con i cavalleggeri che li avevano appena caricati e, per l’eterna onta del nome russo, gli scellerati fecero piovere una raffica di mitraglia sulla massa di uomini e cavalli che si divincolavano nella battaglia, unendo amici e nemici in una comune rovina [...]. Alle undici e trentacinque non un soldato britannico, tranne i morti e i moribondi, restava davanti a quei criminali cannoni moscoviti.
Non sorprende che l’esercito non seppe mai come comportarsi con Russell. Privo di un qualsiasi status ufficiale, fece affidamento sulla sua capacità di stringere amicizia con i graduati e di estorcere da loro le informazioni che non poteva raccogliere di persona. Il suo fascino di irlandese funzionò persino con qualche alto ufficiale. All’inizio della guerra, per esempio, fu portato davanti al generale Pennyfeather, che volle sapere che cosa facesse. Quando Russell gli disse che era un cronista, il generale replicò: «Perdio, Sir, preferirei incontrare il diavolo!». Russell, tuttavia, rispose con una bonaria battuta da dublinese e il vecchio generale fu conquistato. Questo, comunque, non valse per l’esercito nel suo complesso. A volte gli erano negate le razioni; in altre occasioni, di ritorno al campo, scopriva che la sua tenda era stata smontata e buttata fuori; in altre ancora, gli venivano negate informazioni come il numero delle vittime, oppure gli veniva consigliato di andar via, se aveva a cuore la propria sicurezza. Non era certo un giornalista al seguito.
In queste circostanze, altri cronisti avrebbero forse smesso di insistere sull’onestà. Non così Russell. In una delle sue prime corrispondenze parlò di una grave epidemia di colera e delle carenze del servizio medico nell’affrontarla, quindi continuò a rivelare la verità sul caos di cui era preda l’esercito. Denunciò l’inadeguatezza dei rifornimenti, con i troppo pochi carri, i troppo pochi letti per i malati o le troppo poche medicine; descrisse le vistose uniformi con gli alti colli rigidi che d’estate soffocavano e d’inverno non fornivano nessun calore; l’assenza nel campo di servizi igienici e di filtraggio dell’acqua; il cibo mediocre, e spesso contaminato, che sovente scarseggiava (in teoria, ogni uomo doveva ricevere ogni giorno una libbra di carne bovina e di pane, più un po’ di caffè e di zucchero); e il fatto che ogni uomo dovesse procurarsi da solo la legna per il fuoco e poi cucinarsi il suo pasto. Le miserie di questa vita, che nulla avevano a che fare con i rischi del combattimento, Russell le raccontò già alla fine del novembre 1854:
Sta piovendo [...] le trincee si trasformano in fossi, a volte nelle tende ci sono trenta centimetri d’acqua, i nostri uomini non hanno indumenti caldi né impermeabili, stanno fuori nelle trincee per dodici ore di fila [...] e non un’anima sembra curarsi del loro benessere, o addirittura della loro vita. Sono verità scomode, ma i cittadini d’Inghilterra devono ascoltarle. Devono sapere che lo sventurato mendicante che vagabonda per le strade di Londra sotto la pioggia conduce la vita di un principe paragonato ai soldati britannici che stanno combattendo qui per il loro paese e che, a quanto ci assicurano compiaciute le autorità in patria, compongono l’esercito meglio attrezzato d’Europa.
Nulla colpì il pubblico vittoriano come i resoconti di Russell sulle cure prestate ai feriti e ai malati. Anche se a ispirare Florence Nightingale furono i servizi da Scutari di Thomas Chenery, il corrispondente del «Times» a Costantinopoli, Russell descrisse le carenze mediche sin dal principio. A sei mesi dall’inizio della spedizione, la situazione era ancora peggiorata:
Mancano gli accessori più comuni di un ospedale; non viene prestata la minima attenzione alla decenza o alla pulizia; il tanfo è spaventoso: l’aria fetida ristagna in permanenza, riuscendo a filtrare fuori a stento solamente attraverso crepe nei muri e sui tetti, e, per tutto quello che posso vedere, questi uomini muoiono senza che si faccia il minimo sforzo per salvarli. Giacciono lì, come se fossero delicatamente abbandonati sul posto [...]. I malati sembrano essere curati dai malati, e i moribondi dai moribondi.
Alcune settimane dopo, Russell riferì gli effetti di questa mancanza di cure, per cui alla fine ben l’80 per cento delle vittime della guerra fu provocato da malattie:
Il 7 gennaio il Sessantatreesimo reggimento ebbe solo sette uomini idonei al servizio. Il Quarantaseiesimo solo trenta [...]. In pochi giorni la durezza della settimana aveva ridotto una forte compagnia del Novantesimo a quattordici file, e quel reggimento, benché considerato in ottima salute, in due settimane vide morire cinquanta uomini. I Fucilieri scozzesi, che all’inizio avevano schierato 1.562 uomini, esibirono in parata solo 210 uomini.
Quale fu la risposta iniziale del governo a queste cronache? Smentite a più non posso, e l’aspra condanna di Russell e del «Times» in Parlamento, dove almeno un membro chiese di ritirare le razioni del corrispondente. Ma grazie alla decisione del direttore del «Times», John Delane, di tenere riservate alcune delle critiche più forti, facendole circolare privatamente tra i membri dell’esecutivo, e grazie all’influenza dei lettori del giornale, sempre più convinti della verità degli articoli di Russell, le smentite ebbero sempre meno effetto. E fu in gran parte merito del «Times» se, nel febbraio 1855, il governo di Lord Aberdeen cadde, divenne primo ministro Palmerston e fu nominata una commissione d’inchiesta sulla guerra. Quattro mesi dopo, questa confermò quasi tutte le conclusioni di Russell e portò direttamente a una serie di riforme, alcune delle quali sarebbero state realizzate a metà del 1856, a guerra ormai vinta. L’altra conseguenza delle cronache di Russell sulla Crimea non è difficile da immaginare: nessun esercito britannico andò mai più al fronte senza disporre di un sistema di censura della stampa.
Il Russell che tornò in patria nell’agosto 1856 era adesso famoso e, inoltre, molto più ricco di quanto si aspettasse. Nel gettare le basi delle corrispondenze di guerra non aveva trascurato di inaugurare una delle tradizioni più futili ma dure a morire: l’incapacità di dar conto, anche solo vagamente, delle spese sostenute. Il «Times» accettò generosamente di dare un colpo di spugna sul passato (stile che non è poi invalso tra i datori di lavoro) e gli accordò una retribuzione di 600 sterline l’anno. Ma Russell ebbe a malapena modo di festeggiare. Dieci giorni dopo il ritorno dalla Crimea era di nuovo in partenza, mandato a seguire l’incoronazione dello zar Alessandro II a Mosca. Da qui si recò a sud, per rivedere la Crimea, poi, di ritorno a Londra, intraprese una serie di conferenze.
Era la fine dell’estate 1857 quando dall’India cominciarono ad arrivare voci di una ribellione e di atrocità contro i coloni britannici, fatti che divennero noti come l’Ammutinamento indiano o la rivolta dei sepoys. Le storie peggiori riguardavano la strage a Cawnpore di centinaia di donne e bambini britannici, a opera di soldati indiani precedentemente al servizio della Corona. Si raccontava che le vittime, radunate nella «casa delle donne», fossero state massacrate senza pietà, ma non prima di aver avuto il tempo di scribacchiare sulle pareti, con il loro stesso sangue, messaggi ai posteri come «Oh! Figlio mio! Figlio mio! Compatrioti, vendetta!». Non un solo giornalista era allora presente sull’intero subcontinente, e così fu mandato Russell. Il quale, ancor prima di arrivare a destinazione, ebbe uno spiacevole assaggio della mentalità coloniale grazie a un compagno di viaggio sulla sua stessa nave:
«Per Giove, Sir», esclama il maggiore [...] in modo confuso e furente, ogni vena della fronte gonfia come uno sverzino, «quei negri sono una maledetta manica di pigri e dissoluti [...] che si potrebbe benissimo pensare di stare addestrando dei maiali».
Russell aggiunse:
Il fatto è che temo che [...] i civilizzatori del mondo [...] siano per natura i più intolleranti al mondo.
La sua missione, tuttavia, era scovare le atrocità, non il razzismo; e nella sua prima corrispondenza appariva una nota di scetticismo:
Ci sono stati riferiti spaventosi massacri di uomini, donne e bambini con un tale condimento di orrori, realizzato da abili maestri in questo genere di cucina, come mai prima d’ora l’immaginazione era stata capace [...]. Io non ne ho mai dubitato, ma volevo delle prove, e nessuna era a portata di mano. Tutte le storie che abbiamo ascoltato provenivano da Calcutta, e la gente di Calcutta era lontana dalle zone dove sono stati perpetrati gli omicidi più perfidi e indiscriminati.
Russell giunse in India alla fine di gennaio, e per metà febbraio aveva percorso le centinaia di miglia fino a Cawnpore, dove trovò le prove dei fatti essenziali, se non delle leggende più orrende. «È abbastanza chiaro», riferì, «che uno dei modi con cui i capi [...] decisero di raggiungere il loro scopo fu la distruzione di ogni uomo, donna o bambino bianco che cadesse nelle loro mani». Tuttavia, aggiunse, fu «un piano che la gentilezza del popolo [...] vanificò in molte occasioni che giova ricordare». Quanto ai messaggi scritti sulle pareti del teatro della carneficina, Russell fu in grado di accertare che non erano su quei muri quando era arrivata la colonna dei soccorsi e che «perciò non fu opera di nessuna delle povere vittime».
La vendetta dei britannici fu incontrollata e, per Russell, esagerata. Il corrispondente parlò di soldati britannici e sikh «ebbri di razzia» mentre mettevano a sacco i palazzi e i templi di Lucknow; di un ufficiale britannico che, a un ragazzo che correva verso di lui chiedendo protezione, puntò la pistola contro la testa facendo quattro furiosi tentativi di sparare prima di riuscirci; e raccontò la sorte toccata a uno degli ammutinati fatti prigionieri:
fu trascinato per i piedi in un posto adatto, dove fu tenuto fermo, punzecchiato sul volto e sul corpo dalle baionette di alcuni dei soldati mentre altri trovavano la legna per una piccola pira, e quando tutto fu pronto – l’uomo fu arrostito vivo! Ad assistere allo spettacolo c’erano degli inglesi, più di un ufficiale vide la scena. Nessuno osò intervenire! L’orrore di questa crudeltà infernale fu aggravato da un tentativo del povero sventurato di scappare quando era semibruciato vivo. Con uno sforzo improvviso balzò via, ma fu [...] rimesso sul fuoco e tenuto lì con le baionette finché i suoi resti non furono consumati.
Sull’occupazione britannica dell’India, Russell scrisse:
Che la forza sia la base del nostro dominio io non ho alcun dubbio; perché non vedo che la forza impiegata nei nostri rapporti con i governati [...] il serio e triste dubbio che abita la mia mente è se l’India stia meglio per il nostro dominio.
La maggior parte delle sue lunghe corrispondenze (e lunghe lo erano per davvero: a quei tempi 2.500 parole volevano dire essere brevi) descriveva gli sforzi dei britannici di riprendere Lucknow, la repressione della rivolta, gli attacchi improvvisi (in uno dei quali Russell, ferito, fu salvato dal rapido intervento del suo domestico) e gli incontri con persone importanti. A Russell piacevano queste conversazioni amichevoli perché, malgrado le sue opinioni avanzate, non poté mai essere descritto come persona contraria al sistema, atteggiamento di cui diede prova l’anno dopo il ritorno dall’India, quando fondò l’organo di stampa degli ufficiali vittoriani, l’«Army and Navy Gazette». Il suo non era certo l’atto di un sovversivo, ma aveva appena cominciato a diffondere la nuova pubblicazione che il «Times» gli chiese di andare negli Stati Uniti, dove le tensioni tra il Nord e il Sud stavano portando il paese sempre più sull’orlo di una guerra civile. Russell arrivò sul suolo americano il 16 marzo 1861 e, dopo pochi giorni, il segretario di Stato Seward lo accompagnò alla Casa Bianca a incontrare il neoeletto presidente:
Con passo strascicato, lento, irregolare, quasi malfermo, entrò un uomo alto, segaligno, asciutto, ben oltre il metro e ottanta, con le spalle ricurve, le lunghe braccia cascanti che terminavano in mani dalle dimensioni straordinarie, che, tuttavia, erano di gran lunga superate in proporzione dai suoi piedi. Indossava un abito nero, deforme e sgualcito, che faceva venire in mente l’uniforme di un impresario di pompe funebri a un funerale [...] e su di questo [...] si ergevano, strani e curiosi, il volto e il capo, coperto dalla sua massa incolta di capelli repubblicani, del presidente Lincoln [...]. Una persona che incontrasse Lincoln per strada non lo prenderebbe per quello [...] che si definisce un «gentiluomo» [...] ma, allo stesso tempo, sarebbe impossibile per l’osservatore più distratto incrociarlo per strada senza notarlo.
[...] Seward mi condusse per mano e disse: «Signor presidente, mi permetta di presentarle il signor Russell, del ‘Times’ di Londra». Al che il signor Lincoln allungò la sua mano in modo molto cordiale e disse: «Signor Russell, sono molto felice di fare la sua conoscenza e di vederla in questo paese. Il ‘Times’ di Londra è una delle più grandi potenze al mondo – in realtà, non conosco nulla che abbia più forza – salvo forse il Mississippi».
I suoi, naturalmente, erano i complimenti di un politico, ma Lincoln nutriva la speranza che, conquistandone il giornalista più famoso, magari ci fosse qualche possibilità di ribaltare il sostegno che l’influente giornale accordava ai secessionisti. Così non fu; e questa circostanza, unita all’onestà di Russell in una terra che allora – come poi nella storia le succederà ripetutamente – dava più valore alla partigianeria che alla verità, avrebbe creato al cronista non pochi problemi.
Il primo atto importante di Russell fu visitare il Sud. Qui assistette a un’asta degli schiavi, rimanendone disgustato, vide Jefferson Davis, capo della Confederazione, e dopo due mesi tornò a New York, decisamente a favore della causa unionista, a differenza del suo giornale. Presto ebbe anche la sua prima azione significativa da raccontare: la battaglia di Bull Run, uno scontro che oggi viene fermamente letto come una disfatta degli unionisti, ma che allora non fu visto in questa ottica da alcuni giornali nordisti. Anche se il «World» e il «Tribune» di New York riferirono entrambi di una caotica ritirata unionista, l’iniziale avanzata federale spinse molti quotidiani a parlare di una grande vittoria. Perciò, quando giunse in città il racconto di Russell sulla fuga del Nord dal campo di battaglia, prima per sommi capi confusi, poi attraverso la ristampa di ampie porzioni delle sue corrispondenze («una codarda ritirata, un miserabile panico immotivato» – anche se Russell consigliava ai lettori di non dar troppo peso alla sconfitta), lui, il rappresentante di un giornale straniero che appoggiava la secessione, venne diffamato. Scrisse il «Chicago Tribune»: «non un solo episodio che lui dice essere avvenuto in quella zona ha in realtà un qualche fondamento». La rivista «Knickerbocker» scrisse che Russell aveva di fatto guidato la ritirata, e il «New York Herald» si schierò sulla stessa linea. Malgrado il «New York Times» e il generale Sherman avessero avallato la sua versione dei fatti, Russell venne ostracizzato, fatto oggetto di minacce di morte, insultato e spintonato per strada. Si rifugiò nell’ambasciata britannica, per un po’ cercò di stare in Illinois tenendo un basso profilo (ma fu arrestato e denunciato per essere andato a caccia in un giorno di festa), quindi si recò in Canada. Ma non ci fu niente da fare: sette mesi dopo Bull Run, l’«Herald» ancora lo descriveva come «l’uomo, moralmente e mentalmente, più piccino al mondo», e una settimana dopo aggiungeva: «probabilmente gli sparerebbero o l’impiccherebbero se lo trovassero che se ne va in giro per i nostri campi». Il 22 marzo il giornale affermò addirittura che Russell avesse usato informazioni confidenziali dell’ambasciata britannica per fare delle congetture durante l’affare Trent. Cinque generali gli negarono un lasciapassare per il fronte, e alla fine, temendo che, se anche fosse riuscito a ottenerlo, gli avrebbero sparato alle spalle, decise di rinunciare alla missione. Anche la cattiva salute della moglie giocò un suo ruolo (la donna sarebbe morta cinque anni dopo); così, malgrado gli inviti di Londra a restare, nell’aprile 1862 Russell si imbarcò alla volta dell’Inghilterra.
Questo triste episodio segnò l’apice della sua carriera di cronista. Nel 1870, all’epoca della guerra franco-prussiana e della Comune di Parigi, Russell dimostrava già tutti i suoi anni. Una nuova razza di giovani corrispondenti, come Archibald Forbes del «Daily News», era capace di impiegare al meglio il telegrafo e di inviare testi concisi e di grande impatto dal primo ufficio del telegrafo che riusciva a raggiungere. Russell, invece, preferiva i suoi comodi resoconti vergati a mano e spediti per posta. Era ancora capace di scrivere corrispondenze accurate e suggestive (per esempio, ricordò ai suoi compiaciuti lettori che gli egiziani avevano diritto al loro nazionalismo), ma non poteva più competere come cronista di attualità; così, nel giro di pochi anni, smise di fare il giornalista a tempo pieno. Si candidò al Parlamento, sposò una contessa, scrisse recensioni di libri e pezzi di colore per il «Times» (intorno ai sessant’anni visitò l’Ovest americano) e continuò a dirigere l’«Army and Navy Gazette». Nel 1895 fu nominato cavaliere per i servizi resi all’esercito. Morì dodici anni dopo, un mese prima di compiere 87 anni.
Oggi Russell sembra una figura di tempi lontanissimi, ma, come cronista che ha raccontato verità scomode e messo in dubbio adorati pregiudizi, ha avuto pochi pari. Le sue cronache dalla Crimea, dall’India e dagli Stati Uniti stanno a ricordarci che il giornalismo che davvero si fa sentire non è soltanto un atto di ricerca, di precisione e freddezza, ma soprattutto di coraggio morale.
Negli anni Quaranta viveva nel New Jersey una ragazzina che amava le storie. Non le storie di principesse, pony e fate, ma le storie dei giornali, quelle sul tipo di gente che non fa una fine molto felice. Gente come George Metesky «il Bombarolo Folle», il gangster «Lucky» Luciano e Willie Sutton «l’Attore», un rapinatore di banche armato di molto stile ma di nessuna coscienza. Furono questi, come avrebbe scritto in seguito, i principi delle tenebre della sua infanzia; e meno male che nelle loro storie trovò un po’ di poesia e di avventura, perché di queste, nella sua giovane esistenza, non ne conobbe granché. Il padre se n’era andato quando aveva sette anni, costringendo lei e la madre a tirare avanti alla bell’e meglio; lei aveva un aspetto goffo, troppo alta per la sua età e costretta a indossare indumenti smessi. Né era brava con le addizioni. «Non sarai mai buona a nulla», le disse una volta un’insegnante elementare di matematica davanti all’intera classe. «Nemmeno come donna di casa». La classe scoppiò a ridere e la ragazzina non poté far altro che restare seduta, magari a riflettere su che cosa avrebbe fatto all’insegnante il Bombarolo Folle se solo avesse saputo come era stata umiliata la sua giovane ammiratrice.
Per fortuna ci fu un’altra insegnante. Si chiamava Edna Mae Tunis e insegnò inglese alla ragazza che amava le storie. E un giorno, all’età di 11 anni, la ragazza scrisse una storia sua. Alla signora Tunis piacque tanto che la chiamò e le fece promettere davanti all’intera classe che un giorno le avrebbe dedicato un libro. Beh, la ragazza crebbe e d’un tratto fu come se davvero la vita desse ragione, tra le due maestre, all’insegnante di matematica. La ragazza fu presto nei guai, finendo in prima pagina sul quotidiano della sua città, Paterson, nel New Jersey, per aver investito un vecchio con l’automobile. Accumulava uno dietro l’altro lavori senza prospettive e, man mano che il tempo passava, come da pronostico, si rivelava buona proprio a nulla. A vent’anni, però, fece un viaggio a Miami e qui scoprì un’intera città di principi delle tenebre. E questi, ecco, avrebbero ispirato le sue storie da raccontare; perché la ragazza allampanata, rimproverata davanti a tutta la classe di non promettere nulla di buono, sarebbe diventata, attraverso una serie di incredibili avventure, prima giornalista e, poi, quello che probabilmente si può definire il miglior cronista di nera di tutti i tempi.
La firma di Edna Buchanan in calce a un articolo del «Miami Herald», specie in prima pagina sulla più curata edizione della domenica, era un segnale per i lettori: potevano riempirsi una tazza di caffè, sedersi in poltrona ed entrare in un mondo in cui la gelosia, la libidine e l’avidità, o tutte e tre queste componenti messe insieme, ti trascinavano invariabilmente in una scia di eventi e di cadaveri. Per i lettori della Florida in cerca di emozioni forti, la Buchanan sapeva garantire piaceri inimitabili, da leccarsi le dita, prefigurati già nell’attacco: «Brutte cose capitano ai mariti della vedova Elkin», apriva così un articolo del 1985; «Uno scolaro dodicenne che aveva tutto ha giustiziato il fratello di nove anni, poi ha teso un agguato e sparato alla madre famosa, uccidendola» (1983); «L’hanno chiamata Operazione Neve Bianca perché la droga era cocaina e tra i sospetti c’erano sette agenti della polizia di Miami» (1982); «Angel Aguada vide una sconosciuta dall’altra parte di una stanza affollata. I loro occhi s’incrociarono. L’attimo fu rovinato allorché il marito della donna sparò tre colpi contro Aguada» (1985); «La donna aveva al polso un Rolex d’oro, tempestato di diamanti, e in testa una pallottola» (1984). Particolarmente famoso, nel marzo 1985, fu il pezzo sull’ex detenuto ucciso da una guardia prima che potesse ordinare da mangiare in un infimo locale: «Gary Robinson è morto affamato».
Non tutti i suoi articoli avevano l’incipit di un romanzo, ma parecchi sì, per convincere i lettori di essere in compagnia di una cronista armata non tanto di senso della notizia quanto di un occhio famelico per un intreccio foriero di sviluppi interessanti. E a Miami, negli anni Settanta e Ottanta, non mancava certo la materia prima. C’era la donna che aveva pianificato il proprio omicidio, assoldato un sicario e disseminato gli indizi per incastrare due giovani che erano in lite con suo figlio; la vittima di uno stupro che, correndo angosciata per strada, si era imbattuta nella vittima di un altro stupro che correva nella direzione opposta; l’uomo che aveva svuotato in casa una bombola di gas propano da duecento litri, aspettato il ritorno della moglie, acceso un fiammifero e fatto saltare in aria la casa, la moglie e se stesso; l’uomo di 72 anni che era scappato di casa perché la madre di 103 anni non voleva comprargli un’auto; l’uomo che aveva ucciso il vicino per una questione di siepi; l’uomo ucciso da una pallottola sparata undici anni prima; la madre che aveva accusato il figlio di due anni dell’uccisione del compagno di giochi; l’uomo nudo che aveva lanciato ai poliziotti la testa mozzata della compagna; il liceale che leggeva la Bibbia e aveva preso sua nonna per il diavolo e l’aveva uccisa; e Jacinto Roas, che aveva ucciso un uomo per poi scoprire che una porta blindata si era chiusa, intrappolandolo insieme al cadavere.
La Buchanan vide per la prima volta la cornice ideale di tutte queste storie da semplice turista, nell’estate del 1961. Un luogo «tutto rosa, radioso e inondato di sole», come lo definì, e per la giovane donna fu amore a prima vista. L’architettura in stile torta nuziale e il clima mite non sarebbero potuti essere più diversi dalla fredda e ordinaria città natale nel New Jersey. Aveva abbandonato la scuola superiore a sedici anni e lavorato al banco delle calze da Woolworth’s, poi un altro negozio, uno studio fotografico, una casa di vendite per corrispondenza, lavanderie a secco, la catena di montaggio alla Western Electric e, infine, un lavoro da impiegata di basso livello nella stessa fabbrica. Per una che sognava di scrivere, era un’esistenza monotona e statica, ravvivata solo per brevi periodi, nel modo più improbabile, quando una collega di lavoro le disse di voler studiare da modista in una scuola serale. Indossare cappellini, e tanto più disegnarne e realizzarne, non le interessava molto, ma, alla notizia che c’era anche un corso di scrittura creativa, la Buchanan decise di iscriversi. Edna ascoltò, scrisse i suoi racconti e uno fu elogiato dall’insegnante davanti alla classe. Il corso finì e riprese la vita di sempre, ma quello fu, da donna ormai adulta, il primo segnale che qualcosa di buono poteva pur farlo.
A Miami, soggiornando in un albergo affacciato sull’oceano, la Buchanan decise la sua vita: era destinata al grigiore ma, quantomeno, poteva viverla in un clima caldo. Tornata a Paterson solo per accomiatarsene per sempre, si affrettò con la madre a trasferirsi a Miami. Qui, dopo un po’ di tempo, prese a seguire un altro corso di scrittura, e questa volta ci fu un seguito. Tra i docenti, c’era un redattore di un piccolo quotidiano, il «Miami Beach Daily Sun», il quale, colpito dalla sua scrittura, dalla sua tenacia o dal suo essere bionda, le suggerì di fare domanda per il posto vacante di cronista delle pagine dedicate agli eventi di società. Seguì quel consiglio, riscrisse il comunicato stampa di un evento sociale organizzato da una chiesa e lo trasformò in un testo passabile guadagnandosi così l’assunzione. Il giornale pronto ad assumere come cronista un’ex impiegata della Western Electric priva di qualifiche non doveva essere il massimo, e il «Sun» sicuramente non lo era. Aveva una tiratura di appena diecimila copie, pagava al di sotto di ogni minimo sindacale e considerava lo straordinario come qualcosa che toccava solo gli eventi sportivi. Né c’era la minima idea di specializzazione al «Sun». Scrivevi il pezzo, lo rivedevi, impaginavi, facevi i titoli e, se necessario, davi consigli sulle corse dei levrieri e scrivevi pure le lettere al direttore. Insomma, per chi come la Buchanan non sapeva niente ma era disposto a lavorare da matti, era perfetto.
Il suo primo capo fu Muade Massengale, una specie di Louella Parsons con una coscienza, una tipa che, come responsabile delle pagine di società, curava i servizi su pranzi, balli di beneficenza, serate di gala, cene e ricevimenti. L’atmosfera era quella di un ambiente in cui le donne di mondo passavano in redazione e invitavano Maude a una cena, dicendole: «Ma vieni come amica. E lascia stare il taccuino. Ti vogliamo con noi perché ci piaci». E se Maude diceva di avere già un impegno, mogia mogia l’organizzatrice della festa replicava: «Potresti almeno mandare un fotografo?». Spesso seguiva il consiglio, e fu per questo che, anni dopo, i più astuti ladri di gioielli della città raccontarono alla Buchanan che tenevano d’occhio la rubrica di Maude e le foto che la corredavano così come chi deve fare un regalo consulta i cataloghi dei negozi.
A metà degli anni Sessanta, la Buchanan passò al giornalismo più in generale: dalla politica alla cronaca nera, dalle interviste alle recensioni cinematografiche. Per otto mesi fu lei l’intero organico del giornale. Ecco come racconta quei giorni:
Una volta, all’una di notte, il mio direttore Ted Crail, uomo gentile ma smanioso, si affacciò alla mia scrivania con l’aria di chi ha un disperato bisogno di qualcosa. Voleva quello che vogliono tutti. Più testi. Più notizie. Più articoli. Aveva ancora dello spazio da riempire. Io lavoravo dalle sette di mattina. Avevo saltato la cena in tronco. Alle sette dovevo essere di nuovo lì. «Non ce la faccio, non ce la faccio», gemetti. Esausta, mi lasciai cadere sulla mia malandata vecchia Remington e cominciai a piangere. Lui non si mosse. «Un altro articolo», implorò, «un altro articolo». I pugni cicciotti serrati, le ginocchia piegate, mi incitava come fossi un pugile suonato alle corde. «Un altro articolo, un altro articolo». Esausta mi ritirai su, scartabellai intontita il mio taccuino – e trovai un altro articolo.
Il suo entusiasmo, tuttavia, non venne mai meno. Nel 1986 Calvin Trillin stava svolgendo ricerche per scrivere un profilo della Buchanan per il «New Yorker». Una donna che un tempo aveva lavorato al «Sun» gli raccontò del giorno in cui sulla spiaggia era affiorato un cadavere: «Io avevo una macchina fotografica [...]. Il caporedattore mi disse: ‘Vai a fare una foto del cadavere’. Io gli risposi: ‘Non fotografo nessun cadavere portato sulla spiaggia!’. Poi sentii una voce, dall’altra parte della stanza, che diceva: ‘Ci vado io, ci vado io’. Era Edna».
Sul finire degli anni Sessanta, la Buchanan era sempre più matura per il passaggio a un giornale dove il compito di riempire i buchi nelle pagine di cronaca non ricadesse tutto su di lei. Già in precedenza aveva sondato il terreno sulla possibilità di passare al «Miami Herald», poi nel 1970 scrisse al direttore George Beebe:
Gentile signor Beebe,
cinque anni fa telefonai all’«Herald» per sapere come chiedere un posto di cronista. Mi fu detto di lasciar perdere, a meno che non avessi una laurea in giornalismo o cinque anni di esperienza in un quotidiano. Al 14 agosto 1970, ho cinque anni di esperienza al «Miami Beach Daily Sun». Che ne dice?
Edna Buchanan
Per settimane non le fecero sapere niente, tranne che la decisione spettava al capocronista, Steve Rogers. Allora gli scrisse:
Gentile signor Rogers,
i necrologi?
Edna Buchanan
Il giorno dopo Rogers le telefonò per sapere quando poteva cominciare.
L’«Herald», dove entrò alla fine dell’estate 1970, aveva una redazione, al quinto piano di un palazzo, che le sembrava grande quanto la Carnegie Hall. La Buchanan, tuttavia, portò con sé le abitudini acquisite in un giornale da due soldi, sfornando un articolo dopo l’altro, così tanti che alcuni dei nuovi colleghi la videro come una minaccia per i loro livelli di produttività, molto meno spinti. Gradualmente la donna-redazione imparò a prendersela con più calma. Un primo successo fu costituito da un articolo scritto su un vecchio principe delle tenebre della sua infanzia: Willie Sutton «l’Attore», che negli anni Quaranta era ricorso a ogni sorta di travestimento, dal lavavetri al fattorino del fioraio, per svaligiare le banche. Sbattuto in prigione nel 1952 per un minimo di trent’anni, nel Natale 1969 l’ex disinvolto parrucchiere era stato rilasciato per motivi di salute ed era uscito dal carcere su una sedia a rotelle, con i capelli bianchi e, a quel che si diceva, devastato da un enfisema. Giunse voce che vivesse con la figlia a Sarasota, e la Buchanan apprese da un cronista televisivo chiacchierone che Sutton aveva accettato di farsi riprendere per un’intervista in un albergo del posto. Fu qui che le tornarono utili le vecchie letture. Ricordandosi che in genere Sutton era piuttosto mattiniero, la Buchanan si appostò di buonora davanti all’albergo e, com’era prevedibile, alla prima automobile che si fermò scese fuori un Willie Sutton in giacca scozzese, con l’aria di chi aveva avuto una guarigione miracolosa. L’uomo si lasciò accompagnare dalla cronista al caffè e qui raccontò tutto, compresi i progetti di realizzare pubblicità televisive per alcune società di carte di credito. La Buchanan scrisse il pezzo su una vecchia macchina da scrivere dietro il bancone dell’albergo, lo dettò al telefono, e l’articolo fu nelle edicole molto prima che l’emittente tv trasmettesse la sua intervista «esclusiva».
La cronista si stava gradualmente costruendo una reputazione in fatto di qualità e tenacia. Se ne rese conto solo il giorno in cui un reporter, entrando a passo lento nella redazione dell’«Herald», disse di aver appena visto una Volkswagen in fiamme sull’autostrada e domandò, con noncuranza, se qualcuno poteva telefonare per sapere se c’era qualche vittima. Il direttore esplose e, nella tirata che ne seguì, fu sentito esclamare che se Edna Buchanan avesse assistito allo spettacolo dell’auto in fiamme, «ora sarebbe a quel telefono, in collegamento con la Germania, a parlare con l’operaio della catena di montaggio che l’ha assemblata!». Al secondo anno al giornale, cominciò a seguire le udienze in tribunale, intervistando, tra gli altri, una satanista lesbica che aveva ucciso con 57 coltellate il vecchio facoltoso che la manteneva.
Incarichi di questo tipo fecero capire alla Buchanan che il giornale, privo com’era di un cronista di nera a tempo pieno, di queste storie coglieva solo le conclusioni sul piano legale, ma non il loro inizio, spesso quanto mai intrigante. Fu così che, nel 1973, suggerì alla redazione della cronaca locale di attribuire a qualcuno l’incarico di telefonare ogni giorno alle stazioni di polizia, di controllare le denunce, di passare all’obitorio e scoprire gli ultimi arrivi. «Sembra una buona idea», disse il capocronista Steve Rogers, quasi senza alzare lo sguardo, «perché non te ne occupi tu?». La Buchanan divenne così la cronista di nera di una città che, entro pochi anni, sarebbe assurta a teatro di un festival continuo, ventiquattr’ore su ventiquattro, di gravi reati.
Il suo primo caso di omicidio fu quello di Edward Beecher, un venditore di libri religiosi in pensione, le cui vacanze, lontano dal New Jersey, erano state interrotte in modo brutale e fatale quando era stato picchiato a morte sul marciapiede, dopo aver parcheggiato l’auto. Gli omicidi sarebbero stati molti e molto più insensati di questo. Qualche esempio: i rastafariani che guidavano a 100 all’ora quando uno di quelli sul sedile posteriore pensò bene di sparare in testa all’autista; l’uomo ucciso mentre andava a consultare una chiaroveggente sul suo futuro; il padre che sparò e uccise la figlia per una bolletta telefonica; lo sposo in luna di miele che, quando la moglie si era addormentata, sgusciò fuori per andare con una prostituta, ma fu derubato e colpito a morte da una pallottola; il bambino di cinque anni che fece cadere deliberatamente dal quinto piano il compagno di giochi di tre anni, uccidendolo; la ragazza che si era «sentita usata» dal ragazzo con il quale usciva e allora lo colpì a morte con i manubri con cui lui si teneva in forma; e l’uccisione a colpi di arma da fuoco di innumerevoli spettatori innocenti, spacciatori di droga rivali, vittime di rapine e coniugi di troppo.
La città adottiva di Edna avrebbe vantato nuovi principi delle tenebre, alcuni dei quali davvero molto tenebrosi. Il peggiore fu Robert Carr, uno psicopatico dai capelli arruffati e il volto lentigginoso che, con l’aiuto di un’auto manomessa in modo che lo sportello del passeggero non si aprisse dall’interno, rapì, stuprò e torturò quindici vittime, quattro delle quali (tre bambini e una madre con tre figli) furono anche uccise. Di lui la Buchanan scrisse che era «la creatura più malvagia che abbia mai incontrato», un giudizio che pesa come un macigno, visto che a rilasciarlo fu la cronista che aveva trascorso 120 ore nella cella di Carr a intervistarlo sia per il giornale sia per il suo primo libro, Carr: Five Years of Rape and Murder, pubblicato nel 1979.
Nel 1981 il numero di omicidi della contea di Dade, che solo quattro anni prima era di 211, era salito a 621. La ragazzina che non sapeva contare adesso sicuramente doveva averlo imparato. «Questa settimana il tasso di omicidi di Dade ha raggiunto nuovi picchi», attaccava la Buchanan in un articolo del giugno 1980, «quando nel giro di cinque giorni un’ondata di episodi violenti non collegati ha fatto 14 morti e cinque feriti gravi». Da lì a un anno la situazione precipitò, fino al punto in cui, come la cronista riferì in un articolo che fece il giro del mondo, l’obitorio della contea di Dade era così stipato di cadaveri che, per far fronte all’emergenza, i funzionari dovettero affittare un camion frigorifero di Burger King. Anche quando la baraonda toccò l’apice, subito dopo gli sbarchi di clandestini da Cuba, la Buchanan era decisa a prendere nota di ogni omicidio. Nel 2003, in un’intervista a Teresa Weaver dell’«Atlanta Journal Constitution», raccontò: «I miei direttori dicevano: ‘Segui solo il caso di omicidio più importante del giorno’. Ma come facevo a scegliere l’omicidio più importante del giorno? Io ero convinta che tutte queste persone dovessero essere riportate sul giornale: per iscritto, impresse nella nostra coscienza per sempre». Questo significava discutere con i direttori (le sue tre regole del giornalismo sono: «Mai fidarsi di un direttore, mai fidarsi di un direttore, mai fidarsi di un direttore») e, di conseguenza, infilare in ogni articolo sei, sette o più omicidi, ma lei ci riusciva. E significava anche telefonare a centinaia e centinaia di parenti, compito che non amava ma che tuttavia assolveva, spesso con la sensazione di dare alla famiglia la possibilità di considerare la vita del loro caro come una vita degna di un racconto, al pari di una morte importante. La sua tecnica, imitata da allora da una generazione di giovani cronisti, era semplice. Telefonava e, se qualcuno le sbatteva in faccia il telefono o la rimbrottava, aspettava una sessantina di secondi e poi richiamava dicendo: «Credo che sia caduta la linea». L’intervallo di tempo aveva permesso alla persona di ripensarci o fatto sì che al telefono rispondesse qualche altro parente, più disposto a parlare.
Molti degli omicidi erano collegati alla droga, argomento che serpeggia nei suoi ritagli come un torrente avvelenato. La prima volta che la Buchanan si recò a Miami, la droga significava qualche sigaretta un po’ strana. Lentamente, però, si diffusero altre sostanze, si cominciarono a fare soldi a palate e, presto, le rivalità commerciali furono risolte con qualcosa di più che un vibrato scambio di lettere.
All’inizio degli anni Settanta, i servizi sulla criminalità la portarono ad assistere alla sua prima operazione antidroga. Era quel giorno in una sala da biliardo di Opa-Locka, piccola area nel Nord-ovest della contea di Dade, ma, prima che lei partisse, il caporedattore della sera aveva predisposto che un giovane tirocinante, di nome Herb, monitorasse le frequenze radio della polizia e riferisse alla redazione se stava succedendo qualcosa di imprevisto. Così, mentre la Buchanan era appostata con gli agenti tra i cespugli fuori della sala, in ufficio Herb ascoltava la radio della polizia. E non sentiva niente. Nel timore che si fosse perso qualcosa, telefonò alla polizia per controllare se l’operazione c’era stata. «Quale operazione?», fu la comprensibile risposta. Allora Herb, ansioso di non lasciarsi sfuggire niente, telefonò alla sala da biliardo: «La polizia non è ancora arrivata?», domandò. All’altro capo della linea riattaccarono immediatamente, e presto la Buchanan e i suoi amici in divisa videro, da dietro i cesp