Ringraziamenti
A rischio di sembrarvi uno di quei noiosi che vanno a ritirare gli Oscar, devo dire
che c’è una lunga lista di persone i cui consigli e il cui spirito animano questo
libro. Partirò dal compianto Geoff Collard, con il quale ho lavorato nel mio primo
giornale e dal quale ho appreso che un giornalismo privo di senso dell’onore non è
degno di tale nome, e dalla capocronista Cathryn Sansom, le cui minacciose lezioni
sulla professionalità all’epoca mi sembravano una maledizione, ma poi si sono dimostrate
una grande benedizione. All’«Observer», Peter Corrigan (con la sua attenta supervisione)
e giornalisti come Peter Dobereiner, Hugh McIlvanney e lo scomparso Lawrence Marks
(con il suo esempio) mi hanno insegnato che cosa significa scrivere in modo chiaro
e preciso. In quello stesso giornale, Paul Routledge e John Merritt mi hanno tenuto
un corso permanente su come dovrebbe pensare e respirare il bravo cronista. Durante
i nostri giri di conferenze in Russia, John Shirley mi ha insegnato molto su «come
tenere sotto controllo il materiale». E all’«Independent», dove ho festeggiato trent’anni
di giornalismo, ho imparato ancora una volta che non si finisce mai di imparare. In
particolare, il commento quotidiano di Simon Ritter sui contenuti del giorno ha affinato
la mia capacità di individuare le sciocchezze che scriviamo, e lavorare con Michael
Williams è stato quasi come seguire un master privato su come trattare le notizie,
mentre Keith Howitt mi ha ricordato costantemente che la qualità del giornalismo comincia
e finisce con l’attenzione per i dettagli.
Non passa giorno senza che io metta a confronto mentalmente una possibile introduzione,
un titolo o un commento con i princìpi stabiliti da queste persone.
Infine devo ringraziare il direttore di «Internazionale», Giovanni De Mauro, per avermi
permesso di riportare alcuni brani della rubrica sul giornalismo che scrivo per la
sua rivista. E un ringraziamento va anche a mio figlio Simon, che durante la correzione
delle bozze ha individuato diversi errori che mi erano sfuggiti.
Prefazione
Questo libro contiene tutto quello che ho imparato e tutti i consigli migliori che
ho raccolto in trent’anni di giornalismo. Alcune cose mi sono arrivate direttamente
e senza che gliele chiedessi dai vecchi saggi, altre le ho apprese osservando come
lavorano i cronisti di classe, altre ancora cercando di indovinare che cosa passava
loro per la mente, alcune dai libri, altre dai siti web e molte commettendo errori
e imparando a mie spese qual era il modo migliore e più creativo di fare questo lavoro.
Ma qualunque sia la loro origine, le lezioni contenute in questo volume mi hanno salvato
la pelle in diverse occasioni e in altri casi mi hanno permesso di ottenere posti
di lavoro meravigliosi.
Il libro si intitola Il giornalista quasi perfetto per rispondere a chi pensa che ogni tipo di pubblicazione produca una forma di giornalismo
diversa, invariabilmente considerata superiore alle altre da chi la pratica. Scrivendo
e leggendo un numero sufficiente di articoli, ci si rende conto che in realtà esistono
solo due tipi di giornalismo: quello buono e quello cattivo.
Il giornalismo cattivo è praticato da coloro che si affrettano a esprimere giudizi
invece di scoprire le cose, che si preoccupano più di se stessi che del lettore, che
scrivono tra le righe invece che dentro le righe, che scrivono e pensano in termini
di formule, stereotipi e cliché, che considerano l’accuratezza un extra e l’esagerazione
uno strumento; e che preferiscono la vaghezza alla precisione, il commento all’informazione
e il cinismo agli ideali.
Il buon giornalismo è intelligente, divertente, affidabile dal punto di vista delle
informazioni, correttamente inserito nel contesto, onesto nelle intenzioni e negli
effetti, usa un linguaggio originale e non serve altra causa se non quella della verità.
Qualunque sia il pubblico. Qualunque sia la cultura. Qualunque sia la lingua. In qualunque
circostanza. Questo tipo di giornalismo potrebbe essere pubblicato ovunque, perché
è universale in tutti i sensi della parola: quasi perfetto. E questo libro si ripromette
di dirvi come arrivare a produrlo.
Il secondo motivo per cui ho scelto questo titolo è che oggi, in un mondo nel quale
sia il numero dei mezzi di comunicazione sia la quantità delle informazioni che ci
bombardano continuano a moltiplicarsi, chiunque aspiri a essere un buon giornalista
ha bisogno di acquisire tutta una gamma di nuove competenze. La facilità di parola
non è più sufficiente. Bisogna saper intervistare con perspicacia e scetticismo, lavorare
con le statistiche, capire come funzionano i media online, saper usare internet come
strumento di ricerca, saper valutare fonti d’informazione sempre più sofisticate e
riconoscere chi le manipola, ed essere in grado di produrre un giornalismo più informativo,
originale e affidabile di quello dei sempre più numerosi concorrenti.
Se vi sembra un compito troppo arduo, è perché lo è veramente. Lo scopo di questo
libro è descrivere le nuove tecniche che, aggiunte a quelle tradizionali, contribuiscono
a fare il giornalista quasi perfetto.
I. Come si riconosce un buon giornalista?
Le uniche qualità per avere successo nel giornalismo sono un’astuzia da roditore,
modi accettabili e un po’ di abilità letteraria.
Nicholas Tomalin
Gli eroi del giornalismo sono i cronisti. Quello che fanno è scoprire le cose. Arrivano
per primi, nel caos del presente, battendo alle porte chiuse, a volte correndo dei
rischi, e catturano l’inizio della verità. Se non lo fanno loro, chi dovrebbe farlo?
I direttori? I commentatori? C’è una sola alternativa ai cronisti: accettare la versione
ufficiale, quella che i poteri economici, i burocrati e i politici scelgono di darci.
Dopotutto, senza i cronisti, che cosa saprebbero i commentatori?
I cronisti, come quasi tutti gli eroi, sono imperfetti. Come categoria, hanno una
reputazione peggiore di molte altre: una buona parte di loro ha l’abitudine di esagerare,
semplificare e distorcere la verità per costruire una specie di favola con disonestà
calcolata. Non per nulla, sceneggiatori e drammaturghi in cerca di un cattivo da disapprovare
di solito optano per il cronista di un giornale scandalistico. Risparmiano tempo.
Non devono sprecare pagine e pagine a dimostrare che manca di morale, basta semplicemente
dire che lavoro fa perché il pubblico capisca subito che quel personaggio è pronto
ad adulare e ingannare. Poi ci sono i pigri – quelli che preferiscono la pappa pronta
e le semplificazioni, piuttosto che il duro, faticoso e spesso rischioso lavoro di
avvicinarsi il più possibile alla verità. La storia del giornalismo è sicuramente
lastricata di malafede calcolata e lavoro scadente.
Ma c’è anche tanto di eroico, e assai più di quanto i critici dei mezzi di informazione
e le scuole di giornalismo vogliono far credere ai neofiti. C’è la denuncia di John
Tyas sul «Times» delle atrocità commesse dagli inglesi contro i manifestanti di Manchester
nel 1819; ci sono i racconti di William Howard Russell dei pasticci combinati dall’esercito
britannico in Crimea; le cronache di William Leng per lo «Sheffield Telegraph» sulla
corruzione e la violenza della città (aveva ricevuto così tante minacce che teneva
un revolver carico sulla scrivania e la polizia lo scortava fino a casa ogni sera);
c’è Emily Crawford, che rischiò giorno dopo giorno la vita per raccontare la Comune
di Parigi del 1871 sul «Daily News» e ne informò per prima tutto il mondo alla successiva
conferenza di Versailles; c’è Nellie Bly, che si finse malata di mente per entrare
in un manicomio: vi scoprì orrori e crudeltà e li descrisse in una serie di articoli
sul «New York World» che aiutarono a migliorare le condizioni degli internati; ci
sono i reportage di W.T. Stead della «Pall Mall Gazette» sulla prostituzione infantile;
e gli articoli di Ida Tarbell sul «McClure’s Magazine» che documentarono i casi di
corruzione e intimidazione della Standard Oil Company nel 1902-1904, preparando la
strada alla chiusura dell’azienda.
Ci sono poi Emilie Marshall, che abbatté diversi steccati maschilisti diventando la
prima giornalista accreditata alla Camera dei Comuni e la prima redattrice sia al
«Daily Mail» sia al «Daily Express»; le cronache della rivoluzione russa di John Reed;
le rivelazioni di Roland Thomas del «New York World» sulle violenze razziste del Ku
Klux Klan; la rivelazione da parte del giornalista freelance George Seldes dei rapporti
tra fumo e cancro al polmone – dieci anni prima che la stampa tradizionale ne parlasse.
I reportage di Il’ja Erenburg sulla «Krasnaja Zvezda», in cui per primo descrisse
i campi di sterminio nazisti; quelli di John Hersey e Wilfred Burchett da Hiroshima,
che smentirono le menzogne ufficiali secondo cui non si erano verificati casi di malattia
da radiazioni; la coraggiosa opposizione dell’«Observer» e del «Manchester Guardian»
all’invasione di Suez nel 1956; la battaglia – e la vittoria – di Alice Dunnigan contro
il pregiudizio razziale per lavorare come cronista a Washington negli anni Cinquanta;
l’incessante ricerca di violazioni alla massima sicurezza, lanciata dall’intera stampa
britannica nei primi anni Sessanta; la scoperta da parte di Seymour Hersh, all’epoca
un giovane freelance, degli orrori del massacro di My Lai nel 1968; la campagna del
«Sunday Times» sulle vittime del talidomide, i bambini nati senza arti; l’indagine
sul caso Watergate di Carl Bernstein e Bob Woodward per il «Washington Post», con
la quale dimostrarono che il presidente degli Stati Uniti era bugiardo e corrotto;
gli articoli di Randy Shilts per il «San Francisco Chronicle» sull’emergenza Aids
che costrinsero le autorità sanitarie a rendersi conto del problema; e il rifiuto
dell’inviato dell’«Independent» Robert Fisk di accettare la linea della Nato (o di
chiunque altro) sulla guerra del Kosovo nel 1999 e sui conflitti ancora in corso in
Medio Oriente.
Ci sono anche quelli i cui nomi vengono letti di sfuggita e di rado ricordati; quelli
i cui sforzi per informare i lettori si scontrano non con ostacoli ufficiali o risposte
evasive, ma con l’intimidazione. O peggio. Ogni anno, migliaia di giornalisti vengono
arrestati e minacciati, centinaia vengono imprigionati, e molti uccisi. Nella sua
forma più estrema, può diventare quella che la giornalista peruviana Sonia Goldenburg
ha chiamato «censura della morte». Nel 1994, ben 103 giornalisti sono morti per essersi
avvicinati troppo alla verità. Alla fine del ventesimo secolo il numero delle vittime
si era ridotto per poi risalire nel 2005, con 63 giornalisti e cinque collaboratori
uccisi, 807 arrestati e 1308 aggrediti o minacciati. Ognuno di loro è la risposta
definitiva a chi, dentro e fuori la categoria, pensa che il giornalismo sia un segmento
del marketing che riorganizza le banalità e le trasforma in esagerazioni. Dopotutto,
nessuno si prenderebbe il disturbo di ostacolare, imprigionare o assassinare qualcuno
soltanto per questo.
Ci sono infine le decine di migliaia di altri giornalisti, spesso locali, il cui compito
non è niente di più affascinante o eroico che scoprire la versione più esauriente
di quanto è accaduto dalle loro parti e raccontarlo. Non si aspettano ricchezza o
gloria, non c’è motivo perché debbano averle. Ma sono comunque un antidoto, sociale
e professionale, contro quelli che hanno venduto la loro credibilità per uno stipendio
più alto o una vita più facile.
E tutti questi bravi cronisti hanno qualcosa in comune. Anche se sanno nasconderlo
bene sotto la maschera del duro, obbligatoria per la loro professione, che siano immortali,
perseguitati o misconosciuti, condividono tutti la stessa convinzione sulla natura
del loro lavoro. Bisogna soprattutto fare domande, e in questa maniera riuscire a:
– scoprire e pubblicare informazioni che vadano a sostituire voci e illazioni;
– resistere ai controlli governativi o eluderli;
– informare l’elettore dandogli così maggior potere;
– rovesciare coloro la cui autorità dipende dalla mancanza di informazione del pubblico;
– analizzare quello che fanno e non fanno i governi, i rappresentanti eletti e i servizi
pubblici;
– analizzare l’attività imprenditoriale, il trattamento che riserva a lavoratori e
consumatori e la qualità dei prodotti;
– confortare gli afflitti e affliggere chi vive nel comfort, dando voce a quelli che
di solito non possono far sentire la loro;
– mettere la società davanti a uno specchio, che rifletta le sue virtù e i suoi vizi,
ma sfati anche i suoi miti più cari;
– assicurarsi che giustizia sia fatta, che lo si sappia in giro e che in caso contrario
si indaghi;
– promuovere il libero scambio di idee, dando soprattutto spazio a coloro la cui filosofia
è diversa da quelle dominanti.
Se riuscite a leggere questa lista senza sentire un brivido lungo la schiena, forse
il giornalismo non fa per voi.
Qualità
Raggiungere regolarmente gli obiettivi che abbiamo elencato è difficile. Con la capacità
di scrivere, che molti fuori dal mondo del giornalismo ritengono sia una qualità fondamentale
per un cronista, non si arriva neanche a metà dell’impresa. L’abilità letteraria è
solo una componente del mestiere, e spesso neanche la più importante. Per diventare
un buon giornalista non basta nemmeno acquisire un piccolo bagaglio di trucchi e stratagemmi,
tra cui scegliere quello giusto a seconda delle circostanze. Ciò che serve sono le
qualità e il carattere.
Lo strumento più importante di un giornalista è nella sua testa. Alcune di queste
qualità sono istintive, altre si imparano in fretta, ma la maggior parte si costruisce
in anni di esperienza – indagando e scrivendo, indagando di nuovo e riscrivendo centinaia
e centinaia di articoli.
Il giornalismo è uno di quei mestieri che si imparano sbagliando. Nella mia prima
settimana da cronista, ad esempio, lavoravo in un piccolo settimanale nell’Inghilterra
meridionale e, un po’ per fortuna, un po’ perché ero deciso a farmi notare, mi imbattei
in una buona storia sull’inquinamento di un fiume. Andai sul posto, feci la mia inchiesta
e poi tornai di corsa in ufficio sognando gli elogi che avrei ricevuto alla consegna
del pezzo. «Che diavolo è questo?», urlò il redattore capo quando lesse l’articolo,
«Dove sono i nomi?». Ero così emozionato dalla mia scoperta che avevo dimenticato
di chiedere il nome delle persone che avevo intervistato. C’erano molte dichiarazioni
interessanti ma erano tutte attribuite a «cittadini preoccupati», «ingegneri idraulici»,
«ispettori della sanità», e così via. Passai le ventiquattr’ore successive a correre
in giro, chiedere i nomi, intervistare di nuovo la gente e rimediare a buona parte
dei miei errori. Quella settimana il mio articolo apparve in prima pagina. Da allora,
sono sempre stato grato alla mia stupidità, perché mi ha permesso di imparare due
cose preziose proprio nella mia prima settimana. Una è che le dichiarazioni non servono
a nulla se restano anonime. L’altra, ancora più importante, è che il lavoro del giornalista
è molto difficile. Essere entusiasti e avere una buona laurea non è affatto sufficiente,
bisogna anche avere le qualità giuste. Quello che segue è un elenco delle principali.
Acuto senso della notizia
È indispensabile per tre motivi. Prima di tutto in senso positivo, per individuare
una buona pista e riuscire a cogliere la notizia essenziale tra tutto il ciarpame.
In secondo luogo, in senso negativo, per non sprecare tempo a inseguire storie dalle
quali non uscirà mai niente di buono. Spesso dovrete chiedervi: «Che cosa posso tirar
fuori di buono da questa storia? Quale sarà il punto forte della notizia se riesco
a raccogliere tutte le informazioni che mi servono?». A volte la risposta è che non
ne verrà fuori nulla: quindi lasciate perdere. Il terzo motivo è che, se non avete
il senso della notizia, oppure lo avete ma non lo usate, vi sfuggiranno delle cose
e vi renderete ridicoli. Prendiamo il caso di Duncombe Jewell, un giornalista dei
primi tempi del «Daily Mail». Era stato mandato a seguire il varo della nave di Sua
Maestà Albion ai cantieri del Tamigi di Londra e alla fine era tornato in redazione
con un elaborato brano di prosa che, per usare le sue parole, era «la cosa più vicina
a un tramonto di Turner che si potesse scrivere». Mentre lo consegnava, al giornale
arrivò la notizia che durante il varo erano affogate trenta persone. Il suo redattore
capo era fuori di sé dalla rabbia. «Beh», disse Jewell, «in effetti avevo visto delle
persone che annaspavano nell’acqua mentre venivo via, ma...».
Amore per la precisione
Quando ero redattore capo, questa era la qualità che apprezzavo più di ogni altra
nei miei giornalisti. Potevo fare conto sul loro lavoro e fidarmi della loro precisione?
Un giornalista si rende subito conto che la sua fama di persona precisa e che non
gonfia le informazioni, sia quando scrive sia durante il lavoro di preparazione, è
una merce preziosa. Se la perde, sarà molto difficile riconquistarla.
Per essere precisi bisogna preoccuparsi di tre cose. Prima di tutto, ovviamente, registrare
e appuntare correttamente quello che la gente vi dice. Secondo, assicurarvi non solo
dell’accuratezza di ogni minimo dettaglio, ma anche del fatto che l’esito complessivo
sia fedele allo spirito e all’atmosfera della situazione o dell’avvenimento – quindi
fornire il contesto e spiegare i retroscena. Terzo, non prendere la pericolosa e diffusa
abitudine di dire: «Beh, se è successo questo e questo, allora deve essere successo
anche quest’altro». Non dovreste mai formulare dei desideri, ma limitarvi a scrivere
solo quello che sapete. Se c’è un vuoto in una sequenza di eventi, cercate di scoprire
esattamente che cosa manca: non pensate che se è successo A, poi qualche altra cosa
e poi C, allora ciò che manca deve essere B. Magari vi sbagliate.
Determinazione a scoprire le cose
L’ottusità del cattivo cronista si riconosce facilmente dal fatto che torna continuamente
in redazione lamentandosi: «Non riesco a trovare niente!». Quello buono, invece, non
si fa smontare da qualche telefonata senza esito o da fonti che fanno ostruzione.
Ciò che conta è la sua determinazione ad andare un po’ più a fondo (o a perdere un
po’ più di tempo) per avere il pezzo. Ad esempio, nel 1996 un tizio sospettato di
essere il famigerato Unabomber (la cui serie di lettere-bomba a università e su aerei
aveva già causato tre vittime e 29 feriti) venne arrestato nella cittadina fuori mano
di Lincoln, nel Montana. Una corrispondente locale della rivista «People», di nome
Cathy Free, divenne famosa perché chiese alla segretaria di una scuola di faxarle
tutte le pagine dell’elenco telefonico della città (erano appena quattro, per fortuna);
quindi telefonò a tutte le persone per raccogliere informazioni sul sospetto. Se questo
significa che devi chiamare per sette giorni di seguito il padre di un suicida prima
che si decida a parlare con te, come fece una volta George Esper dell’Associated Press,
bene: è proprio ciò che devi fare. I giornalisti straordinari fanno anche molto di
più. Nel 1917, Floyd Gibbons del «Chicago Tribune» volle salire su una nave che aveva
buone probabilità di essere silurata dai tedeschi per poterlo raccontare. Andò come
previsto e lui fece il pezzo. O ancora Evelyn Shuler, del «Philadelphia Ledger», la
quale sapeva che avrebbe battuto la concorrenza su un caso di omicidio se fosse riuscita
a testimoniare l’esumazione del corpo della vittima. Così rimase sveglia per tre giorni
e tre notti a fare la guardia in un cimitero e, finalmente, la mattina presto del
quarto giorno, ebbe il suo pezzo.
Mai fare supposizioni
Questo vale per tutte le supposizioni – logiche, su identità, fatti o motivazioni.
Il grosso problema delle supposizioni è che molto spesso si rivelano corrette: è questo
che le rende così pericolose e seducenti. Non correte rischi, raccontate solo quello
che sapete, non quello che credete di sapere. Così eviterete di essere imprecisi,
disonesti e fuorvianti – o licenziati.
C’è un caso famoso in proposito: una volta un fotografo freelance vendette a un rotocalco
britannico una foto che ritraeva il principe Carlo mentre abbracciava una signora
che non era sua moglie. All’epoca tutti sapevano che il suo matrimonio era piuttosto
infelice. Il giornale pubblicò la foto con un titolo che suggeriva l’esistenza di
una relazione sentimentale tra i due. Ma si sbagliava. Non sapeva che la foto era
stata scattata al funerale del figlio della donna, morto di leucemia all’età di quattro
anni. Il principe stava facendo quello che chiunque di noi avrebbe fatto in una circostanza
simile – stava confortando una madre affranta.
Mai aver paura di sembrare stupidi
Per quanto elementari pensate che siano le cose che ignorate, se non sapete, chiedete;
se non capite, sollecitate spiegazioni. Non vi preoccupate che qualcuno rida di voi.
I giornalisti veramente stupidi sono quelli che fingono di sapere, quelli che annuiscono
per tutto il tempo dell’intervista anche se non capiscono, e quando poi cercano di
scrivere l’articolo si accorgono che non ci riescono. Il momento giusto in cui mostrare
la propria ignoranza è quando si fanno le domande, non quando si scrive l’articolo.
Diffidare di qualsiasi fonte
Un’altra qualità essenziale per un cronista, anzi per qualsiasi giornalista, è diffidare
delle fonti. Perché mi racconta queste cose? Quali possono essere i suoi motivi? È
veramente in grado di sapere quello che dice di sapere? Di questa complessa questione
ci occuperemo nel capitolo 6.
Essere intraprendenti
Aguzzare l’ingegno e usare il proprio fascino per aggirare gli ostacoli fa parte del
divertimento del mestiere. A volte significa sfidare la sorte chiedendo il numero
di telefono di una fonte che potrebbe rivelarsi importante, o magari riuscire a entrare
con un espediente dove non si potrebbe. Come fece, per esempio, Marguerite Higgins,
che negli anni Quaranta per poter scrivere un pezzo su un matrimonio dell’alta società
si fece prestare la divisa di una guardarobiera dell’albergo e riuscì a intrufolarsi
senza essere notata dove si teneva il ricevimento. Nel 1989, la cronista del «Daily
Mail» Ann Leslie era così furiosa per la distanza alla quale era stata messa la stampa
al funerale dell’imperatore Hirohito che indossò una lussuosa pelliccia e marciò imperiosamente
oltre i servizi di sicurezza fino a trovarsi seduta accanto al presidente George H.
Bush. E poi c’è la tecnica usata da Floyd Gibbons per convincere le guardie di frontiera
polacche che era una persona importante. Trovò un’uniforme di tipo militare e si appese
al petto una fila di vistose medaglie (due delle quali erano state conquistate a una
mostra canina). Le guardie gli fecero il saluto e lo lasciarono passare. In un’altra
occasione, durante la Grande Guerra, voleva scrivere un articolo sull’arrivo del generale
americano John J. Pershing, ma gli dissero che i servizi di sicurezza inglesi non
avrebbero permesso ai giornalisti di scrivere dove era sbarcato. Allora Gibbons mandò
un telegramma alla sua redazione dicendo: «Oggi Pershing è sbarcato in un porto inglese
ed è stato accolto dal sindaco di Liverpool». Ingegnoso.
Lasciare a casa i pregiudizi
Nessuno si aspetta che un giornalista metta da parte tutte le sue convinzioni più
radicate, ma non dovreste mai permettere che queste condizionino coscientemente il
vostro lavoro. Un giornalista dovrebbe riferire accuratamente quello che è accaduto,
non vedere ogni fatto attraverso la lente dei propri pregiudizi, per quanto li ritenga
colti e intelligenti.
Questo appello si applica a tutti i pregiudizi, quelli nuovi di zecca e quelli più
vecchi e radicati. Non lasciate che le opinioni che vi siete fatti all’inizio del
lavoro di ricerca influenzino il vostro giudizio sugli eventi. Il grande errore di
alcuni cronisti, soprattutto quelli ai quali viene spesso chiesto di scrivere pezzi
di colore, è che scrivono l’introduzione nella loro testa prima ancora di aver fatto
l’intervista. Il loro attacco sarà anche perfetto, una bella prova di scrittura, ma
è probabile che ci riveli più cose su di loro che non sull’argomento in questione.
Rendersi conto che si fa parte di un sistema
Un giornalista è sempre soggetto alle richieste del direttore. Potete assolutamente
discutere con i vostri capi, alzare la voce, cercare di convincerli, ma alla fine
dovrete sottostare alla loro decisione – o andare a lavorare da un’altra parte. È
una questione di professionalità. Come lo è accettare l’organizzazione e i tempi del
vostro giornale. Molti giornalisti pensano che sia una sorta di indice del talento
letterario maturo essere in ritardo o sforare la lunghezza prestabilita. Non è così.
Sono i tratti distintivi del dilettante inaffidabile. Stesso discorso per il giornalista
che, quando sta seguendo una storia, non passa regolarmente in ufficio. Spesso, tuttavia,
potete sfruttare le necessità del giornale a vostro vantaggio, per dare rilievo ai
vostri pezzi potete calcolare a che punto del suo ciclo produttivo ha più bisogno
di articoli di solo testo o corredati da immagini, grafici, tabelle e così via.
Immedesimazione con i lettori
Se nessuno legge i vostri articoli, potreste anche borbottarli a voi stessi in una
stanza buia. Vi leggeranno se terrete conto di loro – quando scrivete, ma soprattutto
quando raccogliete il materiale. Che cosa vorranno sapere i lettori? Che cosa gli
va spiegato? Che cosa li aiuterà a capire? Trovate aneddoti, fate vedere come l’accaduto
influirà sulla loro vita o su quella di altri; usate esempi che fanno parte della
loro esperienza; ma soprattutto, ogni volta che potete, raccontate la storia come
farebbe la gente normale.
Voglia di farcela
Prima o poi il neofita comincerà a rendersi conto che il resto del mondo non è al
servizio dei giornali. I fatti accadono nel momento sbagliato e in posti scomodi,
non sempre c’è un telefono disponibile, o che funziona; e, se siete fuori della vostra
città o del vostro paese, potreste aver esaurito i soldi, il tempo, il cibo, le bevande,
le energie. Dovete essere seriamente determinati a superare qualsiasi difficoltà si
presenti sulla vostra strada, catturare la notizia e dettare il pezzo al giornale
il più in fretta possibile. Come Ed Cody del «Washington Post». Nel suo bellissimo
libro Who Stole the News? Mort Rosenblum racconta che, una notte di dicembre del 1988,
Cody era a Parigi quando gli arrivò la notizia che un jumbo della Pan Am era precipitato
su Lockerbie, una cittadina scozzese. Erano le 20.20 e l’ultimo volo per la Gran Bretagna
era già partito. Cody scovò un charter, chiamò gli Stati Uniti, convinse il capo della
redazione esteri ad autorizzare la spesa e qualche ora dopo era a Glasgow. Lockerbie
era un centinaio di chilometri più a sud e la zona era stata già isolata dai posti
di blocco della polizia. Miracolosamente Cody trovò un tassista di quella città e,
con la sua conoscenza del posto e i suoi contatti, riuscì ad arrivare sulla scena
dell’incidente. L’autista aveva addirittura un amico proprietario di un pub, che lo
aprì apposta perché il cronista potesse chiamare Washington e dettare il pezzo.
Il disastro aereo, nel quale morirono 259 passeggeri e undici persone che si trovavano
a terra, fu uno degli avvenimenti più clamorosi degli anni Ottanta. Cody poté fare
un ottimo lavoro grazie alla sua determinazione. Certo, aveva anche un giornale disposto
a pagare 6mila dollari per un charter, ma nella maggior parte dei casi la voglia del
giornalista di arrivare alla notizia non costa così cara e verrà sempre premiata.
Sotto pressione
I giornali vogliono che i loro cronisti dettino il pezzo per primi e raccolgano più
dettagli possibile. Un po’ di sana, o anche malsana, competizione per arrivare primi
fa parte della realtà – e del divertimento – del mestiere. È anche nell’interesse
dei lettori, purché non vi costringa a prendere troppe scorciatoie.
Battere la concorrenza, ad esempio, era una delle preoccupazioni principali dei fotografi
dell’Associated Press (Ap) e della United Press International (Upi) incaricati di
riprendere il Dalai Lama mentre fuggiva dal Tibet nel 1959. Entrambe le agenzie avevano
affittato aerei e organizzato staffette di motociclisti per far arrivare le loro foto
dal confine cinese al più vicino ufficio di corrispondenza in India. Appena il Dalai
Lama uscì dal suo aereo, i fotografi gli saltarono addosso, scattarono le foto e si
precipitarono verso i loro aerei pronti al decollo. Dopo una corsa a rompicollo a
terra e nei cieli, la Upi ebbe la meglio.
L’inviato della Ap era distrutto. Se ne tornò in albergo e restò lì seduto a rimuginare
su come sarebbero potute andare le cose, vergognandosi di essere stato battuto. Poi
ricevette un telegramma dal suo ufficio: «Il Dalai Lama della concorrenza ha i capelli
lunghi e ispidi. Il tuo è calvo. Come mai?». Il telegramma di risposta fu: «Perché
il mio è quello giusto». Nella fretta disperata di arrivare per primo, l’inviato dell’Upi
aveva fotografato l’interprete.
Il piacere di battere la concorrenza
Battere la concorrenza e arrivare per primi sulla notizia fa parte del divertimento
del mestiere quanto usare il proprio ingegno per superare gli ostacoli. Una concorrenza
accettabile ha comunque dei limiti, che furono sicuramente raggiunti – e notevolmente
superati – dall’ex giornalista del «New York Post» Steve Dunleavy, che da giovane
era cronista come suo padre, ma lavorava per la concorrenza. Era stato assegnato a
entrambi lo stesso incarico e lui era così deciso ad arrivare sul posto per primo,
che impedì al padre di muoversi tranciandogli le gomme della macchina. (La cosa sconvolgente
non è tanto il sabotaggio in sé quanto la crudezza del metodo. In Gran Bretagna, la
tecnica più elegante era quella di infilare un fiammifero nella valvola di una soltanto
delle gomme.)
Ma quando si scopriva che i propri rivali erano già partiti, bisognava prendere provvedimenti
più drastici. Nei cronisti dei giornali per cui ho lavorato io, la vista dei rivali
nello specchietto laterale non provocava niente di più che un sospiro di rammarico,
ma per quelli dei tabloid più competitivi era il segnale dell’inizio di un’operazione
di guerriglia. Una volta, Wensley Clarkson del «Sunday Mirror» di Londra convinse
una coppia che aveva cambiato sesso a raccontare la sua complicata storia soltanto
a lui. Fuori era pieno di concorrenti. Perciò gettò una coperta sulla testa dei due
transessuali (per impedire agli altri giornali di fotografarli), li infilò nella sua
macchina e partì a tutta velocità verso un albergo dove avrebbe potuto intervistarli
a suo piacimento senza essere interrotto da nessuno. I suoi rivali naturalmente li
inseguirono. Che fare? Clarkson aspettò il primo semaforo rosso, scese dalla macchina,
corse verso quella dei suoi inseguitori e batté sul finestrino del guidatore. Si aprì.
«Lasciatemi in pace, ragazzi», disse. «No», risposero loro. A quel punto, Clarkson
infilò la mano nell’abitacolo, afferrò le chiavi e le gettò in un tombino. Fine del
problema.
Professionalità
È il contrario dell’atteggiamento che porta a dire «questo può bastare», e significa
imparare a lavorare in modo efficiente, approfondito e veloce quanto vi consente il
vostro talento. Se volete un esempio di professionalità, non posso fare di meglio
che citare quello che fece Meyer Berger del «New York Times» il 7 settembre 1949.
Quella mattina cominciarono ad arrivare notizie di un uomo armato che sparava a casaccio
sulla gente a Camden, nel New Jersey. Berger fu spedito lì, e quando arrivò sul posto
un giovane reduce di nome Howard B. Unruh aveva già ucciso 12 persone tra vicini e
passanti. Nelle sei ore successive, Berger ripercorse tutto il tragitto dell’assassino
intorno alla sua casa di East Camden. Intervistò 50 testimoni, compresi i pubblici
ministeri che lo avevano interrogato appena arrestato, poi tornò nel suo ufficio di
New York, si sedette e in sole due ore e mezzo scrisse per la prima edizione del giornale
un articolo di 4mila parole, nessuna delle quali fu cambiata. Il pezzo cominciava
così:
Stamattina, Howard B. Unruh, un giovane di 28 anni dall’aria dolce e mansueta, reduce
di tante battaglie in Italia, Francia, Austria, Belgio e Germania, con la Luger che
aveva conservato come ricordo di guerra ha ucciso dodici persone intorno alla sua
casa nel quartiere di East Camden, e ne ha ferite altre quattro. Unruh, un ragazzo
magro dalle guance infossate alto un metro e ottanta paradossalmente dedito alla lettura
della Bibbia e alla pratica costante con le armi da fuoco, non aveva mai dato alcun
segno di malattia mentale, ma stasera gli specialisti hanno dichiarato che si tratta
senza dubbio di un caso psichiatrico, e che l’uomo covava da almeno due anni un complesso
di persecuzione.
L’articolo di Berger non conteneva neanche una citazione ovvia, non una parola di
gergo poliziesco, e parole come «scioccante», «tragico» o «io» non comparivano neanche
una volta. Il tutto era stato scritto direttamente a macchina al ritmo di 2mila parole
l’ora. Con questo articolo Berger vinse meritatamente il premio Pulitzer. E regalò
la somma alla madre vedova e traumatizzata dell’assassino.
Individualismo
I governi di tutto il mondo stanno sviluppando mezzi sempre più sofisticati per gestire
le notizie, controllano rigidamente quali informazioni devono essere divulgate e a
chi. In alcuni paesi, per accedere a questi canali i giornalisti devono entrare a
far parte di una specie di «circolo» informale, con le sue regole su che cosa costituisce
un comportamento «responsabile» e minacce di esclusione dall’informazione ufficiale
per chi esce dal seminato. Questo non è sano, come non lo è l’abitudine che a volte
hanno i giornalisti di collaborare, scambiandosi dichiarazioni e numeri di telefono.
Quando serve, un buon giornalista dovrebbe sempre essere pronto a prendere l’iniziativa
andando dove non va nessun altro e, se gli va male, a prendersi anche i rimproveri.
Deve essere disposto a rifiutare la pappa pronta delle fonti ufficiali perché sa che
c’è qualcosa di molto più succulento per chi va a cercarsi le informazioni da sé.
Carattere
Più o meno qualunque essere umano intelligente, se si applica, può diventare un giornalista
competente. Ma per andare oltre, per essere bravi o grandi giornalisti, bisogna possedere
un vero talento e l’attitudine alla ricerca o alla scrittura, o entrambe le cose.
Bisognerebbe anche avere il carattere giusto; perché è questo che distingue i giornalisti
eccezionali da quelli comuni.
Quasi tutto quello che so sulla personalità del vero cronista lo devo a un solo uomo.
Era dieci anni più giovane di me e lo conobbi solo per un breve periodo prima che
morisse di leucemia all’età di 34 anni, ma non ho mai incontrato nessuno che si avvicinasse
alla perfezione in questo mestiere come lui. Era l’inviato di punta dell’«Observer»
di Londra e si chiamava John Merritt. Quel ragazzo magro, dal volto affilato, aveva
tutte le virtù, e buona parte dei vizi, di un grande giornalista. La prima cosa che
mi colpì di John, anche prima di capire che era un ottimo giornalista, fu che piaceva
alla gente. Aveva lo sguardo aperto e sapeva essere spiritoso, ma il motivo per cui
le persone lo prendevano in simpatia era che si interessava a loro e lo dimostrava
con la sua natura estroversa. Questo non significa che andasse in giro per il mondo con un sorriso stampato sulla
faccia, trasudando amicizia fasulla e salutando la gente come il presentatore di un
quiz televisivo. Ma la sua capacità di entrare in rapporto anche con dei perfetti
estranei gli fu sempre di aiuto. Con i tipi rudi e alla mano (come i suoi colleghi
giornalisti) poteva bere, fumare e bestemmiare, in compagnia di un vescovo sapeva
prendere il tè e parlare di teologia. Qualunque cosa pensasse di una persona, sapeva
essere disponibile e farla sentire a proprio agio.
Questa piacevolezza mascherava, finché non la voleva svelare, una caratteristica che
è tipica di tutti i giornalisti di prim’ordine – la determinazione. John era risoluto
sia a trovare le storie giuste sia a combattere contro tutti gli ostacoli, i ritardi
e le reticenze che gli impedivano di chiudere il suo pezzo. La sua determinazione
appariva più evidente quando una particolare informazione si rivelava difficile da
reperire. Allora era pronto a starsene seduto alla sua scrivania per ore, facendo
una telefonata dopo l’altra, seguendo le strade più improbabili fino a quando non
otteneva quello che gli serviva.
Gli tornava molto utile il fatto che questa determinazione fosse associata a una buona
dose di un’altra grande qualità per un giornalista – la faccia tosta. Aveva il coraggio di telefonare a casa di un alto funzionario, o di chiedere la
copia di un certo rapporto o un certo favore a un perfetto sconosciuto. Non gli sentivi
mai pronunciare il lamento del povero cronista: «Oh, non serve a niente chiedere questa
cosa, non me lo diranno mai». Cercava sempre il momento giusto, ma non esitava mai
a fare la telefonata. «Il massimo che possono fare è mandarmi al diavolo», diceva
mentre sollevava la cornetta per tentare un’ultima chiamata – e spesso funzionava.
John non aveva mai paura di chiedere.
Né aveva paura di molte altre cose, meno che mai delle minacce, della fatica, dei
pezzi grossi o dei governi. Non era per arroganza (anche se a volte ne aveva da vendere),
ma per la passione e il senso di giustizia che metteva nel suo lavoro. John non era un santo (in redazione chiunque non fosse
d’accordo con lui sperimentava la sua lingua affilata), ma aveva veramente a cuore
le vittime della società e dei governi. Considerava una parte importante del suo lavoro
dare voce a chi non l’aveva.
Per lui, essere imparziale non significava essere indifferente; non significava essere
vaccinato contro i torti della società. Era convinto che la rabbia e il senso di giustizia
dovessero costantemente ispirare i giornalisti, condizionare il loro giudizio sui
temi da affrontare e spingerli a portare avanti le loro ricerche fino in fondo. John
sapeva scrivere anche pezzi leggeri, ma era famoso per i suoi articoli sulle vittime
della tortura in tutto il mondo, sui senzatetto sfruttati da avidi proprietari, e
sulle spaventose condizioni in cui i ritardati mentali venivano tenuti in paesi come
la Grecia. Ma era sempre professionale – non dimenticava mai la differenza tra un
articolo e un sermone.
Aveva anche entusiasmo, a livelli talvolta travolgenti. È facile che un giornalista si esalti per una grossa
storia, ma la prova della sua bravura è la voglia di tirare fuori il meglio da un
fatto apparentemente poco promettente. John aveva questo entusiasmo, era sempre pronto
ad arrivare presto e a fermarsi fino a tardi quando era necessario. E non solo in
redazione. I giornalisti che si precipitano a una riunione, a una conferenza stampa
o in qualsiasi altro posto all’ultimo minuto, e se ne vanno appena possono, forse
pensano che è così che si comportano gli adulti, ma non è vero. I bravi cronisti spesso
scoprono le notizie arrivando in anticipo alle conferenze stampa o fermandosi alla
fine per fare due chiacchiere con i funzionari.
E poi c’era la sua incessante curiosità. Faceva domande. Costantemente. John Merritt era interessato a tutto e a qualsiasi
cosa. Voleva capire perché le cose sono come sono, che cosa sono, perché funzionano,
oppure no. Ovunque andasse, non smetteva mai di fare domande. Probabilmente sarebbe
stato capace di scovare una notizia in un campo deserto.
Un grande giornalista
Volendo scegliere un esempio che per qualità e forza rappresenti il meglio del giornalismo,
forse conviene tornare indietro di 125 anni all’Europa centrale lacerata dai nazionalismi
e dalla violenza. Qualsiasi similitudine con quanto sta accadendo ora in quella parte
del mondo non è quasi sicuramente una coincidenza. La storia comincia con il sospetto
che vengano commesse delle atrocità mentre i governi mentono, l’informazione viene
censurata e un impero sta morendo. Si svolge in Turchia, Russia, Gran Bretagna e nella
nascente Bulgaria, prosegue con una serie di atti di eroismo e una guerra, e si conclude
nientemeno che con la nascita di diversi nuovi Stati nazionali e una mappa d’Europa
ridisegnata. A tenere insieme tutti questi fili è un ex corrispondente da San Pietroburgo,
un americano di origine irlandese di nome Januarius Aloysius MacGahan.
Perfino per gli standard avventurosi del tempo, MacGahan era un tipo che andava a
caccia di emozioni a tutti i costi. In un’epoca in cui ci si spostava da un paese
all’altro a cavallo o sui battelli a vapore, in cinque frenetici anni MacGahan inviò
le sue corrispondenze dalla Comune di Parigi (dove fu imprigionato), dalla corte di
San Pietroburgo, dall’Asia centrale, da Cuba, dall’Artide, dal Caucaso e dai Pirenei.
Particolarmente famoso per la sua imparzialità e la sua perspicacia, MacGahan era
anche il tipo che non indietreggiava mai davanti a una sfida. Nel 1875 attraversò
le acque ostruite dai ghiacci dell’Artide in una barca di legno e due anni prima aveva
sfidato l’embargo russo contro i giornalisti lanciandosi in un’incredibile cavalcata
attraverso le steppe dell’Asia centrale. Voleva raggiungere una spedizione militare
russa in marcia verso il Turkestan. Decisi ad annientarlo, i cosacchi lo avevano inseguito
per quasi mille miglia, ma dopo 29 giorni, accompagnato da due assistenti, dopo essere
stato costretto varie volte ad avanzare faticosamente affondando nella sabbia fino
al ginocchio ed essersi perso in diverse occasioni, aveva raggiunto il campo. In quell’occasione,
la sua reputazione di grande affidabilità e coraggio aveva toccato nuove vette.
Nell’estate del 1876, all’età di 32 anni, era a Londra con la moglie Barbara, di origine
russa, e un figlio piccolo. Progettava di scrivere il suo terzo libro e di riposarsi
un po’. Ma la tranquillità non sarebbe durata a lungo. Il «Daily News», un importante
quotidiano progressista londinese, lo contattò per un incarico urgente.
Il giornale era nei guai. Un giorno o due prima, il 23 giugno, aveva pubblicato un
servizio del suo inviato a Costantinopoli, sir Edwin Pears, che riportava voci di
tremende atrocità commesse dall’esercito turco contro la popolazione cristiana nella
Bulgaria meridionale. Il ministero degli Esteri britannico era furioso. E lo era anche
il Primo ministro Benjamin Disraeli, favorevole ai turchi. Definendo le denunce «chiacchiere
da bar», le aveva seccamente smentite, aveva apertamente accusato il giornale di mistificazione
e, come fanno spesso i politici, di «irresponsabilità». I turchi, che avevano imposto
una censura totale su quanto stava accadendo, avevano negato tutto.
Adesso spettava al «Daily News» dimostrare le proprie accuse, o fare un’umiliante
marcia indietro. Quindi mandarono a chiamare MacGahan e lo incaricarono di andare
in Bulgaria per cercare di scoprire la verità. All’inizio di luglio era già in viaggio;
a metà del mese era sul posto e stava già indagando e intervistando centinaia di sopravvissuti.
Quello che scoprì andava anche oltre la sua incallita immaginazione: il massacro selvaggio
e indiscriminato di 12mila uomini, donne e bambini bulgari.
Nella sua prima corrispondenza, pubblicata dal «News» il 28 luglio, MacGahan scriveva:
«Credo di essere venuto qui con un atteggiamento equo e imparziale [...] ma temo di
non essere più imparziale, e certamente non sono più distaccato». Il resoconto più
toccante fu quello inviato dal villaggio di Batak. Nonostante le sue dichiarazioni
di imparzialità, è un esempio di come il racconto controllato di fatti, piuttosto
che di emozioni, sia la forma più efficace di giornalismo.
Man mano che ci avvicinavamo al centro della città, le ossa, gli scheletri e i teschi
crescevano di numero. Non c’era una casa sotto le cui rovine non scorgessimo resti
umani, e anche la strada ne era ricoperta [...]. La chiesa non era molto grande, ed
era circondata da un basso muretto di pietra che racchiudeva un piccolo cimitero di
una cinquantina di metri per settanta. All’inizio non notammo nulla di particolare
[...] ma a uno sguardo più attento scoprimmo che quello che sembrava una massa di
pietre e rifiuti era in realtà un immenso cumulo di corpi umani ricoperto da un sottile
strato di pietre [...]. Ci dissero che solo in quel piccolo cimitero c’erano tremila
persone. Tra questa massa in putrefazione c’erano testoline ricciute spaccate da pesanti
pietre; piedini non più lunghi del dito di una mano con la carne seccata dal sole
cocente prima ancora che avesse il tempo di decomporsi; manine tese come a chiedere
aiuto; neonati che erano morti sorpresi dall’intenso bagliore delle sciabole e dalle
mani rosse degli uomini dallo sguardo feroce che le brandivano; bambini che erano
morti rattrappiti dallo spavento e dal terrore; ragazze morte singhiozzando e implorando
pietà; madri che avevano cercato di fare scudo ai loro piccoli con i deboli corpi.
Giacevano tutti insieme, e marcivano in un’unica, orrida massa. Erano silenziosi ormai.
Non ci sono lacrime né grida, né pianti o urla di terrore, né preghiere o implorazioni.
I raccolti marciscono nei campi, e i mietitori marciscono in questo cimitero.
I resoconti di MacGahan (che furono pubblicati in tutto il mondo e poi raccolti in
un libro tradotto in molte lingue) innescarono immediatamente una reazione a catena
di enormi proporzioni. Nell’indignazione a livello mondiale che ne conseguì, il governo
britannico fu costretto ad ammettere la verità, crebbero le pressioni per un intervento
militare e, nella primavera del 1877, la Russia dichiarò guerra alla Turchia.
Furono inviati ottanta corrispondenti per seguire la guerra dalla parte dei russi,
ma i rigori di quella campagna erano tali che un anno dopo, alla fine del conflitto,
solo quattro degli inviati originari erano ancora sul campo. MacGahan, naturalmente,
era uno di loro. Era partito con un piede ingessato perché se l’era fratturato in
una caduta. Non aveva dato importanza a quell’incidente e a un altro paio che lo costringevano
a zoppicare, ma aveva continuato a scrivere, seguendo i combattimenti da un carro
dell’artiglieria. Sei mesi e due trattati dopo, erano nati gli Stati di Bulgaria,
Serbia, Montenegro e Romania, la Russia si era ingrandita e la Gran Bretagna aveva
ottenuto Cipro.
MacGahan però non era più lì per raccontarlo. Qualche settimana dopo la fine della
guerra era andato a Costantinopoli per assistere un amico, Francis Greene, colpito
da febbre tifoidea. Greene era guarito, ma MacGahan era rimasto contagiato e il 9
giugno era morto, all’età di 34 anni. I bulgari, che lo avevano già battezzato «il
Liberatore», lo seppellirono a Pera, furono celebrate messe per la sua anima a San
Pietroburgo; Londra, Parigi e l’America piansero la sua scomparsa. A Sofia fu eretta
una statua in suo onore e per anni la sua morte fu commemorata con una messa da requiem
a Tirnovo.
Cinque anni dopo il suo corpo fu trasportato a New York da una nave da guerra americana,
e dopo aver ricevuto gli onori di Stato nel palazzo del municipio venne trasferito
nella sua ultima dimora a New Lexington, nell’Ohio. Sua moglie, che era stata la corrispondente
in Russia del «New York Herald», attraversò l’oceano con il corpo del marito e divenne
la corrispondente in America del quotidiano moscovita «Russkaja Vedomosti». Quello
stesso anno, un’inchiesta ufficiale confermò, con il distacco di ogni retrospettiva,
tutto quello che MacGahan aveva scritto dai caotici campi di sterminio della Bulgaria.
Il giornalismo quasi perfetto non è una novità dei nostri tempi.
Se vedi centinaia o migliaia di persone normali che cercano di scappare da un posto,
mentre un manipolo di pazzi cerca di entrarci, non c’è dubbio: sono giornalisti.
H.R. Knickerbocker
II. I limiti del giornalismo
I giornali possono appartenere a persone o società, ma la libertà di stampa appartiene
al popolo.
Anonimo
Ogni giornale dovrebbe pubblicare quotidianamente un’avvertenza più o meno del genere:
Questo giornale, con la sua massa di parole, è stato prodotto in una quindicina di
ore da un gruppo di esseri umani non infallibili, che lavorano in redazioni anguste
e cercano di scoprire che cosa è successo nel mondo da persone che a volte sono riluttanti
a parlare, e altre volte oppongono un deciso ostruzionismo.
Esistono dei limiti a quello che un giornalista può fare. La frequente mancanza di
tempo e di disponibilità delle informazioni costituisce due limiti endemici. Come
lo sono gli errori che i giornalisti commettono quando lavorano sotto pressione. Alcuni
limiti al buon giornalismo vengono anche creati dai giornalisti stessi e da coloro
che controllano o possiedono i giornali. Uno dei grandi miti di questa professione
è che il modo in cui è trattata una notizia sia condizionato dallo stile e dal sistema
di valori di un giornale. Magari fosse così semplice. La qualità e la natura del lavoro
di un quotidiano sono anche condizionate dalle priorità dei loro padroni, dalla cultura
giornalistica prevalente e da quelli che si ritiene siano i valori dei lettori. Fattori
che spesso sono in conflitto tra loro.
Le priorità dei padroni
I proprietari possono anche aderire in modo formale ai princìpi di verità, onestà
e comportamento virtuoso, ma di solito hanno scelto di operare in questo settore per
fare soldi o propaganda, o entrambe le cose. Il fatto che coloro che tengono i cordoni
della borsa dei giornali li usano per fare propaganda è così noto che non vale la
pena riaffermarlo qui in tutti i suoi cruenti dettagli. La promozione delle loro idee,
l’esclusione di quelle dei loro avversari, la presentazione tendenziosa delle notizie
per adattarle a un certo punto di vista o a certi interessi commerciali, e le vendette
personali, fanno ormai parte della storia della stampa.
Sarà sufficiente citare un esempio. Riguarda William Randolph Hearst, il magnate dell’editoria
americano che si comportò per tutta la vita come se non sapesse dove stesse di casa
l’onestà. Fu lui che, quando venne realizzato Quarto potere, un film palesemente ispirato alla sua vita, offrì del denaro alla casa di produzione
perché distruggesse l’originale e tutte le copie prima della distribuzione. Fallito
questo tentativo, chiese all’autrice della sua rubrica di pettegolezzi, Louella Parsons,
di telefonare ai dirigenti dello studio e ai distributori minacciandoli di raccontare
alcuni dettagli della loro vita personale. Pare che dicesse: «Ragazzi, il signor Hearst
vi avverte che se volete avere una vita privata, ve la darà lui».
Come molti proprietari unici, Hearst pagava bene i giornalisti; non perché fosse un
filantropo, ma perché questo significava che i suoi dipendenti, per timore di essere
licenziati o per il desiderio di continuare a fare la bella vita, si adattavano a
formulare le notizie in modo che rispecchiassero i pregiudizi del proprietario. Una
volta indottrinati, non avevano quasi più bisogno di ricevere istruzioni specifiche
e facevano eco spontaneamente alla voce del padrone. La routine era sempre la stessa.
Nel 1919, per esempio, i giornali di Hearst riportarono la notizia dello scoppio della
rivoluzione comunista a Torino. L’articolo era accompagnato da una foto degli operai
armati di spade, pistole e baionette, schierati davanti a un muro della fabbrica Fiat
sul quale era scarabocchiato con la vernice «Viva Lenin». Più tardi si venne a scroprire
che l’uomo che aveva scattato la fotografia, Ariel Vargas, aveva pagato qualcuno per
scrivere lo slogan sul muro della fabbrica, aveva fatto il giro dei negozi di antiquariato
per comprare tutte le armi antiche che era riuscito a trovare, le aveva date ai «rivoluzionari»
e aveva detto loro di non ridere mentre li fotografava. Perché? Beh, alla sua redazione
di New York era giunta voce di una rivolta e si era sentito in obbligo di fornirgliene
le prove, vere o false che fossero.
Non c’è niente, tuttavia, che possa illustrare l’atteggiamento di Hearst, e quello
di molti altri proprietari nel corso degli anni, meglio di uno scambio di telegrammi
del 1898. Hearst era molto preoccupato, per ragioni politiche personali e per motivi
di tiratura, che scoppiasse una guerra tra spagnoli e americani per Cuba. Il suo quotidiano
principale, il «New York Journal», pubblicava servizi tendenziosi e sciovinisti, con
titoli sensazionali e distorti (Prigionieri dati in pasto agli squali; Il peggior insulto subìto dagli Stati Uniti in tutta la loro storia, e così via). Spedì anche i suoi uomini a cercare le prove delle «atrocità» degli
spagnoli. I più onesti non mandarono nulla al giornale (e la loro carriera ne risentì),
altri usarono la fantasia. Uno dei primi fu un disegnatore di nome Frederic Remington.
Avendo trovato tutto tranquillo e visto che non c’erano spargimenti di sangue, telegrafò
a Hearst: «Non ci sarà nessuna guerra. Vorrei rientrare». Hearst gli rispose: «Resta
dove sei. Tu pensa alle immagini. Io penserò alla guerra». Oggi molti dubitano che
abbia veramente spedito questo telegramma, ma, pubblicando una serie di articoli distorti
e inventati, sicuramente contribuì a far scoppiare il conflitto.
Un’altra caratteristica tipica dei proprietari unici era spesso l’eccentricità. Il
colonnello Robert McCormick, proprietario del «Chicago Tribune», una volta ordinò
al suo corrispondente da Parigi, William Shirer, di recarsi nella campagna francese
per cercare un binocolo che aveva dimenticato in un fienile nove anni prima. Il campione
degli eccentrici, tuttavia, fu James Gordon Bennett Junior. Non solo insistette perché
il suo «International Herald Tribune» pubblicasse le stesse previsioni del tempo per
24 anni, ma un giorno entrò a passo di marcia in redazione e licenziò tutti gli uomini
che si trovavano sul lato destro della stanza, buttò fuori un critico musicale perché
portava i capelli lunghi e festeggiò il Capodanno del 1877 a casa dei genitori della
fidanzata orinando nel caminetto e sfidando a duello il fratello.
Suo padre era molto più disponibile con i giornalisti. Incaricò Henry Morton Stanley
di andare a cercare l’esploratore David Livingstone, disperso in Africa centrale.
Prima di partire, Stanley disse a Bennett che era preoccupato per il costo della missione.
Bennett gli rispose: «Ti dico io come devi fare. Ritira mille sterline subito, quando
le avrai finite ritirane altre mille, e quando avrai speso anche quelle, prendine
altre mille, quando le avrai finite prendine ancora mille, e continua così. Ma trovami
Livingstone».
Oggi è molto più probabile che un giornale appartenga a una società le cui esigenze
di propaganda sono semplicemente quelle di sostenere un certo partito, blandire i
politici che possono esserle utili (o prendere a calci quelli che non possono) e sollecitare
articoli che favoriscano i suoi interessi commerciali. In generale, le società fanno
meno propaganda dei proprietari unici e mostrano pochissimo interesse per gli editoriali
finché uno di questi non spaventa gli inserzionisti. Quello che sta loro a cuore è
soprattutto ottenere i più alti margini di profitto e, se hanno finanziatori esterni,
anche nel minor tempo possibile. Negli ultimi due decenni del ventesimo secolo questo
ha comportato un’eccessiva concentrazione sull’abbattimento dei costi e, soprattutto
nelle situazioni di monopolio, una forte riduzione del personale di redazione. L’esperienza
del settimanale regionale che un tempo ho diretto, e la cui redazione è passata da
ventuno a meno di dieci giornalisti, è molto comune.
Il risultato, in termini di copertura delle notizie e di rapporti con la burocrazia,
è stato disastroso. Per quanto riguarda i rapporti con le autorità locali, ad esempio,
la vecchia abitudine di assegnare a un cronista il compito di seguire un certo settore
(istruzione, spettacolo, ambiente, servizi sociali, e così via) è stata ormai abbandonata
quasi da tutti. Se ci aggiungiamo la proliferazione degli uffici per i rapporti con
il pubblico dei comuni, dei presìdi sanitari e via dicendo, avremo la ricetta di una
copertura delle notizie che nel migliore dei casi è fortuita e nel peggiore pilotata.
La conseguenza di questi tagli al personale, e della pretesa che ogni cronista scriva
più articoli di quanti ne scrivesse in precedenza (a volte formalizzata in schemi
semplicistici per misurare la «produzione» dei giornalisti), è che molti cronisti
che adesso passano le giornate dietro la scrivania incollati a un telefono non riconoscono
più l’esperienza dei loro colleghi che, solo una generazione fa, battevano ogni giorno
le strade parlando con i loro contatti (e con i lettori) alla ricerca di notizie.
Se pensate che si tratti di nostalgia, date un’occhiata alla vostra redazione, immaginatela
con il doppio del personale e pensate come cambierebbe il vostro lavoro (e la vostra
vita). Negli ultimi vent’anni le priorità dei padroni dei giornali hanno probabilmente
imposto più limiti alla pratica del giornalismo di qualsiasi altro fattore.
La cultura giornalistica
Questa cultura stabilisce ciò che i direttori e i capiservizio considerano una notizia
buona o «noiosa» e determina quali argomenti si possono ritenere «appetitosi» e quali
no. Crea anche l’atmosfera morale di un giornale e di conseguenza è più responsabile
della sua etica quotidiana di qualsiasi principio teorico.
Nell’ambito di questa cultura, una delle qualità più ammirate è «avere naso per le
notizie». Può trattarsi di una vera abilità nel trovare l’aspetto significativo e
interessante in cose che ad altri sono sfuggite oppure, nella sua forma più degenerata,
di un’astuta tecnica per presentare il banale come se fosse eccezionale. Questo gioco
di prestigio giornalistico si esegue eliminando il contesto, come fece il direttore
del «New York Daily Post» che, in una giornata morta dei primi anni Ottanta, riempì
la prima pagina del quotidiano chiedendo ai suoi cronisti di raccogliere tutti i dettagli
possibili su ogni piccolo crimine avvenuto in città e mettendoli insieme in un unico
servizio da far restare col fiato sospeso sotto il titolo Il caos delle nostre strade.
La caratteristica di questi disonesti colpi di bravura è che una serie di notizie
più o meno esatte va a costituire un insieme assolutamente inesatto. E questo genere
di cose non viene solo ammirato nei rotocalchi che lo hanno inventato. Influisce anche
su quello che viene considerato da tutti un comportamento abile e intelligente. Il
trucco di giocare con i fatti e scegliere con cura le informazioni per poi presentarle
al di fuori del loro vero contesto viene spesso usato, anche se in forma più limitata,
da tutti i giornalisti. In parte è inevitabile, perché la realtà, che per sua stessa
natura è caotica e complessa, quando viene tradotta in parole deve essere semplificata,
o almeno organizzata con un certo linguaggio e una certa coerenza. Molti giornalisti,
tuttavia, eliminano intenzionalmente il contesto e intensificano esageratamente questo
effetto per rendere più drammatica la realtà. Dopo un po’ di tempo, lo fanno quasi
senza rendersene conto.
La cultura dei giornali a grande tiratura apprezza anche uno stile narrativo agile.
Per questo ci vuole sicuramente un po’ di talento, ma anche, e soprattutto, la capacità
di forzare i fatti e il significato delle parole per ottenere un certo effetto. Il
modo più comune è quello di aggiungere alla storia un’introduzione fasulla in cui
si deduce da alcuni elementi un’ipotesi falsamente sensazionale (ma probabilmente
inverosimile e forzata). Una spia di ciò è di solito l’uso di parole come «forse»,
«potrebbe» o «sostiene». Come per i giochi di prestigio di cui abbiamo parlato in
precedenza, la furbizia sta nella possibilità di difendere in modo plausibile ogni
elemento utilizzato, ma l’articolo nel suo complesso rimane comunque una menzogna.
Il processo di scrittura e di revisione non è esente da questo tipo di corruzione
neanche nei giornali più seri e «di qualità». In questo caso nasce dal personale di
redazione, che tende a «ripassare il pezzo» per «rimpolparlo leggermente». Con tutte
queste attenzioni, spesso gli articoli ci guadagnano, ma in genere, come molti ammettono
apertamente, tutto si riduce a stendere sul servizio una patina di sensazionalismo
artificiale, a forzare ogni possibile implicazione dei fatti creando così un quadro
complessivo falsato.
E quello che oggi avviene a livello redazionale, probabilmente domani avverrà a livello
giornalistico. I cronisti costretti a farsi concorrenza per veder pubblicati i loro
articoli anticipano i desideri dei capi sposandone i valori e sono pronti (o si sentono
obbligati) ad adottare metodi in contrasto con i loro valori personali. Questa schizofrenia
professionale diventa ancora più cronica dove la cultura prevalente preferisce le
storie dai contrasti netti in bianco e nero ai grigi confusi e agli ambigui mezzi
toni della realtà.
In qualche misura, tutti i giornalisti preferiscono queste storie. Una situazione
in cui A imbroglia B falsificando in modo dimostrabile dei documenti e con il suo
disonesto guadagno decide di andare a fare la bella vita ai Caraibi, a livello immediato,
è chiaramente più interessante per tutti noi di una situazione in cui tra A e B c’è
una disputa commerciale, entrambi sostengono di essere stati imbrogliati, e si scopre
che la vacanza ai Tropici non è stata altro che un viaggio d’affari per aprire un
conto all’estero. Qualunque giornale, in qualsiasi lingua, preferirebbe la prima versione
alla seconda. È più insolita e ha indubbiamente un maggior valore di notizia. Il problema
è che nella cultura giornalistica queste preferenze vengono comprensibilmente formalizzate.
Cronisti e redattori, sapendo che le storie semplicistiche in bianco e nero piacciono
di più ai direttori, le vanno a cercare tralasciando notizie più sfumate, ma sicuramente
più realistiche. Per non parlare del fatto che questa idea preconcetta su che cosa
costituisce una «notizia forte» influisce sul lavoro di ricerca e di scrittura e toglie
equilibrio al pezzo. C’è una tendenza inconscia a smettere di fare domande quando
tutto è chiaro, semplice e netto. «Non controllare troppo» è il consiglio che danno
ridacchiando fin troppi capocronisti.
Da questo a considerare le notizie come qualcosa che deve essere confezionato per
renderlo conforme a una ricetta o a uno schema prestabiliti il passo non è molto lungo.
Nei giornali a grande tiratura, in particolare, i direttori sono determinati ad avere
articoli di un certo tipo – leggeri e spumeggianti oppure tanto sensazionali da lasciare
senza fiato. Appena arriva una notizia, i capiservizio decidono il titolo e il taglio
e poi loro stessi (o i cronisti) organizzano i fatti o il taglio in modo da far rientrare
ad ogni costo la notizia nello schema. È un tipo di giornalismo che si basa sui titoli.
Presenta ai lettori un mondo in cui succedono sempre cose straordinarie, esistono
solo certezze e cose semplici, chi ha torto e chi ha ragione, e soprattutto stereotipi.
I giornali inglesi si macchiano di questa colpa più di quelli americani. Per vari
motivi, il più importante dei quali è l’influenza della stampa popolare nazionale,
tutti usano lo stesso stile di scrittura «giornalistico», il cosiddetto «giornalese».
Interi quotidiani sono pieni di vecchie battute scontate, espressioni trite (nessuna
storia sui gatti è mai completa senza un accenno alle loro «sette vite»), cliché e
una disinvolta esagerazione di routine (gli scontri politici, per esempio, sono sempre
definiti «liti furibonde»). Per motivi che vanno oltre il buon senso e qualsiasi spiegazione
logica, molti insegnanti delle scuole di giornalismo e non pochi direttori alle prime
armi incoraggiano questo tipo di linguaggio limitato e poco originale ritenendolo
una prova di «professionalità». C’è qualcosa di quasi totalitaristico nell’insistenza
a usare il giornalese. In America, dove non ci sono tabloid che influiscono sull’idea
comune di buon giornalismo, ci si conforma meno a uno «stile giornalistico» preciso.
Editorialisti e cronisti godono di maggiore libertà, e il risultato è una scrittura
migliore. Inoltre, se si esclude qualche isolata eccezione, la stampa americana cura
la scrittura molto più di quella britannica. Alcuni giornali americani assumono addirittura
insegnanti a questo scopo. Provate a suggerire una cosa del genere a un giornale inglese
e probabilmente vi manderanno subito dal medico per farvi curare.
Questi sono i limiti più estremi del lavoro giornalistico. Molti quotidiani non arrivano
a tanto, ma quelli che lo fanno, e i cronisti di quei giornali che hanno in parte
assorbito questa cultura, danno sempre la stessa risposta a chi solleva obiezioni:
i lettori. Nessun altro gruppo di persone viene chiamato in causa così spesso per
difendere qualcosa che altrimenti sarebbe indifendibile. Non esiste nessun altro gruppo
di persone i cui desideri vengono più regolarmente e intenzionalmente dati per scontati,
il cui vocabolario e la cui intelligenza vengono tanto paternalisticamente sottovalutati.
«È ora che vada a scrivere le mie 200 parole per quelli che muovono le labbra quando
leggono», era solito dire un corrispondente di un rotocalco britannico.
I valori dei lettori
È in nome dei lettori che si scelgono articoli e argomenti, si stabilisce il taglio
di una notizia, si scrivono e riscrivono introduzioni, si decidono presentazione e
struttura. Tuttavia, tra tutti gli elementi spesso in conflitto tra loro che fanno
un giornale, vale a dire le persone che forniscono possibili notizie (fonti), quelle
che le elaborano (cronisti, direttori, proprietari o amministratori) e quelle che
le consumano (lettori), queste ultime sono le sole a non partecipare al processo di
creazione. Occorre prevedere i loro gusti.
I giornali più consolidati e sofisticati lo fanno in vari modi. Nel corso degli anni,
gli stessi quotidiani e i loro giornalisti si costruiscono, sulla base delle reazioni
agli articoli, della posta e delle telefonate, delle lamentele e così via, una «conoscenza
aneddotica» di quello che vogliono i loro lettori. O piuttosto di quello che credono
che i loro lettori vogliano. Questa presunta conoscenza non sempre funziona e non
sempre è precisa. Finché non viene verificata da una ricerca seria, nessuno lo saprà
mai.
Spesso però questo non succede. Va piuttosto a combinarsi con i pregiudizi dei giornalisti,
dei capiservizio e dei proprietari per dare origine a un’idea fortemente personalizzata
di quello che i lettori vogliono, o che essi credono che dovrebbero volere. Non si
contano le volte che nelle riunioni di redazione si sente dire: «Quello che il lettore
vuole è...». Troppo spesso questo si basa sulle preferenze personali e sui gusti di
chi parla, o dei suoi amici, oppure, peggio che mai, su quelli che vorrebbe imporre.
Il problema è che i giornalisti spesso vivono in ambienti molto lontani da quelli
dei loro lettori, e hanno anche stili di vita, abitudini e gusti diversi. È probabile,
se sono giornalisti «seri», che si trovino spesso a contatto con autorità e personalità
importanti e quindi assorbano i loro valori. In molti paesi sviluppati, gli stipendi
relativamente da capogiro pagati da molti quotidiani fanno sì che i giornalisti respirino
un’aria diversa, mangino cose diverse e conducano una vita che si discosta molto da
quella dei loro lettori. Ci vuole molta più immaginazione di quella che ha la maggior
parte di loro per rendersi conto che i ristoranti che frequentano, i vestiti che comprano
e le vacanze che fanno non sono gli stessi piaceri di cui godono i loro lettori. E
se usano l’immaginazione, corrono il rischio di costruire un’arrogante parodia dei
gusti dei lettori.
Le ricerche, se condotte in modo scientifico, possono costituire una soluzione parziale.
Alcuni giornali giustamente utilizzano un istituto di ricerca per scoprire tutto quello
che possono sui loro lettori: età, rapporto tra uomini e donne, reddito, occupazione,
livello di istruzione, interessi, preoccupazioni, gusti, come passano il tempo libero,
come spendono i loro soldi, e così via. A quel punto sanno, ad esempio, quanti dei
loro lettori tra i 35 e i 40 vanno in vacanza in Francia, o quanti tra i 25 e i 35
hanno un telefono cellulare. L’unico problema è che queste informazioni vengono raccolte
per l’ufficio commerciale e molto raramente vengono passate ai giornalisti.
Le ricerche avviate dall’ufficio di redazione, invece, riguardano di solito gli atteggiamenti
dei lettori, nei confronti sia del giornale sia dei problemi e degli argomenti di
cui si occupa. Si possono ottenere informazioni con semplici sondaggi realizzati tramite
un modulo pubblicato sul giornale, con «gruppi di lettori», oppure chiedendo a un
istituto di ricerca di formulare domande strutturate per scoprire che cosa legge (o
sostiene di leggere) il loro pubblico. I sondaggi, tuttavia, sono disseminati di trappole
per gli sprovveduti. Dovrebbero porre domande specifiche su alcune questioni precise.
Non serve a nulla chiedere alle persone se vogliono più notizie: è chiaro che le vogliono,
ma di che tipo? E che cosa si dovrebbe tagliare per fare più spazio alle notizie?
Poi c’è il problema delle persone che dicono agli intervistatori quello che ritengono
vogliano sentirsi dire, o, peggio ancora, esprimono preferenze che vogliono far credere
di avere, invece di quelle reali.
Poco dopo il 1945, il quotidiano britannico «News of the World» era il giornale più
venduto al mondo. Ogni domenica vendeva 7 milioni di copie a persone pronte a divorare
il suo menù fatto di omicidi e scandali sessuali, inframmezzati da qualche articolo
«serio». Poi un giorno il direttore ebbe la sensazione che la moralità e i gusti stessero
cambiando e quindi commissionò un sondaggio. Vennero incaricate delle persone di andare
a casa dei lettori per chiedere cosa piacesse e non piacesse del giornale. Dato che
le interviste venivano fatte durante la giornata, trovavano in casa soprattutto donne.
Comprensibilmente, nessuna di loro era disposta a dire a un intervistatore uomo: «Sì,
mi piacciono le storie di stupro e tutte le oscenità, e mio marito ama molto le storie
sui preti che infastidiscono i bambini». Giuravano piuttosto agli intervistatori che
loro compravano il giornale solo per gli articoli seri. Il direttore lesse i risultati
del sondaggio e il giornale smise immediatamente di parlare di sesso. Dopo due settimane,
la tiratura era diminuita di 500mila copie. Alla terza settimana, il giornale aveva
cambiato direttore, il contenuto era tornato alla sua squallida normalità e nel giro
di poco tempo le vendite finirono per toccare gli 8 milioni e mezzo di copie.
In effetti i lettori tendono a fuorviare affermando che a loro piace una cosa mentre
ne preferiscono un’altra, e dichiarando in pubblico che disdegnano certe forme di
giornalismo, mentre in privato le divorano avidamente. È per questo che alcuni ricercatori
usano gli specchi segreti per osservare gruppi di lettori che leggono un giornale
e ne discutono il contenuto senza inibizioni. Esistono anche degli apparecchi simili
a visori che si applicano alla testa delle persone e seguono i movimenti degli occhi
per registrare esattamente quello che leggono, guardano di sfuggita o ignorano. Se
non si dispone della tecnologia o dei fondi necessari per questo tipo di pratiche
negromantiche, esiste un’alternativa che, per un giornalista, è molto più efficace
di qualsiasi ricerca: passare più tempo possibile con i lettori e osservarli. Quanti
giornalisti si sono mai soffermati a guardare le persone mentre scelgono un giornale
in edicola? O le hanno studiate nei bar o sui treni e hanno visto come leggono i giornali?
Questo fa parte dell’insaziabile curiosità che un giornalista dovrebbe provare nei
confronti dei lettori e che dovrebbe spingerlo a parlare con loro appena ne ha l’opportunità,
a incontrarli e a cercare di sapere più che può sul loro conto.
Gli inserzionisti sono l’altra componente del pubblico di un giornale, e per i quotidiani
a bassa tiratura sono economicamente più importanti dei lettori. Questa loro forza
commerciale fa sospettare a molti che gli inserzionisti esercitino continuamente il
loro potere per spingere i giornali a confezionare le notizie secondo le loro esigenze.
La cosa sorprendente è che casi di questo genere, anche se esistono, non sono molto
frequenti. Naturalmente ci sono state volte in cui i grandi inserzionisti hanno ritirato
la loro pubblicità per protestare contro una notizia data (o non data) da un giornale,
molti hanno minacciato di farlo e un numero ancora maggiore ha provato a fare una
telefonata amichevole al direttore o all’editore per ottenere quello che voleva. E
qualcuno ci è anche riuscito.
Il pericolo è maggiore quando un giornale, di solito un quotidiano di provincia, dipende
eccessivamente da un solo inserzionista o da un solo gruppo di inserzionisti. Ma molto
più comune di queste pressioni esplicite è l’influsso che i potenziali inserzionisti
hanno sulla scelta degli argomenti. L’ufficio commerciale esercita spesso forti pressioni
sul direttore affinché scelga certi argomenti perché sa o prevede che attireranno
pubblicità. Questo può comportare che ad alcuni argomenti venga dedicata più attenzione
di quella che altrimenti riceverebbero. Di solito la cosa è relativamente innocua
in sé, ma spesso si dimostra il primo passo verso la richiesta di ulteriori attenzioni.
Questi limiti del processo giornalistico – quelli endemici alla raccolta di informazioni
e quelli imposti dalle priorità dei padroni, dalla cultura redazionale e dai gusti
dei lettori – significano che forse la clausola di esonero consigliata alla maggior
parte dei giornali all’inizio di questo capitolo dovrebbe essere un po’ più lunga:
Questo giornale, e le centinaia di migliaia di parole che contiene, sono stati prodotti
in circa 15 ore da un gruppo di persone non infallibili, che lavorano in uffici angusti
e cercano di scoprire quello che è successo nel mondo da persone che sono a volte
riluttanti a parlare, e altre volte oppongono un deciso ostruzionismo. Il suo contenuto
è stato determinato da una serie di giudizi soggettivi dei cronisti e dei capiservizio,
temperati da quelli che sanno essere i pregiudizi del direttore, del proprietario
e dei lettori. Alcune notizie appaiono avulse dal loro contesto essenziale perché
altrimenti risulterebbero meno sensazionali o coerenti e in alcuni casi il linguaggio
usato è stato deliberatamente scelto per il suo impatto emotivo, piuttosto che per
la sua precisione. Alcuni articoli sono stati pubblicati solo per attirare gli inserzionisti.
Questi limiti sono inevitabili come gli incubi ricorrenti. I giornalisti possono rispondere
in un solo modo: stabilendo dei princìpi e degli standard universali e applicandoli.
Sono la loro unica difesa. Se lo faranno, potranno sconfiggere questi limiti. È un
obiettivo perseguibile, perché ogni giorno, in qualche parte del pianeta, qualcuno
ci riesce. I giornalisti continuano a denunciare la corruzione e la negligenza, a
svelare pericoli, a smascherare criminali e a raccontare fatti che qualcuno voleva
tenere nascosti. I giornali continuano a pubblicare informazioni e, per parafrasare
il direttore del «Times» di un secolo fa, a renderle di pubblico dominio. Perfino
i cattivi giornali fanno più bene che male, cosa che non possiamo dire dei governi.
Non posso darvi la formula del successo, ma posso darvi quella dell’insuccesso: cercate
di compiacere tutti.
Herbert Bayard Swope, direttore di un giornale americano
III. Che cos’è una notizia?
I giornali, a quanto sembra, sono incapaci di distinguere tra un incidente di bicicletta
e il crollo della civiltà.
George B. Shaw
Il compito di un giornale è quello di reperire informazioni nuove su questioni di
pubblico interesse e di comunicarle ai lettori nel modo più rapido e accurato possibile.
Tutto qui. Può fare molte altre cose, ad esempio dir loro che cosa pensa di un film,
come si piantano le patate, come si prospetta la giornata per i nati sotto il segno
del Toro o perché il governo dovrebbe dimettersi. Ma senza informazioni nuove, si
limiterà a commentare cose già note. Saranno interessanti, forse anche stimolanti,
ma un commento non è una notizia. Un’informazione sì.
L’affermazione più spesso citata a questo proposito la dobbiamo a C.P. Scott, all’epoca
direttore del «Manchester Guardian», il quale, in un editoriale firmato del 5 maggio
1921, scriveva che per un giornale
lo scopo principale è quello di raccogliere notizie. Anche a scapito della sua anima
deve fare in modo che non siano mai inquinate. Né in quello che dice, né in quello
che non dice, né nel modo di presentazione, deve mai fare torto alla pura verità.
Questo significa pretendere molto, se non addirittura l’impossibile. Ma più avanti
Scott aggiunge una frase che poi è stata citata almeno un milione di volte: «Il commento
è libero, ma i fatti sono sacri».
Il nocciolo di questa affermazione sta nella contrapposizione tra il valore dei fatti
e quello dei commenti. Se entrate in una stanza piena di giornalisti e chiedete chi
ha un’opinione su un’importante notizia del momento, tutti alzeranno la mano. Provate
a chiedere chi ha informazioni nuove, mai pubblicate, sull’argomento e quasi tutte
le mani si abbasseranno. Il fatto è che quasi tutti hanno opinioni, più o meno interessanti,
ma pochissimi hanno nuove informazioni. Le prime sono comuni, le seconde sono merce
rara e quindi di valore.
Che cos’è una notizia?
Esistono più o meno altrettante definizioni di notizia quante sono le storie stesse.
La definizione più comune e più trita è quella coniata nel 1882 da John B. Bogart,
caporedattore del «New York Sun», per cui un cane che morde un uomo non fa notizia,
ma un uomo che morde un cane sì. Questo ci ricorda che a fare notizia è tutto ciò
che è insolito. Ma non basta. Deve essere anche qualcosa di nuovo, qualcosa di cui
la gente non ha mai sentito parlare e, soprattutto, che interessa i lettori. Questo
significa che non fanno notizia solo le questioni che riguardano il pubblico o che
hanno un impatto sulla vita pubblica, ma anche quelle che presentano un qualche interesse
per il pubblico. La notizia del divorzio di due famosi attori non è di interesse pubblico
ma interessa il pubblico. Il miglior esempio di questo è ancora la vecchia vignetta
del «New Yorker» con due uomini in treno: uno tiene in mano un giornale in cui spicca
il titolo Tutte le cose importanti che dovete sapere e l’altro ha un giornale in cui
compare il titolo Chiacchiere, pettegolezzi e notizie stravaganti. La cosa divertente
è che il primo non riesce a distogliere gli occhi dal giornale del secondo.
Il valore di una notizia
Una notizia, quindi, è tutto ciò che è nuovo, mai pubblicato, insolito e interessante
in senso generale. I primi tre elementi si possono quasi sempre stabilire in modo
obiettivo. È l’ultima parte – che cosa è interessante in senso generale? – a provocare
le discussioni che ogni giorno si accendono in tutte le redazioni del mondo.
Ai due estremi, generalmente non c’è problema. Se muoiono 450 persone perché l’aereo
del presidente è precipitato su un grande magazzino del centro, si tratta sicuramente
di una grossa notizia, che farà senza dubbio esclamare «Accidenti!», seppure tra sé
e sé, a chiunque la leggerà. All’estremo opposto, il fatto che io ho appena comprato
una macchina è una notizia? È una novità, mai pubblicata e indubbiamente insolita.
Ma non è una notizia perché interessa solo la mia famiglia, la mia banca e il concessionario.
È su tutte le informazioni che si trovano tra questi due estremi che i giornalisti
discutono, cercando di decidere se una storia è forte o «appetitosa», se vale 200
parole o 700, un trafiletto o un titolo a caratteri cubitali in prima pagina. Per
chi è alle prime armi questo è, insieme all’attacco, uno dei grandi misteri del suo
lavoro, reso ancor più impenetrabile dalla facilità con cui i più esperti giudicano
rapidamente e con apparente sicurezza il valore di una notizia. Fortunatamente, possono
ricorrere a un aiuto pratico e articolato.
I fattori che determinano il valore di una notizia
Anzitutto stabiliamo subito una cosa: nel giudicare una notizia non si può sfuggire
alla soggettività. Tutto il processo giornalistico ne è pervaso e nessun cronista
o capocronista, per quanto cerchi di essere professionale e di soffocare i propri
pregiudizi, ci riuscirà mai completamente. Questo è più evidente che mai quando deve
scegliere l’argomento dell’articolo di fondo. Io penso che quello dei senzatetto sia
un problema interessante e importante, tu pensi che sia scontato e noioso. Questa
soggettività, anche se inevitabile, è un pericolo sempre in agguato, soprattutto quando
i giornalisti (spesso i capocronisti) cercano di spacciare le loro convinzioni personali
per obiettività. Essere consapevoli di questa tendenza è comunque una difesa contro
i suoi peggiori eccessi.
La soggettività non è la prima cosa che molti giovani giornalisti notano appena mettono
piede in una redazione. A volte, con loro grande sorpresa, non assistono neanche a
lunghe discussioni sul valore di una notizia. Vedono piuttosto che molti giudizi vengono
emessi con rapidità e sicurezza, apparentemente sulla base ben poco scientifica dell’istinto.
Il procedimento, tuttavia, è molto più ponderato di quello che sembra. Può apparire
istintivo perché buona parte delle riflessioni necessarie per decidere l’importanza
di una notizia sono state così automatizzate che vengono fatte molto rapidamente –
a volte troppo rapidamente.
Quello che segue è un tentativo di descrivere ciò che frulla – o dovrebbe frullare
– nella testa di un giornalista mentre giudica una notizia. In mancanza di un’espressione
migliore, potremmo definirli i fattori che determinano il valore di una notizia. E
sono otto. Sei riguardano la storia (argomento, mode, sviluppo, fonte, notorietà e
tempestività); uno riguarda il pubblico (i lettori); l’ultimo concerne il mondo in
cui il pubblico e il giornale vivono (contesto).
1) Argomento
È la categoria più generale in cui rientra la notizia – crimine, ambiente, salute,
diplomazia, economia, consumi, guerra, politica, e così via. In teoria tutti gli argomenti
sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri [Questa frase è una citazione letterale da La fattoria degli animali di George Orwell (N.d.T.)]. Il crimine, ad esempio, vale più della moda perché notoriamente interessa a più
persone. Ognuna di queste categorie può essere poi suddivisa in sottocategorie: ad
esempio, il crimine si suddivide in omicidio, truffa, rapimento, malavita organizzata,
droga, rapina, ricatto, stupro, aggressione, e via dicendo. Per il pubblico in generale,
ognuna di queste categorie ha un suo valore approssimativo che solitamente dipende
dalla sua eccezionalità in un certo ambito sociale o in una certa zona. È qui che
interviene il «contesto» (vedi sotto, all’ottavo punto). Ad esempio, i rapimenti in
genere hanno maggior valore di notizia delle aggressioni perché sono più rari.
2) Mode
Esiste anche un fattore legato alle mode – certi argomenti balzano improvvisamente
alla ribalta e per un certo periodo non si parla d’altro. Questo risulta più evidente
nel caso di notizie che circolano con discrezione da molto tempo, e poi all’improvviso
qualcuno inventa un’espressione o una parola per descriverle. Grazie a quel nuovo
nome accattivante, ricevono un’attenzione spropositata. Termini nuovi come air rage (furia aerea) ne sono un classico esempio. Le rapine nelle strade, le liti tra automobilisti
e l’uso di un’automobile per irrompere in un locale esistono da quando esistono le
strade e le macchine. Ma con il nome di mugging (aggressione selvaggia), road rage (furia sulla strada) e ram raiding (colpo d’ariete) danno quel brivido in più e sono andati tutti di moda per un certo
periodo.
La storia di questi fenomeni risale a molto tempo fa. Nel 1862, il «Times» scatenò
un certo panico per l’improvvisa diffusione di quelle che chiamava garroting – aggressioni alle spalle. In alcuni quartieri, quando questi resoconti andavano
per la maggiore, la gente si rifiutava di uscire di casa. Il fenomeno, tuttavia, si
placò ben presto. Da allora, tra questi tipi di notizie possiamo annoverare il Grande
Terrore dei Ciclisti, negli anni Novanta dell’Ottocento. All’epoca il «Daily Graphic»
fece sobbalzare i cuori dei borghesi con il racconto di orde di ciclisti che «suonavano
il campanello e si aspettavano che la gente si togliesse di mezzo continuando a pedalare
a 15 chilometri l’ora». Negli anni Cinquanta del Novecento, ogni giovane operaio maschio
era un Teddy Boy; negli anni Sessanta chiunque girasse in scooter era un fanatico
del rock; negli anni Settanta ogni giovane con i capelli lunghi era un hippie e un
drogato; negli anni Ottanta ogni grande raduno di giovani era un concerto di rock
psichedelico e negli anni Novanta ogni minimo screzio tra automobilisti era un episodio
di road rage. Adesso è facile sogghignare, ma è difficile resistere quando tutti scrivono titoli
allarmistici. In genere, qualche articolo che esamina freddamente i dati relativi
al fenomeno può fungere da antidoto.
Ci sono anche altre mode più durature nel mondo dei giornali. Alcune sono dovute al
cambiamento degli stili di vita e alle nuove tecnologie, altre no. Trent’anni fa,
le inchieste, i servizi sui diritti dei consumatori e le analisi sulla povertà erano
molto comuni. Oggi sono stati sostituiti dalle notizie sui personaggi famosi, i media,
gli stili di vita, i sondaggi d’opinione e le nuove tendenze, molte delle quali sono
quasi interamente false. I motivi di questo cambiamento sono due: il costo (scrivere
articoli sulle celebrità e sui loro stili di vita costa meno che investigare perché
di solito le notizie arrivano direttamente dai loro uffici stampa) e la necessità
che molti direttori sentono di rendere i loro giornali «più attraenti» e «più accessibili».
O addirittura, come dicono alcuni, «più vicini ai gusti delle donne», poiché molti
giornali danno paternalisticamente per scontato che alle lettrici interessino gli
articoli sulle tendenze della moda e i rapporti personali e non le notizie serie.
3) Sviluppo
È l’evento specifico all’interno dell’argomento e della sottocategoria che è al centro
della notizia. La sua eccezionalità ne determina in buona parte il valore anche senza
fare riferimento al pubblico. È la valutazione pura e semplice di quanto sia insolito
questo particolare sviluppo. Come esempio potremmo prendere la disputa in corso da
diversi anni tra Regno Unito e Francia perché quest’ultima rifiuta di acquistare carne
di manzo inglese a causa della possibilità che sia contaminata dal morbo della mucca
pazza. Il progetto di nuovi colloqui sarebbe una notizia minore (a meno che una delle
due parti non avesse rifiutato l’incontro). I colloqui sui vari problemi, dopotutto,
si tengono continuamente. Ma la notizia di una delle due parti che abbandona i colloqui
sarebbe molto più rara e quindi più importante. La scarsa eccezionalità è il motivo
principale, insieme al momento sbagliato, per cui una notizia viene scartata o le
viene concesso meno spazio. Dello sviluppo fanno parte i tre elementi che seguono.
4) Fonte
Il valore dello sviluppo dipende anche dalla fonte da cui proviene. Un politico dell’opposizione
può dirvi che il presidente sta per dare le dimissioni, ma se ve lo dice il presidente
stesso, o uno dei suoi collaboratori più stretti, la notizia è ovviamente più forte.
Lo sarà ancora di più se siete voi a scoprire che sta per dimettersi, ma non vuole
che se ne sappia il vero motivo – e voi lo sapete e lo comunicate ai vostri lettori.
5) Notorietà
Vale a dire quante persone sono a conoscenza dello sviluppo. Le notizie di maggior
valore sono quelle che riportano per la prima volta uno sviluppo ignoto a tutti tranne
che alla fonte (o alle fonti), forse perfino ai colleghi o alla cerchia di persone
a loro più vicina. Il valore di una notizia diminuisce se è già nota al pubblico perché
ne ha parlato un altro giornale. Una notizia trasmessa in televisione o alla radio
può perdere valore, ma non nella stessa proporzione. Nelle redazioni dei giornali
nazionali si sente spesso dire di una notizia: «Credevo che lo sapessimo già», intendendo
dire che è stata già raccontata da quella angolatura. Se controllando gli archivi
salta fuori un articolo precedente, la notizia viene eliminata. Tuttavia, questo metodo
viene spesso usato dai capiservizio per minimizzare una notizia che a loro non piace.
Sentirlo dire di frequente senza un buon motivo dovrebbe far scattare il vostro campanello
d’allarme contro i pregiudizi.
6) Tempestività
Diversamente dal vino, le notizie non migliorano invecchiando. Il tempo trascorso,
tuttavia, non è in sé il fattore principale. Se scoprite uno sviluppo importante tre
settimane dopo che si è verificato un dato evento, l’elemento cruciale non è il ritardo,
ma quante persone sono venute a conoscenza di tale sviluppo nel frattempo. Se la notizia
non è ancora di pubblico dominio, il suo valore non diminuirà perché sono passate
tre settimane; anzi, a seconda del motivo del ritardo, potrebbe addirittura aumentare.
In genere lasciar trascorrere poco tempo tra il momento in cui lo sviluppo si è verificato
e quello in cui voi lo riportate può aggiungere valore alla notizia, mentre la mancanza
di tempestività è spesso un fattore negativo, perché il ritardo consente alla notizia
di divenire di pubblico dominio.
7) Lettori
Questo è il primo dei fattori non direttamente collegati alla specificità della notizia.
L’importanza del giudizio del pubblico su una notizia è il motivo per cui dovreste
fare di tutto per sapere il più possibile sui lettori. Altrimenti, non sarete mai
in grado di conoscere i loro gusti e i loro interessi, né quindi di giudicare correttamente
il valore dell’argomento e dello sviluppo. Sarebbe come parlare in una stanza buia
a un pubblico sconosciuto.
Ma la vostra conoscenza dei lettori dovrebbe servire a orientare i vostri giudizi
in generale e non a condizionarli sempre e comunque. Il giorno in cui vedrete le notizie
come una merce da vendere sul mercato smetterete di essere giornalisti. Assecondare
troppo avidamente quelle che ritenete siano le preferenze dei lettori può portarvi
al punto di filtrare o eliminare quelle notizie che non concordano con le loro opinioni
o di omettere alcuni aspetti scomodi, come il contesto, le spiegazioni e le precisazioni.
Questa è una cosa importante. Sfatare le false credenze popolari e mettere in discussione
le ipotesi più facili fa parte della missione di un giornalista. Non potete farlo
se siete troppo consapevoli delle reazioni del pubblico e troppo preoccupati di assecondarle.
Finirete per diventare affidabili quanto un innamorato così desideroso di compiacere
l’amata da dirle soltanto quello che pensa voglia sentirsi dire.
Lo scrittore satirico inglese Michael Frayn aveva questo in mente quando, in The Tin Men, ha raccontato la storia di un computer che veniva programmato per produrre quotidiani
in base ai risultati dei sondaggi di massa. Alla gente veniva chiesto quali storie
preferiva, con quale frequenza voleva leggerle e quali dettagli gradiva di più. Dovrebbe
esserci un disastro aereo al mese o più spesso? Preferite che vengano trovati dei
giocattoli tra i rottami o no? Se si parla di un delitto, la vittima dovrebbe essere
una bambina, una vecchia signora o una donna incinta non sposata? E il corpo dovrebbe
essere nudo o «semivestito»? Nel mondo esistono tanti giornalisti commerciali che,
armati delle loro ipotesi sui desideri dei lettori piuttosto che dei risultati di
un sondaggio, affrontano il giornalismo come fa il computer immaginato da Frayn.
A volte entrano in gioco anche altri preconcetti sui gusti dei lettori. Negli ultimi
anni sono tornate di moda le «interviste estemporanee» (in cui persone comuni esprimono
la loro opinione, non sempre molto originale, su una notizia) e le storie personali,
box collocati accanto all’articolo principale in cui qualcuno racconta la propria
esperienza. Più spesso di quanto sarebbe ragionevole aspettarsi, la malsana fissazione
dei direttori per queste aggiunte non è dovuta alla drammaticità dell’esperienza raccontata,
ma all’età, al sesso e all’aspetto della persona. Quello che ha da dire una donna
attraente sulla trentina, anche se è assolutamente banale, viene quasi sempre preferito
alla commovente testimonianza di una più anziana e meno fotogenica. Questa scelta
può anche non essere difendibile o edificante, ma è un fatto della vita per la maggior
parte dei giornali.
8) Contesto
È la situazione della zona di diffusione di un giornale (ambiente sociale, città o
regione) che vi aiuta a valutare l’eccezionalità dell’argomento e dello sviluppo.
Il valore di notizia di un evento varia a seconda di dove si verifica. Questo spiega
perché un settimanale della campagna danese darà a una sparatoria molto più valore
di un rotocalco di New York. Nel primo caso è un’eccezione, nel secondo è un evento
che si verifica molte volte al giorno.
A volte questo funziona al contrario, quando si accumulano molti casi dello stesso
sviluppo. Ad esempio, il fatto che un cane morda un uomo di solito non viene considerato
una notizia. Ma se una certa razza di cani continua a mordere le persone – e con ferocia
– il fatto diventa una notizia. È per questo motivo che il contesto dovrebbe sempre
essere chiarito, a volte in modo particolareggiato. In alcuni casi, il contesto è
generalmente noto, ma molto spesso richiede una ricerca e quindi diviene inseparabile
dallo sviluppo della storia. Perciò non andrebbe mai trascurato.
Il contesto è importante anche per difendere i giornalisti dall’accusa di essere sempre
negativi, sensazionalisti o interessati solo alle cose brutte. Ad esempio, se vivete
in un posto dove tutte le persone che entrano in ospedale vengono curate e accudite,
farà notizia se qualcuno improvvisamente viene trascurato e muore. Raccontare una
cosa del genere di solito viene considerato disfattismo. A parte il fatto che non
è compito del giornalista essere né negativo né positivo, chi lancia queste accuse
dovrebbe chiedersi quanto dovrebbero essere scadenti gli standard di assistenza medica
per produrre titoli come Si ricovera in ospedale e sopravvive.
La mobile graduatoria delle notizie
Una volta tenuto conto di questi fattori generali, l’importanza di una notizia può
essere giudicata solo caso per caso. Facciamo qualche esempio.
– Una nuova iniziativa di pace dell’Onu in un paese africano dilaniato dalla guerra
civile.
– Il divieto del governo di importare tutte le automobili straniere.
– Il divorzio di una famosa attrice di un serial televisivo.
– Un politico dell’opposizione che convoca una conferenza stampa per condannare la
politica finanziaria del governo.
– Un altro politico dell’opposizione che convoca una conferenza stampa per annunciare
che probabilmente concorrerà per la carica di Primo ministro.
– Quattro ragazze assassinate in tre giorni da un maniaco in un piccolo quartiere
della vostra città.
– Il governo annuncia nuovi controlli igienici nei ristoranti.
Quale notizia ritenete più importante? Quale mettereste in prima pagina? Naturalmente
questo diventa un esercizio impossibile se non sappiamo di che giornale si tratta
e chi sono i suoi lettori. Quindi provate prima tenendo a mente il giornale di maggior
tiratura della vostra capitale e poi un importante quotidiano economico.
Io sceglierei le ragazze assassinate per il giornale popolare e il divieto di importazione
delle automobili straniere per il quotidiano economico. Per raggiungere questa decisione
ho esaminato le notizie in base a una graduatoria che uso da anni, in modo essenzialmente
automatico e inconscio, come spesso si fa in questi casi. Non è stata mai pubblicata
finora, ma adesso ve la rivelo.
In fondo alla graduatoria ci sono le notizie su quello che dice la gente
Si tratta di notizie sui conflitti di idee o su nuove idee. Sono solo ‘chiacchiere’,
non è successo niente, qualcuno ha semplicemente detto qualcosa. A tradire la natura
di queste notizie è la presenza nel titolo di parole come «avverte», «sollecita» o
«invita». Nel maggio del 1994, in un numero del «Moscow Times» – un giornale russo
in lingua inglese per altri versi eccellente – nove articoli su tredici erano di questo
tipo. Significava veramente che, in un paese enorme che si estende per otto fusi orari,
nell’arco di un fine settimana erano successe solo quattro cose che meritassero di
essere pubblicate?
Sono due le trappole in cui un giornalista può cadere in questi casi. La prima è supporre
che dovremmo riportare qualcosa solo perché l’ha detto un politico. Non è vero. Ogni
giornalista dovrebbe avere sulla sua scrivania un cartello col motto «Sono solo politici».
Il fatto che un uomo di mezza età in doppiopetto grigio abbia deciso di fare un discorso
o una dichiarazione non fa necessariamente notizia. La maggior parte dei discorsi
e delle dichiarazioni è espressione dell’ovvio. È solo quando contengono qualcosa
di sorprendente che diventano notizie. Un noto riformista e politico progressista
che condanna la lentezza con cui si evolve la società non dice niente di nuovo. Ma
se annuncia di essersi convertito al comunismo, allora sì che fa notizia.
La seconda trappola è quella del cosiddetto pseudo-evento: conferenze stampa, interviste
e cose simili. Le conferenze stampa non fanno, come alcuni giornalisti sembrano credere,
notizia di per sé. Non è successo nulla. Il mondo non è cambiato di una virgola. È
accaduto solo che un politico o una persona famosa hanno voluto rilasciare una dichiarazione,
di solito per motivi personali, il primo dei quali è farsi pubblicità. L’unica cosa
che conta è il contenuto del messaggio. Siate sempre scettici nei confronti di questi
pseudo-eventi.
Poi vengono le notizie su quello che la gente dice che succederà
Di solito si tratta di persone che denunciano pericoli o richiedono interventi. I
politici abusano di questo tipo di sollecitazioni, aiutati e spalleggiati da giornalisti
pigri che trovano molto più facile assistere alle conferenze stampa che andare in
giro a cercare vere notizie. Ma a volte questi eventi hanno almeno il pregio di darci,
insieme all’aria fritta, qualche informazione seria e concreta su una certa situazione.
A seguire ci sono le notizie su quello che la gente dice che sta succedendo o è successo
in passato
Sono le notizie sui risultati delle ricerche, in cui qualcuno vi racconta che cosa
ha scoperto. Sotto sotto dev’esserci qualcosa.
In cima alla lista ci sono le notizie su quello che è accaduto
Sono le notizie che riguardano sviluppi, avvenimenti, incidenti, disastri, processi
e molti altri fatti concreti, reali e dimostrabili.
Un elemento importante per giudicare il valore di una notizia è quanti dei vostri
lettori riguarda
Più sono numerose le persone coinvolte in un evento, più forte sarà l’articolo che
ne parla. Se i lettori sono coinvolti direttamente, tanto meglio.
Più durano gli effetti di quello che state raccontando, più valido e forte sarà l’articolo
Un articolo su qualcosa i cui effetti durano solo un giorno o due è chiaramente più
debole di uno su qualcosa i cui effetti sono permanenti.
Come accade per tutte le norme empiriche, esistono sempre delle eccezioni alla regola.
Un fattore determinante è spesso la moda. Notizie che una settimana prima avrebbero
a malapena meritato un trafiletto all’interno del giornale, finiscono improvvisamente
in prima pagina sull’onda dell’attualità. Ulteriori sviluppi, un avvenimento, un incidente,
un disastro, possono fare dell’argomento la notizia della settimana. Ma può anche
funzionare al contrario, e questo spiega perché essere i primi a pubblicare una notizia
spesso non è conveniente come sembra. Quando si ha a che fare con le notizie, spesso
la scelta del momento giusto è essenziale.
Infine, i cronisti dovrebbero sempre ricordare che il fatto che sono stati loro a
scoprire qualcosa non ne fa necessariamente una notizia. Possono esserci voluti giorni
o anche settimane di indagini per trovare le ‘informazioni’ che stanno cercando di
vendere al loro direttore, possono aver affrontato ogni genere di difficoltà e superato
ogni genere di ostacoli – ma questo non rende la storia più interessante. Soltanto
in casi molto eccezionali al lettore interessa sapere come il cronista ha scoperto
le informazioni.
In questo giornale, la separazione tra le pagine di cronaca e quelle degli editoriali
e dei commenti è solenne e totale. Questa separazione è intesa come un servizio ai
lettori, che hanno il diritto di trovare i fatti in cronaca e le opinioninelle pagine
dei commenti e negli editoriali. Ma questa separazione di funzioni non è mai intesa
a eliminare dalla cronaca gli approfondimenti, le analisi o i commenti onesti che
siano chiaramente distinti dai fatti.
Ben Bradlee (quando lavorava al «Washington Post»)
IV. Da dove arrivano i buoni articoli?
È la cronaca che cattura l’attenzione dei lettori, ma sono gli approfondimenti che
li tengono avvinti.
Lord Northcliffe
A volte le storie migliori sembra saltino fuori dal nulla – sono incidenti inaspettati,
dimissioni e catastrofi così spaventose che bastano i fatti puri e semplici a farli
finire in prima pagina. Noi giornalisti non possiamo contribuire a crearli in alcun
modo, possiamo solo studiarli accuratamente e darne dei resoconti scritti. Invece
molte altre buone storie esistono proprio grazie ai giornalisti. Sono quelle notizie
che nascono come incidenti minori ma diventano sensazionali grazie alla scoperta di
qualche aspetto che fino a quel momento nessuno aveva mai rivelato; e le vere storie
impreviste, di cui il pubblico non sa nulla fino a quando un giornalista non le scopre
e le racconta.
Non c’è niente di casuale in tutto ciò. I buoni articoli di questo tipo non saltano
fuori dal nulla; nascono perché un bravo giornalista sa dove andare a cercare e conosce
il proprio mestiere: proprio per questo capita più spesso a lui di scriverli che a
un giornalista qualunque. L’apparente mistero dell’origine di una buona storia in
realtà non è affatto un enigma. Basta avere un solido metodo di lavoro, e sapere dove
andare – e non andare – a cercare.
Quali sono le abitudini di un cronista affermato?
I migliori cronisti trovano le storie migliori perché hanno un acuto senso della notizia
e sanno dove cercare, con chi parlare e che cosa chiedere. Dei dettagli parleremo
nei prossimi tre capitoli sulle ricerche, sulle fonti e sulle interviste. Esistono
però altre abitudini dei giornalisti, forse meno ovvie ma altrettanto essenziali,
che producono sempre buoni articoli.
Non lasciare nulla di intentato
La determinazione è forse la qualità che distingue più di qualsiasi altra cosa un
buon giornalista da un cronista qualunque. È proprio quando gli altri cronisti dicono:
«Oh, non vale la pena di chiamarli», o «Non ha senso restare ancora qui», che i reporter
migliori si mettono all’opera. Un esempio classico, ma più che mai importante perché
riguarda il nostro lavoro quotidiano, è quello della notizia che Derek Lambert scoprì
quando era in prova al «Daily Mirror». All’inizio sembrava si trattasse di un banale
caso di omicidio. Un polacco era stato trovato accoltellato nello scantinato di una
squallida pensione di Manchester e Lambert era stato mandato a scoprire quello che
poteva. La faccenda non sembrava molto promettente. I vicini non sapevano (o dicevano
di non sapere) nulla, il poliziotto messo a guardia della scena del delitto non voleva
parlare, e quando Lambert andò al distretto di polizia gli dissero che non potevano
aggiungere nulla alla breve dichiarazione che avevano già rilasciato.
A questo punto un giornalista qualunque sarebbe tornato in redazione e avrebbe riferito
che non si sapeva molto di quella storia; ed è esattamente ciò che fecero i concorrenti
di Lambert. Ma lui era di una stoffa diversa: rimase dov’era, deciso a saperne di
più, magari strappando qualche parola a un poliziotto fuori servizio. Dopo un po’,
vide degli agenti che uscivano dal distretto e salivano in macchina. Nella speranza
che stessero indagando su quel caso, tornò sulla scena del delitto. Arrivato lì vide
due uomini in borghese che bussavano alle porte. Si presentò a loro e cominciò a parlare
del caso. L’uomo che era stato ucciso, gli dissero, era un informatore della polizia
che era stato prima investito da una macchina e poi accoltellato. Lambert aveva la
sua storia, e nel giro di pochi minuti la stava dettando in redazione. Il pezzo cominciava
così: «Ieri sera la polizia ha cominciato a indagare sul mistero dell’uomo ucciso
due volte». L’articolo finì in prima pagina e Lambert si assicurò un posto al «Mirror».
Andare in giro
A volte le buone storie arrivano anche a quelli che se ne stanno seduti ad aspettarle
in ufficio, ma molte persone sono più disposte a parlare faccia a faccia che non al
telefono. E un’esperienza di prima mano, piuttosto che di seconda, tende a produrre
articoli migliori, che si tratti di un funzionario appostato in fondo alla sala dove
si tiene una conferenza stampa che vi dice
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