a Paolo S., pronti per il grande urlo
Bologna e il suo artista di maggior successo
Ieri sera la città di Bologna ha celebrato l’ennesimo trionfo del suo artista di maggior
successo negli ultimi tremila anni, il cantante rock Vasco Rossi.
Personalmente mi trovavo lontano, su un’isola del Tirreno che non misura neppure quattro
chilometri quadrati e, complice la distanza, mi ero dimenticato che fosse giunta la
sera del grande concerto allo stadio.
L’ho scoperto quando ho composto il numero di cellulare di mio fratello: non appena
la comunicazione si è attivata, ho percepito un bailamme d’inferno. «Ricky?» lo chiamavo.
«Riccardo? Riesci a sentirmi?»
Subito mi sono convinto che gli avessero rubato il cellulare, e che ora i ladri si
trovassero in qualche discoteca, a rispondermi per dileggio.
Poi la voce franta dall’emozione di mio fratello si è fatta largo attraverso muraglie
di watt. «Sono da Vasco» gridava come un ossesso. «Non sento niente, ti chiamo domani»
e, prima di riattaccare, è riuscito ad aggiungere «Stupendo».
Sono da Vasco.
Come si trovasse seduto nel salotto di casa sua.
Fra non molto mio fratello varcherà la linea d’ombra dei trent’anni, e per i/le più
attenti/e ai gender studies aggiungo che si trovava lì con la promessa sposa. Contate poi che dentro quello stadio
intitolato al presidente dell’ultimo scudetto del Bologna, quello stesso impianto
in mattoni rossi all’ombra del quale mio fratello ed io crescemmo, si trovavano anche
i nostri genitori. Magari non a sgomitare sottopalco fra i più tatuati, magari al riparo della tribuna,
ma c’erano. Il Pater, nato nell’anno della Liberazione, sarebbe un docente universitario
con tanto di barba. E anche nostra madre, ve lo giuro, non è il genere di signora
che si atteggia a ragazzina.
Però hanno comprato i loro bravi biglietti su eBay e via per mano, nel cuore della
pazza folla, attraverso i tornelli imposti dalle ultime leggi speciali in tema d’ordine
pubblico negli stadi.
Perché il catino di mattoni del Renato Dall’Ara è innanzitutto devoto al calcio. Da
oltre ottant’anni ospita le gesta del Bologna FC 1909, l’ex squadrone «che tremare
il mondo fa» scudettato per l’ultima volta nel ’64 e creduto risorto, o quasi, nella
seconda metà degli anni Novanta con Baggio e Signori.
Ma di questo parleremo più avanti, non appena ci troveremo di nuovo in città.
Per il momento basterà tenere a mente che ai piedi dei colli di Bologna c’è questo
stadio monumentale lambito dal portico che risale la groppa del colle di San Luca,
e che quando ci canta Vasco vi si riuniscono tutti, amici e promessi sposi, genitori
e figli.
Ci sono stato anch’io ‘da Vasco’, quasi sempre senza accredito per la stampa: al Dall’Ara,
al Palamalaguti di Casalecchio, a Rimini, a Milano e, naturalmente, a Imola nel ’98,
la magica sera della consacrazione racchiusa nel live Rewind.
Eravamo centoventimila, assicuravano i bene informati, ma i ragazzi privi di biglietto
continuavano a scavalcare le reti dell’autodromo e a gettarsi dentro con l’energia
dei disperati, puntando il cuore della bolgia anche quando il concerto volgeva ormai
al termine.
Qualcuno fra i più raffinati potrà storcere il naso di fronte a tanta devozione per
un cantante così popolare, ma in fondo è una questione d’affetto e di attitudine, e insieme di età anagrafica:
se aveste avuto quindici anni nelle ‘notti magiche’ del millenovecentonovanta, quale
musica sarebbe uscita dalle casse incorporate nel bauletto della Vespa degli amici
più grandicelli e rebel?
Se non avete avuto la fortuna sfacciata di crescere negli anni superitaliani di punk,
paninari e ultras, o malauguratamente soffrite d’amnesia, volentieri vi rinfrescherò
la memoria: da quelle casse sarebbero uscite molto spesso hit come Vita spericolata, La combriccola del Blasco, Fegato spappolato, o la più dolente e recentissima – all’epoca – Liberi liberi.
Quella dei Mondiali in Italia fu un’ottima annata per Vasco, e un giorno non lontano
anche il sottoscritto avrebbe adornato la sua prima Vespa special con l’effigie adesiva
del nostro cantore d’elezione. Era una di quelle sticker che si comprano in autogrill,
oppure al mare: Vasco in versione Bollicine, ray-ban a specchio e scritta «Enjoy cocaine» sullo sfondo. Non doveva essere un
articolo ufficiale, ma emanava un tale sfrontato gusto del proibito da giocarsela
alla pari con le vetrofanie di Jagger con lo spino in bocca, e con quelle polverose
di Morrison sulle Dyane dei post-hippie.
Naturalmente, se avevi quindici anni a Bologna nel millenovecentonovanta, la cocaina
non sapevi neppure cosa fosse, e neppure eri sicuro di cosa significasse enjoy, però potevi già percepire in maniera chiara cosa fosse consentito e cosa proibito,
cosa l’ubbidienza e cosa la libertà.
Ero quello che si dice un bravo ragazzo, uno studente ginnasiale figlio d’insegnanti,
però fortunatamente mio padre non aveva buttato la collezione di vecchi vinili: era
un numero spropositato di singoli targati non solo Tenco, Endrigo, Di Capri, ma anche
Equipe 84, Dik Dik e Camaleonti, frammisti ai quali non mancavano perle come Uno dei mods di Ricky Shayne. Difficile raccontare che razza di brividi provavo nell’ascoltare
la voce lamentosa di Dylan, oppure capolavori british come il 45 giri di Ruby tuesday / Let’s spend the night together, o ancora il supremo White album in edizione originale.
Se mai ho sentito nella vita una chiamata, arrivava dai solchi di quei vinili e dai
nastri delle cassette che circolavano per casa: l’ermetismo pop di Battiato e il cantato
familiare di Guccini, i cantautori degli anni Settanta e l’uomo degli sballi ravvicinati
del terzo tipo.
Quando smetti di essere un cinno e varchi la linea d’ombra dell’adolescenza, i programmi che i genitori fanno sulla
tua testa ti appaiono fatalmente ingiusti e pallosi. Agli antipodi rispetto al tuo
sentire più autentico, quella rabbia che si scopre da ragazzi insieme a molte altre
emozioni, e di cui solo Vasco e il punk inglese sembravano dare conto in musica.
Chi altro???
Per questo fu una sorpresa scoprire il mio vecchio, nel cuore dell’estate ’85, che
lavorava alle bozze d’un suo libro sugli studenti cinquecenteschi ascoltando nel walkman
color ciliegia Colpa d’Alfredo. Fu lui a tradirsi: sentii la sua voce canticchiare gli inconfondibili versi, esaltandosi
nel sostenere che «quella stronza non s’è neanche preoccupata di dirmi qualche cosa,
che so una scusa...».
Dunque l’impeto debordante del primo Blasco non riguardava solo me.
D’altronde dov’è che avrebbe imparato a memoria le canzoni di Vasco, il sottoscritto?
Non solo infilando le cuffie del walkman color ciliegia, oh no. E neppure ai giardinetti
frequentati dai mascalzoni drughè.
Agli scout. È lì che sono stato contagiato dalla vascomania. Nel gruppo Agesci Bologna
16, a un tiro di voce da Porta Saragozza.
È una zona che oggi qualsiasi immobiliarista si sente autorizzato a definire ‘di prestigio’.
Per conto mio, sapevo solo che da casa dovevo contare venti minuti a piedi, quasi
tutti all’ombra del portico più lungo del mondo, una teoria di seicentosessantasei
archi (il numero non deve essere casuale) che collegano il centro della città al colle
della Guardia, dove sorge il santuario della Madonna di San Luca.
Se voglio raccontare cos’è Bologna per noi che ci siamo cresciuti, devo tornare ai
piedi dei colli, nell’ombra protettiva di quel lungo portico conosciuto da bambino.
Da casa sarà facile ricordare quel che c’era all’inizio, quando Vasco e Bologna erano
più giovani, e i nomi e i cognomi fioriranno sulla carta nell’esatto ordine di apparizione
che hanno avuto in questa storia.
Quando Bologna era Bologna
All’inizio non c’era Nord e non c’era Sud.
Non avevo idea delle differenze fra un paese e una metropoli, non sapevo da dove arrivassero
le voci dei cantanti che uscivano dallo stereo di mio padre e, per dirla tutta, quell’ignoranza
non mi dava nessuna pena.
Dal mio punto di vista, era tutto sotto controllo. Il sole sorgeva ogni giorno, polpette
e biscotti non mancavano, e la classificazione dei luoghi era già in atto in maniera
quasi scientifica: tanto per cominciare, ne esistevano di tre specie.
Innanzitutto c’era Casa, il posto in cui rifugiarsi e dal quale far partire le prime
caute esplorazioni per mano a mamma.
La seconda categoria era costituita dai Posti sicuri, le abitazioni di parenti e amici
di famiglia, i negozi che si frequentavano quasi ogni giorno, e un altro po’ di luoghi
noti, come i giardini di Porta Saragozza, dove erano in funzione fino al tramonto
due cavalcature a gettone: un papero (chiunque fosse, non era verniciato come il vero
Donald Duck) e l’asinello Cleto.
Forse ricorderete: un adulto infilava cento lire nella feritoia e la cavalcatura,
in groppa alla quale eri stato precedentemente issato, cominciava a caracollare sul
posto in un sordo brontolio d’ingranaggi che saliva dalla pedana.
La galoppata virtuale a bordo di Cleto, o dell’anatroide che insensatamente gli zii
mi giuravano essere Paperino («Sééé, con la berretta a pon-pon! E rossa, poi!»), durava
cinque minuti, ma al bambino che ero appariva insieme brevissima ed inesauribile,
abbastanza lunga per immaginare un futuro in cui, da solo, mi sarei spinto senza timore
oltre il recinto dei giardini attraverso la terza, residuale, categoria di luoghi:
l’Altrove.
L’Altrove era qualcosa che mi turbava. Ce n’era ovunque, affascinante e minaccioso.
Abbracciarne il concetto, portava con sé domande epocali: quanto si estendeva l’abitato?
Forse il mondo era un’unica conurbazione interamente coperta di case giallo ocra o
rosse, alte al massimo quattro piani e munite di portici?
Oppure, giunti a un certo punto, le case finivano e iniziava una terra selvaggia,
esterna alla civiltà, dove avevano le loro basi i Cattivi e gli animali feroci?
Non mi ci raccapezzavo. Se il mondo civile era tutto uguale al mio quartiere, dove
diavolo abitavano i simpatici protagonisti della serie Nutella e i bambini del mondo? Avrei dato il mio pallone preferito, per conoscerli! Ce n’erano alcuni con la pelle
nera e altri con gli occhi a mandorla, almeno un cinese col cappello a punta in fibra
vegetale, e un piccolo esquimese in pelliccia. Tipi così, in via Saragozza nel 1980,
li avrei notati di sicuro. All’asilo con me non ce n’erano, e quando varcai la soglia
delle scuole elementari a Casaglia, dove arrivavano con lo scuolabus bambini di tutti
i quartieri, lo seppi con certezza: i miei amici mangiatori di Nutella dovevano essere
rintanati al sicuro da qualche parte, molto lontani da Bologna.
Da noi, già eri strano se il tuo cognome non finiva in -i. Non ho mai sentito commenti
o insulti razzisti, alle elementari, ma il fatto di avere parenti a Napoli o, tenetevi
forte, in Molise era già qualcosa di assolutamente esotico.
In ogni caso ‘marocchino’ o ‘terrone’ non erano insulti in voga fra noi bambini: ‘nassista’ o ‘fassista’ andavano molto più forte.
Nelle date solenni, inquadrati sul terreno da calcio della scuola – il ‘campone’ –,
porgevamo il nostro saluto ai vecchi partigiani delle Brigate Garibaldi in visita
alla scuola coi fazzoletti rossi al collo e i gagliardetti. Intonavamo per loro, che
da ragazzi erano stati eroi come Actarus e Capitan Harlock, però in carne ed ossa,
Bella ciao o la inebriante Avanti popolo, che sugli scuolabus, al ritorno, diventava «Avanti popolo, alla riscossa, delle
maestre vogliam le ossa. Delle bidelle ce ne freghiamo, e delle cinne ci innamoriamo»,
dove le cinne sarebbero le ragazzine. Il massimo dell’osé, all’epoca.
Se qualcuno ci avesse raccontato che, nel giro di pochi anni, al posto di Drive in avremmo tentato di seguire (a volume molto ridotto, e prontissimi a cambiare canale)
Colpo grosso e I classici dell’erotismo, saremmo morti sul posto per la troppa emozione.
E non meno increduli saremmo stati se ci avessero raccontato che in altre scuole d’Italia
non si cantava Bella ciao, né si rendeva omaggio ai vecchi partigiani.
Quale maestra senza cuore avrebbe potuto trascurare di onorare l’anniversario della
Liberazione, o della strage di Marzabotto, quando sul nostro Appennino avevano trucidato
centinaia di persone, perlopiù anziani, donne e bambini come noi?
Sarebbe stato uno scandalo intollerabile. Erano forse amiche di Itler, queste maestre? Dei repubblichini? Delle Esce Esce?
Che mostrassero il grugno da noi a Casaglia, se osavano!
L’epica resistenziale, il buon funzionamento del sistema pubblico e il dogma dell’infallibilità
del Partito comunista come guida verso il progresso erano i tre capisaldi di quello
che, ora lo so, si chiamava «via occidentale al socialismo».
Naturalmente, non tutti votavano Pci: c’era anche chi voleva fare l’originale, come
mio zio Sandro, demoproletario della prima ora che da ragazzo «aveva fatto il ’77».
(All’epoca gli uomini si dividevano in tre classi d’età: quelli che avevano fatto
la guerra, quelli che avevano fatto il ’68 e quelli del ’77, come se la maturità coincidesse
fatalmente con l’aver partecipato a disordini su media o larga scala.)
Fra i quarantenni reduci del ’68 si notava in città qualche socialista all’arrembaggio,
poi si percepiva la presenza di un po’ di repubblicani e d’un discreto numero di controrivoluzionari
sparso nelle parrocchie, di cui facevano parte anche i miei nonni e i famosi fratelli
Prodi, spesso evocati come esempio di onestà e devozione al lavoro nonostante fossero democristiani.
Vistose eccezioni a parte, non esisteva la minima possibilità che l’amministrazione
cambiasse colore, e ognuno lo sapeva: l’onda del ’68 era stata assorbita, gli ex ‘studelinquenti’
del ’77 avevano molti problemi d’identità, e così il buon ordine del Pci sembrava
regnare da sempre sulla città rossa, che la grande esplosione del 2 agosto 1980, progettata
per punirla, non fece che rinsaldare nella sua orgogliosa specificità.
E vai di feste dell’Unità, appuntamenti all’Arci, spese alla Coop, assemblee in sezione
e, per noi più giovani, Bella ciao inquadrati nel ‘campone’ della scuola. Il pomeriggio era buona usanza fare un po’
di moto: alla Società Ginnastica Sempre Avanti! potevi scegliere fra atletica, lotta,
boxe e ginnastica, proprio come a Mosca.
Chi immaginasse scenari alla Good Bye Lenin!, tuttavia, sarebbe fuori strada. Eravamo i figli della Bologna primi anni Ottanta:
ex libero comune, ex città pontificia, dal 1945 molto rossa e molto occidentale.
Provate a immaginare: macchine nuove e tirate a lucido per le strade, mentre davanti
alle vetrine griffate del centro il passeggio delle famiglie incrocia le ultime manifestazioni
di vitalità studentesca e l’andirivieni dei tossici diretti ai giardini del Guasto.
I vecchi siedono in sezione a ricordare la guerra, lavorano negli orti oppure affollano
le processioni in onore della Madonna di San Luca. Basket e football americano sono
fra gli sport favoriti dei ragazzi. I negozi sembrano stracolmi di ogni prodotto di
marca disponibile a ovest di Vienna.
La città compare regolarmente in testa alle classifiche nazionali del benessere, e
c’è da perdere la testa, fra i comunisti in Mercedes, la gente in giro fino a tardi
e lo stile tutto italiano dei paninari (a Bologna «Zànari», dal centrale bar Zanarini)
in agguato, a ribadire che erano tornati a girare i soldi.
Sarebbero bastati per tutti, vero?
«Non lasciare nulla al caso» poteva essere un adeguato motto per gli amministratori
bolognesi degli anni Ottanta, e «partecipazione» la loro parola-feticcio.
Tu partecipavi, e il Partito (senza bisogno di sponsor, all’epoca) ci metteva l’organizzazione.
Con l’adatta organizzazione e rimboccandosi le maniche tutti insieme si può fare ogni
cosa, e questo è un credo comune in tutta l’Emilia Romagna, questa regione che nel
basso Piacentino è già pianura distesa e austera, longobarda, mentre dall’Appennino
guarda da sempre alla Toscana e sulla costa ha scelto di essere la nostra California.
«Basta organizzarsi» per trasformare un sogno comune in un’attività imprenditoriale.
«Basta organizzarsi» per finanziare il più grande partito di massa dell’Europa occidentale.
«Basta organizzarsi» per trasformare il litorale sabbioso fra il delta malarico del
Po e il promontorio di Gabicce nella principale destinazione turistica italiana, per
ricostruire i quartieri bombardati e far sorgere più grandi e belle di prima le sezioni,
i circoli e le case del popolo.
All’epoca in cui ero cinno, nelle parole dei vecchi c’era un orgoglio particolare quando dicevano che «da noi»
le cose funzionavano.
Solo col tempo avrei imparato che non era scontato, ma anche cosa sottintendeva quel
«da noi».
Ad esempio, secondo i vecchi in canottiera negli orti, a Roma le cose non funzionavano
neanche un po’. In Meridione poi, scuotevano la testa, l’è piz ch’andèr ed nòt. Dove comandava la Democrazia cristiana non funzionava un bel niente, e se domandavi
come mai laggiù continuassero a votarla, i vecchi alzavano le sopracciglia e ti confidavano
in un sussurro: I n an brisa vojja ed lavurèr.
«E qui, invece?»
«Eh!» gonfiavano il petto. «Qui è diverso».
«Ah sì?»
«Puoi dirlo forte, cinno: Bologna è Bologna».
Da noi si smaniava, per lavorare. Era molto importante dimostrare agli altri di essere
lavoratori alacri e consapevoli. Per questo, raggiunta l’età adatta, i ragazzi con
la testa sulle spalle desiderosi d’un buon posto in Comune prendevano la patente e
si iscrivevano, se non al Pci, almeno alla Cgil.
In questo pubblico encomio del lavoro si sposavano le istanze del Partito, la coscienza
profonda della città papalina fattasi cattocomunista, e persino un incipiente leghismo-leninismo,
un malinteso qualunquismo al ragù che si sarebbe fatto largo anno dopo anno, e che
un giorno sarebbe valso all’ex macellaio Guazzaloca il posto di primo cittadino.
Il branco della Candida Luna
A sette anni divenni un lupetto del gruppo scout Bologna 16, ospite dei frati nei
locali della parrocchia di San Giuseppe.
Il branco Candida Luna mi sembrava un mondo nel mondo dalle tinte fantastiche, e anche
lì regnava il convincimento che, rimboccandoci le maniche e organizzati in maniera
adeguata, non c’era impresa impossibile.
Il capo del branco era l’Akela Silvestro. Era un ragazzo smilzo e barbuto dallo sguardo
allegro, che viveva il suo ruolo di educatore in maniera totalizzante: oltre alle
riunioni e le uscite del finesettimana, aveva istituito incontri supplementari il
mercoledì, ai quali ci si presentava senza divisa, unicamente per giocare insieme
e, nella cattiva stagione, abbellire la nostra tana.
In primavera era capace di organizzare incontri di polo con le bici al posto dei cavalli,
o di portarci nel fitto groviglio delle sunderbunds del Reno, a saltare come Tarzan con corde legate a mo’ di liane alle forcelle degli
alberi. Una volta costruì per noi una teleferica in grado di farci volare seduti a
due metri d’altezza fra i grandi alberi del giardino della parrocchia, un’altra volta
un rudimentale ascensore in corda grazie al quale nessun castagno sarebbe più stato
troppo alto, neppure se avevi otto anni.
Per me l’Akela Silvestro era un idolo, e se pure gli sarebbe succeduto un ragazzo
in gamba, la notizia che a settembre ci avrebbe lasciato mi sprofondò nello sconforto.
Perché ci aveva mostrato quel mondo meraviglioso, e adesso ci voleva lasciare soli,
a cantare in cerchio Terra di betulla senza di lui?
Poi l’amico Marcello, che abitava a due palazzi dal mio in via Porrettana, mi aprì
gli occhi: Silvestro si preparava a farsi frate. Mi sembrava una crudeltà, che ci
abbandonasse per rinchiudersi in un convento, ad ogni modo «se gli era venuta la vocazione»
andava rispettato, nello stesso modo in cui si rispettano i santi e i fuori di testa.
Quando ci riunì un’ultima volta nella nostra tana e fece buio per leggerci l’estrema
caccia di Akela così come è raccontata nel Libro della Giungla, la maggior parte di noi singhiozzava senza rimedio.
Eppure la vita del branco continuò, e ci divertimmo anche con il nuovo Akela Andrea.
Nel corso delle riunioni più importanti, venivano fatti oggetto di grande onore gli
ex membri illustri del gruppo: uno era Andrea Mercanti, l’autore del fondamentale
Manuale del trapper, il secondo un regista famoso, Pupi Avati, che forse aveva tenuto a mente l’atmosfera
delle sue escursioni giovanili nel raccontare Una gita scolastica.
Nel Bologna 16 respiravo a pieni polmoni il volto tollerante dell’associazionismo
cattolico: indossavano la camicia azzurra dell’uniforme figli di borghesi e di operai,
e sotto la tenda con i ragazzi delle famiglie tradizionaliste di origine agraria,
riparate in città dopo gli anni brutti della guerra civile, dormiva la progenie di
gappisti, militanti del sindacato e conclamati fricchettoni reduci dall’India. Nessuno
di noi percepiva di essere cresciuto in una terra a lungo lacerata.
Valori condivisi dall’anima progressista e da quella cattolica erano presenti in un’unica
proposta educativa, e in questo gli scout erano molto bolognesi. La domenica andavamo
a messa in uniforme, con il nostro emblematico fazzolettone metà bianco e metà rosso,
e sospettavamo che non ci fosse contraddizione fra essere cristiani e difendere i
diritti dei più deboli.
Forse per questo motivo solo pochi, nella variegata squadra dei compagni di strada
di allora, oggi votano Forza Italia, ma all’epoca per noi la politica significava
poco. Semmai ci dividevamo secondo altre linee di demarcazione: quelli che tifavano
la coppia Bologna-Juve contro i fedeli del non meno strampalato binomio Bologna-Inter;
sostenitori di Moser contro aficionados di Saronni e naturalmente, da noi a Basket City, virtussini contro fortitudini, in
una rete di appartenenze così complessa che ti ritrovavi spesso ad essere l’unico
fortitudino bolognista-interista tifoso di Moser di tutto il branco.
Nei lupetti, in ogni caso, erano tenute in conto altre questioni: se eri una zampa
tenera o un veterano provvisto di seconda stella, se avevi molte specialità o solo
un misero distintivo da chierichetto ti adornava la manica, e ancora se sapevi fare
o no il nodo del barcaiolo, il savoia e la gassa d’amante.
La padronanza di quest’ultimo nodo, cui il Manuale del trapper dava grande rilievo, poteva rivelarsi utilissima nel caso ci si aggirasse per le
montagne con una corda nello zaino e si presentasse l’eventualità di trarre in salvo
un altro ragazzino scivolato in un crepaccio. Ardevo dal desiderio di trovarne qualcuno,
possibilmente non troppo grasso, ma le mie vacanze in montagna, prima a Monzuno e
Loiano e più avanti in Alto Adige, non offrirono mai vere occasioni in questa direzione.
Invano mi affacciavo su calanchi e pietraie cercando tracce d’uno sfortunato da restituire
alla sua mamma: i miei coetanei erano già al rifugio a rimpinzarsi di gelato, oppure
costeggiavano il precipizio con passi agili nelle loro Diadora o Primigi, senza darmi
nessunissima soddisfazione.
Ulteriori capacità venivano affinate nel corso delle vacanze di branco estive, settimane
di sospensione dell’incredulità nel verde dell’Appennino. Imparavamo a smarcarci e
correre lungolinea durante una partita di rugby lupetto, a fare il pane, o addirittura a dominare una ciclostile ad alcol per stampare un’edizione
speciale del nostro giornale «l’Ululato».
Grazie a queste ed altre opportunità, la mia fede nel movimento scout era a prova
di bomba. Agognavo visitare la casa del fondatore Baden-Powell, su a Londra, e un
giorno lasciai di sasso i miei genitori domandando di essere sepolto, nel caso fossi
mancato all’improvviso, in uniforme da lupetto con i colori del Bologna 16 bene in
vista.
Estote parati era uno dei nostri motti, e già a quell’età mi sentivo pronto a tutto.
Cortile republic
Quando non si era a scuola e neppure ai lupetti, si migrava da nonna Pina per giocare
nel suo immenso cortile bordato dagli orti.
Era il nostro Far West e la nostra via Pal, e devo ammettere che era di grande sollievo
avere un compagno di giochi smaliziato come Iuri Giacobbi.
Senza il Druso, Malavasi e gli altri giovanissimi delle case Iacp non saremmo stati
una vera banda, ma anche da soli Iuri ed io sapevamo come cavarcela.
Fummo noi due – più lui che me – a difendere il cortile la volta in cui i cinni di via Perti alta provarono a invaderlo.
I maledetti sapevano che il Druso e gli altri erano costretti a riposare dopo pranzo,
e attaccarono alle tre d’un pomeriggio d’estate, mentre Iuri ed io giocavamo alle
corse dei tappi, chini sulla pista disegnata con il gesso sull’asfalto assolato.
«Moser in volata solitaria...», mi esaltavo dopo un buon cricco.
Toccava criccare a Iuri, che col suo tappo di birra Pedavena interpretava Saronni, quando un grido
terrificante e vicinissimo ci costrinse a sollevare gli occhi.
«Mani in alto, bagagli! Vi dichiaro nostri prigionieri!»
Erano solo in due, il barbaro ciccione Trechiappe e il suo amico del cuore Zucca.
Dovevano essere scivolati silenziosi come indiani huroni fino al cancello. Erano arrivati
a ridosso del sacro confine del cortile, e ora ci tenevano sotto tiro da pochi passi
con le cerbottane di ferro.
Poiché esitavamo, annichiliti dalla sorpresa, ci spararono addosso a tradimento. Un
colpo prese in fronte Iuri che si rialzava, ma lui diede appena un gemito.
«Arrendetevi, bagagli!» gridava Trechiappe. «Aprite questo cancello prima che lo scardino».
«Ammettetelo, che voialtri delle case Iacp siete degli sfighè!» gli dava manforte Zucca mentre ricaricava la cerbottana.
Oggi è diventato un avvocato. E Trechiappe lavora nella drogheria dei suoi genitori,
dieci minuti a piedi dal cortile.
«Questo territorio è nostro», disse semplicemente Iuri. «Spostatevi da quel cancello
e tornate nel vostro posto schifoso, se non volete la guerra».
«Guerra!» confermò Trechiappe. «Apri questo cancello e te la mostro».
Facevano sul serio e, prima di beccarci una nuova gragnuola, corremmo a ripararci
dietro la Ritmo nuova di mio zio Franco.
Quei due dovevano avere preparato centinaia di munizioni, e mentre i pallini di stucco
schioccavano a ripetizione sulla carrozzeria, ci provocavano per farci uscire allo
scoperto: «Venite fuori da lì, conigli! Aprite il cancello e vediamo chi comanda da
’ste parti!».
Non sapevo fino a che punto potesse manifestarsi la furia delle orde di via Perti
alta, ma avevo sentito dire che Trechiappe, una volta, si era arrabbiato con il vecchio
postino e l’aveva ucciso con un pugno. Non sapevo se era vero oppure no, ma di sicuro
il vecchio postino non si era più visto in giro, e adesso a portare le lettere veniva
una ragazza.
«Non vorrai mica dargli soddisfazione» dissi a Iuri che fremeva, e per tirarmi su
di morale presi a insultarli con parole copiate dai libri della biblioteca.
«Maledetti commodori!», gridavo ginocchioni dietro la Ritmo. «Anacoreti puzzoni! Olonesi nefasti!» Avevo
un tono così indignato che le vecchie hanno cominciato ad affacciarsi alle finestre.
Iuri scuoteva la testa: stavo sbagliando qualcosa di fondamentale.
«Stiamo facendo la figura dei vigliacchi», considerò.
Pensavo pieno di rancore al Druso e a Malavasi addormentati come bambine ubbidienti
nelle loro camerette, e pensavo che forse eravamo ancora in tempo per ripiegare verso
la porticina delle cantine. Però bisognava sganciarsi in fretta, prima che i maledetti
dessero la scalata al cancello.
«Forse dovremmo farli entrare, e provare a combattere», disse il mio amico. Gli bruciava,
quella figuraccia. Preferiva perdere sul campo. Ma perché, in fondo, farsi prendere
a pugni e schiaffi da quei selvaggi, rischiando persino di morire?
«Non so» esitai. «Almeno andiamo a prendere le cerbottane anche noi». Ma era troppo
tardi: gli invasori stavano già scavalcando il cancello.
«Eccoli che arrivano» commentò Iuri sorridendo, come se non vedesse nessun problema
serio all’orizzonte, e uscì dal riparo della macchina gridando «Tregua, tregua».
Lo presero alla coscia e su un orecchio, poi alzarono le cerbottane per usarle come
manganelli. Iuri avanzava a mani in alto verso di loro, mansueto. Diceva che ormai
avevano vinto e stravinto, tirava in ballo la convenzione di Ginevra e quelli non
sapevano più tanto bene cosa fare.
«Vi firmiamo un foglio dove si dice che siete padroni anche di questo cortile», proponeva,
e io sbalordivo del suo tradimento.
Gli invasori rimasero a guardarlo mentre andava verso di loro. Soddisfatti, le cerbottane
a mezz’asta, come inebetiti dal facile successo. Non appena il mio amico li ebbe a
tiro, però, lo vidi sferrare un calcio micidiale dritto al cavallo di Trechiappe.
Più avanti raccontò di averlo preso in pancia, vantandosi di avere messo in atto non
so più quale tecnica orientale, ma la verità è che aveva calciato di punta, all’improvviso,
con il piede a martello.
Trechiappe franò su se stesso, pallido come gli avessero staccato l’elettricità, e
il futuro avvocato Zucca, anziché soccorrere l’amico, gridò: «Assassino! L’hai ammazzato!»,
per poi darsi alla fuga verso la villetta natìa.
Vittoria!
Il ciccione dal destro micidiale era fuori combattimento, sdraiato al centro del cortile
come una vittima sacrificale: la grande pancia all’aria, si tamponava il cavallo dei
pantaloni con le mani inzaccherate di stucco e, con un filo di voce, piagnucolava
che gli erano saliti i maroni.
Ero fiero di Iuri e della sua astuzia degna di Ulisse, mentre raccoglievo la cerbottana
metallica di Trechiappe e la prendevo in consegna come preda di guerra. Certo, mi
inorridiva l’idea che a qualcuno potessero salire i maroni, ma erano stati loro a
invaderci a tradimento. Credevo che in ogni caso, nella nostra immensa generosità,
l’avremmo lasciato andare senza infierire.
Invece vidi Iuri valutare quel grande corpo inerme, poi aprire le braccia e spalancare
gli occhi come avesse ricordato qualcosa all’improvviso.
«Antonio Inoki! Volo d’angelo!» gridò sotto i tigli del cortile. «Prendi questo, André
the Giant» e, mentre si tuffava a gomito in avanti sul povero Trechiappe, pensai che
tutto il catch giapponese in tivù stava soffocando il nostro lato cavalleresco.
Saranno state le battaglie in cortile affrontate con Iuri o i buoni consigli contenuti
nel Manuale del trapper, sarà stata la cucina sostanziosa di nonna Pina o forse quell’umore misterioso che
ha la virtù di far crescere i bambini, fatto sta che, un poco alla volta, cominciavo
a raccapezzarmi in tutto quell’Altrove.
Vasco in via delle Bombe
Verso sera si tornava a casa, in via Brigate Partigiane, carichi di racconti, ricordi
e rimpianti.
La Simca 1000 del Pater costeggiava il portico più lungo del mondo, e una volta superato
l’arco del Meloncello cominciavo a sentirmi a casa. Facendo a gara a riconoscere i
volti noti sul marciapiede, ci lasciavamo alle spalle una dopo l’altra le vetrine
e i negozi delle famiglie dei miei coetanei: la sala biliardi del bar Billi e la pizzeria
Marechiaro, davanti alla quale giocavano con l’allegra tribù dei cugini i miei amici
Galerio e Andres, poi il negozio di materassi della famiglia di Thomas e subito dopo,
sulla destra, si apriva una stradetta senza nome, un viottolo senza uscita che ancor
oggi va a morire contro la recinzione della curva ospiti dello stadio.
Tecnicamente sarebbe un interno della strada maestra contrassegnato dalla targa «segue
la numerazione», ma i ragazzini del quartiere la chiamavano da tempo immemorabile
«via delle Bombe».
E proprio lì in via delle Bombe, a tre traverse da casa nostra, viveva e scriveva
canzoni l’idolo Vasco Rossi, quando ancora non aveva mai riempito uno stadio, e neppure
un palasport.
Al massimo c’era il fratello più grande di qualche amico che si era spinto a ballare
allo Snoopy di Modena, e raccontava che a metà serata la musica si era fermata e il
patron del locale aveva annunciato ai ragazzi che il deejay Vasco sarebbe sceso in mezzo
a loro per presentare un paio di canzoni dal vivo. «Ma poi la musica ricomincia?»,
era stata l’allarmata domanda che aveva accolto la notizia.
Lì da noi, oltre l’arco del Meloncello, la strada maestra cambiava nome da via Saragozza
a via Porrettana, e nel 1980 nessuno avebbe definito quel reticolo di strade strette
fra la collina, lo stadio e il cimitero della Certosa «una zona di pregio».
Nei locali sotto la curva ospiti avevano la loro sede i vigili del fuoco, e a ridosso
del canale che porta in centro l’acqua del Reno c’era persino un luna park di dubbia
fama. E poi confinavamo pericolosamente con una zona ritenuta, nel corso degli anni
Settanta e Ottanta, ‘difficile’: passato il canale della Certosa si entrava nel quartiere
Barca, dopo il Pilastro il luogo più temuto dai bolognesi più tradizionalisti, quei
miei concittadini che leggono esclusivamente «Il Resto del Carlino» e «Stadio», la
domenica si mettono a tavola a mezzogiorno in punto, servono tortellini in brodo,
bollito e torta di riso con tutte le stagioni e parlano fra loro nel dialetto dei
padri. Servì qualche anno per convincerli che i «Barcaioli», alla fine, non erano
cannibali. Sui loro ex rivali «Pilastrini», stanziati al capo opposto della città,
va detto che ancora i più pavidi nutrono qualche sospetto.
Ebbene, proprio fra noi semiperifericos di via Porrettana aveva deciso di stabilire il suo domicilio Vasco all’alba degli
anni Ottanta: nel lembo estremo del quartiere Costa-Saragozza, in una viuzza senza
neppure un nome chiusa all’ombra del Dall’Ara, lo stesso stadio che ieri sera gli
ha tributato l’ennesimo trionfo.
«Incredibile», mi avrebbe confidato molto tempo dopo, quando ormai era diventato l’unica
vera rockstar del paese, ricordando quel periodo in via delle B
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