1. Le origini della censura
Tacito racconta che al tempo di Tiberio imperatore Cremuzio Cordo fu accusato di un
delitto nuovo e inaudito (novum ac tunc auditum crimen). Aveva pubblicato scritti in cui esprimeva il rimpianto verso le antiche virtù repubblicane
e aveva definito Cassio l’ultimo dei romani. A nulla valse la ferma difesa dello scrittore
della libertà di parola, poiché il Senato decretò che i suoi libri fossero dati alle
fiamme.
Quasi duemila anni dopo un altro fuoco. Il 10 maggio 1933, di fronte all’Università
di Berlino, bruciavano le opere degli autori liberali e democratici, perché fosse
chiaro che la presa del potere nazista sulla Germania non si limitava alle istituzioni,
ma doveva incidere in profondità sulle coscienze.
L’immagine del rogo dei libri ha una lunga storia alle spalle e rappresenta con drammatica
efficacia l’estrema conseguenza del conflittuale rapporto tra poteri organizzati e
voci avvertite come dissidenti. Nello stesso torno di tempo l’atto di censurare ha
però conosciuto meno appariscenti, ma forse più rilevanti gesti che hanno variamente
influito sulla nostra civiltà e sui modi di intendere il potere e la capacità di espressione.
Fu soprattutto nel corso dell’età moderna, tra gli inizi del secolo XVI e la fine
del XVIII, che in Europa nacque, si sviluppò ed entrò in crisi un sistema di controllo
sulla produzione, la circolazione e l’uso del libro, inteso come naturale complemento
di una società ben organizzata.
La stampa a caratteri mobili e il dilagare della Riforma protestante furono presto
messi in relazione con l’istituzione di organismi deputati alla vigilanza, tanto da
costituire subito un luogo comune ripreso con frequenza sino ai nostri giorni. Già
nel 1526 l’avignonese François Lambert scriveva che l’arte tipografica era stata ispirata
da Dio per favorire la diffusione della Riforma e lo stesso Lutero, che più di ogni
altro seppe utilizzare consapevolmente la nuova tecnologia, aveva dichiarato che la
«stampa era l’ultimo e il più grande dono di Dio, poiché grazie ad essa il Signore
aveva voluto far conoscere la causa della vera religione, ovunque sino alle ultime
estremità del mondo e diffonderla in tutte le lingue».
La reazione sul versante opposto era stata inevitabile. Il libro venne visto come
un pericolo, una sorta di peste, la cui diffusione occorreva regolare ed eventualmente
bloccare con qualsiasi mezzo. In pochi anni la Chiesa di Roma elaborò un apparato
di controllo che nelle intenzioni doveva abbracciare il continente e che servì da
modello per qualsiasi organizzazione di controllo poliziesco del pensiero del futuro,
con inevitabili ripercussioni sulla vita degli individui, sul loro rapporto con la
realtà e con i poteri, sul progresso delle scienze e del sapere in genere.
Non si tenterà in questo caso di smontare un luogo comune di così antica tradizione,
che continua peraltro a contenere buona parte di verità, ma di collocare meglio il
fenomeno della censura libraria, tenendo anche conto di altri elementi.
Le straordinarie potenzialità del libro a stampa erano apparse subito evidenti. Ma,
proprio la sua capacità di propagarsi con estrema facilità in ambiti della popolazione
europea precedentemente estranei alla cultura scritta aveva iniziato a suscitare qualche
inquietudine molto presto, ancor prima della diffusione delle tesi di Lutero. Nell’età
del manoscritto, quando la riproduzione dei testi era affidata all’opera di più o
meno efficienti officine scrittorie o alla buona volontà dei singoli, era pressoché
impossibile riuscire a controllare un flusso che era comunque molto limitato. Proibizioni
e roghi avevano pertanto un valore più che altro simbolico.
La tipografia e l’organizzazione di un sistema commerciale che rapidamente abbracciò
tutta l’Europa mutarono dalle fondamenta le condizioni degli scambi intellettuali.
Le tirature medie aumentarono vertiginosamente e sul mondo del libro confluirono investimenti
che ne affinarono le tecniche di diffusione. Alcune grandi città europee, come Venezia,
Lione, Parigi, Basilea, Anversa, Augusta, Colonia divennero così luoghi privilegiati
di confluenza di stampatori, librai e autori, soprattutto grazie all’impulso che era
stato dato all’industria tipografica.
La stampa dunque non passò sempre inosservata e la rivoluzione che comportò nelle
abitudini intellettuali del continente non fu del tutto «inavvertita». Nei settant’anni
che intercorsero tra Gutenberg e l’affissione delle 95 tesi di Lutero, la sua potenziale
pericolosità non tardò a manifestarsi; disordinate e poco efficaci disposizioni tese
a controllare l’attività editoriale vennero presto emanate in vari paesi. Il problema
si pose in primo luogo laddove la produzione e la circolazione libraria erano più
vivaci o nei principali centri di potere: nelle città tedesche, dove la tipografia
aveva mosso i suoi primi passi; in Italia, a Venezia in particolare, divenuta negli
ultimi decenni del XV secolo il primo centro editoriale d’Europa; presso le grandi
corti, preoccupate e incerte di fronte a un’arte di cui non avevano ancora un’opinione
ben definita. Non erano pochi coloro che ne avvertivano la grande utilità per lo stesso
potere: la tentazione di interferire nella diffusione delle idee poteva servire al
rafforzamento dei nuovi Stati assoluti in via di formazione all’alba dell’età moderna.
Ma nel contempo vi era anche chi iniziava a percepirne i rischi. Valgano per tutti
gli alterni sentimenti manifestati dai re di Francia. Nel 1513 Luigi XII aveva dichiarato
che la stampa era «arte più divina che umana, per la quale la nostra santa fede cattolica
può essere grandemente aumentata e corroborata, la giustizia meglio intesa e amministrata»,
ma, neppure venti anni dopo, il suo successore Francesco I pareva avere radicalmente
cambiato opinione e, colpito dalla diffusione di alcuni scritti a lui contrari, aveva
emanato un inapplicabile divieto assoluto di stampa in tutto il regno.
Non mancava poi chi nutriva preoccupazioni filologiche. Un manoscritto scorretto faceva
poco danno; ma un’intera tiratura di un migliaio di esemplari mal pubblicata rischiava
di danneggiare gravemente la tradizione di un testo. Forse il primo intervento in
assoluto a favore di qualche forma di censura preventiva fu determinato da simili
ragioni. Nel 1472, a pochissimi anni dall’introduzione della stampa in Italia, il
vescovo di Siponto Niccolò Perotti, scandalizzato dalla pessima edizione di Plinio
realizzata a Roma dai primi tipografi tedeschi ivi operanti, Sweynheym e Pannartz,
auspicò una commissione di eruditi che autorizzasse preventivamente le edizioni dei
classici. Il problema della correzione dei testi rimase del resto a lungo presente
nelle preoccupazioni di tutti gli uffici che ebbero modo di occuparsi di stampa, anche
perché spesso coloro che furono addetti alla vigilanza erano letterati essi stessi.
Sul piano politico e religioso furono soprattutto le gerarchie ecclesiastiche delle
città tedesche ad attuare le prime forme di controllo che tuttavia non si discostavano
dai provvedimenti medievali, anche se testimonianze relative alle città di Esslingen
nel 1475 e Magonza nel 1485 prefigurano l’abbozzo di un sistema di revisione preventiva
per alcuni generi editoriali. Già allora si avanzavano riserve sull’opportunità di
traduzioni della Bibbia in lingue volgari. Un Avisamentum salubre quantum ad exercicium artis impressoria literarum diffuso in Germania sul finire del ’400 sosteneva un uso molto cauto della tipografia,
paventando in particolare il rischio che le versioni volgari delle Scritture cadessero
in mano di laici senza adeguata preparazione. Anche le opere esposte in vendita alla
fiera di Francoforte dovevano essere autorizzate preventivamente.
Non si segnalano tuttavia, in questi primi decenni, significativi conflitti tra le
autorità religiose e quelle civili. Nel 1487 il papa Innocenzo VIII aveva iniziato
ad avvertire i primi rischi di uno sviluppo dell’attività tipografica al di fuori
di ogni controllo e aveva affidato al Maestro del Sacro Palazzo, per Roma, e ai vescovi,
nelle altre diocesi, l’obbligo di vigilare che non si diffondessero libri contrari
alla religione e alla morale.
L’esponenziale crescita della produzione tipografica aveva però presto indotto la
Curia a ritornare sulla questione e a pensare a un sistema di controllo più organizzato.
Nel 1501 Alessandro VI, con la bolla Inter multiplices diretta agli arcivescovi di Colonia, Magonza, Treviri e Magdeburgo, aveva fissato
i princìpi della censura preventiva, estesi a tutta la cristianità alcuni anni dopo,
nel 1515, da Leone X nel corso del Concilio Laterano V con la bolla Inter sollicitudines. Furono allora poste le basi di un controllo generalizzato e centralizzato a Roma
sopra l’attività editoriale affidato al Maestro del Sacro Palazzo e ai vescovi.
Da qualche anno tuttavia anche i sovrani avevano cominciato a occuparsi della questione.
La Spagna era stata uno dei primi paesi ad allestire un proprio sistema di controllo.
Dal 1502 una prammatica di Ferdinando di Aragona e di Isabella di Castiglia imponeva
una licenza preventiva per i libri di nuova impressione e per le importazioni dall’estero.
In quell’occasione non erano stati stabiliti limiti di competenza netti tra autorità
religiosa e politica, poiché a Valladolid e Granada le licenze sarebbero state concesse
dai sovrani o dai presidenti delle audiencias, mentre a Toledo, Siviglia, Burgos, Zamora e Salamanca dai vescovi o dagli arcivescovi.
Venne inoltre istituita la figura del censore, un «letterato fedele e di buona coscienza»
che avrebbe avuto il compito di proibire le opere «apocrife, superstiziose, condannate,
nonché le cose vane e inutili».
È difficile tuttavia comprendere quale rapporto possa esserci stato tra queste prime
disposizioni e una effettiva pratica censoria. È verosimile che tali prese di posizione
non avessero in realtà alcuna conseguenza effettiva sui traffici di libri, anche a
causa delle difficoltà di mettere in piedi un efficace sistema repressivo, tanto più
che ancora varie grandi capitali dell’editoria europea non disponevano di un proprio
apparato censorio. In Italia era naturalmente significativo il caso di Venezia. Nel
1491 il nunzio pontificio Niccolò Franco aveva disposto che le opere di contenuto
religioso e dottrinale avrebbero dovuto ottenere un’autorizzazione da parte dell’ordinario
diocesano, nel contempo aveva condannato al rogo la Monarchia sive de potestate imperatoris et papae di Antonio Roselli e le tesi di Pico della Mirandola. Non è dato sapere se tali proibizioni,
al pari di altre simili degli stessi anni, si limitarono a essere semplici dichiarazioni
di principio oppure ebbero effettive conseguenze sul piano pratico. Di fatto la Repubblica
tra fine ’400 e inizi ’500, mentre stavano crescendo i suoi più prestigiosi editori,
da Aldo Manuzio a Luc’Antonio Giunti, non parve voler troppo preoccuparsi di un controllo
sistematico sulla produzione intellettuale. Preferì, se mai, dal 1486 attivare una
serie di dispositivi funzionali a un’attività economica in frenetico sviluppo. Aveva
finalità di questo genere in primo luogo il disciplinamento del privilegio di stampa,
che costituiva una garanzia per colui che investiva nel libro, ma non un controllo
sistematico e preventivo sui contenuti. Aveva inoltre lo scopo di salvaguardare i
livelli qualitativi della produzione il decreto del 1516 che imponeva ai libri di
umanità di essere corretti da un revisore con competenze letterarie. Nessuna preoccupazione
censoria si ebbe neppure nel 1517, quando il Senato veneziano riorganizzò il sistema
di concessione dei privilegi. Se, in qualche caso, opere di contenuto religioso erano
approvate preventivamente dall’autorità ecclesiastica, l’intervento di quelle pubbliche
non andava al di là della semplice presa d’atto. Così nel 1518 Bernardino Stagnino
poté ristampare senza problemi l’Appellatio ad Concilium di Lutero a pochi mesi dall’uscita a Wittenberg. Questo fu l’unico opuscolo del grande
riformatore sassone pubblicato con il suo nome in Italia. Con le bolle di Leone X
Exsurge Domine del 15 giugno 1520 e Decet Romanum pontificem del 3 gennaio 1521 Lutero venne scomunicato e i suoi scritti condannati al rogo.
Da allora anche l’organizzazione di istituzioni censorie subì un’accelerazione.
Tra 1517 e 1530 gli scritti di Lutero furono diffusi in oltre trecentomila copie.
In passato non si era mai verificato nulla del genere. Nessuna eresia precedente aveva
sviluppato un rapporto così diretto con la scrittura. Lo stesso Lutero in un primo
momento ne era rimasto stupito e a soli sei mesi dalla proclamazione delle 95 tesi
scriveva a papa Leone X: «È per me un mistero che le mie tesi, più degli altri miei
scritti e di quelli di altri professori, si siano diffuse in tanti luoghi. Erano destinate
esclusivamente al nostro circolo accademico». Mercanti e studenti tedeschi in giro
per l’Europa ebbero modo di far circolare fuori dalla Germania gli originali scritti
del monaco riformatore. Nel febbraio del 1519 il libraio pavese Francesco Calvi acquistava
a Basilea presso Johannes Froben la prima edizione degli opuscoli di Lutero appena
tradotti in latino. Nel 1520 copie dei tre trattati di Lutero Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca, La cattività babilonese della Chiesa e Della libertà del cristiano erano posti in vendita a Venezia.
Da allora divenne sempre più evidente e, a seconda delle circostanze, esaltato o maledetto,
il nesso tra tipografia e Riforma protestante di cui si è scritto. Una celeberrima
pagina dello scrittore protestante inglese John Foxe affermava che «il Signore si
è messo al lavoro per la sua Chiesa, combattendo il suo potente avversario non già
con la spada, ma con l’arte della stampa, con la scrittura e la lettura [...] quante
saranno le macchine da stampa nel mondo, tanti saranno i forti contrapposti a Castel
Sant’Angelo, cosicché o il papa dovrà abolire il sapere e la stampa oppure quest’ultima
avrà infine ragione di lui».
Per alcuni decenni, tuttavia, tra il 1517 e gli anni ’40, il proposito di sottoporre
la produzione editoriale a uno stretto controllo andò a tentoni. Chiesa e Stato si
mossero spesso separatamente senza coordinare gli sforzi, non potendo inoltre contare
su strutture in grado di fronteggiare adeguatamente e continuativamente l’offensiva
della stampa ritenuta pericolosa. Come si vedrà, in buona parte d’Europa i provvedimenti
di carattere censorio si successero senza sosta, ma il più delle volte non conseguirono
gli effetti sperati, anche perché di pari passo si andò organizzando un sistema di
distribuzione più o meno alternativo e clandestino che riuscì a lungo a soddisfare
l’immensa domanda europea di libri relativi alla Riforma. Il pubblico imparò a muoversi
con qualche accortezza e il libro proibito continuò così ad accompagnarlo. Tipografi
e librai seppero specializzarsi in simili mercanzie e riuscirono a soddisfare con
alcune cautele il mercato. Divenne più difficile stampare libri che si riferivano
alla Riforma, ma non mancarono le edizioni in qualche maniera camuffate in cui il
vero nome dell’autore era celato. Più facile fu l’importazione dall’estero. A Lione,
Ginevra e Basilea erano molto attivi i fuoriusciti italiani pronti ad approfittare
della sostanziale inefficienza dei controlli doganali dei vari Stati della penisola.
Gian Pietro Carafa, il futuro inflessibile papa Paolo IV, responsabile dell’indice
del 1559, a Venezia dopo il 1527, si lamentò spesso della vendita indisturbata di
libri eretici, come pure fecero i nunzi che si avvicendarono in laguna in quegli stessi
anni.
La situazione mutò radicalmente nel corso degli anni ’40, dopo il fallimento dei tentativi
di riconciliazione con i protestanti. Con la bolla Licet ab initio papa Paolo III istituì il 21 luglio 1542 l’Inquisizione romana, un tribunale fortemente
centralizzato dotato di propri rappresentanti in ogni diocesi. Anche se a una giurisdizione
universale non si arrivò mai, poiché i domini spagnoli rimasero in buona parte soggetti
all’Inquisizione spagnola, e la Francia non le riconobbe possibilità di operare, da
quel momento l’azione repressiva contro l’eresia assunse un vigore e un’efficienza
che non avevano precedenti. L’impegno contro il libro fu una immediata conseguenza.
Si stima che almeno la metà dei processi di Inquisizione abbia qualche relazione con
la presenza di testi scritti o con la loro lettura.
2. Tra Chiesa e Stato
Si è visto che la bolla Inter sollicitudines del 1515 fissava i princìpi di massima di una censura ecclesiastica preventiva generalizzata.
Nel corso del secolo, soprattutto tramite le regole allegate agli indici dei libri
proibiti, quelle norme vennero meglio precisate con il proposito di renderle sempre
più rigide. L’intento romano era dunque quello di sottoporre tutta la produzione libraria
europea a un controllo centralizzato che avesse nelle autorità religiose il proprio
perno. L’imprimatur, ovvero l’autorizzazione ecclesiastica alla stampa, era l’unico salvacondotto che
consentiva la pubblicazione e la circolazione di un’opera. Per evitare abusi i suoi
estremi sarebbero dovuti figurare in evidenza nelle prime pagine di ogni libro.
I propositi ecclesiastici vennero tuttavia sistematicamente a scontrarsi con le aspirazioni
giurisdizionali dei prìncipi, poco inclini ad abdicare del tutto a un’azione di vigilanza
in cui potevano avere un evidente tornaconto, avendo ormai intuito che ingerirsi nel
controllo delle idee serviva a contribuire al rafforzamento in senso assolutistico
dei propri domini. La discussione, ben inteso, verteva soprattutto su chi avesse titolo
ad autorizzare e molto meno su cosa si dovesse proibire. Gli Stati di antico regime
erano convinti non meno della Sede Apostolica che fosse opportuno impedire che l’eresia
si propagasse, ritenendo che nessun regno potesse mantenersi senza l’apporto della
religione. I conflitti tra sovrani e Chiesa, frequentissimi sino a tutto il ’700 soprattutto
negli Stati principali e influenti e laddove la produzione editoriale era economicamente
rilevante, miravano dunque a ricontrattare periodicamente i rispettivi confini di
competenza. All’imprimatur ecclesiastico sottoscritto dall’autorità religiosa, si contrapponeva quindi la licenza
di stampa rilasciata dal principe con una di quelle formule, a lungo ridiscusse, che
regolarmente ritornavano sui frontespizi: «avec le privilège du roi», «superiorum
permissu», «con licenza de’ superiori».
Un esame delle istituzioni censorie nei principali paesi europei non può perciò che
prendere le mosse dagli aspetti giurisdizionali della questione, nell’intento di definire
le competenze degli organi che ebbero responsabilità a riguardo. Vi è peraltro il
rischio che tale prospettiva comporti la ricostruzione di una storia prevalentemente
formale, che trascuri le relazioni tra attività censoria e impegno intellettuale;
ma è opportuno sottolineare che proprio la discussione sui limiti delle competenze
offrì spesso varchi alla circolazione libraria. La curiosità dei lettori e l’abilità
dei trafficanti clandestini seppe sistematicamente approfittare ogni qualvolta le
competenze e le giurisdizioni erano sfumate o poco definite. Al contrario, quando
si riusciva a identificare un unico organo responsabile, indipendentemente dal fatto
che fosse soggetto allo Stato o alla Chiesa, l’azione di controllo e di repressione
era più semplice ed efficace. Occorre poi aggiungere che se l’esistenza di una censura
di Stato non equivaleva ovviamente a riduzione dei controlli, stava comunque a indicare
maggiore sensibilità alle ragioni della politica, riducendo quelle della religione
entro confini esclusivamente spirituali. La discussione sugli ambiti di competenza
era dunque tutt’altro che formale nel momento in cui autorità politiche e religiose
se la ponevano. Rischiava, eventualmente, di esserlo in un secondo momento, quando
le norme erano affidate a funzionari esecutivi perché fossero poste in pratica. A
questo punto diviene indispensabile prendere in considerazione anche i comportamenti
e gli atteggiamenti quotidiani di coloro che ebbero responsabilità in tale campo,
nonché i compromessi a cui tutti inevitabilmente dovettero assoggettarsi o i sotterfugi
che più o meno consapevolmente vennero adottati per adeguare regole rigide e astratte
alla varietà delle situazioni concrete. È necessario infine tener conto anche delle
implicazioni economiche, assai influenti sulla pratica censoria in quei paesi in cui
l’editoria aveva raggiunto una discreta dimensione industriale e commerciale.
Il processo di costituzione di censure di Stato fu lungo e travalicò ampiamente i
limiti del secolo XVI. In qualche caso iniziò prima dello scoppio della Riforma, in
molti altri gli uffici di censura si svilupparono contemporaneamente a imitazione,
ma anche in concorrenza con le strutture ecclesiastiche; in altri ancora, come in
Francia, vi si arrivò più tardi a causa dei lunghi e violenti contrasti religiosi.
A fine ’500, pressoché ovunque si erano costituite o almeno erano abbozzate strutture
burocratiche più o meno complesse che avrebbero vigilato sulla stampa in nome dello
Stato, sino a che i Lumi e le riforme settecentesche non le avrebbero poste in discussione.
In Spagna, a differenza di quanto avvenne nel resto del continente, i limiti delle
diverse competenze vennero precocemente risolti, favorendo l’efficacia dell’azione
censoria. La stampa di opere protestanti fu quindi quasi totalmente assente. La propaganda
anticattolica diretta verso la penisola iberica fu opera solo di esiliati all’estero
che cercavano, sia pure con estrema difficoltà, varchi poco vigilati attraverso i
quali far passare quanto era proibito. Il sistema di controllo sull’attività editoriale
e sulla circolazione dei libri era stato, come si è visto, avviato molto presto e
collaudato nella battaglia contro ebrei e moriscos. Quelle disposizioni rimasero in vigore sino agli anni ’50 del ’500, quando tutta
la questione venne rimessa in discussione. Le vicende del secolo imposero in Spagna,
come altrove, la necessità di centralizzare il rilascio delle autorizzazioni. Nel
1554 il Consiglio Reale di Castiglia se ne assunse l’esclusivo onere. Negli anni immediatamente
successivi altre prammatiche istituirono una sorta di deposito legale per i libri
licenziati, mentre le esportazioni in America vennero assoggettate a una regolamentazione
ancora più severa. Nel frattempo tendeva a precisarsi meglio la competenza dell’Inquisizione
in materia di repressione.
Nel 1558 una nuova prammatica dispose norme più rigide che rimasero nella sostanza
in vigore sino alla metà del secolo XVIII. A differenza dalle precedenti, che badavano
a regolamentare il momento dell’impressione dei libri o del loro ingresso nel circuito
iberico, in questa occasione ci si preoccupò di seguire lo stampato in ogni istante
della sua esistenza. Si decisero così ispezioni periodiche a librerie e biblioteche
effettuate dai vescovi e dagli inquisitori di concerto con le autorità civili locali.
Queste operazioni andavano di pari passo con l’accentuarsi della centralizzazione.
Attraverso i suoi Consejos la monarchia iberica controllava ogni fase della produzione e della circolazione
dei libri: solo il Consiglio Reale poteva autorizzare la stampa per iscritto, e solo
il Consiglio Supremo dell’Inquisizione poteva dirigere l’attività repressiva. Sotto
pena di morte e della perdita dei beni si vietava persino l’introduzione senza permesso
dei libri in lingua castigliana impressi nei regni di Aragona, Valencia, Catalogna
e Navarra. Il 5 gennaio 1559, infine, una bolla di Paolo IV, conseguenza di una richiesta
dell’inquisitore generale Fernando de Valdés, stabiliva che tutti i confessori, secolari
o regolari, si ponessero al servizio del Sant’Uffizio nella battaglia contro la stampa
eretica.
In tale contesto l’Inquisizione venne ad assumere primaria importanza. Dal suo sguardo
attento non erano al sicuro neppure i libri già autorizzati, che in qualsiasi momento
potevano essere sequestrati e bruciati. Di fatto il permesso rilasciato dal Consiglio
Reale veniva a risolversi in un atto prevalentemente burocratico, mentre il controllo
effettivo era saldamente nelle mani dell’Inquisizione che disponeva di strumenti illimitati.
Da una parte era in grado di agire direttamente sulle coscienze dei fedeli tramite
l’operato dei confessori e l’obbligo per chiunque di denunciare chi deteneva opere
sospette; dall’altra poteva intervenire sulla circolazione con visite alle librerie
e alle biblioteche e ispezioni alle frontiere. La stessa professione di libraio ne
risultò gravemente compromessa, tali erano i rischi a cui era soggetta.
A fine ’500 l’opera di controllo e di repressione ottenuta attraverso rigide regolamentazioni
e indici meticolosamente compilati aveva senza dubbio influito in modo considerevole
sulle abitudini di lettura del pubblico spagnolo. Con l’indice del 1583 si era raggiunto
il culmine della collaborazione tra l’Inquisizione e le Università di Salamanca e
Alcalá, a cui spettava il compito di identificare l’eresia. Dopo di che l’operato
dell’Inquisizione tese a ripiegare su se stesso e l’attività di semplice vigilanza
finì con il prevalere sul resto. Negli ultimi anni del ’500 la pratica censoria aveva
probabilmente travalicato i limiti che si era imposta: libri in volgare, devozione
popolare, produzione accademica e scientifica erano sotto controllo. Nei cataloghi
inquisitoriali poteva oramai trovarsi di tutto: edizioni di pensatori antichi, libri
pedagogici, opere di erudizione. Secondo Virgilio Pinto Crespo non è facile definire
le ripercussioni che l’attività censoria ebbe, ma «l’effervescenza intellettuale delle
prime decadi del secolo XVI si vide stroncata e i progetti intellettuali si spensero».
L’azione inquisitoriale produsse una serie di costumi religiosi, mentali e individuali
che incisero in profondità sulla cultura spagnola. Non solo si tentò di orientare
la pietà popolare, ma furono modificati anche i sistemi pedagogici con una «sopravvalutazione
del criterio di autorità strettamente connesso alla pratica censoria e l’identificazione
del criterio di verità con la sanzione dell’istituzione».
Completamente diverse furono le vicende della censura francese, anche se, come nella
penisola iberica, a Parigi non vennero mai accettati i sistemi di controllo elaborati
a Roma. In origine in Francia, come in Spagna, fu la definizione del sistema del privilegio
di stampa a consentire alla monarchia una certa sorveglianza sull’attività editoriale.
Il controllo tuttavia rimase a lungo molto ridotto. Sino agli anni ’20 del ’500 l’unica
opera di un certo rilievo colpita dalla censura era stata l’Apologia di Pico della Mirandola, proibita nel 1488 dalla Sorbona. Nel 1520, su domanda di
Francesco I, il Parlamento di Parigi aveva imposto una revisione preliminare da parte
della Sorbona per le opere di carattere religioso. Diversi organi si contesero a lungo
il diritto di sovrintendere alla produzione editoriale: teologi dell’Università, che
avevano il compito di rivedere le opere e decretare le proibizioni, il Parlamento
di Parigi, che aveva funzioni esecutive di polizia, e infine la monarchia. Ma proprio
i mai ben definiti ambiti giurisdizionali e i violenti conflitti religiosi impedirono
per decenni che si determinasse un ferreo sistema di controllo preventivo come avveniva
altrove in Europa. Se la Sorbona decretava decise condanne contro Lutero e i suoi
seguaci, poteva però capitare che il re, a cui stava a cuore mantenere alta la tensione
contro Carlo V, cercasse di non alienarsi troppo la simpatia dei prìncipi protestanti
e del re di Inghilterra Enrico VIII. Solo quando le tre istituzioni deputate si trovavano
contemporaneamente consenzienti, l’efficacia dei provvedimenti era sicura, come avvenne
tra 1534 e 1535 in occasione della diffusione di una serie di placards che attaccavano l’Eucarestia. Ma subito dopo si ritornò a una relativa tranquillità.
Gli anni ’40 videro tuttavia un mutamento radicale del clima, determinato in parte
dallo svilupparsi a Ginevra di un’organizzata attività editoriale per lo più rivolta
verso la Francia. Fu conseguenza di questa situazione se tra 1544 e 1556 vennero redatti
sei indici che elencavano i titoli via via posti al bando, in buona parte di ispirazione
riformatrice e di edizione ginevrina, anche se le proibizioni del Gargantua e del Pantagruel di Rabelais per motivi legati alla morale, più che all’eresia, preannunziavano un
tentativo di estensione delle competenze censorie soprattutto verso il romanzo, ritenuto
responsabile di raccontare fatti falsi e osceni. Nel 1551 l’editto di Chateaubriand,
risultato di un momento di stretta collaborazione tra re, Sorbona e Parlamento, cercò
per la prima volta di porre ordine nella materia, stabilendo norme non dissimili da
quelle delle altre principali censure cattoliche. Vennero imposte così la vigilanza
sulla produzione e la circolazione dei libri, il divieto di stampe anonime, le ispezioni
sulle importazioni, le visite ai librai.
Ma la Francia non era solo Parigi. I grandi conflitti tra i tre organi che si disputavano
il controllo non riguardavano Lione, dove parlamento e università non esistevano.
Sul Rodano erano pertanto convenuti imprenditori del libro da ogni parte d’Europa,
i quali dal 1540 al 1560 pubblicarono molte opere sospette senza significativi impedimenti.
L’editto di Chateaubriand aveva incaricato della vigilanza il vescovo e il luogotenente
del siniscalco, ma tale regolamentazione risultò vana tra 1562 e 1565 quando la città
cadde direttamente sotto il controllo degli Ugonotti, tra i quali si segnalarono non
pochi librai. Dopo quella data, a seguito della normalizzazione cattolica, Lione vide
allontanarsi verso Ginevra i suoi più vivaci editori filoprotestanti.
Ritornando a Parigi, all’interno delle difficoltà determinate dalle guerre di religione,
si tentò di ridurre la competenza della facoltà di Teologia della Sorbona, a cui rimaneva
giurisdizione solo per i libri religiosi. Con le lettere patenti del 10 settembre
1563, sotto la minaccia della pena di morte, veniva resa obbligatoria la licenza reale
di stampa, concessa dalla Cancelleria. L’obbligo era mitigato dal collegamento ad
esso dell’istituto del privilegio di stampa, il quale era rilasciato solo a chi era
in regola con la licenza. Da quel momento il potere reale andò via via rafforzandosi
costantemente. Nel complesso, tuttavia, in Francia, almeno sino alla morte di Enrico
IV, il sistema non fu opprimente. Non era necessario sollecitare un permesso per gli
opuscoli con meno di quaranta pagine e non esistevano controlli per i libri che entravano
dall’estero. La mancanza dell’Inquisizione e il rifiuto degli indici romani fecero
poi la differenza più significativa con le altre principali realtà cattoliche.
In Inghilterra era stata la Chiesa a prendere l’iniziativa. All’indomani della bolla
di Leone X del 1520 contro gli scritti luterani, il vescovo di Londra aveva prescritto
il divieto di importazione di libri dall’estero e l’obbligo della licenza per i titoli
nuovi da richiedere a una specifica commissione presieduta dall’arcivescovo di Canterbury.
Negli anni ’30 però, mentre montava lo scontro con Roma, il controllo passò al Consiglio
della Corona. Dopo l’atto di supremazia di Enrico VIII divenne esplicito il desiderio
del re di limitare le competenze censorie della Chiesa inglese. Negli anni successivi
posizioni differenti si successero in relazione ai conflitti religiosi e alle alternanti
vicende tra cattolici e anglicani. Per tentare di accentuare la vigilanza, nel 1557,
la cattolica Maria Tudor concesse il monopolio dell’esercizio della stampa alla corporazione
dei librai londinesi (Stationers’ Company), dominata da un gruppo ristretto di grandi imprenditori. Ma proprio la repressione
e i roghi di libri che seguirono favorirono un’inversione delle posizioni. Sotto il
regno di Elisabetta permase il rapporto privilegiato tra la Corona e la Stationers’ Company, ma, anche quando furono i libri papisti a fare le spese dei controlli, non si arrivò
mai alla costituzione di un sistema di sorveglianza efficiente e ramificato come quello
che operava nei paesi cattolici.
Molto più confusa è la situazione italiana, condizionata ovviamente dalla frammentazione
politica e dalla più accentuata capacità di vigilanza della Sede Apostolica. È d’altra
parte problematica una ricostruzione complessiva degli atteggiamenti della censura,
anche per la mancanza di studi preliminari su varie situazioni di grande rilievo.
Basti pensare che non molto si conosce delle regolamentazioni effettive della stampa
a Roma che, dopo Venezia, era il secondo centro editoriale italiano. Poco contribuisce
a chiarire la questione il considerare che buona parte della penisola, almeno tra
seconda metà del ’500 e inizi del ’700 rimaneva sotto la sovranità spagnola: il ducato
di Milano, i regni di Napoli, Sicilia e Sardegna. Ciò tuttavia non implica che automaticamente
vi avessero valore le prammatiche del re cattolico. È già di per sé significativo
che solo la Sicilia e la Sardegna fossero sotto la giurisdizione dell’Inquisizione
spagnola, mentre il regno di Napoli e il ducato di Milano restarono nell’ambito dell’Inquisizione
romana.
A Milano le prime disposizioni sulla stampa furono prese nel 1523 da Francesco Sforza.
Nel 1543 il governatore spagnolo proibì di stampare senza licenza e nel 1564 furono
pubblicati i decreti tridentini, la cui applicazione fu curata con particolare impegno
da Carlo Borromeo, ivi compresa la professione di fede imposta a librai e stampatori.
Una «grida» del 1586 disponeva che non si pubblicassero libri «senza licenza del governo,
deputandosi da questo persone idonee per la revisione de’ libri da stamparsi». Mentre
non risultano informazioni di rilievo circa i rapporti tra Stato e Chiesa in questo
particolare aspetto, la frequenza con cui tale disposizione venne replicata negli
anni successivi potrebbe lasciare intendere che sia rimasta largamente inosservata.
Situazione simile si ebbe anche nel regno di Napoli, ove, malgrado non sia mai stato
formalmente concesso il regio exequatur all’indice romano, le proibizioni pontificie avevano normale corso. Di fatto era
l’autorità ecclesiastica ad avere il controllo dell’attività editoriale, nonostante
che per tutto il ’600 i viceré e il Consiglio Collaterale reiterassero disposizioni
contro chi stampava senza autorizzazione regia, con l’intento soprattutto di tutelare
le opere di contenuto giurisdizionale, sistematicamente avversate dalla Curia arcivescovile.
Negli Stati al di fuori della diretta influenza spagnola il peso delle proibizioni
romane fu ancora più grave. Per tutto il XVII secolo nel ducato sabaudo non fu facile
per il duca imporre un sistema di controllo che non fosse quello ecclesiastico. Considerazioni
analoghe valgono anche per il granducato di Toscana sino al 1743, salvo qualche periodica
ma ininfluente rivendicazione delle proprie prerogative sovrane. Non è diversa la
situazione degli Stati estensi. A Modena era formalmente necessaria l’autorizzazione
del duca, ma di fatto i censori ducali si limitavano ad apporre un vidit a opere che avevano già ricevuto l’imprimatur da parte dell’inquisitore.
È dunque evidente che laddove la produzione libraria rimase modesta, i prìncipi non
attribuirono grande importanza alla questione. Nella pratica quotidiana furono quindi
le autorità religiose a dettare legge, sempre
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