Che fine ha fatto Apollinare Calderini?
Poco si conosce di Apollinare Calderini da Ravenna, canonico regolare lateranense
vissuto nella seconda metà del Cinquecento. Di lui ebbe modo di occuparsi in due sedute
il Consiglio dei Dieci, il supremo tribunale politico veneziano. Verso i primi di
novembre del 1597 era giunta una lettera dell’inviato della Repubblica a Milano che
avvisava della presenza in città del religioso, il quale, prima di trasferirsi in
Lombardia, aveva a lungo risieduto a Venezia presso casa del suo ordine da cui pare
fosse stato cacciato. Agli atti la lettera non è conservata. Dalla risposta si intende che Calderini aveva
composto e dato alle stampe un libro intitolato Discorsi sopra la ragion di Stato del Botero e che proprio questo scritto aveva determinato il particolare interesse nei suoi
riguardi. Doveva essere questione di quelle settimane, dato che il volume, pubblicato
dallo stampatore milanese Pietro Martire Locarno, recava una dedica al duca di Parma
datata 1° ottobre 1597. Il 13 novembre il Consiglio dei Dieci chiedeva all’inviato
di indagare “con segretezza e desterità” circa i movimenti e le frequentazioni di
Calderini, cercando di sapere se avesse intenzione di varcare i confini del Milanese
per passare a Bergamo. Contemporaneamente metteva in guardia tutti i rettori delle
città della Lombardia veneta.
Il Consiglio dei Dieci non si fermò qui. Nello stesso giorno pose ai voti una delibera
dai toni molto più feroci. Ordinava ai rettori veneti delle città lombarde, nel caso
Apollinare capitasse dalle loro parti, di arrestarlo e di farlo “subito morire o col
farlo strangolare o d’altra maniera più secreta”. Il frate, dunque, doveva essere
soppresso immediatamente senza nessuna formalità, senza essere interrogato e senza
fornire alcuna informazione alla congregazione di appartenenza. La delibera non ebbe
però i voti necessari e venne cassata. Subito dopo se ne provò un’altra che imponeva
di catturarlo non appena fosse entrato in territorio veneto e di condurlo a Venezia
nelle carceri del Consiglio. Ma neppure questa formulazione riuscì ad ottenere il
quorum prescritto.
Il Consiglio ritornò sulla questione il 24 novembre. Nel frattempo le discussioni
dovevano essere state accese e aver alimentato parecchi dubbi, tanto che quel giorno
vennero poste ai voti cinque delibere differenti. Si riprovò invano con le medesime
formulazioni del 13. Non passò neppure una delibera più moderata che imponeva di rinchiuderlo
nelle carceri del Consiglio e di aprire un processo sul contenuto del libro. Il doge
Marino Grimani e Carlo Corner proposero invece di farlo sopprimere direttamente a
Milano col veleno o con altro sistema analogo, incaricando il residente dell’operazione.
Malgrado l’autorevolezza dei proponenti, le adesioni raccolte furono poche. Andò meglio
ai consiglieri Nicolò Donà, Benetto Erizzo e Marco Venier che suggerirono la pubblicazione
di una taglia di 2.000 scudi e “facoltà di liberar banditi” per chi lo avesse “ammazzato”
ovunque si trovasse. Ma anche questa proposta, per quanto avesse avuto più voti delle
altre, non li ebbe in misura sufficiente per essere approvata.
La vicenda è piuttosto insolita. Non è infatti frequente che le carte del Consiglio
dei Dieci registrino in successione delibere del genere che non riuscirono ad ottenere
i voti necessari per passare. Ma le stranezze non si arrestano qui.
Cosa aveva scritto di così terribile Apollinare Calderini per meritare simili attenzioni?
A leggerli, i suoi Discorsi non appaiono altro che uno dei tanti esercizi a commento e integrazione della celebre
Ragion di Stato di Giovanni Botero. Come l’autore dichiarava nella sua introduzione, erano una sorta
di compendio e spiegazione utile a quei principi pigri o troppo indaffarati che non
avevano tempo e voglia per leggere per intero l’originale. È probabilmente per questo
che ottennero solo distratte citazioni all’interno della pur cospicua bibliografia
su Botero. Non era però questa la ragione per cui i Discorsi avevano suscitato tanto allarme a Venezia. Ciò che infatti risultava inaccettabile
era che il libro non aveva risparmiato critiche al sistema politico e alla storia
della Repubblica degli ultimi due secoli. Da una prospettiva filospagnola e monarchica
lo scritto sosteneva, tra l’altro, l’inadeguatezza ai tempi dell’ordinamento repubblicano
poiché, attribuendo ogni responsabilità politica al proprio patriziato, non era in
grado di attrarre a sé le tre categorie ritenute necessarie alla conservazione dello
Stato, ovvero i militari nobili, i letterati e i religiosi. Non approvava inoltre
le discriminazioni nei riguardi di questi ultimi e utilizzava alcuni episodi celebri,
come quello del conte di Carmagnola, che nei secoli successivi avrebbero avuto larga
fortuna letteraria. I Discorsi erano in sostanza un primo assaggio di quell’abbondante pubblicistica di matrice
spagnola volta a demolire il mito della Repubblica che di lì a qualche anno e per
tutto il Seicento avrebbe avuto una considerevole diffusione. Per confutarli era prontamente
sceso in campo Giambattista Leoni, un letterato molto legato al governo veneziano,
spesso impiegato in operazioni di polizia libraria al di fuori delle normali procedure
previste per il rilascio delle autorizzazioni alla stampa o alla circolazione. Egli, in una scrittura rimasta inedita ma piuttosto diffusa in quegli anni, aveva
accusato Calderini di aver scritto un “libello famoso” contro la Repubblica solo perché
gli era stato intimato di lasciare la città. Da tale risentimento derivavano le “ingiurie”
e le “falsità” contro di essa. Leoni elencava una serie di vicende storiche ricordate
nel libro in cui la storia di Venezia era stata travisata e falsificata. A suo parere
dietro quelle accuse non vi era nessuna sostanza, solo chiacchiere raccolte per strada
da cerretani e gazzettieri e messe sulle pagine “con una malizia crassa et con una
sciocca petulanza”, ignorando che “le attioni de principi hanno mille ripieghi con
i quali si possono intendere et pubblicare” e che per questo “devono specialmente
esser trattate con certa riverenza che non permetter così il poter raggionar liberamente.
Onde tutti i buoni scrittori hanno sempre usato molto riguardo nel trattarle et chi
ha fatto altrimenti è stato sempre ripreso”. Calderini, invece, ignorando che i principi
“sono a somiglianza di Dio”, aveva “pronunciato una sentenza criminale”.
Le affermazioni di Leoni sono utili per comprendere i limiti quanto mai ristretti
entro cui poteva esercitarsi la critica ai sovrani. Alla luce, poi, delle parti sia
pure annullate del Consiglio dei Dieci potrebbero assumere un tono sinistro. Cosa
avvenne infatti di Apollinare Calderini dopo la pubblicazione di quel libro?
Gli archivi veneziani non registrano ulteriori provvedimenti. Il che non autorizza
ad avere la certezza che dal quel momento in poi le autorità della Repubblica abbiano
cessato di interessarsi di lui. Come avrebbe scritto Paolo Sarpi pochi anni dopo e
come la stessa vicenda dell’Interdetto avrebbe dimostrato, la scrittura e la stampa
erano da considerarsi a tutti gli effetti armi e come tali andavano trattate. Esiste
quindi un ambito delicatissimo, coperto da ogni segreto di Stato, che non è sempre
agevole documentare. Certi scritti che mettevano a repentaglio la sicurezza dello
Stato o colpivano la sua reputazione non dovevano circolare, anzi sarebbe stato opportuno che non fossero neppure mai
stati scritti. Era quindi necessario, nel caso, arginarne la diffusione e castigare
severamente gli autori.
Risale agli stessi mesi della vicenda di Calderini un episodio simile. A Ferrara era
stato stampato, pare su commissione del papa Clemente VIII, L’Ottomanno di Lazzaro Soranzo, figlio naturale di un patrizio veneziano morto combattendo a
Lepanto. L’opera non manifestava alcun sentimento antiveneziano, ma toccava delicati
problemi relativi alla guerra con i turchi. Il Consiglio dei Dieci aveva perciò ritenuto
che avesse trattato “cose di stato proibite a palesarsi per le leggi nostre” e aveva
proibito il libro, condannando l’autore a vent’anni di relegazione a Capodistria.
“Sentenza assai mite – aveva commentato il nunzio pontificio Graziani – a quello che
se ne temeva e all’alterazione che la città dimostrava contro di lui”.
Questo genere d’attenzione fu una caratteristica di lungo periodo. In qualche caso
si arrivò a inseguire gli scrittori ostili dove avevano trovato rifugio, premendo,
quando era possibile, sui sovrani amici affinché fossero puniti. Come avvenne nel
1676 al francese Nicolas Amelot de la Houssaye, autore della sgradita Histoire du gouvernement de Venise, relegato da Luigi XIV per sei mesi alla Bastiglia, su richiesta veneziana, per non
compromettere le buone relazioni diplomatiche tra i due paesi.
A differenza però della Chiesa, che solitamente si curava di dare ampia notorietà
alle proprie proibizioni, negli Stati secolari prevaleva l’esigenza del segreto in
conformità con la diffusa consapevolezza che la pubblicità in questo ambito servisse
solo ad aumentare le curiosità. Perciò gli archivi ufficiali dello Stato tendono ad
essere reticenti su simili fatti, dal momento che gli organi incaricati delle sanzioni
– a Venezia il Consiglio dei Dieci e più tardi gli inquisitori di Stato – ebbero cura
di lasciare meno tracce scritte possibili. È noto che, più che attraverso la stampa,
l’informazione politica corrente passava attraverso gli avvisi a mano e le gazzette.
Sulla questione Venezia aveva accumulato una lunga esperienza e maturato la convinzione
che fosse opportuno non reprimere indiscriminatamente la redazione di quei fogli –
operazione peraltro di difficile realizzazione – quanto vigilare cautamente sull’operato
dei gazzettieri, anche al fine di promuovere attraverso di essi la diffusione di notizie
gradite o che non potessero nuocere. Furono gli inquisitori di Stato a svolgere questo
compito, peraltro mai codificato, e a esercitare un discreto, ma assiduo controllo
sui fogli redatti a Venezia e su quelli che venivano dall’estero. Vi erano anche gazzettieri
particolari che erano favoriti in questa azione e a cui erano fornite direttamente
tracce di descrizioni dei fatti. Ma dovettero essere frequenti gli interventi degli
inquisitori di Stato contro chi usciva dai limiti imposti o si poneva al servizio
di ambasciatori stranieri. Nei loro riguardi, però, prevalevano i provvedimenti segreti
di cui non resta traccia negli archivi e che trovano riscontro solo nei dispacci degli
ambasciatori e degli inviati stranieri alle rispettive corti. Giovanni Quorli, uno
dei più affermati “reportisti” italiani della metà del secolo, fu bandito da Venezia,
senza che ne resti documentazione nelle carte ufficiali. Qualche anno dopo il gazzettiere
Paolo Giuliani, al servizio dell’ambasciatore di Francia, per il quale curava l’inserimento
di notizie favorevoli alla corte di Luigi XIV nei fogli periodici e in altri scritti
politici, venne ucciso da un sicario probabilmente al servizio degli inquisitori di
Stato, mentre tutta la sua famiglia fu costretta a chiudere in fretta e furia la bottega
di scrittorìa che teneva nei pressi di piazza San Marco e a trovare rifugio a Torino
sotto la protezione francese.
Certamente i fogli periodici manoscritti avevano uno statuto del tutto informale che
proprio per questo non si volle mai disciplinare con norme chiare e pubbliche. Diverso
era il caso della stampa, dove la regolamentazione era inevitabile. Venezia, peraltro
non diversamente dagli altri importanti Stati europei, diffidò a lungo dell’informazione
politica a stampa, che doveva essere soggetta alle norme della censura preventiva
e che di conseguenza si sarebbe dovuta presentare ai lettori con l’espressa dichiarazione
sul frontespizio d’aver ricevuto “il permesso dei superiori”, formula che poteva suonare
all’esterno come una sorta di palese approvazione di contenuti che nessun ufficio
di censura era in grado di valutare nelle sue implicazioni presenti e future. Si spiega
così la lunga fortuna dei fogli manoscritti, poiché assolvevano al compito di informare,
senza coinvolgere le responsabilità dello Stato.
Quanto a Calderini, dopo quel 1597, le notizie sono molto scarse. L’anno successivo,
sempre a Milano presso il libraio Pietro Martire Locarno, lo stesso che aveva procurato
l’edizione dei Discorsi, diede alle stampe un’altra sua breve operetta tecnica sull’uso della bussola che
nulla aveva a che fare con
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