Le parole senza le cose
«E mi veniva da dire una cosa che nei momenti di progresso mi sembrava che il mondo si riempisse di cose che non avevano un nome, e il fatto che questo fosse un periodo in cui il mondo, inteso come Italia, fosse pieno di nomi senza più le cose cui questi nomi si riferivano, forse non voleva dire necessariamente che vivevamo in un periodo di regresso, chissà cosa voleva dire, ammesso che volesse dire qualcosa.»
Quando mio babbo mi aveva consegnato il suo mondo, negli anni sessanta, mio babbo mi aveva consegnato un mondo che lui abitava, capiva, e che era mosso da regole che, in larga parte, condivideva. Io invece, che mi muovevo in un mondo dove i tifosi facevano gli autografi ai giocatori, dove i cani si chiamano Ansia, dove c’era chi votava le chiese su TripAdvisor e dove le antiche gelaterie erano state aperte sei mesi fa, e dove le librerie vendevano il vino e i panettoni, e dove di Dante si sapeva che gli piacevan le uova, e dove se c’era un fustino, era salvaspazio, io a mia figlia le stavo consegnando un mondo che non capivo tanto. Questo è un mondo, dicevo, dove io non so bene neanche dove andare a comprare i francobolli, e mi era venuto in mente un antropologo sardo che, qualche anno prima, aveva detto che la sua infanzia, lui era nato alla fine degli anni trenta, era più simile all’infanzia dei bambini dei nuraghi che all’infanzia dei bambini che nascono in Sardegna oggi.
Rassegna stampa
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Le parole senza le cose
Un nostalgico alle prese con un mondo senza cose
di C. Langone