Introduzione.
Tornare ai fondamentali
Viviamo tempi confusi, tempi veloci. Operiamo entro una condizione di precarietà permanente,
in continuo sommovimento. Un contesto sociale poco incline a fermarsi per permetterci
di riflettere. Nella politica, ma anche nella cultura, la replica irruenta s’impone.
Presi d’assalto dall’immediatamente rilevante, rischiamo di essere travolti dal contingente.
D’altronde non si può evitare di rispondere colpo su colpo alle continue emergenze.
Emergenze che hanno ormai travolto tutti i confini, sia geografici sia culturali.
La politica arranca, la tecnocrazia pretende ubbidienza. Nessuno riesce però a fornire
certezze o anche solo prospettive. È così che la politica si chiude in se stessa,
spesso rompendo ogni legame con la cultura, assumendo il volto dell’arroganza. È così
che la tecnica abbandona ogni morale, per ridursi a nichilismo al servizio del potere,
senza più principi. Si profila all’orizzonte una caduta nell’anomia? La corruzione
dilagante, in verità, ne può rappresentare una manifestazione. La perdita di ogni
valore condiviso che dia senso alla politica ed essenza alla tecnica rischia di travolgere
le nostre società lacerate? L’incapacità di dare risposte alle crisi, quali quelle
migratorie o quelle finanziarie, ne costituisce, probabilmente, un terreno di prova.
Per non parlare della nuova barbarie che travolge ogni idea di umana convivenza.
A fronte di questa crisi radicale di prospettive, la ricerca di un nuovo modello di
sviluppo, la battaglia delle idee, la capacità di critica del reale rischiano di perdere
di senso se non sono condotte in base a principi, finendo per ridursi solo alla miope
strategia della convenienza. La dialettica politica s’è impoverita, compressa entro
un assolutismo ideologico neoliberista, che rende omologhi i diversi e che nessuno
è in grado di contrastare con efficacia. Quel che è rimasto è l’indignazione, assai
diffusa, molto urlata, poco ponderata. Un sentimento di rivolta che può essere compreso,
ma che sconta la rinuncia, l’estraneità, l’esodo: non basta indignarsi per comprendere,
né la rabbia da sola è sufficiente per cambiare. Per interpretare il mondo c’è bisogno
di ethos, logos e pathos; ma i nostri sono, invece, tempi tristi, senza morale, senza ragione, senza passione.
Per cambiarlo, poi, dovremmo riscoprire una nuova grande narrazione o almeno un quadro
di principi per cui valga la pena impegnarsi a costruire un altro mondo possibile;
ma il nostro tempo ha attraversato ogni disincanto e ha fatto strage di tutte le illusioni.
Ciononostante, non siamo alla fine della storia. La nietzschiana «morte di dio», se
ha prodotto la perdita di ogni certezza, non per questo ha cancellato la storia, la
cultura, la scienza, la politica, la vita. Anzi, in qualche modo ci responsabilizza
ulteriormente: solo a noi spetta creare le regole della convivenza, senza che ci si
possa più rivolgere ad una teologia politica. E qui si riaffaccia il ruolo del diritto,
l’esigenza di tornare a dettare norme che non siano solo pura espressione di forza,
bensì manifestazione di principi di fondo. Un diritto non più teologicamente fondato,
bensì storicamente determinato, in grado di riflettere sulle trasformazioni delle
proprie categorie, senza perciò dover abbandonare l’essenza e i valori che ne legittimano
l’esistenza. Per questo diventa necessario tornare a ragionare criticamente sui fondamentali.
Per chi vuole tornare ai fondamentali diventa essenziale non farsi dominare dal presente,
non farsi distrarre dal vento effimero del tempo, ma prestare attenzione alle trasformazioni
più profonde, al corso della storia, eventualmente ai suoi ricorsi. Guardare in ogni
caso ai tempi lunghi.
In verità, alzando lo sguardo per cercare la rotta non si vede granché. Buia è la
notte e i nostri lumi sono sempre più flebili. Tuttavia qualcosa sappiamo. Conosciamo
quel che stiamo vivendo: una grande trasformazione. Un cambiamento radicale che percepiamo
e nel quale siamo immersi, ma che ancora non riusciamo a decifrare. Ci sforziamo di
comprendere, ma siamo ancora fermi ai titoli di testa: postmoderno, seconda modernità,
globalizzazione, fine della civiltà del lavoro. Tutti sforzi definitori, analisi spesso
importanti per comprendere il nuovo, per coglierne un suo aspetto, il tratto ritenuto
prevalente, ma rimane inevasa la domanda di senso. Eppure, proprio un nuovo orizzonte
di senso è in costruzione. Per ora esso appare avvolto tra le nebbie, nondimeno è
nell’aria. Dovremmo affrettarci a riconoscerlo prima che ci trascini a nostra insaputa
nel gorgo del tempo. In ogni caso è opportuno reagire. Una ricerca dei fondamentali
per dare senso al mondo nuovo.
Questo libro affronta la questione della trasformazione dei concetti, delle categorie,
delle credenze che hanno attraversato il movimento storico del costituzionalismo moderno.
Un fascio di principi che sono stati posti alla base della costruzione delle nostre
società contemporanee e che ancora definiscono degli «universali indiscussi» (ci direbbe
Michel Foucault) iscritti negli Stati costituzionali, nonché in tutte le carte dei
diritti sovranazionali. Non v’è dubbio, infatti, che le nostre costituzioni, le nostre
società occidentali progredite siano tutt’ora fondate sul rispetto di principi fondamentali,
tra i quali vengono ricompresi la democrazia, l’eguaglianza, la libertà, il lavoro,
i diritti, la dignità, la cittadinanza. Anche la legittimazione dei conflitti o la
rappresentanza politica sono assertivamente presupposti quali elementi propri delle
nostre democrazie, non a caso qualificate come «pluraliste» e «rappresentative». Sulle
riforme, infine, non solo nei testi sono chiaramente definite le modalità del cambiamento,
ma in Italia s’è addirittura costruita una retorica di consenso che non ha eguali
in nessun altro paese al mondo. D’altronde, questi elencati non sono stati solo principi
scritti sulla carta; rappresentano invece degli snodi decisivi che, nel corso della
storia e a seguito di lotte rivoluzionarie o faticose conquiste sociali, hanno permesso
di fare assumere agli Stati moderni la particolare qualificazione di «democrazia costituzionale».
Principi che vengono tutt’ora ritualmente – ma a volte solo tralatiziamente – richiamati,
posti alla base della nostra civiltà costituzionale.
Su questi temi, contro il prevalere della velocità futurista e spensierata, vorrei
invitare a riflettere. Con l’intento di rispondere ad una semplice domanda: qual è
oggi il valore dei principi fondanti il costituzionalismo moderno? Un interrogativo
non solo legittimo ma estremamente attuale, se si riflette sulla pluralità di significati
che hanno ormai assunto tutti i principi richiamati.
Sintomatico il lavoro. Ben pochi sono coloro che giungono a sostenere che esso non rappresenti più un valore
della convivenza; praticamente nessuno giunge ad affermare la scomparsa del principio
costituzionale, magari sostituito dal suo opposto: il diritto all’ozio. Eppure, si
discute animatamente delle sue trasformazioni, del rapporto di dipendenza che esso
intrattiene con il mercato e con l’impresa, della sua perduta centralità. Dovrebbe
essere naturale, allora, domandarsi che cosa è rimasto del principio lavorista oggi.
L’impressione è che stiamo assistendo ad un «rovesciamento» tra le priorità del lavoro
e quelle dell’economia. Un’inversione su cui sembra necessario interrogarsi, se si
vuol continuare ad assegnare al lavoro un ruolo costituzionale fondamentale.
È anche vero che nessuno oggi parlerebbe contro i diritti, sebbene sia grande la confusione sotto il cielo. Poco ci si confronta con i doveri,
molto acuta è la rivendicazione dei propri diritti, spesso pretesi contro quelli degli
altri. Il rischio di un uso strumentale, provinciale, non adeguato al tempo dell’universalismo
cosmopolitico rende necessaria una riflessione sul modo attuale di declinare i diritti.
La loro garanzia – assieme alla divisione dei poteri – rappresenta il primo fondamento
del costituzionalismo moderno. Non si ha Costituzione se non è assicurata la garanzia
dei diritti, recita il testo fondativo della modernità giuridica (la Dichiarazione
dei diritti del 1789). Ma quali diritti? Come assicurarli nell’era globale? Quali
soggetti, quali poteri, quali politiche sono oggi in grado di fondare una democrazia
che rispetti i diritti fondamentali delle persone, entro ma anche oltre i confini
nazionali? Domande assai impegnative, che non è possibile continuare ad eludere.
L’eguaglianza è un’altra frontiera. Una zona di confine che oggi si tende a varcare per raggiungere
un diverso territorio, quello del merito. Spesso un merito senza qualità, una competizione
selvaggia, sovente «truccata», che riesce solo ad aggravare le diseguaglianze, a rafforzare
le corporazioni, a far scordare i doveri di solidarietà, a porre gli uni contro gli
altri, a premiare i più disinvolti. Una tendenza a semplificare ha finito per far
perdere di vista la complessità dell’eguaglianza, la cui portata rivoluzionaria sembra
essere stata dimenticata. Un fondamentale – quello dell’eguaglianza – che ha attraversato
l’intera storia dell’umanità, declinato in modi assai diversi, ma che sempre ha rappresentato
una leva per il cambiamento sociale e che si pone alla base di ogni progetto di emancipazione
collettiva, di ogni strategia di sviluppo della personalità dei singoli. Un orizzonte
che dovremmo riscoprire, se vogliamo dare nuova dinamicità al nostro esangue sistema
sociale e politico. Cominciamo a rifletterci.
Oltre l’eguaglianza, la libertà. Spesso considerata alla stregua di un assoluto trascendente che tutti vorrebbero,
ma solo per sé. Assieme all’eguaglianza, la libertà da sempre ha rappresentato il
motore della storia. Sin dall’origine del concetto, però, è stato chiaro che essa
poteva assumere diverse forme e sostanze. Non solo la grande dicotomia tra la libertà
degli antichi e quella dei moderni vale a sostenere quest’affermazione di relativismo
storico, ma anche la constatazione logica e filosofica che la libertà assoluta (la
libertà di tutti su tutto) può essere immaginata solo entro uno stato di natura, prima
della costituzione della società civile. Entro la società – ricorda Hans Kelsen –
la libertà assoluta si pone contro il valore e l’essenza della democrazia stessa.
Dunque essa deve essere regolata, altrimenti si traduce in sopraffazione, finendo
inevitabilmente per prevaricare le libertà degli altri. Senonché, la libertà ha una
sua naturale propensione a varcare i confini, a rompere gli argini. A delirare, secondo l’etimologia propria del termine: uscire dal solco tracciato.
Se questo è vero per tutte le libertà che un ordinamento costituzionale definisce
e regola, ciò assume un significato speciale per la manifestazione del pensiero. Si
è sempre ritenuto che questa particolare libertà, negli ordinamenti democratici, dovesse
essere garantita al massimo grado possibile (fatti salvi solo il limite costituzionale
del buon costume e i reati di offesa alla dignità altrui). Eppure, non solo i reati
d’opinione sono diffusi, ma si avverte anche una crescente insofferenza nei confronti
dei pensieri più dissonanti. Quasi che la progressiva omologazione dei costumi e un
diffuso conformismo culturale si sentissero scoperti di fronte alle sfide della diversità
nei modi di pensare delle sempre più estese minoranze critiche. Ma è, in particolare,
ai confini della libertà di manifestazione del pensiero che è apparso utile guardare.
Non tanto al pensiero genericamente critico, ma ancor più a quello «eversivo». Quel
pensiero cioè che, secondo una risalente tradizione dottrinaria e politica, si pone
contro l’ordinamento costituito, avverso l’ordine pubblico. Quali limiti possono valere?
Entro il nostro ordinamento costituzionale qual è il rapporto tra libertà di manifestazione
del pensiero e ordine pubblico democratico? C’è una copiosa e controversa giurisprudenza
costituzionale sul punto che ci può orientare. Un buon inizio, mi sembra, per riflettere
più estesamente sulla libertà dei contemporanei.
Il conflitto non è una semplice libertà (di contrapporsi all’altro da sé). È il tratto più specifico
di ogni società, rappresenta la ragione stessa dell’esistenza del diritto. Il nomos nasce per la necessità di dare un ordine al conflitto, trovare un modo di risoluzione
alle controversie tra gli uomini e le donne che vivono sulla medesima terra. Un vero
principio fondativo del diritto, dunque. Nelle nostre società plurali, inoltre, il
conflitto si è esteso, sebbene sia diventato più difficile riconoscerlo; spesso negato,
riesplode in forme e modi a volte imprevedibili. Crollati i muri politici e ideologici
del Novecento, finita la lotta di classe dal basso (iniziata quella dall’alto), dopo
la Guerra fredda, qualcuno s’è illuso di vivere in un mondo finalmente pacificato.
Doppio inganno. In primo luogo, si è voluto colpevolmente dimenticare che il conflitto
è un valore che la nostra storia costituzionale ha elevato a principio di legittimazione del
cambiamento, iscrivendolo nei tratti pluralistici della società. Si tratta, dunque,
di governare il conflitto – deciderlo, neutralizzarlo o legittimarlo – non invece
di escludere che esso possa esprimersi.
Il secondo errore è quello della sottovalutazione della moltiplicazione dei conflitti,
che società sempre più aperte e multiculturali innescano. I conflitti, se non trovano
forme di risoluzione o di legittimazione, rischiano di degenerare, permanere senza
soluzione e definire uno stato d’eccezione permanente. Ed è questo – il protrarsi
dello stato d’eccezione – il vero rischio che corrono le nostre società democratiche
incapaci di regolare le condotte sociali conflittuali. Riflettere sui conflitti e
sulle modalità di risoluzione è un modo per cercare di comprendere l’essenza e lo
scopo del diritto, di quello costituzionale in specie.
Se al diritto si assegna il compito di dare un ordine alla comunità e fornire una
soluzione ai conflitti che si manifestano entro un dato territorio, fondamentale diventa
definire chi siano i soggetti della convivenza. In epoca moderna è attorno all’idea
di cittadinanza che si sono precisati i principi della convivenza. A ben vedere l’intera storia del
costituzionalismo può essere interpretata tramite lo studio delle trasformazioni del
concetto di cittadinanza. Non sembra, però, di poter dire che di tale rilievo si sia
ancora coscienti. In realtà, negli ultimi tempi si registra un’utilizzazione disinvolta,
contingente, per nulla consapevole del concetto. Della cittadinanza s’è fatto di recente
un uso a fisarmonica: ora per estendere ai residenti all’estero diritti politici,
ora per negare ai residenti in loco ogni diritto ad essere integrati. Ormai si oscilla
tra un’invertebrata cittadinanza cosmopolitica e una escludente cittadinanza identitaria.
C’è più di un nodo da sciogliere. Diventa urgente tornare a prendere in considerazione
la strutturale ambiguità del concetto, oscillante tra «partecipazione» e «appartenenza»,
tra una dimensione naturalmente inclusiva e una opposta tendenza che porta a distinguere
artificialmente tra le persone. Una cittadinanza per garantire i diritti fondamentali
di tutti e di ciascuno o una cittadinanza per separare, distinguere, negare i diritti
di alcuni rispetto ai diritti di altri? È proprio su questo crinale che si giocano
le sorti dei diritti costituzionali dei soggetti (cittadini e non) che operano entro
un dato territorio.
Non solo ai cittadini, ma ad ogni essere umano va garantita la dignità. Dopo l’abominio della seconda guerra mondiale, su quest’assunto si sono edificate
le società democratiche. Un’antica tradizione filosofica e una risalente costruzione
giuridica sono state poste alla base del diritto costituzionale contemporaneo, a fondamento
del pactum consociationis. Un giuramento è stato fatto: mai più Auschwitz. E la dignità, intangibile, è stata
collegata indissolubilmente ai diritti umani, indicata come il principio costitutivo
di ogni comunità. La dignità dei diritti, dunque, è parso il modo per assicurare le
società contro la vergogna. Eppure, anche questo meta-valore costituzionale rischia
di perdere di consistenza. Un uso disancorato dalla drammaticità della storia che
lo aveva posto al centro del sistema giuridico e costituzionale occidentale ha finito
per renderlo indeterminato. Quasi che ciascuno possa stabilire qual è la dignità da
rispettare. Anzi, qualcuno comincia persino a dubitare che si debba sempre considerare
la dignità altrui. Non quella dei terroristi, non quella dei barbari, non quella dei
diversi. Kant si rivolterebbe nella tomba. A noi non rimane che tornare ad interrogarci
su cosa sia la dignità oggi nel nostro ordinamento costituzionale.
Ognuno di questi fondamentali si intreccia con la questione più comprensiva di tutte:
qual è lo stato delle nostre democrazie? Non è facile rispondere ad una domanda così nettamente formulata. Della democrazia,
infatti, si sono sempre date tante accezioni quanti sono gli ordinamenti giuridici
esistenti e quelli immaginati. Persino le dittature – lo ricordava Carl Schmitt nel
1928 – sembrano poggiare su un fondamento democratico. Allora, se si vuol prendere
sul serio la nostra democrazia, appare necessario non limitarsi a esprimere un particolare
– e magari ben motivato – punto di vista, diventa essenziale specificarne storia e
qualità. Ed è proprio intrecciando storia della democrazia e qualità del nostro ordinamento
costituzionale che si può pervenire alla conclusione che la risposta sullo stato della
nostra democrazia dipende dal – anzi si identifica con il – rispetto dei principi fondamentali
della Costituzione. Ed è proprio a questo punto che la riflessione, anziché terminare,
si può riaprire. Se non vogliamo consolarci con una presunta democrazia ideale – quella
disegnata nella nostra Costituzione formale – dobbiamo spingerci a verificare lo stato
reale dell’attuazione dei principi costituzionali. La crisi della democrazia si identifica
per noi con la crisi della Costituzione.
Ma la democrazia e la Costituzione sono in crisi? Se riflettiamo sul carattere più
tipico che vale a contrassegnare la democrazia dei moderni – la rappresentanza politica – c’è da preoccuparsi. Il carattere rappresentativo delle democrazie moderne
sta vivendo, infatti, un tempo di eclisse: dietro la luna sono scomparsi tanto i rappresentanti
quanto i rappresentati, mentre lo strumento che le nostre costituzioni hanno individuato
per collegare gli uni agli altri (i partiti) appaiono navicelle sperdute nello spazio
galattico. Politica e cultura sono attualmente accecate da un altro sole, quello della
governabilità. Confusi dai riflessi di questa luce non vedono che si sta deteriorando
il terreno su cui si legittima il loro stesso potere. Senza rappresentanza effettiva
i poteri costituiti perdono la legittimazione a governare in nome del popolo. Può
darsi che in tal modo si possa raggiungere il massimo di governabilità (sebbene personalmente
ne dubiti), ma sembra opportuno riflettere ancora un po’ prima di rinunciare a duecento
anni di storia che sulla rappresentanza politica hanno costruito il rapporto controverso
e asimmetrico tra governati e governanti. C’è un istituto che nel corso della storia
ha accompagnato le vicende della rappresentanza: il libero mandato. Appare sintomatico
che oggi, in piena crisi della rappresentanza, siano in molti a volersene affrancare,
per governare senza ulteriori ostacoli. Porlo di nuovo al centro della nostra riflessione
può essere un modo per tornare a riflettere sul fondamento della rappresentanza politica.
Se ci si rivolge a considerare il sistema costituzionale nel suo complesso, infine,
un coro unanime inneggerà alla riforma. Ma quale riforma? In pochi sono disposti ad interrogarsi sul merito. Riforme di
continuo annunciate, a volte spericolatamente approvate da incerte maggioranze, magari
a seguito di deroghe alla Costituzione e a forzature procedurali. Al fondo v’è che
della Costituzione e della sua riforma s’è impadronito il «sovrano»: sono le diverse
maggioranze politiche che ormai governano il cambiamento costituzionale, venendo così
a tradire la natura storica e teorica che il costituzionalismo moderno aveva assegnato
al «contratto sociale». Non uno strumento per assicurare i poteri e stabilizzare i
governi, bensì, all’opposto, un patto dei governati per dividere i poteri e assicurare
i diritti. Per recuperare questa dimensione perduta vale la pena fermarsi a riflettere,
prima che sia troppo tardi.
I capitoli che compongono questo volume ruotano tutti attorno all’idea che le nostre
sofferenti democrazie costituzionali debbano essere ricostruite, non invece nichilisticamente
abbandonate o allegramente disattese. La consapevolezza delle profonde trasformazioni
sociali, politiche e culturali non permette infatti di ancorarsi unicamente alle certezze
del passato, limitando lo sforzo analitico alla constatazione della sempre maggiore
distanza tra la miseria del presente e i «sacri» principi enunciati nei testi costituzionali.
Non deve però neppure indurre alla resa, decretando la fine dell’esperienza storica
del costituzionalismo moderno che ha retto la civiltà giuridica negli ultimi duecento
anni, magari per abbracciare nuove visioni oggi più alla moda (dalla tecnocrazia funzionalista
al neoliberismo totalitario). Ciò di cui abbiamo realmente bisogno è una maggiore
capacità di critica dell’esistente che sia anche in grado di definire nuove prospettive.
Da troppo tempo, invece, il pensiero critico sembra aver perduto la propria radicalità,
schiacciato dal peso del presente. Dovremmo cercare di recuperare un poco lo spirito
smarrito, sempre che si voglia cambiare lo stato delle cose, ponendoci all’altezza
del tempo futuro, non accontentandoci della gestione del contingente.
Uno dei testi più importanti del Novecento è riuscito nell’intento di criticare l’esistente
e, al contempo, proporre nuove prospettive. Mi riferisco al marxiano Per la critica dell’economia politica. Nell’introduzione l’autore richiama la dantesca condanna degli ignavi con parole
che faccio mie: «Sulla soglia della scienza, come sulla porta dell’inferno, si deve
porre questo ammonimento: Qui si convien lasciare ogni sospetto / Ogni viltà convien che qui sia morta».
I singoli capitoli riprendono interventi svolti in varie occasioni. Gli scritti originari
sono stati tutti modificati con tagli, ampliamenti, aggiornamenti, riscrittura di
alcune parti, cambiamento dei titoli. In ogni caso, di seguito, sono riportate le
sedi delle pubblicazioni originarie.
Il capitolo sulla democrazia è inedito, sebbene mi sia capitato più volte di occuparmi
del tema. Il capitolo sui conflitti è stato originariamente proposto come relazione
al convegno Democrazia e controllo pubblico dalla prima modernità al web, pubblicato nel volume che ne raccoglie gli atti a cura di G. Allegri, M.R. Allegri,
A. Guerra, P. Marsocci, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012, pp. 3 ss. Il capitolo
sull’eguaglianza è stato originariamente proposto come relazione al convegno della
fondazione Basso Il progetto costituzionale dell’eguaglianza, poi pubblicato nel volume che ne raccoglie gli atti a cura di C. Giorgi, Roma, Ediesse,
2014, pp. 23 ss. Il capitolo sulla libertà è stato originariamente proposto come relazione
al convegno di Lipari (giornate italo-spagnole di giustizia costituzionale) su Libertà di manifestazione del pensiero e giurisprudenza costituzionale, poi pubblicato nel volume che ne raccoglie gli atti a cura di A. Pizzorusso, R.
Romboli, A. Ruggeri, A. Saitta, G. Silvestri, Milano, Giuffrè, 2005, pp. 245 ss. Il
capitolo sul lavoro è stato originariamente proposto alla «Scuola di buona politica»
della fondazione Basso, e verrà pubblicato in un volume contenente scritti in omaggio
a Gustavo Zagrebelsky. Il capitolo sulla cittadinanza è stato originariamente proposto
come relazione al convegno dell’Unione dei Privatisti I valori della convivenza civile e i codici dell’Italia unita, poi pubblicato nella rivista «Diritto pubblico», 2011, pp. 425 ss. Il capitolo sui
diritti è stato originariamente proposto al World Social Forum-Forum Social Mondial
di Tunisi del 2013, poi pubblicato in «Politica del Diritto», n. 1-2, 2013, pp. 3
ss. Il capitolo sulla dignità è stato originariamente proposto al festival del diritto
di Piacenza del 2011, poi pubblicato nei saggi dedicati a Stefano Rodotà, La vocazione civile del giurista, a cura di G. Alpa e V. Roppo, Roma-Bari, Laterza, 2013, pp. 4 ss. Il capitolo sulla
rappresentanza è stato originariamente proposto come relazione al convegno annuale
dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti nel 2008 su Partiti politici e società civile a sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, poi pubblicato nel volume che ne raccoglie gli atti, Napoli, Jovene, 2009, pp. 177
ss. Il capitolo sulla riforma costituzionale, infine, è stato originariamente proposto
come intervento nel volume collettivo Grammatica dell’indignazione, a cura di L. Pepino e M. Revelli, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2013, pp. 232 ss.
I.
Democrazia.
Democrazia è costituzione
Presso i Greci tutto ciò che il popolo doveva fare lo faceva
direttamente; esso era continuamente riunito in piazza.
Quel popolo viveva in un clima mite, non era avido,
i suoi lavori erano fatti dagli schiavi; la principale questione che lo occupava era
la libertà.
Non avendo più gli stessi vantaggi, come conservare gli stessi diritti?
I vostri climi rigidi creano più numerosi bisogni,
sei mesi l’anno la piazza pubblica non è frequentabile;
i vostri linguaggi sordi non possono venire uditi all’aria aperta,
voi vi preoccupate più del vostro guadagno che della vostra libertà
e temete molto più la miseria della schiavitù
Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, 1762
1. Premessa
Chi può dirsi «contro» la democrazia? Eppure la realtà delle democrazie appare tutt’altro
che univoca. È per questo che è giunto il tempo di interrogarsi sul suo concreto significato,
ritenendo che possano esistere diversi tipi di «democrazia» e che il problema di fondo
per chiunque voglia dare un senso alle parole d’uso comune – tanto più se esse sono
di fondamentale rilievo per la comprensione del mondo in cui si vive – sia quello
della sua «qualificazione».
Nell’ottica del costituzionalista la questione democratica investe in pieno il fondamento
stesso del suo operato. Tanto più se – come si sosterrà in questo scritto – ci si
dovesse persuadere che la qualità della democrazia è oggi essenzialmente definita
dal sistema costituzionale nel suo complesso; giungendo alla conclusione di una sostanziale
identificazione tra democrazia e Costituzione. Se vogliamo allora comprendere a fondo
lo stato in cui versa il costituzionalismo contemporaneo, risalire alla radice della
sua crisi, interrogarci sul suo futuro, non possiamo che partire da una riflessione
sulla democrazia.
2. Le diverse concezioni di «democrazia»
Si deve anzitutto stabilire a quale concezione della democrazia si vuole fare riferimento.
Non vi è, infatti, un solo tipo di «democrazia». Questa è, in realtà, un’espressione
abusata, impiegata assegnando a essa diversi significati deontici, a volte tra loro
incompatibili, utilizzata per indicare le più diverse forme di Stato e di governo,
abitualmente in un’accezione positiva, ma tutt’altro che escluso è l’individuazione
di sue formule svalutative. Si pensi alle qualificazioni di «populista», «massimalista»,
«identitaria», «plebiscitaria», con cui sempre più spesso – e non senza ragione –
viene specificata la forma concreta del sistema politico «democratico». Per non parlare
del rischio che la democrazia abbandonata a se stessa assuma una conformazione degenerata:
quella dell’aristotelica demagogia o quella della polibiana oclocrazia, in primo luogo. Eppure non credo che si possa rinunciare alla conservazione di un orizzonte democratico
e alla valenza euristica del concetto. Non credo, cioè, che gli ordinamenti democratici
siano equiparabili a quelli teocratici, tecnocratici e autocratici. Insomma ha ancora
un senso – io credo – l’affermazione secondo la quale è il popolo (demos) a legittimare il potere (kratos), e non invece dio, la tecnica o l’autorità.
Se vogliamo, però, fuoriuscire dalla genericità del discorso democratico (democraticismo), bisogna affrontare di petto la questione della «democrazia reale» per tentare di
definirla secondo effettivi criteri di giudizio storico e in rapporto ai nostri determinati
parametri costituzionali. Per poi verificare se e in che modo essa effettivamente
opera nei nostri ordinamenti concreti. In tal modo potremmo anche accertare se sia
ancora possibile che la democrazia – nella sua forma reale – possa essere ricondotta
per intero entro i principi espressi in Costituzione. Solo in tal caso potremmo concludere
che tra Costituzione e democrazia esiste un’identità, sicché sarà corretto parlare
della democrazia costituzionale come la forma storicamente assunta dalla democrazia tout court. Altrimenti dovremmo riconoscere l’esistenza di uno iato tra i due termini di democrazia
e Costituzione, esaminati entrambi nella loro dimensione reale e non solo ideale.
D’altronde, dovrebbe essere chiaro che non ogni democrazia è costituzionale, così
come non ogni Costituzione è democratica.
Ciò che appare urgente è dunque una ridefinizione di senso, al fine di evitare una
progressiva evaporazione di significato.
Qualcuno potrebbe a questo punto, giustamente, rilevare che non vi è un unico possibile
modo per indagare i caratteri propri degli ordinamenti democratici. La storia delle
idee, il pensiero politico e filosofico, le diverse esperienze giuridiche concrete
hanno fornito diverse accezioni, sia formali sia sostanziali, di democrazia.
Secondo alcune ben note impostazioni, infatti, la democrazia (ma parallelamente anche
la Costituzione) deve essere indagata per le particolari garanzie procedurali e/o
formali che l’ordinamento prevede (dal logicismo normativista kelseniano alla trasparenza procedural-garantista bobbiana); secondo altri in base a parametri esterni (dal mercato schumpeteriano alle istituzioni poliarchiche dahliane); secondo altri ancora per i caratteri sostanziali dal contenuto più diverso (dal
valore della decisione schmittiana al fondamento costitutivo dell’argomentazione habermasiana).
In effetti, non appare opportuno sfumare le differenze tra le tante visioni di democrazia
che sostanziano realtà diverse e progetti culturali, ideologici, scientifici, politici,
nonché ordinamentali e costituzionali disparati. Ma proprio per questo a nulla varrebbe
assecondare facili schematismi. Così, la stessa più tradizionale distinzione tra visioni
procedurali (o formali) e visioni prescrittive (o sostanziali) di democrazia finisce
per assimilare diverse e non omogenee concezioni. Alle prime, ad esempio, possono
farsi risalire tanto le concezioni normativistiche alla Kelsen, quanto le concezioni
competitive alla Schumpeter, entrambe unificate da un’assunzione della democrazia
come metodo. Ciò non toglie che v’è un abisso tra le une e le altre. Senza considerare
che la «forma» democratica cela – in entrambi i casi – una «sostanza» di contenuto
piuttosto evidente. Egualmente potrebbe dirsi per le concezioni più tradizionalmente
considerate di natura prescrittiva, cui possono farsi risalire tanto le autoritarie
tesi schmittiane quanto quelle interpretazioni della democrazia che esaltano il contenuto
dispositivo e di principio, assegnando ai regimi democratici scopi sostanziali, collegati
spesso a progetti emancipativi e di trasformazione degli ordinamenti reali, per l’affermazione/realizzazione
di diritti fondamentali e la limitazione/divisione del sistema dei poteri. Difficile
pensare che queste ultime siano immediatamente assimilabili alla prima.
Non rimane allora che una strada per cercare di dare «senso» al concetto di democrazia.
Quella di dichiarare il proprio punto di vista e i criteri che si ritiene di dovere
adottare per assegnare un significato sostanziale alla realtà che la teoria della
democrazia esprime.
D’altronde la molteplicità delle teorie e delle ricostruzioni dei sistemi democratici
dimostrano quanto si è in precedenza rilevato: della democrazia non può parlarsi in
astratto, né essa può essere concepita come un a-priori logico. È a seconda delle
prospettive prescelte e dei parametri assunti che si dà sostanza alla concreta forma
storico-politica denominata democrazia.
È allora giustificato – io credo – che il giurista, il costituzionalista in particolare,
assuma come propria prospettiva specifica quella storico-critica, reinterpretando
cioè l’attuale ordinamento costituzionale democratico in base al significato che esso
ha avuto nel corso della storia, senza potersi accontentare delle qualificazioni formali
di democrazia; andando alla ricerca, invece, del suo denotato sostanziale, al fine
di prospettare un possibile confronto tra l’essenza della democrazia e il valore della
Costituzione.
3. La democrazia degli antichi: l’«isonomia»
La ragione fondamentale per la quale non è possibile accontentarsi della qualificazione
di democratico attribuita a un ordinamento è data dal fatto che la nozione di democrazia
non è determinata in sé, non configura una precisa composizione tra i poteri, né un
loro specifico equilibrio; non definisce neppure un univoco modo di rapportarsi del
potere (kratos) con il popolo (demos).
Sin dal suo nascere, però, la forma democratica possiede una sua precisa connotazione
sostanziale, che vale a distinguerla dalle altre forme di governo. Nell’archetipo
democratico, espresso con la forza del simbolico nei miti d’origine del concetto (sia
in quello letterario espresso nel dialogo più noto sulle forme di governo – riprodotto
da Erodoto – tra Otane, Dario e Megabizo, sia in quello storico che fa riferimento all’esperienza ateniese del V e IV secolo
avanti Cristo), appare evidente che l’eguaglianza è, assieme alla partecipazione, il presupposto necessario perché il governo del popolo si traduca in specifica forma
politica. È l’eguaglianza unita alla partecipazione che identifica l’isonomia, ed è quest’ultima che si pone a fondamento della democrazia. Essa non è solo parità
dinanzi alla legge, ma anche possibilità di determinazione del nomos che governa la comunità.
Ed è proprio nella determinazione del nomos da parte del demos che si rinviene il carattere sociale e partecipativo della democrazia degli antichi.
L’essenza del concetto sta nella partecipazione diretta dei (pochi) liberi ed eguali;
esclusa ogni delega, negata ogni figura di rappresentanza, scartata ogni forma di
rappresentazione.
Il valore e l’essenza della concezione democratica non sono dunque definiti dalla
mera riconduzione di tutto al popolo, bensì dalle modalità di formazione della volontà
del demos nella sfera politica. Sin dall’inizio della civiltà, l’evocazione del popolo indeterminato,
scollegato dalla dimensione del potere e dalla sua realtà di potenza, appare il primo
e più pericoloso nemico della democrazia, posta all’origine del dissolvimento del
governo democratico. I demagoghi sono coloro i quali sono in grado di far degenerare
le forme di governo democratiche, poiché sono essi che possono stravolgere la volontà
popolare usando delle armi della democrazia contro la democrazia stessa.
L’inganno, la seduzione, la paura irrazionale, la promessa di soddisfare i bisogni
più immediati e più primitivi, la paura per il diverso e per gli stranieri, l’odio
per gli avversari politici: queste – ci narra Tucidide – sono le armi con cui i demagoghi
si contesero il favore del popolo ateniese, ponendo fine all’esperienza storica della
democrazia di Pericle, perseguendo una politica del potere personale tramite il consenso
del popolo.
Per impedire una simile degenerazione della democrazia c’è solo un modo: rimanere
fedeli ai valori di convivenza, alla communitas intesa come società organizzata in base ad un nomos originale, intangibile, definito dalla comunità stessa e non più disponibile. V’è
una primordiale identità, irriducibile che esprime la superiore unità della polis, la vera «anima della città», che non può essere posta in discussione da nessuno. Il che non vuol dire rimanere fedeli a una tradizione senza volto e senza storia,
bensì garantire l’essenza del concetto di democrazia, che pretende che sia il demos a porsi a fondamento del kratos e non viceversa.
Sin dall’origine del concetto di democrazia e nella sua primigenia realizzazione storica
possono già scorgersi alcuni degli elementi che andranno a qualificare il costituzionalismo
modernamente inteso. Qualche secolo dopo, infatti, alle origini del costituzionalismo
moderno, la ricerca della prevalenza del demos sul kratos si risolverà assegnando a un particolare testo normativo il compito di racchiudere
e conservare le forme reali della democrazia, sottraendole al dominio dei rapporti
di forza e ai rischi della degenerazione che i sistemi democratici possono sempre
subire. Sarà la Costituzione a garantire l’eguaglianza e la partecipazione, essa stabilirà
i legami di questi due elementi sostanziali per l’essenza e il valore dei regimi democratici.
4. La libertà degli antichi e l’esclusione sociale
Eguaglianza e partecipazione, dunque, si pongono alle origini del concetto classico
di democrazia. Ma «eguaglianza» tra chi? E inoltre, che tipo di «partecipazione»?
Per dare una risposta a questi due decisivi interrogativi si deve chiamare in causa
la terza grande categoria del costituzionalismo: il concetto di «libertà». In epoca
classica, ci ha ricordato Benjamin Constant, la libertà si coniugava essenzialmente
come una libertà di partecipazione. La libertà «democratica» è una libertà di partecipazione al governo della città,
essa si annulla se viene privata della possibilità di intervenire nel pubblico dibattito,
di votare e contare in modo diretto e non formale per assumere le decisioni comuni,
di influenzare l’uditorio, partecipando così all’esercizio del potere. La declinazione
moderna di libertà, intesa come separata dalla sfera pubblica, non fa parte della
matrice originaria del concetto di democrazia. Le libertà private non sono di per
sé ostili alle democrazie antiche, ma le sono sostanzialmente estranee.
Proprio questa concezione, che lega la libertà alla partecipazione e la partecipazione
alla direzione della sfera pubblica, determina il carattere «elitario» della democrazia
classica. Non importa, infatti, che tutti siano liberi, ciò che rileva è che i «liberi»
non si sottraggano al compito di partecipare al dibattito in pubblico. Questa concezione
sembra dare per scontato che «il modo naturale di vivere dell’uomo sia la vita istituzionalizzata
della polis; l’idea di resistere a questa istituzionalizzazione – in nome della libertà individuale
o anche di un pacifico ritiro a vita privata, via dalla piazza e dal mercato – non
viene quasi pensata». Un assorbimento della libertà dei singoli entro il contesto sociale, entro la polis. Una libertà di partecipazione come condizione personale, che non prevede la rinuncia,
la delega, la possibilità di estraniarsi dal governo della città.
Ma come garantire un partecipazione reale, diretta, incisiva? Come assicurare che
il governo sia effettiva espressione del popolo? È qui che torna in gioco la concezione
dell’eguaglianza. La declinazione dell’eguaglianza dell’antichità presupponeva una
diversità tra i soggetti. Eguali sì, ma non tutti e non tutti allo stesso modo. Saranno
la natura, la geografia, la «politica» in ultima istanza a separare i diversi e ad
unire gli eguali, ma in ogni caso è necessario che pochi siano gli eguali che dovranno
governare la città. Se è vero che l’individuo appartiene alla polis, è anche vero che non tutti sono realmente cittadini della polis. Non solo i barbari, ma anche le donne, i fanciulli e gli schiavi sono esclusi dai
diritti di partecipazione connessi alla cittadinanza. Persino chi, dovendo lavorare, non è in grado di dedicare il proprio tempo agli
affari pubblici non può venire a far parte della ristretta area della cittadinanza
democratica: il lavoro dunque come fattore di esclusione politica. La democrazia degli antichi
rinviene quindi il proprio presupposto nell’eguaglianza dei pochi e nella discriminazione
dei più. La pratica della democrazia classica appare in tal modo assai distante dalla
teoria democratica moderna. Una «democrazia elitaria», s’è detto, che sconta una netta
separazione tra i soggetti e una forte diseguaglianza giuridica e politica tra i cittadini.
Le vicende che hanno portato progressivamente all’estensione della soggettività giuridica
e all’attribuzione dei diritti civili e politici a gran parte delle persone appartiene
ad altre epoche storiche. Va a merito del movimento politico e culturale del costituzionalismo
moderno avere espresso le ragioni universalistiche del demos. Una storia ben nota di conquista della soggettività dei diritti da parte di chi
ne era privo, ma per nulla conclusa: basta pensare alle forme ancora arcaiche con
cui si consegue la cittadinanza, ritenuta tuttora un presupposto necessario per il
conferimento dei diritti di partecipazione politica. L’esclusione dalla sfera pubblica
e dalla possibilità di influenzare le decisioni comuni di gran parte dei conviventi
– i residenti stranieri – per ragioni di sangue, di stirpe o di nazionalità, in fondo,
esprimono una logica antica che Euripide linearmente rappresentava, quando riteneva
che fosse naturale che sui barbari imperassero i greci.
Seppure questo conferma che il demos è ancora limitato (e forse che non può essere neppure immaginato come assolutamente
illimitato ovvero del tutto sganciato dalle condizioni materiali degli individui),
non si può comunque negare la scomparsa della dimensione propriamente classica della
democrazia in epoca moderna. La democrazia dei moderni, sebbene ancora condizionata
dall’assunzione di specifici status di cittadinanza, si è radicalmente trasformata a seguito della progressiva estensione
dei diritti: l’égalité en droit, il progressivo allargamento del suffragio, il conferimento dei diritti politici,
se non a tutti, almeno ai più, il divieto di discriminazione tra i soggetti per ragioni
di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali, insomma gran parte delle maggiori conquiste del costituzionalismo
rendono palese come la dimensione della politica – del governo della polis – in epoca attuale non possa più essere quella elitaria dell’antichità. Sono le ragioni
del costituzionalismo che impongono alla democrazia di trasformarsi: se la dimensione
escludente aveva permesso la partecipazione diretta, quella inclusiva impone un più
complesso meccanismo di «rappresentazione» di tutti i soggetti titolari di diritto.
Il governo del demos non può più essere espressione diretta dei presenti, ma deve scontare l’assenza dei
più, a favore della presenza di tutti in base ad un principio «giuridico» nuovo: la
rappresentanzapolitica, che diventa il vero cuore della democrazia e del costituzionalismo moderni.
5. La democrazia rappresentativa dei moderni
La democrazia rappresentativa ha pertanto sostituito quella diretta dell’antichità.
Si può certo discutere sul rapporto tra democrazia diretta e rappresentativa, sulla
componente plebiscitaria a fronte di quella rappresentativa nello Stato costituzionale
democratico, ma non si può, invece, immaginare un modello democratico che non sia espresso tramite
un’organizzazione politico-rappresentativa del demos, che non sconti, in sostanza, una distanza tra rappresentati e rappresentanti.
In verità, non solo le democrazie moderne, ma anche ogni altra forma di Stato, esprimono
un modo di conformarsi del rapporto governanti-governati e ogni tentativo teorico
di unificazione dei due termini nasconde una finzione e un inganno: l’identità del
popolo con il sovrano non può che condurre a ordinamenti politici di natura olistica;
quanto di più lontano dal governo del popolo, da ogni democrazia anche solo apparente.
Così come lontane da ogni concetto di democrazia appaiono tutte quelle prospettive
ricostruttive che assolutizzano ora il demos ora il kratos, rispondendo a pregiudizi ideologici che si rivelano forzature rispetto alla realtà
storica entro cui un sistema di governo del popolo è concretamente possibile o anche
solo immaginabile.
È così che la presunta omogeneità del popolo (demos) o la rappresentazione organicistica del corpo sociale sono state poste alla base
dei grandi inganni della storia, frutto di visioni ideali, ma non reali. Realtà storica che, invece, sconta nella modernità una sempre più accentuata divisione
del popolo e un’accesa conflittualità che si pone a fondamento di legittimazione del
governo e del potere plurale prima, pluralistico poi.
Anche le immagini del potere (kratos) del tutto svincolato dal popolo perché «paterno» o perché raffigurazione della città
di Dio sono state sostenute, rispettivamente, dalla tradizione inveterata o dallo
spirito della fede, mai, invece, su basi razional-legali; in prospettive, dunque, quanto mai lontane
da quelle proprie della modernità illuministica e da tutte quelle della tradizione
di pensiero che tra il Seicento e il Settecento fondava su basi immanentistiche e
non trascendenti la concezione dello Stato e del diritto moderno. Per quanto qui ci
riguarda, soprattutto, distanti da ogni considerazione del popolo inteso nella sua
soggettività concreta, valutato nella sua capacità di costruzione della volontà politica
e di gestione del potere reale.
Poiché non si può dire che di tali interpretazioni ci siamo liberati, e anzi – di
questi tempi – potrebbero svolgersi considerazioni opposte e tutt’altro che incoraggianti,
ciò che può qui dedursi è solo che la democrazia moderna è molto meno consolidata
di quanto non si ritenga solitamente e che diverse, a volte incompatibili tra loro,
sono le sue incarnazioni, alcune delle quali della democrazia conservano solo il nome.
In ogni caso, il punto che qui interessa non è lo studio della teoria democratica
(e delle sue forme degenerate), ma, più sommessamente, interrogarsi su come operano,
in questa nuova dimensione, i caratteri sostanziali del sistema democratico; se è
possibile – anche in epoca moderna, nelle forme necessitate della rappresentanza politica
– salvaguardare il valore e l’essenza della democrazia, preservando quei tratti peculiari
che valgono ad assicurare un effettivo governo del popolo. Verificare in sostanza
se in un ordinamento non più elitario sia possibile conservare le forme dell’eguaglianza
coniugata con la capacità partecipativa dei singoli (isonomia), così come sono in
concreto definite negli ordinamenti costituzionali contemporanei.
Quest’indagine potrebbe essere svolta entro prospettive molteplici, non solo strettamente
giuridiche. Non è, infatti, solo il diritto che può garantire alla democrazia la sua
esistenza e la sua qualità. In questa sede, però, dovremo tralasciare ogni considerazione
di natura più strettamente culturale, storica, sociale o politica, limitandoci a segnalare
la loro importanza per tutte quelle analisi che vogliono proporsi di esaminare lo
stato di salute effettivo dei sistemi democratici.
Per quanto a noi interessa, ci limiteremo a considerare il rapporto che si è andato
definendo tra democrazia e Costituzione in base alle diverse forme assunte dalla rappresentanza
politica con un approccio che potremmo definire sostanziale tanto della concezione di democrazia quanto di quella di Costituzione; senza poterci
accontentare della pura e inanime considerazione che nelle democrazie la sovranità
spetta al popolo, se non altro per la ragione che si è anche prima rilevata: oltre
al demos e al kratos, ciò che conta e qualifica i sistemi realmente democratici sono le relazioni che
legano i due termini, non invece la loro mera enunciazione.
Potremmo allora dir così: ciò che vale a qualificare la democrazia moderna non è tanto
la sovranità popolare (è questa una condizione necessaria, ma di per sé insufficiente
e parziale, potendosi porre a fondamento anche di forme di governo per nulla democratiche),
piuttosto sono le concrete modalità e i caratteri attraverso cui si determina la formazione
della volontà politica. Non è la sola partecipazione del popolo (unitariamente inteso
e indistintamente considerato) alla decisione assunta dal potere che può assicurare
il rispetto del carattere democratico del sistema politico, ma sono le effettive condizioni
entro cui tale partecipazione assume un senso e un peso reale che sono capaci di conferire
un volto al sistema democratico positivo. Inoltre, la concreta partecipazione del
popolo alla volontà politica – s’è detto e vale la pena ribadirlo – non può essere
più intesa (se mai lo è stata) come partecipazione diretta; sono le forme in concreto
assunte dalla rappresentanza politica (anche in rapporto con gli istituti della democrazia
«diretta», che pure operano entro gli ordinamenti moderni) che valgono essenzialmente
a dare sostanza alla democrazia che, nella modernità, o è rappresentativa o non lo
è.
6. La democrazia costituzionale
Appare assolutamente indicativo constatare, a questo punto, come di tutto ciò la nostra
Costituzione sia pienamente consapevole, disegnando un ordinamento in cui non è definita
un’idea astratta e indeterminata di democrazia, bensì una specifica idea di democrazia strutturata. È ciò che m’induce a ritenere come oggi non si possa più distinguere il piano della
democrazia da quello della Costituzione e che la «democrazia costituzionale» sia diventata
il carattere storicamente assunto dalla democrazia tout court; la democrazia venendo a coincidere, senza sbavature, con il sistema costituzionale
complessivamente inteso.
La natura prescrittiva del testo costituzionale, il fondamento assiologico delle sue
disposizioni, la struttura argomentativa e non meramente assertiva della trama complessiva
della Costituzione intesa come intero, la non limitazione alla semplice distribuzione
delle competenze ma la scelta di una specifica forma di governo in grado di stabilire
in concreto il rapporto tra i poteri, il rifiuto della mera enunciazione dei diritti
o di clausole generali onnicomprensive ma la scelta di una complessa articolazione
di questi diritti, che sconta il loro possibile conflitto, nonché la necessità di
un loro bilanciamento; tutto ciò vale a caratterizzare un quadro di democrazia pluralista
non neutrale, entro cui il richiamo alla volontà popolare e alla sua sovranità non
è separabile dall’analisi del potere per come esso in concreto si esercita, dal suo
fondamento e dai suoi limiti costituzionalmente fissati.
Vero è che «la sovranità appartiene al popolo», ma esso «la esercita nelle forme e
nei limiti della Costituzione». Sin dal suo primo articolo la Costituzione ha voluto
indicare il nesso inscindibile tra popolo e potere e definirlo in base ad un rinvio
al complessivo testo costituzionale. La democrazia viene immediatamente qualificata
come «democrazia costituzionale» tramite la stretta connessione che lega i soggetti
partecipi di una collettività politica organizzata (il popolo) con le norme costituzionali
che fondano e legittimano il potere. La democrazia – scriverà Costantino Mortati –
entra come elemento costitutivo della forma di Stato, «inteso quale ordine complessivo
di vita associata», ma essa definirà anche la forma di governo «secondo la diversa
specie e grado di partecipazione dei cittadini alla gestione del potere autoritario».
Una partecipazione del popolo sovrano al potere costituito che viene immediatamente
specificata e che trova nel principio personalista, di cui all’articolo 2, e in quello
egualitario, di cui all’articolo 3, le condizioni del proprio operare. Ma forse è
ancora nel primo articolo che deve essere rinvenuto l’elemento più qualificante la
democrazia dei moderni assunta a paradigma generale dal nostro sistema costituzionale.
Il collegamento tra democrazia e lavoro, che non può essere semplicemente inteso come
scelta ideologica o propriamente di classe, ma che vale, in ogni caso, a qualificare
il modello di democrazia sociale: è la condizione effettiva dei soggetti sociali che si pone a fondamento della Repubblica,
non intesi in una dimensione astratta o idealizzata, bensì considerati nella concretezza
dell’attività che ciascun individuo professa. Non è qui il caso di esaminare se il
fondamento lavoristico preserva anche in epoca postmoderna una sua priorità assiologica; ciò che conta è che in tal modo la nostra Costituzione «discende dal cielo sulla
terra», abbandonando l’idea astratta di democrazia, storicizzandola e inverandone il senso.
D’altronde, a riprova di come la nostra Costituzione sia portata a considerare nella
sua concretezza storica i rapporti sociali e politici che legano i consociati entro
un ordinamento strutturalmente democratico, basta richiamare il «tipo» di eguaglianza
formale che la Costituzione pretende. Il primo comma dell’articolo 3, infatti, assicura
l’égalité en droit, come già era affermato nei testi costituzionali di fine Settecento e poi in quelli
ottocenteschi, ma va anche oltre. Da un lato, specifica le discriminazioni possibili
e in concreto realizzabili («senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione,
di opinioni politiche...»), aggiungendo chiaramente il divieto di discriminazioni
determinate dalle «condizioni personali e sociali», d’altro lato e soprattutto, collega
l’esigenza di eguaglianza alla «pari dignità sociale». A differenza di quanto scritto
da altre costituzioni europee coeve, la nostra Costituzione non si è accontentata
dunque di tutelare un’indeterminata dignità, una «dignità umana» astrattamente concepita,
ha preteso – e ancora dovrebbe pretendere – di assicurare e garantire quella particolare
eguaglianza che parifica nei diritti l’homme situé, il quale opera all’interno di una comunità politica; un’eguaglianza che pretende
il rispetto degli individui non solo per preservare la loro libertà nella sfera privata,
ma anche per permettere a ciascuno di operare nella sfera pubblica.
E così, anche nel secondo comma dell’articolo 3, la libertà e l’eguaglianza, da un
lato, si collegano alla necessità di assicurare il «pieno sviluppo della persona umana»;
dall’altro, si pongono in relazione tale «pieno sviluppo», oltre che con la sfera
individuale, anche con quella sociale e politica. Anzi in questo caso è direttamente
il «governo del popolo» che trova una sua particolare e ulteriore specificazione,
venendo a rilevarsi l’esigenza di un’«effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».
7. La formazione della volontà politica negli ordinamenti di democrazia costituzionale
Ma vi è di più. Anche la nostra Costituzione – come i greci ad Atene ai tempi di Pericle
– è assolutamente consapevole che la democrazia non è riducibile alla mitizzazione
del popolo unitariamente inteso o alla semplice affermazione della volontà sovrana
del demos. Il cuore pulsante della democrazia è un altro. È da rinvenire nella centralità della
formazione della volontà popolare e nelle modalità specifiche tramite cui essa si traduce in
volontà politica. Il popolo non viene lasciato solo nella sua dimensione esistenziale
e la libertà dei moderni non esclude affatto le libertà democratiche e di partecipazione
attiva alla vita politica, piuttosto ne organizza la forza per renderla effettiva.
Vero, infatti, è che la modernità ha allargato il suo orizzonte, includendo la concezione
individuale di libertà e acquisendo la consapevolezza della «doppia dimensione» delle
libertà: per dirla con Isaiah Berlin, distinguendo tra la libertà «positiva» di fare
o essere qualcosa e la libertà «negativa» di sottrarsi da qualcosa. Ma ciò non toglie che sul versante della libertà «positiva», e in specie con riferimento
alla libertà democratica, la natura rappresentativa degli ordinamenti costituzionali
contemporanei ha chiarito quale fosse la reale posta in gioco. Non sono l’urlo della
folla, il plebiscito, la decisione in sé, l’appello al popolo o la rinuncia ad ogni
garanzia che possono porsi a fondamento della democrazia. La massa indistinta e sfuggente che decide di crocifiggere Gesù e salvare Barabba,
indottrinata dal Sinedrio e dai sacerdoti che «temendo il popolo, sobillarono la moltitudine»,
non è un buon esempio di democrazia, è invece espressione della sua degenerazione. È in base a questa consapevolezza che la nostra Costituzione indica chiaramente
quali siano le forme della partecipazione politica e i modi in cui il popolo organizzato
«si fa Stato».
La partecipazione che sostiene l’intera impalcatura della nostra democrazia, i cui
principi fondamentali sono – come s’è indicato al paragrafo precedente – individuabili
già nei primi quattro articoli del testo costituzionale, non si esaurisce in un’esaltazione
dell’individuo isolato. La valorizzazione delle formazioni sociali, le garanzie fornite
alle libertà associative, gli istituti di democrazia diretta, sono tutte possibili
vie attraverso le quali il popolo può partecipare in modo organizzato alla formazione
della volontà statale.
Diversi mezzi e modalità, anche se è vero che sono i partiti politici gli strumenti
privilegiati di partecipazione democratica individuati dalla Costituzione. È tramite
essi che il popolo diventa sovrano, «concorrendo con metodo democratico a determinare
la politica nazionale». Ma – ancora una volta – il demos e le sue specifiche forme politiche, di per sé considerati, non appaiono sufficienti,
non sono in grado di completare il quadro e definire l’effettiva forma di Stato democratica.
È necessario guardare anche all’altra parte della democrazia o, per meglio dire, a
come s’innesta l’una parte con l’altra. Dalla parte del kratos, allora, la politica nazionale si traduce, in primo luogo, nella «politica generale
del Governo» e nell’«indirizzo politico e amministrativo» di cui ci parla l’articolo
95. Non importa qui definire i complessi intrecci tra le nozioni di «politica nazionale»,
«politica generale del Governo» e «indirizzo politico e amministrativo»; ciò che importa invece è sottolineare come nella Costituzione si esprima una concezione
complessa e articolata su più livelli di democrazia: ai cittadini il momento essenziale
della politica nazionale, che essi potranno determinare tramite il concorso dei partiti
e nell’ambito della reale dinamica politica e sociale; agli organi dello Stato apparato
(al governo in particolare) la successiva fissazione di queste politiche «nazionali»
entro le articolazioni della «politica generale» e degli specifici «indirizzi politici
e amministrativi».
L’articolazione del sistema dei poteri è in realtà ben più ricca e coinvolge tutte
le istituzioni democratiche: Parlamento, potere giudiziario, garanti costituzionali
del sistema, ciascuno nel suo ambito, tutti concorrono a definire il volto di un «governo
del popolo» strutturato in base a principi costituzionali definiti. Pertanto, il rapporto
tra cittadini e potere non può essere delimitato entro rigidi schemi o assi privilegiati
(quello che si instaura tra un popolo e un leader, ovvero tra partiti e governo),
ma coinvolge ogni relazione in concreto esistente tra tutti i poteri politico-istituzionali
e la società. Anche per questo può affermarsi che non v’è una possibile distanza teorica
tra democrazia e Costituzione: nel nostro contesto storico, la democrazia non può
che essere identificata come democrazia costituzionale.
Ed è per ciò che interrogarsi sullo stato della nostra democrazia può essere un modo
per valutare lo stato della nostra Costituzione.
8. Qual è lo stato della nostra democrazia costituzionale?
L’indagine su «qual è lo stato della nostra democrazia costituzionale» può essere
svolta da diversi punti di vista. Se si prendono in considerazione le trasformazioni
storiche, politiche, sociali e culturali della realtà, per valutare la permanenza
o meno dei presupposti materiali che sostengono il disegno costituzionale di democrazia,
non possono che svolgersi preoccupate e, per alcuni profili, scoraggianti considerazioni.
Basta un rapido ma significativo elenco dei punti di crisi della odierna teoria democratica:
la liquefazione dei partiti, la personalizzazione della politica, gli squilibri tra
i poteri, la marginalizzazione del Parlamento, la primazia illimitata e invasiva dell’esecutivo,
la crisi della dimensione pubblica del potere, l’evidente perdita di un’etica collettiva
che si è accompagnata alla progressiva estraneità della politica dalla società, la
passività delle masse disorganizzate e abbandonate a sé, la manipolazione dell’ideologia,
il ritorno alla dimensione quasi esclusivamente privata della libertà e la sua non
lineare evoluzione, l’accentuarsi delle disuguaglianze sociali, politiche e culturali,
sempre meno attente alla dimensione partecipativa e politica dei cittadini alla cosa
pubblica, lo smarrirsi entro gli orizzonti sconfinati della globalizzazione delle
democrazie nazionali, l’assenza di soggetti in grado di rappresentare, il frantumarsi
del corpo sociale e la mancanza di soggettività comuni in grado di essere rappresentate,
l’esclusione di molti dalla possibilità di partecipare alla res publica. Tutto ciò e altro ancora mostrano con chiara evidenza lo stato di sofferenza della
nostra democrazia costituzionale, la distanza, che sembra a volte incolmabile, tra
democrazia in senso formale e democrazia in senso materiale. È questa la crisi della
democrazia oggi, che è immediatamente anche una crisi costituzionale; a riprova della
tesi qui sostenuta di una sostanziale identificazione tra ragioni della democrazia
e tenuta della Costituzione.
Oltre la crisi, affianco ai fattori che concorrono ad indebolire lo stato delle nostre
democrazie costituzionali, si scorgono ancora i conflitti, le tensioni, gli ideali,
i soggetti che possono dare nuova «qualità» al sistema. Nella situazione odierna diventa
allora urgente tornare a riflettere sulla qualità della nostra democrazia costituzionale,
sui presupposti necessari affinché questa non si riduca ad una formulazione esangue.
Il futuro della democrazia costituzionale, dunque, non è scontato. Emerge anzi come
un grande terreno di scontro, dove il vento della storia spira con forza, sospingendoci
verso un indeterminato progresso. A noi spetta, in queste condizioni, operare per
costruire il tempo che verrà. Non è neppure sufficiente avere la consapevolezza che
le trasformazioni storiche ripropongono oggi con forza la questione democratica. Se si vuole permanere entro una prospettiva di democrazia strutturata per come si
è andata definendo nel corso della storia e nel testo della nostra Costituzione, non
ritenendo ci si possa accontentare di più pacificate e neutre visioni formali o meramente
procedurali di democrazia, deve essere precisato che un effettivo «governo del popolo»
potrà essere assicurato solo da soggetti politici attivi, i quali dovranno garantire
le condizioni sostanziali alle quali abbiamo sin qui fatto riferimento (eguaglianza
e partecipazione effettiva, libertà del demos, etica pubblica e rispetto del nomos primordiale e della communitas civium). Nella modernità giuridica, poi, è necessario che queste condizioni sostanziali
siano forgiate entro gli schemi della rappresentanza politica, presupposto necessario
– come s’è detto – di ogni possibile idea di democrazia negli ordinamenti contemporanei.
II.
Conflitti.
Democrazia è conflitto
Il conflitto è componente integrante della vita umana,
si trova dentro di noi e intorno a noi;
talvolta riusciamo abilmente ad evitarlo,
ma altre volte dobbiamo affrontarlo direttamente
Sun Tzu, L’arte della guerra, VI-V secolo a.C.
1. Che cos’è il diritto e a cosa serve
Viviamo tempi in cui è difficile cogliere le trasformazioni in atto. Qualcuno può
accettare di buon grado o persino giustificare questa incapacità di vedere dove andiamo,
altri, invece, possono vivere con tormento la fase di odierna confusione. In ogni
caso vi è un dato di fondo che dovrebbe preoccupare ogni studioso: la dottrina non
riesce più a interpretare i grandi mutamenti della realtà con gli strumenti tradizionali.
È questo che mi spinge a pensare che si debba ritornare alle questioni ultime, ripensare
criticamente le categorie che si pongono a fondamento ermeneutico delle nostre scienze.
Dovremmo mettere in discussione tutti gli ‘universali indiscussi’ che sostengono le
nostre più profonde convinzioni, ovvero tutti i concetti di fondo che in forza della
tradizione siamo abituati a dare per assodati.
In questa prospettiva, è evidente che le prime e più radicali domande che può porsi
un giurista sono: «che cos’è il diritto?» e «a cosa serve?».
Dal punto di vista statico («che cos’è il diritto?»), può dirsi che al diritto si
assegna il compito di regolare le condotte sociali ponendo un ordine alla convivenza. Non tanto dunque definire astratte regole di condotta – «norme», secondo le tante teorie normative – quanto definire un sistema di relazioni
concrete che permettano di creare e poi conservare un ordine entro la società – ordo ordinans e ordo ordinatus, secondo le tante teorie ordinamentali. È dunque il carattere «sociale» che qualifica
il diritto, almeno fin tanto che a esso si vuole attribuire il compito di fondare la società civile. In assenza di un diritto in grado di regolare le condotte sociali
si vivrebbe in uno «stato di natura» dove ognuno ha un solo «diritto»: quello assoluto
su ogni cosa, espressione di una libertà incondizionata, intesa come assenza di vincoli,
ma proprio per questo una libertà dispotica. Una situazione per nulla auspicabile – ci insegnano i contrattualisti – poiché essa
ha un costo terribile, quello dell’incombente guerra civile che domina lo stato di
natura (Hobbes) o dell’impossibilità di trovare giustizia (Locke). Questa l’essenza del diritto, almeno dal punto di vista statico.
Dal punto di vista dinamico («a cosa serve?») – e in via logicamente consequenziale
– può dirsi che compito del diritto sia quello di dare soluzione ai conflitti che operano all’interno della società. Regolando le condotte si definisce, infatti,
la trama degli interessi, fornendo una soluzione «giuridica» al loro potenziale –
ma anche incombente – scontro. È questa la dimensione sostanziale del diritto, come
ci ricorda ad esempio Jhering, quando afferma che il diritto è dominato dagli interessi
e dal conflitto tra essi. Questo è lo scopo del diritto, almeno dal punto di vista dinamico.
Io credo che da queste premesse – diciamo di carattere definitorio – discenda qualcosa
di importante ed impegnativo sul piano dell’epistemologia. Lo dirò qui nei termini
più brevi e assertivi possibili: ritengo che la s
...