Edizione: 2018, V rist. 2019 Pagine: 164 Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788858129319 ISBN digitale: 9788858131770 Argomenti: Attualità politica ed economica, Attualità culturale e di costume
Le migrazioni ci sono. Sono sempre di più e saranno ancora di più in futuro. Non è più il tempo dei problemi senza risposta: è il momento delle soluzioni.
L’immigrazione è un fenomeno strutturale da decenni. Tuttavia è sempre stato affrontato in termini di emergenza, come fosse un fatto episodico. Ma l’estensione, la qualità e la quantità del processo sono tali da esigere una soluzione complessiva al nostro sistema di convivenza che non sottovaluti il malessere diffuso nell’opinione pubblica. Le recenti polemiche intorno al ruolo delle ong nei salvataggi sono l’ultimo degli esempi. Per non dire della crescente xenofobia che rischia di indebolire la coesione sociale del nostro paese. L’immigrazione irregolare, il trafficking (i suoi costi e i suoi morti), i salvataggi, i respingimenti, la gestione dei richiedenti asilo con le sue inefficienze, le forme dell’accoglienza. E ancora, i problemi legati ai rimpatri, alla cittadinanza, alle implicazioni delle diverse appartenenze religiose: è urgente e necessaria una riflessione critica onesta su tutte le questioni che accompagnano le migrazioni attuali, affrontando quelle più spinose, con il coraggio di proposte radicali.
Stefano Allievi è professore di Sociologia e direttore del Master in Religions, Politics and Global Society presso l’Università di Padova. Si occupa di migrazioni in Europa e analisi del cambiamento culturale e del pluralismo religioso, con particolare attenzione alla presenza islamica. Tra i suoi libri più recenti Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento (UTET 2021) e Il sesto continente. Le migrazioni tra natura e società, biodiversità e pluralismo culturale (con G. Bernardi e P. Vineis, Aboca Edizioni 2023). Per Laterza è autore di: Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (con G. Dalla Zuanna, 2016); Immigrazione. Cambiare tutto (2018); 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare) (2018); La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ha futuro (2020); Governare le migrazioni. Si deve, si può (2023).
www.stefanoallievi.it
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
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Mai, prima della nostra epoca, si erano visti tanti sradicamenti.
La migrazione, forzata o scelta, oltre le frontiere nazionali o dal villaggio alla metropoli,
è l’esperienza fondamentale del nostro tempo.
John Berger
Introduzione
“Scommetto, contro chi vorrà, ventimila sterline che farò il giro del mondo in ottanta
giorni al massimo, ossia in millenovecento ore e centoquindicimiladuecento minuti.
Accettate?”
“Accettiamo,” risposero Stuart, Fallentin, Sullivan, Flanagan e Ralph, dopo essersi
consultati.
“Bene,” disse Mr. Fogg. “Il treno per Dover parte alle otto e quarantacinque: lo prenderò”.
Jules Verne
1. Cosa c’entra Phileas Fogg con le migrazioni?
Ci si muove per molti motivi. Per necessità, per desiderio, per paura, per piacere
(un racconto autobiografico di Robert L. Stevenson, in cui raccontava del suo viaggio
in America con gli emigranti di terza classe, si intitolava Emigrante per diletto), per insoddisfazione (Bruce Chatwin parlava di Anatomia dell’irrequietezza), per cercare qualcosa, perché non lo si trova, perché si hanno degli obiettivi precisi,
o al contrario perché non se ne ha nessuno, per inseguire una speranza o per sfuggire
alla disperazione.
L’uomo contemporaneo (quello che può farlo, che ha un passaporto che glielo consente,
e le risorse necessarie) si muove sempre di più: per lavoro, turismo, affari, amore,
o senza un motivo particolare, per passare il tempo, magari anche solo perché non
sa stare fermo. Molte lunghe file in autostrada si spiegano anche così: ma anche le
transumanze dei fine settimana, le nottate in macchina dei giovani di provincia, fino
agli esodi agostani, al turismo globale, a quello congressuale, a quello sessuale,
a quello accademico. Per non parlare di fiere, festival, mostre, expo, megaconcerti,
eventi sportivi globali. Poi, appunto, c’è il turismo, gli affari, l’amore, le riunioni
che le teleconferenze non riescono ad annullare, gli incontri delle associazioni di
qualunque cosa si occupino, su scala regionale, nazionale e internazionale, i viaggi
di cultura, i “viaggi della speranza” legati alla salute, quelli per imparare lingue
straniere, e motivi tradizionali che non hanno perso il loro peso, come religione
(pellegrinaggi, missioni) e guerra (i militari). Tutti gli indicatori sono lì a testimoniarlo.
Insieme viaggi e turismo costituiscono la prima industria al mondo. Secondo la United
Nations World Tourism Organization, nel 2016 sono stati compiuti oltre un miliardo
e 200 milioni di viaggi su tratte internazionali, il turismo cresce a un ritmo superiore
a quello del commercio mondiale, rappresenta oltre il 10% del prodotto interno lordo
mondiale (e il 45% di quello delle economie emergenti), e un decimo dei posti di lavoro
nel mondo è correlato con esso. Il tutto, a monte di quelle che chiamiamo migrazioni:
come cornice in cui esse si inseriscono.
Del resto, ci si muove a costi incredibilmente inferiori e con tempi sconcertantemente
più rapidi rispetto al passato. Braudel descriveva un Mediterraneo “largo una settimana”
di viaggio, e per i nostri avi l’agognato miraggio della “Merica” costava venti giorni
di bastimento e i risparmi di un nucleo familiare. Oggi spesso un volo per la capitale
di un altro stato è meno lungo di un viaggio su un treno locale, e costa meno del
taxi che dall’aeroporto ci conduce in città. Tutto si muove di più e a minor prezzo:
informazioni (quelle, spesso in tempo reale e a costo zero), idee, merci (con Amazon
Prime, oggi, qualsiasi prodotto, ovunque sia, è a sole 24 ore di distanza da noi),
denaro (anche quello, ormai dematerializzato, digitale, si muove in tempo reale –
espressione surreale che prendiamo per buona, per descrivere una situazione piuttosto
irreale). E, un po’ meno, si muovono le persone. Un po’ perché molte non ne hanno
nessuna intenzione, e sono dotate di possibilità di decidere: mentre su informazioni,
merci e denaro decidiamo noi. E un po’ non necessariamente per volontà: ma perché
gli uomini trovano più ostacoli. Non fisici, e nemmeno solo o soprattutto economici.
Ma legislativi, amministrativi, documentali, burocratici.
Phileas Fogg, il protagonista de Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne, pubblicato nel 1873, riesce a girare il globo in ferrovia, in piroscafo,
a dorso d’elefante o in slitta, praticamente senza mostrare i documenti, dotato solo
di una cospicua somma di denaro, spendendo alla fine – per sé e il proprio fido domestico
Passepartout – quasi 20.000 sterline dell’epoca, pari all’ammontare della scommessa
fatta con gli altri soci del Reform Club. Oggi un viaggio del genere, pur costando
assai meno ed essendo assai più breve, sarebbe impossibile persino a lui, senza timbri
e permessi aggiornati, richieste di visto avanzate per tempo, magari qualche piccola
forma di corruzione per accelerare una pratica. Ma, a maggior ragione, è impossibile
per tutti coloro che sono nati nel posto e con il passaporto sbagliato: la logica
securitaria, ma ancora prima la paura dell’immigrazione, hanno progressivamente limitato
la libertà di circolazione degli individui – che, del resto, in passato era prerogativa
di minoranze numericamente meno significative. Viaggiare, oggi, per costoro, è più
difficile di trent’anni fa, così come trent’anni fa era più difficile di cinquanta,
e cinquant’anni fa più che ai tempi di Verne.
Paradossalmente, proprio nell’epoca in cui viaggiare non è mai stato così facile,
confortevole ed economico, per alcuni è diventato impossibile. Di fatto perché, contrariamente
a quanto avvenuto con i movimenti migratori del secolo scorso, l’integrazione tra
economie ha proceduto con rapidità sempre maggiore, mentre l’integrazione tra i popoli,
se non ha fatto passi indietro, certo ha camminato con velocità completamente diversa
– e qualche volta non ha proprio camminato. Quindi, è vero, ci si muove: ma alcuni
meno di altri. E alcuni invece – quelli nati dalla parte giusta del confine che separa
i meno fortunati e i più fortunati del mondo (tra gli altri, il sottoscritto, e la
maggior parte di voi che leggerete questo libro) – non si sono mai mossi tanto come
ora: di fatto, la libertà di movimento è diventata una nuova e potente forma di stratificazione
sociale. Lo dimostra impietosamente il passport index, un sito che compara le possibilità di viaggiare dei passaporti mondiali1: nessuna sorpresa nel constatare che i cittadini più privilegiati del mondo, quelli
per i quali è possibile entrare liberamente, senza visto, in più paesi, sono quelli
occidentali e di altri paesi sviluppati (al momento in cui scriviamo: Singapore in
testa, un cui cittadino può entrare in 159 paesi del mondo, poi Germania 158, Svezia
e Sud Corea 157, quindi con 156 un nutrito gruppo di paesi tra cui l’Italia, altri
paesi europei e il Giappone, per poi contare, fino alla cinquantesima posizione, solo
altri paesi europei, del Nord America, qualche colosso del Sud America, Hong Kong
e Israele – Asia praticamente non pervenuta, Africa del tutto inesistente). Nessuna
sorpresa, ugualmente, nel vedere in fondo alla classifica paesi come l’Afghanistan
(i cui cittadini sono accettati senza visto solo in 23 paesi), Pakistan e Iraq (25),
Siria (29), Somalia (33), Bangladesh e Nepal (36), Sri Lanka, Libano, Iran, Libia
e Sudan (37), Nord Corea e Eritrea (38), Sud Sudan, Etiopia e Territori Palestinesi
(39), Kosovo e Myanmar (41), e così via. Come si vede, a stare peggio sono paesi interessati
da guerre (anche prodotte dall’Occidente: prima occupavano una posizione diversa),
paesi poveri e/o sotto dittatura, e anche molti paesi che sono precisamente quelli
interessati dai fenomeni migratori verso l’Europa, sbarchi sulle coste italiane inclusi:
salendo di poco in classifica troviamo infatti anche Nigeria (44), Congo (45), Camerun
(46), mentre la maggior parte degli altri paesi i cui cittadini sono protagonisti
degli sbarchi in Italia stanno tra i 50 e 60 paesi in cui hanno libero accesso: tra
i quali, ovviamente, non c’è il nostro. Tradotto: queste persone non possono viaggiare
senza visto – spesso nemmeno nei paesi vicini (africani verso altri paesi africani,
asiatici verso altri paesi asiatici, ecc.) –, non possono andare in altri paesi, e
in particolare nei nostri, non diciamo a visitarli, ma nemmeno a studiare, a commerciare,
a stabilire contatti con imprese per fare affari (e i miei colleghi universitari a
partecipare a congressi o conferenze o a tenere lezioni e seminari), se non a prezzo
di lunghe perdite di tempo e di denaro, spesso anche di corruzione, e sempre con il
rischio assai concreto del diniego, anche all’ultimo momento, magari direttamente
all’aeroporto, secondo le contingenze della cronaca. Ci riesce, con qualche fatica,
chi ha buone ragioni, adeguate relazioni e sufficienti risorse: gli altri, che non
possono arrivare legalmente, c’è da stupirsi che ci provino – a muoversi, ad andare
in un altro paese – nell’unico modo possibile, ossia illegalmente? E se molti non
possono viaggiare per un periodo temporaneo – anche solo per visitarlo, un paese –
c’è da stupirsi se, in mancanza di alternative praticabili, provano a entrarci stabilmente?
In un certo senso, è proprio l’Europa, l’Occidente a produrre migrazioni definitive
laddove esse potrebbero essere temporanee e reversibili, se ci fosse la possibilità
di andare e tornare senza problemi...
E qui veniamo al cuore di quel tipo specifico di mobilità che chiamiamo immigrazione.
Le migrazioni possono essere dettate dal desiderio o dal bisogno, dalla speranza o
dalla disperazione, da fattori di spinta (push) o di attrazione (pull): e sempre più spesso da diverse di queste ragioni messe insieme. Ma ci sono. Sono
sempre di più. E saranno ancora di più in futuro. È un fenomeno di dimensioni sempre
più ampie, sempre più diffuso, sempre più frequente – epocale, biblico, epico, come
si dice quando si vuole enfatizzare senza sapere come prenderlo. Che, dunque, va governato.
E per farlo, come tutti i fenomeni complessi, presuppone uno sforzo di analisi e di
riflessione altrettanto complesso. E complessa ne è la gestione. Ma questo la rende
solo più necessaria, urgente, ineludibile.
Ed è per questo che va affrontato nelle sue grandi linee, ma anche nei suoi snodi
più problematici. Che è quello che cercheremo di fare qui. Cercando di capire quali
saranno, e quanti potranno essere, e se ci saranno ancora, i Phileas Fogg del futuro.
2. Perché questo libro
Questo piccolo libro ha una piccola storia, che ne giustifica il senso.
Nel 2015 l’amico demografo Gianpiero Dalla Zuanna e io abbiamo scritto un libretto
che voleva fare la sintesi e il punto, in linguaggio comprensibile ma senza sconti,
sul tema delle migrazioni in Italia – argomento che, come noto, fa dibattito e “scalda”
molto.
Si intitolava Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione, pubblicato nel 2016 dallo stesso editore che oggi pubblica questo testo,e ha avuto un discreto successo – di critica e di pubblico, come usa dire – pur trattandosi
di un tema non facile.
A seguito del riscontro ottenuto, il libro ha girato parecchio, e noi con lui (la
mobilità ha cause anche banali...). Oltre ai festival di rito, abbiamo partecipato
a decine e decine di presentazioni, in tutta Italia, e siamo stati ascoltati in molti
e diversi ambienti: dai più alti vertici istituzionali (la seconda e la terza carica
dello stato, ministri, parlamentari, anche stranieri, esperti e tecnici) alle associazioni
che sul territorio si occupano di accoglienza degli immigrati, fino ai comitati di
base contrari agli arrivi di richiedenti asilo, passando per le parrocchie e le associazioni
di volontariato. Chiamati a chiarire, a ragionare, a provocare, a discutere, a instillare
dubbi, e a indebolire – più che a rafforzare – certezze. E, spesso, in situazioni
di conflitto sociale e culturale – tra autoctoni e immigrati, tra residenti e neo-arrivati,
o semplicemente tra cittadini con opinioni diverse (opinioni che sul tema tendono
facilmente a diventare barricate) – a spiegare le dinamiche del conflitto stesso,
quando non a dirimerne i contrasti.
In questo stesso periodo, caratterizzato dall’aggravarsi di alcuni problemi pre-esistenti
(su tutti, quello degli sbarchi, delle sue premesse e delle sue conseguenze), abbiamo
anche preso maggiormente coscienza del mutare del clima sul tema, in tutta Italia
– del resto entrambi viviamo nel Nordest, che più di altre aree del paese ha dato
voce alla protesta, ed entrambi viaggiamo molto, anche per parlare delle cose di cui
ci occupiamo qui.
Sempre più profonde appaiono le contraddizioni e i conflitti interni alla società.
Sempre più dure sono le parole espresse sul tema. Sempre più angosciate le domande.
Spesso, domande scomode. Che hanno bisogno e diritto a una risposta. Sempre più difficile,
infine, elaborare delle risposte che diventino delle proposte praticabili, e prima
ancora comunicarle e condividerle. Sul tema, ci si divide prima ancora di mettere
sul tavolo i dati di base del problema.
In questo libro ho sentito l’esigenza personale di fare questo lavoro: cercare e possibilmente
trovare le risposte alle domande più scomode. Quasi come un dovere civico. Prendere
sul serio le obiezioni. Introiettarle. Ruminarle. E provare a digerire una risposta
che possa diventare proposta percorribile, non campata per aria.
Non mi basta più (non mi è mai bastato, peraltro) il gioco facile: parlare ai già
convinti dell’una o dell’altra sponda. Volevo prendere il toro per le corna: un toro
parecchio arrabbiato, da un po’ di tempo a questa parte. Per il quale il solo accennare
al tema equivale spesso a sventolare una muleta rossa davanti agli occhi, come in una corrida.
Per questo mi sono posto io stesso, meglio che in passato, oltre agli interrogativi
di chi, senza necessariamente essere “pro”, vuole gestire razionalmente il fenomeno,
anche le domande di chi è “anti”, di chi si schiera polemicamente, di chi protesta
contro le migrazioni: spesso, senza offrire soluzioni alternative ai problemi che
solleva. Ne ho prese sul serio le inquietudini e i timori, anche quando le reazioni
avevano una forma inaccettabile. Ho fatto mie le obiezioni altrui, anche agli argomenti
che ho esposto nei miei libri e nei miei interventi precedenti. Mi sono confrontato
anche con i più polemici e meno costruttivi tra coloro che ho incontrato, di persona
e virtualmente, sui social. Ho introiettato insomma, più profondamente di quanto non
avessi mai fatto, le ragioni, le disragioni, le sofferenze, le solitudini, le rabbie
che circolano nel paese, e che su questo tema trovano sfogo, manifestando un disagio
che deve essere ascoltato. Qui c’è il risultato delle riflessioni che ne sono seguite.
Questo libro nasce dunque da un’urgenza: anche etica e deontologica, per quel che
concerne la mia spinta a scriverlo. Analizzare i nodi critici, senza nasconderli,
affrontandoli apertamente: delineando qualche possibile soluzione, prima che la situazione
scoppi o sfugga di mano, prendendo derive imprevedibili e potenzialmente preoccupanti
per la società tutta. Non si possono nascondere i problemi sotto il tappeto: bisogna
affrontarli subito, anche se sgradevoli, prima che sia troppo tardi. Occorre, più
di ieri, tenere conto delle compatibilità economiche e di un deterioramento del livello
di coesione sociale allarmante: in alcuni casi più percepito che reale, e di cui le
migrazioni non sono necessariamente la causa, ma di cui sono parte del problema, e
in parte anche il capro espiatorio.
Le politiche sulle migrazioni sono caratterizzate da contraddizioni e aporie, opere
e omissioni, anche gravi, intorno alle quali è necessaria una onesta operazione di
trasparenza, in modo da affrontarle costruttivamente. Per questo, forse, questo libro
potrà spiacere a qualcuno, anche tra coloro che hanno apprezzato il testo precedente.
Ma, oggi più di ieri, è necessario parlare agli intimoriti, ai preoccupati, ai critici,
ai problematici, ai dubbiosi – è dalle loro osservazioni, e dalla capacità di interazione
con loro, che può emergere una consapevolezza diversa e, forse, una capacità di affrontare
i problemi maggiore e più condivisa. Perché l’immigrazione non è un fenomeno che può
essere letto con la logica dello schieramento ideologico: implica vantaggi e svantaggi,
porta con sé problemi facilmente risolvibili e problemi molto più complessi e con
un numero maggiore di variabili, non sempre controllabili e meno facilmente affrontabili,
comporta conseguenze immediate e di lungo periodo, che spesso vanno in direzione diversa,
induce conflitti che bisogna necessariamente attraversare, necessita della capacità
di trovare soluzioni che riguardano parti della società che hanno opinioni molto diverse,
ma che, tutte, devono essere coinvolte, e comunque ascoltate.
Nel testo precedente avevamo fornito i dati fondamentali e un quadro interpretativo
delle migrazioni nel nostro paese. Vi si affrontavano, dopo aver fornito i numeri
dal punto di vista demografico, le conseguenze economiche dell’immigrazione, la presenza
nella scuola, somiglianze e differenze tra le seconde generazioni e i giovani autoctoni,
la questione della devianza e della presenza in carcere, alcune delicate questioni
emergenti come la tratta sessuale, il tema dei rifugiati (che qui svilupperemo ampiamente),
le conseguenze di lungo periodo nella creazione di una società plurale, alcune riflessioni
introduttive sulla specificità della presenza islamica, e infine si proponeva qualche
suggerimento immediato di gestione delle politiche dell’immigrazione. Insomma, in
poche pagine si faceva un tentativo di riflessione a tutto campo, denso di informazioni
e con zero indulgenze al linguaggio politically correct.
Oggi però la situazione è, in parte, cambiata. Alcuni processi si stanno accelerando,
ad esempio riguardo a sbarchi e richiedenti asilo: in termini numerici, ma soprattutto
in termini di soglie di accettazione del fenomeno (basti pensare alle polemiche intorno
al ruolo delle ong, le Organizzazioni non governative umanitarie, nei salvataggi). Nuovi problemi emergono
nel rapporto con l’opinione pubblica, e relativamente alla necessità di mantenere
una coesione sociale oggi più a rischio, che a sua volta rischia di produrre sconvolgimenti
non solo sociali ma politici seri, e cambiare il volto dell’Europa anche rispetto
ad altre questioni, incluso l’assetto delle libertà e dei diritti acquisiti per i
cittadini.
Pur continuando a guardare con oggettività al fenomeno, questo malessere andava, va,
preso sul serio, e ad esso vanno fornite risposte adeguate. Si è reso dunque necessario,
in continuità e all’interno del quadro interpretativo offerto nel libro precedente
– che in qualche modo resta come scenario, come sfondo, e quindi in definitiva come
utile e necessaria premessa – e con la stessa attenzione metodologica (presenza di
molti dati a supporto delle tesi esposte, analisi e bilancio di costi e benefici),
proporre una riflessione critica onesta su alcuni problemi non affrontati nel libro
precedente, su questioni rimaste aperte o, per così dire, allargatesi nel tempo, su
alcune nuove emergenze che accompagnano le migrazioni attuali, affrontando le questioni
più spinose, con un’analisi per quanto possibile obiettiva e proposte di soluzione
ai problemi evidenziati: mantenendo fermo un quadro di analisi e di proposte costruttivo,
razionale, concretamente praticabile.
Se si vuole, il libro precedente parlava della normalità dell’immigrazione in quanto tale, delle sue implicazioni, delle sue dinamiche, anche
spiacevoli. In questo si vorrebbe analizzare l’eccezionalità di alcuni fenomeni, nella speranza che non siano più tali a lungo, e con l’obiettivo
di ricondurre anch’essi a normalità – tuttavia in un’ottica di lungo periodo e, dal
punto di vista dei fenomeni analizzati, più larga.
Ecco, con questo libro vorrei parlare non ai già convinti, dell’una o dell’altra schiera.
Ma ai dubbiosi, agli scettici razionali (e anche irrazionali), a coloro che sono capaci
di tenere conto delle opinioni altrui, a coloro che sanno farsi scomode domande e
non dispongono di facili ricette e di troppo rapide risposte. O che sono capaci di
cambiare idea, anche quando un’idea ce l’hanno già. Spero che possa servire a capire
perché, sull’immigrazione, è necessario cambiare paradigma interpretativo e, dal punto
di vista pratico, molto, o quasi tutto, dell’approccio emergenziale attuale: senza
sottacere nulla, senza compiacere nessuno. Cercando di offrire un contributo costruttivo,
per quel che è dato, per quel che è possibile. Ed è possibile: anche se la situazione
è grave, mentre il grado di consapevolezza del fatto che lo sia davvero, che occorra
quindi intraprendere azioni urgenti e lucide, è tremendamente insufficiente, inversamente
proporzionale alla frequenza dei messaggi urlati nello spazio pubblico.
Avvertenza
Tutti i dati qui raccolti ed esaminati sono frutto di una minuziosa ricerca tra le
fonti primarie originali che hanno elaborato i dati medesimi. Ho anche intervistato
numerosi addetti ai lavori, cui ho esposto le mie tesi, e con cui mi sono confrontato:
le informazioni sulle criticità delle varie fasi dell’accoglienza, ad esempio, devono
molto a questi confronti. Le opinioni e la responsabilità finale, naturalmente, anche
sulle soluzioni proposte, restano soltanto mie, e non necessariamente saranno condivise
da coloro con cui e di cui ho parlato.
Il prima: di profughi, salvataggi, morti e altre cose che precedono gli arrivi
La migrazione, come il pellegrinaggio,
è di per se stessa il duro cammino:
un itinerario “livellatore” in cui i più forti sopravvivono
e gli altri cadono lungo la strada.
Bruce Chatwin
1. A monte di tutto
Se la nostra attenzione è richiamata da salvataggi in mare e da sbarchi che avvengono
sulle nostre coste, è perché, a monte, ci sono persone che su quelle barche ci salgono.
E se ci sono persone che si imbarcano, è perché pensano di averne motivo.
Noi (noi in questo libro, e noi pubblica opinione in generale) ci occupiamo di solito
delle conseguenze dei processi migratori: di quello che avviene quando i migranti arrivano da noi.
Ma essi hanno delle cause. E non si può fare un ragionamento serio sulle prime senza tenere in considerazione
le seconde. Non si può, insomma, fare finta di niente (o, come diceva Ennio Flaiano,
fare finta di tutto...): come pure molti, politici e non, che parlano di migrazioni
fanno regolarmente. Tutto si tiene, tutto è collegato. Le conseguenze ci interessano
perché riguardano noi, trasformandosi in arrivi non graditi a parti significative
della pubblica opinione. Ma anche le cause, a ben guardare, spesso riguardano noi:
anche quando non ce ne accorgiamo.
Non ci addentreremo troppo, sulle cause. Sarebbe il soggetto di un altro libro – e
non breve. Ma vi dedicheremo un paio di paragrafi. Perché sono molte. E forse non
sono oggi molto diverse da quelle che sono sempre state. La storia è storia di migrazioni.
E comincia da lontano: nella preistoria.
Mutazioni ambientali di dimensioni epocali, come le glaciazioni, provocarono nel Pleistocene,
a seguito della scomparsa o della modificazione di specie vegetali e dello spostamento
di specie animali, i primi movimenti migratori dell’uomo preistorico. E risale a circa
60mila anni fa la decisiva migrazione dell’homo sapiens che ha lasciato l’Africa, stabilendosi prima in Medio Oriente, e popolando poi l’Europa
circa 40mila anni fa. E, da allora, non si è mai fermato. Le motivazioni delle migrazioni
sono cambiate nel corso dei secoli, diventate negli ultimi due soprattutto economiche,
ma mantenendo sempre d’attualità quelle prodotte dalle guerre e dalle devastazioni
causate dall’uomo o dalla natura. Ora stanno ritornando – e aumenteranno significativamente
in futuro – anche le migrazioni che hanno cause climatiche. Per farla breve, quella
delle migrazioni è una storia lunga: all’ingrosso, se facciamo pari a 24 ore la storia
umana sulla terra, l’uomo è stato nomade, e non sedentario, per buona parte di questo
tempo – e mentre alcune popolazioni si urbanizzavano e si sedentarizzavano, altre
continuavano a vivere forme di nomadismo. E forse, di tutto questo, qualcosa, probabilmente
nel nostro dna, certamente nella nostra memoria profonda, e nel nostro inconscio, è rimasto.
Per ragionare sulle cause delle migrazioni potremmo limitarci a citare, in ordine
sparso, alcune parole: guerre (e, a monte, vendita degli armamenti con cui si fanno);
fame; sfruttamento (anche per conto terzi: laddove gli sfruttatori sono i poteri armati
dei rispettivi paesi, e i terzi sono, di solito, i paesi sviluppati); dittature (autoctone,
certo, ma che spesso servono a sostenere interessi eteroctoni – i terzi di cui sopra:
strategici, legati al controllo delle materie prime, agli alimenti, ecc.); ingiustizie;
diseguaglianze; crescita demografica non accompagnata da crescita economica; persecuzioni
mirate (per motivi etnici, religiosi, razziali, politici); calamità naturali – è la
lista, per difetto, dei cosiddetti push factors, o fattori di spinta. Alcuni vale la pena approfondirli.
Le diseguaglianze, per esempio: che non sono in diminuzione, ma in rapidissimo aumento.
I dati dello Human Development Report delle Nazioni Unite2 sono impressionanti, in proposito: nonostante una maggiore ricchezza globale a disposizione
e straordinari miglioramenti (dal 1990 sono uscite dalla condizione di estrema povertà,
meno di 1,90 dollari al giorno, 1 miliardo di persone, e ora sono il 13% della popolazione
contro il 35% di meno di trent’anni fa, più di 2 miliardi hanno migliorato le proprie
condizioni di accesso ai servizi di base, dalla disponibilità di acqua a migliori
sanità e istruzione, la mortalità infantile è dimezzata e la quota di bambini che
non ricevono alcuna istruzione anche: segno che molto si può fare, volendo), 1 persona
su 9 nel mondo è affamata, 1 su 3 malnutrita, ogni minuto muoiono 11 bambini con meno
di cinque anni e 35 madri al momento del parto ogni ora, e, per tornare al nostro
tema, 24 persone al minuto sono costrette a lasciare casa propria.
Vediamo i dati del pilpro capite. Secondo le stime, aggiornate ad aprile 2017, del World Economic Outlook Database del Fondo Monetario Internazionale (accessibili sul sito dell’imf), l’Italia ha un pilpro capite (il prodotto interno lordo suddiviso per il numero degli abitanti), al 2016, pari
a 30.507 dollari. Il pilpro capite medio dell’Unione Europea è di 39.317 dollari, quello dei paesi del mena (Middle East and North Africa) è di 18.402 dollari (se ci aggiungiamo Pakistan e
Afghanistan scende a 13.701 dollari), e quello dell’Africa sub-sahariana è di 3.837
dollari.
Per una comparazione più dettagliata, prendiamo le principali rotte migratorie che
coinvolgono oggi i nostri paesi, limitandoci a quelle dall’Africa, perché è da qui
che provengono in buona parte gli sbarchi (gli arrivi dall’Est Europa, via terra,
oggi incidono meno, anche se non sono inesistenti, ma soprattutto sono assai meno
visibili). Immaginiamoli come dei fiumi che man mano aumentano di dimensioni e portata
grazie all’incontro con nuovi affluenti.
Dalla rotta sud-ovest, chiamiamola così, si parte da Senegal, Gambia, Guinea e Mauritania,
si passa dal Mali e dal Burkina Faso (dove si aggregano anche i provenienti da Costa
d’Avorio e Ghana); dal Mali si va in Algeria e dal Burkina si prosegue per il Niger,
dove si aggregano anche i provenienti dalla Nigeria (che in parte proseguono per l’Algeria);
entrambi i flussi confluiscono in Libia, da dove tentano di partire alla volta dell’Italia.
Dalla rotta sud-est si proviene dal Corno d’Africa (Somalia, Etiopia, Eritrea), ma
anche da altri paesi (Kenya e Sud Sudan), per poi passare dal Sudan e arrivare in
Libia. A questo flusso si aggregano persone che vengono dal Medio Oriente attraverso
l’Egitto, e altre che provengono da molto più lontano (Pakistan, Bangladesh, Afghanistan,
ecc.), e che si aggregano a questo percorso da quando la rotta balcanica è stata sostanzialmente
fermata in Turchia, grazie agli accordi con l’Unione Europea.
Le principali rotte delle migrazioni (rielaborazione di una cartina di «Limes»).
Qualche dato sul pilpro capite dei paesi citati. Si va dai 233 dollari l’anno del Sud Sudan, i 411 del Niger, i
469 del Gambia, i 565 dell’Afghanistan, i 645 del Burkina Faso, i 795 dell’Etiopia,
gli 823 dell’Eritrea, gli 830 del Mali, gli 852 del Ciad, su su fino ai redditi più
alti, non sorprendentemente nei paesi arabi che si affacciano sul Mediterraneo. Dati
che andrebbero accompagnati a quelli relativi ai tassi di disoccupazione (che la maggior
parte dei paesi non è nemmeno in grado di raccogliere), alla popolazione complessiva
(i 90 milioni dell’Egitto, i 91 dell’Etiopia, i 184 della Nigeria, i 194 del Pakistan
– con una velocità di crescita assai diversa da quella europea), alla quota di popolazione
giovanile, al peso del debito estero, alle diseguaglianze interne.
Tuttavia, lo ribadiamo, le nude cifre da sole non spiegano perché ci siano paesi con
reddito pro capite minore o disoccupazione maggiore, dove al massimo constatiamo migrazioni interne
dalle campagne alle città, e paesi con meno problemi (apparenti: quelli, almeno, mostrati
dalle cifre) e più emigranti. Sono cose note alla teoria e all’analisi delle migrazioni,
che da tempo sanno che a partire non sono i poverissimi, che non ne hanno le risorse
per farlo né la capacità progettuale necessaria, ma la fascia superiore. Poi, giocano
un ruolo anche le catene migratorie (che spiegano molto dei luoghi di partenza e dei
luoghi di destinazione), e anche l’incentivazione alla partenza, indotta, oltre che
dalle catene migratorie suddette (la storia delle migrazioni è una storia di cugini
– in senso molto lato – che vanno a raggiungere altri cugini...), e dalla socializzazione
anticipatoria prodotta dalle eredità coloniali e dai media, anche dalle agenzie di
marketing dell’immigrazione, dai venditori di illusioni e di “passaggi a nord-ovest”,
dai trafficanti di uomini e donne, ormai organizzati in imprese transnazionali che
si incaricano di tutto: dalla pubblicità e dai finanziamenti alla partenza e agli
arrivi via gommone.
Sugli squilibri demografici, ci limitiamo a citare alcuni dati, riprendendoli dal
World Population Prospects del Dipartimento di affari sociali ed economici delle Nazioni Unite3. La crescita complessiva della popolazione mondiale passerà dagli attuali 7,6 miliardi
agli 8,6 del 2030, ai 9,8 del 2050 e agli 11,2 del 2100 – all’incirca 83 milioni l’anno
di aumento. Ma con andamenti demografici differenziati: tra i paesi maggiori, l’India
– 1,3 miliardi oggi – dovrebbe superare la Cina – attualmente 1,4 – nel 2024; ma la
Nigeria (uno dei paesi da cui arrivano già oggi flussi significativi di migranti:
è anche il primo per richieste di asilo in Italia), attualmente settimo paese per
popolazione, diventerà il terzo, scalzando gli Stati Uniti, già prima del 2050. Dal
2017 al 2050 metà della crescita globale della popolazione sarà concentrata in soli
nove paesi, diversi dei quali sono già oggi presenti nelle rotte verso l’Europa: nell’ordine
India, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Pakistan, Etiopia, Tanzania, Stati
Uniti, Uganda e Indonesia.
I 47 paesi classificati come ldc (paesi meno sviluppati, o least developed countries), con una fertilità media di 4,3 figli per donna, seppur in calo, saliranno dall’attuale
miliardo a oltre 1,3 miliardi nel 2030 e a 1,9 miliardi nel 2050; nello stesso periodo
la sola Africa, che ha la fertilità più alta del mondo, seppure in calo (attualmente
4,7 figli), dovrebbe raddoppiare la sua popolazione, e di conseguenza, a seguire,
la sua popolazione in età lavorativa. A titolo di comparazione, l’Europa ha una fertilità
finalmente in crescita nell’ultimo decennio, dopo un lungo periodo di declino: ma
da 1,4 a 1,6 figli, largamente al di sotto del tasso di riproduzione che consente
di mantenere stabile la popolazione – condizione che coinvolge oggi 83 paesi del mondo.
Come ovvio, questo dato influenza l’invecchiamento della popolazione: rispetto al
2017, la popolazione con più di sessant’anni raddoppierà entro il 2050 e più che triplicherà
entro il 2100, passando rispettivamente da 962 milioni attuali a 2,1 miliardi nel
2050 e a 3,1 nel 2100. In Europa la popolazione over 60 passerà dall’attuale 25% al
35% nel 2050; in Africa passerà dall’attuale 5% al 9% nel 2050. Ma i 10 stati più
giovani del mondo, con un’età media intorno ai vent’anni, sono tutti africani: e quindi
tutti al di là del Mediterraneo – a due passi da qui. La sintesi di cosa comporta
tutto ciò ce la offre la comparazione storica: all’inizio del Novecento era europeo
un abitante del mondo su quattro; nel 2050 lo sarà uno su quattordici.
Aggiungiamo i dati, collegati, sull’urbanizzazione: dal 2014 più della metà della
popolazione mondiale è urbanizzata, e salirà a due terzi nel 2050 – e la migrazione
dalle campagne alle città è spesso il primo sradicamento, e dunque il primo step o il pre-requisito di successive forme di mobilità e migrazione; anche perché 880
milioni di persone non vivono in case e quartieri, ma in baracche e slums, in cui avverrà probabilmente il 40% della futura urbanizzazione, e avranno quindi
poca motivazione a rimanerci – da quei luoghi, temporanei per definizione, si va via
volentieri... A margine, notiamo che tutti i 50 paesi con il più alto tasso di sviluppo
umano, con la sola eccezione di Israele, hanno un tasso di fertilità che non consente
il mantenimento di una popolazione stabile. Tradotto: più i paesi sono ricchi in termini
di benessere generale (non necessariamente solo riguardo al pilpro capite, anche se per molti paesi i dati corrispondono), meno fanno figli, e più avranno
bisogno di manodopera straniera che svolga i lavori che non intendono più fare, e
anzi i lavori tout court (almeno fino a quando non ci penseranno i robot e l’intelligenza artificiale a sostituirli
– e qui si apre un altro scenario intorno a cui le interpretazioni divergono ampiamente).
All’inverso, più basso è il livello di sviluppo umano, più alti sono i tassi di fertilità,
con punte di 7,6 figli per donna in Niger (al 187° e penultimo posto in classifica),
6,4 in Mali, 6,3 in Ciad, e una media di 4-5 figli nella maggior parte dei paesi che
fanno parte delle rotte migratorie verso l’Italia e l’Europa. Molti di questi paesi
sono destinati a raddoppiare (o più) la propria popolazione dal 2015 al 2030.
Aggiungiamoci infine le calamità naturali, e i disastri ambientali che vedono una
qualche responsabilità anche nell’uomo, come la desertificazione e il riscaldamento
globale: la desertificazione, ad esempio, rischia di costringere alla migrazione 135
milioni di persone da qui al 2045. Per inciso, l’Africa intera è responsabile solo
per una percentuale tra il 2% e il 4% delle emissioni annuali di gas che producono
l’effetto serra – ma sarà una delle aree che ne pagherà il prezzo più grande, dato
che la temperatura, proprio in quella zona del mondo, potrebbe aumentare significativamente
più della media globale.
O pensiamo alle forme di appropriazione indebita (anche quando è legale, e certificata
da atti d’acquisto) come il land grabbing, più correttamente definibile come green grabbing, visto che riguarda essenzialmente le aree fertili, ovvero l’acquisto di terre da
parte di multinazionali e stati sovrani (come la Cina, ad esempio, ma anche paesi
arabi), a sua volta un driver di spostamenti di manodopera: che in Africa avrebbe raggiunto, con la progressiva
accelerazione in corso negli ultimi anni, secondo alcune stime, i 300 milioni di ettari
(ovvero 3 milioni di chilometri quadrati: la superficie degli stati più grandi d’Europa
– nell’ordine Francia, Spagna, Svezia, Germania, Finlandia, Polonia, Italia più un
pezzetto di Regno Unito – messi insieme; per capirci, la superficie di tutta l’Unione
Europea è di nemmeno 4,3 milioni di chilometri quadrati) – e tra i paesi più coinvolti
nel fenomeno ci sono anche alcuni di quelli che interessano le rotte migratorie verso
il Mediterraneo, come Guinea, Ghana, Congo, Nigeria e Senegal. Il grabbing di altre risorse – minerarie, per esempio – neanche lo menzioniamo. Citando, in sua
vece, una perla di saggezza africana: “se uno percuote un alveare per portare via
il miele, le api lo inseguono...”.
Infine, a margine: le vendite di armi, sempre più diffuse, con cui si puntellano poteri
illegittimi, e, per restare in tema, si mantengono diseguaglianze intollerabili, interne
e globali. Sarebbe ingenuo considerarle in sé una concausa delle migrazioni: ma l’uso
che se ne fa di certo aiuta... Per qualcuno che le compra, c’è qualcun altro che le
produce e le vende: per l’esportazione di armi l’Italia è all’ottavo posto nel mondo,
con una quota del mercato globale del 2,7%, secondo l’Annuario 2016 del sipri di Stoccolma (Stockholm International Peace Research Institute), il più accreditato
osservatorio internazionale sul tema. Nel 2016 l’Italia ha esportato armi per 14,6
miliardi di euro, di cui 9,2 miliardi, pari al 63,1% del totale, a paesi non ue e non nato. La produzione complessiva – globale – di armi, incidentalmente, equivale al 2,3%
del pil mondiale, più o meno 228 dollari a persona. Tralasciamo le considerazioni su ciò
che si potrebbe fare con quella cifra: sono intuitive.
Questi, abbiamo detto, i principali push factors, i fattori di espulsione: ripartiti tra quelli endogeni, ed endemici, dell’Africa
e di altre regioni, e quelli indotti da politiche neo-coloniali o post-coloniali di
vario genere (che vanno dall’intromissione negli affari altrui per quel che riguarda
politiche agricole e minerarie – e quindi negli affari interni, anche politici, di
un paese – ai dazi nei confronti dei prodotti agricoli altrui, come fa l’Unione Europea
per proteggere i suoi agricoltori). Mentre fattori di attrazione, pull factors, sono il differenziale economico e salariale, e in generale la costruzione dell’immaginario
sugli altri paesi, che ha tante possibili ragioni (reali nei loro fondamenti, anche
se talvolta immaginarie nella loro estensione), che vanno dalla maggiore libertà alla
maggiore ricchezza, dalla possibilità di trovare lavoro a quella di studiare a livelli
più alti o almeno di essere valutati rispetto al proprio merito e non alla propria
origine, dalla minore corruzione al minor controllo sociale (come quando si passa
dalle campagne alle città), fino al semplice desiderio di sposare chi si vuole, di
vivere nuove esperienze e di sperimentare le proprie capacità cercando nuove occasioni,
diversificate quanto lo sono le forme del desiderio.
La letteratura sulle migrazioni, e anche la sua vulgata giornalistica e popolare,
tende a porre l’enfasi sui fattori di espulsione. È la risposta di default, se si
vuole. Chi ha esperienza di contatto non superficiale con i migranti tende invece,
spesso, a porre maggiormente in rilievo i fattori di attrazione (anche se poi si tratta
sempre, in definitiva, di una ponderata miscela dei due). Certo, se si chiede a un
immigrato perché è partito, metterà in rilievo dei push factors come le guerre e la discriminazione, se li ha vissuti o se la cosa è verosimile (del
resto, anche quando non è vero, gli conviene sostenerlo, magari per cercare di ottenere
il riconoscimento come rifugiato politico, più vantaggioso e garantito). In ogni caso,
se non ci sono altri fattori di spinta, avanzerà comunque ragioni economiche: il fatto
di non trovare lavoro, o trovarlo a salari comparativamente troppo bassi (che già,
per metà abbondante, è più un fattore di attrazione che di espulsione). È la risposta
standard alla domanda di un estraneo o di chi compila un questionario: è anche la
risposta attesa dagli occidentali, peraltro. Ma se l’immigrato lo conoscete personalmente,
se lo frequentate, se ha fiducia in voi, se si racconta davvero, è molto probabile
che emergano un insieme di altri, spesso molti altri fattori, che hanno a che fare
con il come si vive da noi, con le aspettative di consumo, con vaghi sogni di libertà
(molto pratica: la libertà di poter consumare, o di poter praticare una attività qualunque
senza chiedere permessi, sfuggendo al controllo sociale e familiare, o senza dover
corrompere qualcuno, arriva per prima e conta maggiormente delle libertà maiuscole,
legate ai diritti civili e politici).
L’Europa, insomma, dovrebbe prendere atto e coscienza di essere diventata l’America
dell’Africa (e di altre aree del mondo) – o per lo meno, un’America più vicina e meno
irraggiungibile dell’altra, ancora la più ambita. Una coscienza che non ha ancora:
quasi si stupisce, di essere meta di immigrazione, e oggetto di desiderio di masse
assai più ampie di quelle che riescono a raggiungerla. Un’inconsapevolezza preoccupante,
a metà tra dubbie virtù come l’ingenuità (positive e tollerabili solo in determinate
proporzioni, a certe condizioni, e per periodi di tempo limitati – specie in geopolitica),
e vizi conclamati come l’irragionevolezza e l’incomprensione del mondo e del proprio
ruolo in esso. In definitiva, anche questo è un dato preoccupante, che ci dà la misura
di quanto l’Europa non sia all’altezza del proprio ruolo, e ancor meno del ruolo che
altri le attribuiscono al di fuori di essa. Una specie di adolescente, alle prese
con problemi che, invece, andrebbero affrontati in maniera adulta. Ai quali non si
può reagire sempre in maniera disordinata, in preda all’emotività, sulla spinta dell’emergenza,
nel breve termine, perché sono durevoli (anzi, eterni), e tutto fuorché imprevedibili,
se appena ci si pensa con una dose adeguata di ragionevolezza. Vediamo comunque come
tutto ciò si traduce in movimenti di popolazione.
Con una premessa. Oggi gli stati non si distinguono più in paesi di esportazione e
di importazione di manodopera: le cose sono più complesse, e i processi attraversano gli stati più che distinguerli. E sempre più paesi, inclusa l’Italia, sono sempre
di più, e saranno sempre di più (lo vedremo tra poco, con qualche dato), contemporaneamente
paesi di immigrazione e di emigrazione, dove si vuole venire e da dove si vuole andare
via, magari anche solo temporaneamente in entrambi i casi. Paesi di mobilità accentuata,
insomma, più che paesi di immigrazione o di emigrazione. Paesi di circolarità dei
movimenti di popolazione.
Se vogliamo azzardare un parallelo con quanto accade in natura, le migrazioni animali
sono definite come spostamenti irregolari o periodici, volontari o involontari, con
le quali molte specie si assicurano alimenti o le condizioni migliori al fine di favorire
la riproduzione. Non molto diverse dalle ragioni delle migrazioni umane: a vantaggio
degli animali va il fatto che non si fanno la guerra – ne hanno abbastanza della lotta
per la sopravvivenza – e non perseguitano nessuno. La vita quotidiana comporta già
abbastanza fatiche e problemi, per crearsene altri.
Non è nostra intenzione spingerci troppo lontano e troppo all’indietro, per cui ricordiamo
solo alcune questioni recenti e scottanti – delle cause, appunto – che hanno a che
fare con le migrazioni odierne sulle rotte mediterranee. Una in particolare, che come
abbiamo visto non vale per gli animali: le guerre. Quella in Iraq, a seguito dell’invasione
americana, con le distruzioni e gli sconvolgimenti che ha portato. Quella in Siria,
ad essa in vari modi collegata: da molti definita la più grande catastrofe umanitaria
dal dopoguerra ad oggi, con metà della popolazione che ha abbandonato la propria casa,
ha prodotto tra le altre cose la fuga di un quarto della popolazione (oltre 5 milioni
di persone) verso i paesi vicini (Turchia e Libano, ma anche Iraq e Giordania) e verso
l’Europa, senza parlare dell’impoverimento a livelli inimmaginabili del res