Nota dell’autore
All’inizio del 2018 è uscito un mio libro intitolato Immigrazione. Cambiare tutto. Pieno di dati, di ragionamenti dettagliati, di proposte di cambiamento delle politiche
sull’immigrazione.
Successivamente, ne ho ricavato una specie di spettacolo, che ho portato in giro in
molti festival, teatri, scuole, corsi di formazione. Che si chiudeva, il più delle
volte, con una discussione: che aiutava tutti – anche me – a cogliere punti di vista
diversi. E che mi ha fatto capire quanto sia alta la richiesta di saperne di più,
anche da parte di chi non ha convinzioni granitiche, ma come molti, forse i più (incluso
chi scrive), continua a rifarsi le domande fondamentali, navigando alla ricerca di
una rotta tra i dubbi propri e le certezze altrui – senza stancarsi di cercare un
pensiero e una via praticabile, lontano dagli schematismi ideologici.
Nel frattempo, il dibattito anche politico sulla questione è diventato sempre più
acceso, a livello nazionale ed europeo. E Giuseppe Laterza mi ha fatto una proposta:
cercare di condensare in breve le risposte che dalle mie riflessioni, dai miei incontri,
e dal dibattito che continua ad agitare il paese e il vecchio continente, stanno emergendo.
Il risultato sono le pagine che seguono. Chi vorrà approfondire, sarà opportuno si rivolga al fratello maggiore di questo
libro (e magari anche al primogenito della famiglia, di un paio d’anni più vecchio
– scritto con l’amico demografo Gianpiero Dalla Zuanna, e che si intitolava Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione). Il fratello minore che qui presentiamo – tale solo per dimensioni ed età – tuttavia
non è un riassunto dei due libri precedenti, ma una riscrittura e un ripensamento,
con molte intuizioni che sono emerse solo in tempi più recenti: non va quindi a sostituire,
e nemmeno a sintetizzare, i due lavori già presenti sul mercato, ma li completa logicamente
e praticamente. È, appunto, loro fratello. Una certa aria di famiglia li accomuna.
Ma è dotato, come giusto, di personalità autonoma.
1.
Perché ci muoviamo
Ci muoviamo assai più che in passato. Non è strano: siamo dotati di piedi, non di
radici, né cresciamo attaccati agli scogli, o agli alberi, o ad altri animali, come
certi parassiti – e siamo stati nomadi a lungo. Oltre tutto, dal momento in cui siamo
scesi dagli alberi – all’epoca in cui di arti, per muoverci, ne usavamo ancora quattro
– abbiamo dovuto cominciare a correre: e anche velocemente, per cacciare le prede
e sfuggire ai predatori. Circa 60.000 anni fa i nostri antenati sapiens hanno lasciato l’Africa (da lì veniamo tutti, anche se col passare del tempo ci siamo
un po’ scoloriti...), e una migrazione dopo l’altra sono arrivati prima in Medio Oriente
e, 20.000 anni dopo, in Europa: dove già 250.000 anni prima troviamo le tracce dei
più antichi Neandertal, arrivati anche loro da altrove. Nessun europeo è nativo europeo,
se andiamo indietro a sufficienza nella storia!
Oggi, in un certo senso, abbiamo ricominciato ad essere nomadi, e lo siamo in misura
maggiore rispetto ai nostri genitori e ai nostri nonni: del resto, è probabile che
di questo lungo processo di mobilità, nel nostro DNA, nella nostra memoria profonda,
nel nostro inconscio, qualcosa sia rimasto. Anche perché è grazie alla stazione eretta
e alla vocazione nomade che la nostra intelligenza si è sviluppata.
Spostarsi è diventato sempre più veloce e comodo, e sempre meno costoso: l’anno scorso
ci sono stati oltre un miliardo e duecento milioni di voli transnazionali, e le previsioni
di incremento sono stupefacenti.
L’innovazione tecnologica, con l’interconnessione globale e l’invenzione della comunicazione
in tempo reale (un qualcosa che fino a pochi decenni fa era immaginabile solo nei
libri di fantascienza), non ha reso inutile la mobilità: al contrario, ne ha moltiplicato
la necessità, o anche solo il desiderio. Non c’è associazione (che si occupi di cultura,
tempo libero, volontariato o sport) che non abbia, oltre il livello locale, quello
nazionale e quello transnazionale. C’è un campionato mondiale più o meno di qualunque
cosa, e c’è voglia e bisogno di incontrarsi. Le teleconferenze non hanno diminuito
le riunioni tra manager globali, la gente di spettacolo si muove sempre più spesso
e più lontano, ci sono professionisti che hanno fatto delle sale lounge degli aeroporti il proprio ufficio, gli studenti con l’Erasmus studiano all’estero,
e lo smartphone e Skype non hanno sostituito le relazioni personali, semmai hanno
permesso il formarsi di più frequenti long distance relationships – di amori a distanza.
Ci si muove per necessità o per desiderio, per paura o per piacere, per insoddisfazione
o per irrequietezza, per cercare qualcosa o perché non lo si trova, perché si hanno
degli obiettivi precisi o al contrario perché non se ne ha nessuno e non si sa cosa
fare, per inseguire una speranza o per sfuggire alla disperazione, per motivi importantissimi
o senza un motivo particolare, per passare il tempo o magari anche solo perché non
si sa stare fermi. Molte lunghe file in autostrada si spiegano anche così: forse anche
le nottate in macchina dei giovani il sabato sera, fino agli esodi vacanzieri. Per
non parlare di fiere, festival, mostre, expo, megaconcerti, happening, manifestazioni,
pride, eventi sportivi globali. Poi naturalmente c’è il turismo (anche congressuale,
accademico, purtroppo pure quello sessuale, in cui gli italiani pare siano ai vertici
delle classifiche mondiali), gli affari, l’amore, il divertimento, le riunioni, gli
incontri delle organizzazioni professionali, dei dipendenti delle istituzioni transnazionali
e di quelli impegnati nella cooperazione e nello sviluppo, i viaggi di cultura, i
viaggi della speranza legati alla salute, quelli per imparare lingue straniere, e
buoni vecchi motivi per muoversi che non hanno perso il loro peso, come la religione
(pellegrinaggi, missioni) e la guerra (ma anche missioni militari di peacekeeping, o di monitoraggio di processi democratici).
Tutto si muove di più e a minor prezzo, non solo le persone: informazioni (sempre
più a costo zero), idee, merci (qualsiasi prodotto, ovunque sia, è a sole 24 ore di
distanza da noi), denaro (ancor più da quando è digitale). Uomini e donne, però, non
tutti. Un po’ perché molti non ne hanno nessuna intenzione. E un po’ perché trovano
più ostacoli. Non fisici, e nemmeno solo o soprattutto economici. Ma legislativi,
amministrativi, burocratici.
Globalmente, si muovono di più i più ricchi: gli abitanti dei paesi più sviluppati
rispetto a quelli dei paesi meno sviluppati, e i più ricchi più dei più poveri dei
rispettivi paesi. La mobilità è in se stessa uno status symbol, e viene volentieri esibita: sui social network e nella conversazione quotidiana,
per molti semplicemente fa trendy poter dire “sto andando a...”, “sono a...” o “sto tornando da...”.
Tuttavia la mobilità è cambiata. Come tutto, non è più necessariamente per la vita.
Ha una forte componente esperienziale, e le esperienze, si sa, sono volubili. È più
frequente, ma proprio per questo anche temporanea, e reversibile: ci si mette poco
sia a partire che a tornare, volendo. Può caratterizzare quindi anche solo un periodo
o una fase della vita, fino a che si sceglie dove mettere radici. Anche l’avere radici
diventa in certa misura una scelta, che presuppone una volontà propria, anziché un
destino, dettato dalla nascita. E la sensazione è che il mondo si dividerà sempre
più tra chi si muove e chi no, quelli a cui piace il
...