Nel fitto del bosco
tra San Martino di Castrozza e Predazzo
Fu un invito a cena, un gesto di cortesia e familiarità, a mettere in moto un viaggio
tra i boschi e i monti. Partii da San Martino di Castrozza, nella Valle di Primiero,
dove ero arrivato da pochi giorni. Per giungere a Predazzo, lì dove ero stato invitato,
avrei dovuto prendere la provinciale 50 attraverso le abetaie e seguendo infiniti
sali e scendi. Mi mossi con un po’ di ritardo, con apprensione, come quasi sempre
mi accade, per colpa del tempo che compie passi così più rapidi dei miei. Non avevo
mai percorso la provinciale in quel tratto e con l’auto mi inoltrai, ignaro di quel
che mi attendeva, come non possiamo che essere in ogni istante della nostra esistenza,
lungo le curve, le salite e attraverso l’aria leggera che, con il finestrino tirato
giù, respiravo come si fa con una prelibatezza che per lungo tempo ci è stata proibita.
Era tutto il giorno che osservavo il Cimon della Pala. Prima che il sole gli sorgesse
alle spalle, l’avevo veduto cupo, annerito, pietroso e pesante, con il piccolo grumo
di luci gialle delle case che gli stava accovacciato ai piedi. E poi, proprio poco
prima di partire, l’avevo visto quasi addolcirsi e divenire rosato. Quasi effimero,
leggero, apparentemente composto di quel di cui sono composte le nubi. Impalpabile
e seducente. Senza neppure sapere ancora delle arenarie di colore rosso, dei calcari
grigi che, depositandosi silenziosamente centinaia di milioni di anni prima, avevano
dato vita a quelle forme. Nulla sembrava altrettanto mutevole e vivo.
Dal basso immaginavo il vento che stava scuotendo l’altopiano delle Pale, il battito
dell’aria sul tavolato enorme che si distendeva misteriosamente proprio lassù, oltre
i duemila e cinquecento metri. I luoghi e quel che significano per noi. Gli spazi
che abitiamo, che visitiamo e i modi con cui alimentano, misteriosamente, la nostra
immaginazione. Sempre ci perdiamo fortunatamente dietro qualcosa, un pensiero, un’evocazione.
Nell’uscire da San Martino, la provinciale mi concedeva ancora di rivolgere lo sguardo
a quella catena montuosa. Ipnotica. Incantatoria. Sublime e terribile. Cimon della
Pala, Dente del Cimone, Rosetta, Pala di San Martino. Ripetevo, quasi come una cantilena,
i nomi di quelle dentature montuose che circondavano le case, silenziose e accovacciate.
E poi Vezzana e Bureloni. Le ripetevo come un insegnante giovanissimo, appena giunto
in una classe, cerca di rimandare a memoria i nomi di quei volti dei ragazzi che ha
appena incontrato e cerca di capire il prima possibile la loro intima natura. Per
non fare errori. Per non sbagliare anche questa volta. E, come un giovane docente,
ero caduto anche io già in una specie di simpatia a prima vista per qualcuno di loro,
per il Cimon della Pala, prima ancora di conoscerne la storia. Prima ancora di saper
nulla di quel che aveva dovuto passare.
Ogni volta che lo volgevo verso l’alto, verso la distesa di quella catena montuosa,
lo sguardo finiva quasi sempre per andare a cercare le linee del Cimon. Mi rammentavo
di un’amica che quelle cime le fotografava dalla pianura, che cercava di continuare
a vederle anche quando era dovuta tornare a Venezia. È più facile cadere nella malia
dell’incanto, pensavo, che liberarsene. Mentre seguivo le linee che s’aprivano nella
strada, come crepe, come fenditure, forse per il freddo dell’inverno, per l’incuria,
superai le ultime abitazioni del paese. Il legno, il bianco, i tetti acuminati. I
tappeti stesi sulle ringhiere dei balconi. Uno, due, tre ciclisti, che ostinati nelle
loro curve schiene spingevano sui pedali. Risalire la vetta. Andare più in alto. La
foga, il desiderio. Poi svoltai seguendo la freccia che indicava Passo Rolle. Fu così
rapido il piegarsi della strada, il girare su se stessa, l’inerpicarsi, che quasi
mi sorprese poi l’inoltrarmi già nei boschi. Attraverso il cruscotto, mi venivano
incontro gli abeti, rapidi, pensosi e frementi, per mostrarmi le loro punte aguzze
mentre venivano lambite dalla luce del sole radente e le radici se ne stavano nel
fondo precipitoso, cupo, umido e scosceso della montagna.
A invitarmi a cena era stata una coppia di amici, Giovanni e Luisa, che proprio in
quei giorni erano stati attirati fino a Predazzo, fino a quel cumulo di case che stava
dall’altra parte della valle proprio nel cuore della Val di Fiemme, da un’improvvisa
relazione d’amore che era nata tra il proprio figlio, poco più che diciottenne, e
una ragazza del luogo. Lui altissimo, ciondolante, interrogativo. Lei piccolina, esile
e gentilissima. I primi incontri. Gli inganni e gli incanti. L’attrazione, l’incomprensione
e la seduzione. I due giovani si erano appena veduti qualche volta e ciascuno sembrava
contenere dentro di sé proprio quello che desiderava ci fosse dentro l’altra. Era
l’anelito che prima o poi scuote ciascuno di noi, era il desiderio di quel che non
riusciamo a raggiungere, quel che di prezioso sembra in serbo per noi ma sta nascosto
nel corpo e nella mente di un’altra persona che ancora non conosciamo e non sappiamo
se, nel breve arco della vita, riusciremo a trovare. Non sappiamo ancora, o forse
non sapremo mai, se dovremo, invece, accontentarci, inconsapevolmente, della illusione
di averla trovata.
Senza certezze, senza convinzioni, forse meravigliati da quella stessa meraviglia,
forse abbacinati dallo splendore dei luoghi, dal mistero dei boschi, dalla vasta profondità
del cielo, dall’odore del legno, dalla freschezza delle lenzuola delle stanze degli
alberghi accovacciati ai piedi delle Dolomiti, o forse preoccupati da quell’anelito
che ci spinge a cercare qualcosa nell’altra, i genitori avevano seguito il loro altissimo
e ciondolante figliolo fino a Predazzo. Sempre i genitori finiscono per seguire i
propri figli. Sempre cercano di anticipare i passi che compiranno le proprie creature.
Fino a che possono. Fino a che, a loro volta, i passi dei loro figli diventeranno
così ampi che i genitori, anche loro creature di altri genitori, non potranno fare
altro che lasciarli andare.
Avevo ancora, negli occhi della mente, l’eco dello splendore rosato, incantevole,
ipnotico del Cimon della Pala, mentre salivo, curva dopo curva, tra l’odore verde
dei prati, l’umido del bosco e la tentazione che esercitavano le fughe delle stradine
in terra battuta che quasi a ogni curva, che si piegava a gomito, dipartivano per
inoltrarsi nel denso del bosco. Lo strano mistero della luce che filtrava tra le ramificazioni.
Il bosco è uno spazio che meraviglia per ciò che è, ma anche per quel qualcos’altro
a cui allude e rimanda, per ciò che intende sempre celare. A ogni passo si ha la percezione
di arrivare più vicino, di stare per intravedere quel che viene tenuto nascosto. Si
intuisce la possibilità di raggiungere il luogo da cui arriva la luce. O il nucleo
stesso del bosco, lo spazio segreto, il centro più profondo. Quel che l’altro sembra
contenere dentro di sé. Ma più si avanza e più il bosco ricrea se stesso, si perde,
si dirada, si infittisce e si ostina ad allontanare i confini del proprio limitare.
Quanto più lo inseguiamo, quel confine, e tanto più il bosco relega quel che c’è al
di là, ancora più in là. Infine scompare, quasi spaventato. Infine s’arresta, d’improvviso,
davanti alle case, alle strade, alle prime voci degli uomini, al voltare di una curva.
Giravo e rigiravo. E la strada era una lingua che serpeggiava tra l’inclinarsi delle
vette. Saliva. E gli abeti, da una parte e dall’altra, stavano con le radici aggrappati
alla terra per non scivolare via. Ogni tanto anche la strada pareva prendere un po’
di respiro e si lasciava andare quasi pianeggiando, come se volesse lasciar guardare
chi guidava, con maggiore attenzione, gli abeti nella loro altezza mentre svettavano
precipitosamente verso l’alto. Passai sul rio Marmor. Un secco greto fatto di pietre.
Più andavo e più gli abeti sembravano avvicinarsi al ciglio della strada, quasi a
voler ricreare la fitta trama del bosco, nonostante l’auto, nonostante la velocità.
Lo stormo delle punte aguzze degli abeti che si sospingevano tutte insieme verso l’alto
davano l’illusione che il nutrimento, che dava loro modo di crescere, non arrivasse
dal profondo, dalla umidità sotterranea delle proprie radici, quanto piuttosto dal
cielo, da quel che li attirava verso l’alto.
M’era tornato in mente così, a cospetto di quegli abeti, di quando, da piccolo, molto
più piccolo del figlio altissimo e interrogativo di Giovanni, mi arrampicavo sugli
alberi. Un ricordo che avevo rimosso del tutto dalla memoria. Accade così. Gran parte
di quel che abbiamo vissuto non rammentiamo neppure di averlo vissuto. E per lo più
ci sembra naturale che quel fiume di giorni, una volta attraversato, fluisca nel mare
della dimenticanza. Solo a tratti ci viene concesso di riavvicinarci a quel che più
di ogni altra cosa ci è appartenuto. Ero così piccolo che forse neppure arrivavo al
ripiano del tavolo. Guidavo e risentivo sulla pelle, per la prima volta, l’eccitazione
e l’ebbrezza di quelle imprese solitarie e inebrianti. L’arrampicata come una questione
che aveva a che fare soprattutto con il corpo. Arrampicarsi era una gioia, uno sfogo.
Una rabbia. Un anelito animalesco, antichissimo e primordiale, di cui nessuno era
partecipe. L’impresa a cui mi accingevo lontano da tutti. Dapprima con le mani cercavo
il ramo più vicino, quello a cui arrivavo appena e che mi permetteva di staccarmi
da terra. Già dopo quel primo passo, dopo aver afferrato un braccio vegetale, ero
in una dimensione diversa. E allora salivo di ramo in ramo. Con una perizia sconosciuta,
con una lentezza che si alternava a gesti rapidissimi. Il timore di cadere, il fitto
e articolato mondo che dipartiva dal tronco e si sospingeva orizzontalmente verso
l’esterno in ricami e giravolte.
Più salivo e più diveniva complesso, e più sentivo crescere una sorta di eccitazione.
Con la mano cercavo il ramo più in alto ancora a cui affidarmi, il supporto a cui
consegnare il mio corpo, a cui dare in custodia le strane sensazioni che provavo.
E salivo. Non sapevo neppure che, in quel salire di ramo in ramo, in quel consegnare
il mio corpo alla flessibile e incerta saldezza di un ramo, cercavo di apprendere
quella sorta di segreta arte, che mai si apprende per intero e per sempre, di lasciarsi
andare e affidarsi a quel che è al di fuori di noi. Accettare di affidarci a qualcosa,
abdicare all’illusione della nostra autonomia e concepire che non può esistere alternativa
al fatto che sia qualcosa, o qualcuno, a sorreggerci quando ne avremo bisogno. C’era
la selvatichezza, il graffio, la paura di cadere, il rimanere celato, la vertigine
della salita. La tentazione di andare sempre più su. Salire, staccarsi da terra. L’inspiegabile
desiderio che m’agitava e mi spingeva. Anche io forse trovavo nutrimento nel cielo.
La provinciale in quel tratto non faceva altro che ripercorrere tutta la distesa delle
cime di San Martino. Cima della Rosetta, Cima Corona, Croda della Pala, Cimon della
Pala. Erano i nomi ed erano i monti che stavano proprio di fianco, maestosi, alla
destra della direzione di marcia, verso est, mentre a ovest, verso valle scendevano
le malghe, le case mute. La strada compiva dei zig zag, invertendo l’ordine delle
cose, che facevano pensare alla cucitura, al rammendo della terra, ora avanti, ora
indietro, come se si potesse tenere insieme ogni cosa grazie al movimento della vettura.
Ora avanti, ora indietro, così come fa chi rammenda una tela strappata.
La sensazione e la vertigine della solitudine. Il fitto del bosco. Il viaggio, quel
che appariva nei finestrini. Il silenzio, il ricordo di un’arrampicata su un albero,
una liberazione. La ferita, l’inquietudine, l’attesa, una sorta di anelito più ampio
che si riesce a colmare, comprendere, placare. Sempre, quando avevo camminato nei
boschi in quei giorni, mi aveva accompagnato un certo allarme, come di chi si muove
in un mondo sconosciuto, su un pianeta mai raggiunto prima da alcuna forma di vita.
La foresta e il mistero. Il selvatico e il domestico.
Il bosco rammenta il labirinto, per il fascino che esercita e per la minaccia celata
che sempre incombe. Per la meraviglia che suscita e per lo spaesamento in cui ci getta.
Rammenta una casa abbandonata, per le vestigia quasi domestiche, di un qualcosa in
cui abbiamo vissuto e in cui però, per qualche ragione che non riusciamo a ricordare,
abbiamo smesso di abitare. Per quel che ci dà di confortevole e per quel modo che
ha di somigliare a una cosa che abbiamo avuto e ora però non ci appartiene più.
In paese mi avevano raccontato di un bambino di dieci anni che era scomparso nel bosco
in un pomeriggio di maggio del 2007. Proprio tra questi abeti, nei pressi di San Martino
di Castrozza. Il bambino era semplicemente uscito di casa con il suo cane. Come faceva
tutti i giorni. Forse era stato attratto dal bosco, che stava sempre così vicino,
così dappresso, forse anche lui aveva inseguito le punte aguzze degli abeti protese
verso il cielo. Anche lui si era inoltrato, attratto dal mistero. Nessuno si era preoccupato
all’inizio. Di rado ci viene offerto di intravedere qualcosa di preciso di quel che
accadrà. Un bambino che entra nel bosco con il suo cane. Le corse affrettate, il fiatone,
la gioia. La luce che filtra tra i rami. Fermarsi d’improvviso con la mano poggiata
sul tronco a riprendere fiato. Il cuore in gola. La sensazione di poter arrivare nel
centro segreto del bosco. Mentre la trama di tronchi, rami e vette aguzze recede e
sposta il confine di sé sempre un altro passo avanti a quello che compiamo. Per tutto
il pomeriggio a nessuno venne in mente quel che sarebbe potuto accadere. Nella mente
di nessuno crebbe il timore, si insinuò la preoccupazione. Un bambino nel bosco. Con
il suo cane. Quel che accade. Come una fiaba. Come un sogno. Le corse, il fiatone.
La primavera che sogna l’estate. La gioia e la paura. Il bosco, il mistero, la natura.
Quel che può accadere e non riusciamo a prevedere. Un turista in questi luoghi qualche
anno prima era precipitato sotto la neve in uno di quei vuoti improvvisi che si aprono
nella terra, in una di quelle ripe scavate durante la Prima guerra mondiale e che
ancora rimanevano come fratture della terra. Le ferite non sempre si rimarginano.
A una curva a gomito mi parve di vedere, proprio nello spiraglio improvviso che s’era
aperto tra le cime, nel piegarsi della strada, il Cimon della Pala sbucare alla vista.
Proprio quando la strada si dirige verso est, poco prima di voltarsi e dare le spalle
di nuovo alle Pale di San Martino per salire ancora. Era ancor più effimero, sognante
e rosato. Si saliva sempre più su. A una curva strettissima passai sopra al Rio Fosse,
un altro asciutto greto di sassi e pietre. A quel punto si usciva dal bosco, dal fitto
degli alberi e ci si inoltrava tra il verde illuminato, tra la schiena delle pietre
rosate. Sempre più in alto. Il verde. Le pietre. Passo Rolle. Quasi duemila metri.
Il vento spazzava l’aria e sembrava poter rompere quella rammendatura che con l’auto,
con lo zigzagare della strada, si aveva avuto l’illusione di aver cucito.
Sempre si pensa che con il viaggio si possa realizzare un rammendo, ricucire qualcosa,
richiudere una ferita. Sempre quando ci si mette in moto si ha la percezione di poter,
anche solo per il fatto di aver messo in movimento il proprio corpo, avvicinare tra
loro due parti che prima, per qualche ragione, erano rimaste distanti. Passai allora
il rosso antico della casa cantoniera. I bar che offrivano, appesi sugli espositori
girevoli, i souvenir come fossero un premio bambinesco e da luna park, per chi era
riuscito a arrivare fin qui. Gli abiti e le calze. Più in là, le gobbe denudate delle
vette. Le case sparse con le finestre a resistere al vento. Il rigirare di un cucchiaino
nella tazza di un caffè. L’Hotel Venezia che proprio quassù faceva ripensare alla
mia amica che dalla città lagunare cercava con lo sguardo l’incanto delle Pale di
San Martino. Così, scollinando, superando Passo Rolle, passavo dalla Valle del Primiero
e mi dirigevo verso la Val di Fiemme.
Ebbe così inizio la discesa, quasi poggiando piede dopo piede, così come dopo aver
raggiunto inebriato la vetta, dopo aver osservato il mio spicchio di cielo, cominciavo
a scendere dall’albero su cui avevo avuto la sconsideratezza di arrampicarmi.
Gli amici portati fin quassù dall’amore di un figlio per una ragazza di montagna vivevano
in una città di mare del Sud Italia e da Predazzo mi avevano mandato, prima di quell’invito
a cena, che mi mosse a quel viaggio, dei messaggi dove la meraviglia si mescolava
a un certo disagio. Le camminate a cui i genitori della fidanzatina li invitavano,
con una certa autorevolezza impositiva, li affascinavano e li spossavano. La sera
si lasciavano tramortire nel crepuscolo dal girare della Terra, dallo scomparire della
luce, dall’affievolirsi del fiato delle nuvole dal rumore delle stelle e poi se ne
andavano a dormire. Del figlio mi dicevano che finiva per fare giri sempre più ampi,
per camminare sempre più a lungo, per rimanere in piedi anche quando s’era fatto buio
e ancora di più. Preoccupato forse dal fatto di non riuscire ad afferrare tutto quello
di cui sentiva bisogno. E che cosa era quello di cui aveva bisogno? La fidanzatina,
a dire dei miei amici, che avevano un osservatorio limitato, soggettivo, quasi inibito,
se ne stava spesso silenziosa quando la incontravano. Era gente di montagna, pensava
il mio amico.
E allora, più scendevo e più si facevano di nuovo avanti gli abeti. Un incontrarsi
di nuovo. Rivedersi ancora. Il Bosco di Costoncella. Il rio di Colbricòn. Ero di nuovo
nel pieno, e ancor di più, in quella trama fitta, attirato dal mistero del loro altissimo
svettare. Arrivai così nei pressi di Paneveggio. Proprio vicino al bosco dei violini.
Al punto in cui si trovava quel pugno di abeti rossi perfetti da cui si ricava il
legno più pregiato per i violini più sonori. Se si poggiava l’orecchio alla corteccia
dell’albero, si poteva sentire una specie di risonanza. Più questi alberi sonori crescevano
lentamente, mi avevano spiegato, quasi rallentati dal freddo nel loro divenire, dalla
minore intensità del processo della clorofilla, e tanto più essi divenivano legno
pregiato per i violini, per i pianoforti, materiale unico capace di trasmettere un
suono perfetto. Più lenti erano a crescere e più risonanti diventavano.
Lasciare passare attraverso il proprio corpo ligneo le vibrazioni, la risonanza. Gli
abeti che crescevano. Il tempo che passava. Le lunghe cime che mostravano interesse
per il cielo. Il tronco dalle circonferenze perfette, dall’ampio diametro. Quella
capacità che avevano gli uomini di queste parti di inciderli, di segarli e, anticipati
da un grido, di lasciarli cadere sulla pelle muschiata del bosco. Lasciarli scivolare
nell’acqua per offrirgli ancora un po’ di nutrimento. Tagliare i ceppi della giusta
dimensione per le casse di risonanza. E vedevo le dita che carezzavano le venature
perfette. Le bianche forme del legno lasciato a essiccare per mesi all’aria aperta.
Il tempo trascorso, gli anni, nel chiuso, a maturare ancora. Poi le mani del liutaio.
Il modo per trasmettere meglio il proprio canto, il proprio suono, quel che di universale
può essere ascoltato. Infine il suono emesso dal violino. Lo struggimento che quel
suono ci restituisce, quella vibrazione della corda. L’anelito, qualcosa che ci manca,
il desiderio, la sensazione di poter trovare da qualche parte qualcosa rimasto per
noi.
Avevo costeggiato il lago di Paneveggio che dapprima se ne stava nascosto dietro gli
alberi. Più in alto, dove la montagna si inerpicava su se stessa, c’erano le pietre
e i massi di Forte Dossaccio, lì da dove partirono i colpi dai cannoni degli austro-ungarici
che sterminarono i giovani del reparto delle truppe italiane che si trovavano sulla
spianata verde di Pian delle Carigole. Quel che era accaduto. Il tempo veloce dei
secoli. E lo scorrere lento del tardo pomeriggio che pareva eterno in quel breve viaggio
in auto. La luce. Tutto quello che era accaduto. Avevo attraversato allora per tutta
la sua lunghezza la quiete pomeridiana del lago. La provinciale serpeggiava sinuosa.
Le gallerie. L’inoltrarsi nel corpo dei monti. Il Forte Busso e la diga. La strada
che s’apriva quasi al cielo verso Bellamonte. La catena del Lagorai. La deviazione
per Castelir Luisa. Le baite. Le pecore. I pastori. Il sortilegio del lento ruminare
a testa bassa. Silenziose. Vicine. L’una con l’altra a sospingersi, il brucare. L’avvicinarsi
al ciglio della strada. In auto era un altro modo di attraversare i luoghi che avevo
perlustrato a piedi. Da Bellamonte, venni colpito dalle distese, dalle praterie, dai
declivi, e dalle strette curve che ripiegavano su loro stesse come ripensamenti, dubbi,
o scarti decisivi per individuare il modo migliore infine per capire, per venir fuori
da qualche problema.
Girai le ultime curve. Vidi i tetti delle case. Il disegno irregolare del paese. Il
divincolarsi delle abitazioni intorno alla strada. Gli omini piccoli che si muovevano.
Un puntino colorato che scivolava sulla strada. Arrivavo sul paese come arriva un
aereo su una città. Durante la cena, il figlio di Giovanni e Luisa e la giovane innamorata
non rimasero che pochi istanti, il tempo di assolvere a una specie di cortesia nei
riguardi di chi è più adulto e non può capire. Così feci appena a tempo a vederli
sfiorarsi le mani. Rimasi così a parlare con le due coppie di genitori. Ciascuna a
loro modo consenziente e in allarme per ciò che stava per accadere, ciascuna felice
e dispiaciuta. Nella piega triste e dolcissima degli occhi della madre di lei mi parve
di intravedere lo stupore per la rinascita, in un altro corpo, seppure cresciuto nel
proprio grembo, di uno stesso amore vissuto. Mi parve di intravedere il dispiacere
per il fatto che dell’amore, a quell’età, non ci sia dato neppure sapere quanto possa
durare. Un giorno. Una settimana. Il volgere del tempo. Come se ci fosse davvero un
altro tempo, un’altra età, in cui l’amore possa essere dato per certo, come se in
altri istanti possa essere dato per stabile e preservabile.
Parlammo a lungo come se in quella casa, illuminata da lampade e piantane, da luci
basse, il soffio delle parole ricostruisse altri mondi. Mentre fuori le montagne si
annerivano e il bosco scompariva nel buio, ciascuno si mise a ricordare del primo
amore. Delle villeggiature. Del viaggio compiuto per raggiungere l’altro o l’altra.
Senza dire della storia del bambino scomparso, chiesi ai genitori della ragazzina
minuta e dolcissima cosa rappresentasse per loro il bosco e cosa significasse avere
a pochi passi degli abeti così pregiati. A rispondere per prima fu la donna. Disse
che per loro il bosco era come un amico, come un popolo gentile. Tutti vivevano di
quel legno, di quegli abeti. Ciascuno sapeva della loro crescita lenta, del freddo,
degli inverni trascorsi a quest’altitudine. Nelle parole c’era il rispetto per il
tempo, per il mistero più insondabile, il saper attendere il giro dell’anno, il giro
della vita. Il tempo prezioso.
Quanto più lentamente crescevano gli aceri, aveva ripetuto un paio di volte la donna,
e tanto più esile era il segno che il tempo riusciva a incidere dentro ciascuno dei
tronchi. Quanto più lenta era la loro crescita e tanto più fini erano le linee di
accrescimento che si definivano nel tronco, nella memoria vegetale di ciascuno di
loro. Le linee di accrescimento, il segno di quel che siamo, il DNA, i ricordi, i
desideri. Il tempo. Quanto più lenta era la loro crescita e più pregiato e sonoro
diveniva il legno, tanto più diveniva capace di dare corpo alla meraviglia degli strumenti
musicali. La donna parlava degli alberi e sembrava parlare di sua figlia. Della necessità
che anche lei non crescesse troppo rapidamente, come forse era capitato proprio a
lei. C’era la possibilità che anche a qualcuno di noi venisse concessa la possibilità
di crescere più lentamente, in modo che il tempo lasciasse un segno più esile, meno
marcato? C’era modo di salvare quel bimbo che era entrato nel bosco in quel pomeriggio
di primavera?
La notte impassibile continuava a scendere. La madre della ragazzina si era alzata
un paio di volte ed era scomparsa negli spazi remoti dell’appartamento in cui non
ero stato ammesso. Il marito invece era rimasto sempre seduto a tavola quasi inducendo
anche noi a una certa fissità. Eppure della casa e di noi che raccontavamo in quelle
luci che avanzavano nella notte si poteva pensare come a una nave che si inoltrava
in un mare denso. Finimmo che s’era fatto tardi. Avevo evitato di bere per il ritorno
che avrei dovuto compiere. Il padre della ragazza, in uno di quegli istanti in cui
regnava ancora una certa apparente tranquillità, quasi con orgoglio, o vanto, mi aveva
raccontato di quel fotografo di matrimoni che era arrivato fino a qui per fotografare
la Via Lattea. La galassia. Lo spazio stellare grandioso in cui, su uno dei rami che
si aprono verso l’infinito, è annidata la Terra, su cui eravamo annidati anche noi,
noi cinque, i due ragazzi, gli abeti rossi, il bambino che si era inoltrato nel bosco
con il cane in un pomeriggio di primavera, i violini, il suono che ci inquieta e ci
apre a quel che desideriamo. Mi raccontò di quella immagine, della Via Lattea e della
Nebulosa del Cigno.
Rimasi sorpreso da quel nome. Chiesi di raccontarmi di più. E allora l’uomo, che parve
finalmente disteso e felice, a parlare del cielo e delle stelle, mi raccontò di cosa
fosse la Nebulosa del Cigno. Mi parlò delle vaste e brillanti associazioni stellari,
mi disse che si trovava al limite fra il Braccio di Orione, proprio dove si trova
il sistema solare, e il Braccio di Perseo. Quei nomi mi rammentavano i tempi della
scuola in cui i corpi siderali, le conoscenze dell’astronomia mi apparivano freddi
e distaccati, inaccessibili e muti. Mentre quanto più passava il tempo, tanto più
mi sembravano ricche di suggestioni, di misteri e capaci di portare una poeticità
che non riuscivo più a trovare in altre cose. Il padre della ragazza timida, e capace
di scatenare il desiderio dell’altissimo figlio di Giovanni, mi disse del fotografo
di matrimoni che era arrivato fino a lì, lasciando gli sposi a pochi chilometri in
qualche albergo a mangiare, e che infine era riuscito a fotografare anche la Fenditura
del Cigno, una sorta di grande nube, di ferita, di oscura porzione di cielo.
Uscimmo e ci accorgemmo che nel giardino i due giovani innamorati non c’erano. Li
chiamammo. Ma ai cellulari non rispondevano. Né lui, né lei. La notte era fresca.
Serena. Neppure una nuvola in cielo. Dall’alto, dalla volta celeste sembrava arrivare
una luce insolita. Era quella forse la notte migliore per scomparire, per allontanarsi,
per andarsi a cercare, l’uno nell’altra, lontano dagli altri. Il tempo giusto per
provare a rovistare tra le pieghe dell’altro quel che ci spinge a cercare, la rabbia,
l’inquietudine, il desiderio. Passarono dei minuti, ci incamminammo lungo la strada,
per gli spazi vicino ai boschi. Dei due neppure l’ombra.
Rientrammo in casa ad aspettare. La notte si stava facendo avanti. La paura, il timore,
una certa rabbia si fece largo tra i pensieri, prima lievi e leggeri, dei quattro
adulti che erano stati spiazzati dal comportamento dei due innamorati. La madre di
lei non riuscì a trattenersi. È solo una bambina!, quasi gridò. Poi con alcune parole
precise parve quasi chiedere al mio amico, a Giovanni, al padre del giovane, di prendersi
il carico di una responsabilità. Era lui, agli occhi della madre, il padre del ragazzino,
a dover rendere conto di quel che stava accadendo. Sul volto di Giovanni, che di solito
era attraversato da un’indolente gentilezza e tranquillità, mi sembrò di intravedere
una specie di insolita rabbia. Non so se per quella specie di accusa o se per la preoccupazione,
per la leggerezza del gesto del figlio, per l’irresponsabilità, per l’avventatezza,
per il desiderio, per la fuga. O se perché non c’era più neppure lo spazio per quella
fuga, anche d’estate. Le colpe. Quasi la lite. Nessuno di noi sapeva dove i due fossero
finiti. Si erano perduti? Rimasi ancora un poco. Le tensioni non si allentarono. Il
padre della ragazzina fece delle telefonate per chiedere, per sapere. Poi rimasero
in silenzio. Tutti e quattro. Come se non restasse che aspettare senza più pronunciare
alcuna parola.
Alla fine, quando ancora nulla si sapeva dei due ragazzi innamorati che si erano forse
inoltrati un passo più avanti, un passo nel bosco, attratti e incantati anche loro
da ciò che desideravano, da quel che sentivano che doveva essere scoperto proprio
quella sera, ripresi la strada per tornare a San Martino di Castrozza. Non ricordo,
forse saranno state le due o le tre di notte. Un filo di preoccupazione l’avevo anche
io, immaginavo, o ricordavo, che d’estate accade di sporgersi un po’ più del dovuto,
ma che non sempre accade il peggio. Eppure il bosco, la notte, l’anelito, sembravano
racchiudere il dilemma che ci tiene al bivio dove si ritrovano a camminare, l’uno
al fianco dell’altra, il desiderio, la voglia, la paura, l’inquietudine e la regola,
senza sapere fino all’ultimo chi sarà a condurci verso la strada in cui ci incammineremo.
Risalii lungo la strada. E mi sembrò di percorrere uno spazio alieno. Diverso da quello
che avevo attraversato solo poche ore prima. Il pomeriggio e la notte. La luce e le
ombre. Gli spazi, i luoghi, noi, non siamo più gli stessi al mutare del tempo, al
mutare della luce, al girare della Terra su cui abitiamo senza esserne neppure fino
in fondo consapevoli. Con gli occhi guardavo fisso nel cerchio di luce creato dai
fanali quasi a fatica nel denso spazio della notte. Procedevo senza riuscire a intuire
quel che sarebbe venuto dopo. Dove erano finiti i due ragazzi? Per quale ragione non
avevano aspettato? C’era stato qualcosa di imprevisto che aveva colto anche loro?
Qualcosa che li aveva sottratti al loro sentiero di avventura e gioia?
All’altezza di Bellamonte mi sembrò di vedere delle ombre attraversare la strada.
Rallentai quasi spaventato. Il bosco, il mistero, qualcuno che scompare, qualcuno
che si ritrova dopo un tempo infinito. Il tramestio. Il rumore. La fragilità. La natura.
L’opera dell’uomo. Il bosco che cresce, chi si era perduto. I due innamorati che si
erano inoltrati nel bosco dei loro desideri, dell’azzardo, della paura, dell’anelito
e del fremito di qualcosa che pare sempre sfuggirci. Mi fermai così. Accostai l’auto.
Mi misi a camminare tra i prati in cui si sentiva l’odore verde della notte. Fu allora
che mi rivenne in mente quel che mi aveva detto il padre della ragazzina. Del fotografo
di matrimoni che era arrivato fino a quassù per catturare in un’immagine la Via Lattea.
Allora alzai gli occhi e protesi lo sguardo verso l’alto. Così come fanno gli abeti,
che lasciano che le radici restino nel fondo a nutrirsi, mentre con le vette spingono
verso l’alto. Ci misi un po’ a capire dove poteva trovarsi. La formazione delle stelle,
la nudità del cielo, la sua inspiegabile profondità. L’irrequietezza, quel che ci
sembra non possa essere spiegato. Infine attesi ancora.
Guardai verso la strada, pensando alle ombre che mi avevano tagliato la strada. Non
sapevo di cosa si trattasse. Un alito di vento. Le punte aguzze. Le stelle. Fu allora
che intravidi quella limpida escrescenza luminosa, quella concatenazione impressionante
di stelle lontanissime e tutte vicine, la ramificazione di galassia in cui si trova
steso su un ramo anche il nostro pianeta. Il chiarore infinito, una sorta di striatura
e vibrazione quasi rosata ai margini di quella estensione osservabile ma allo stesso
tempo impossibile da percepire fino in fondo. Davanti ai miei occhi, eppure non riuscivo
a farla entrare nella scala dei miei pensieri, tanto era grande, ingombrante. Più
la guardavo e più quasi mi abituavo a quella striatura, a quella galassia, alla traccia
visibile di Via Lattea, meno ero capace di afferrarne fino in fondo il senso. La potevo
vedere, ma non la potevo capire. Mi persi quasi. Guardai ancora. E allora mi accorsi
di una specie di grande zona d’ombra, di ferita, di taglio che l’attraversava quasi
perpendicolarmente, per tutta la sua distesa. Era quella la Fenditura del Cigno? Rimasi
a osservare. E mi persi. Come in un bosco, come in una foresta. Senza sapere bene
in quale luogo mi trovassi. La Via Lattea e la ferita. Le ombre che erano appena passate
vicine. I due ragazzi. L’anelito, la paura dei genitori per quei due giovani che cercavano
l’amore in un’estate così precipitosa, che era arrivata dopo un inverno crudele e
aggressivo. Il loro cercarsi, il loro scomparire. La ferita dentro la Via Lattea,
la Nebulosa del Cigno.
Arrivato nella stanza d’albergo, solo, nel pieno della notte, quando ancora i due
ragazzi erano chissà dove, avevo negli occhi quella inebriante visione della Via Lattea.
Mi misi a leggere. Ma la finestra era aperta e da lì entrava una luce misteriosa.
Sonnolenta. Così mi affacciai. Restai a guardare il bosco. Ed era tutto così vicino.
La Via Lattea, i due ragazzi. Il cupo risvolto del Cimon della Pala. E gli abeti che
continuavano a cercare di protendere i loro appuntiti capi aguzzi verso il cielo.
Mi rivenne in mente di me che mi arrampicavo sugli alberi per staccarmi da terra.
Fu solo l’anno dopo che dal telegiornale venni a sapere del terribile vento che aprì
un’enorme ferita tra i boschi degli abeti rossi. Fu dalla televisione che venni a
sapere che anche il bosco dei violini era stato distrutto dalla furia del vento che
aveva raggiunto più di duecentoquaranta chilometri orari. Nelle riprese dall’alto
che avevo veduto in televisione la foresta si mostrava quasi come un riflesso, in
uno specchio, di quel che c’era sopra di lei. Appariva come un ampio lembo di cielo
le cui stelle erano le cime appuntite degli alberi. Gli alberi e le stelle. Il bosco
come riflesso delle costellazioni. La terra e il cielo. Le punte aguzze che fuggivano
verso l’alto. La voglia di arrampicarsi. Un ramo dopo l’altro.
La foresta, riflesso terreno del cielo, mostrava senza vergogna l’enorme ferita, la
grande improvvisa dilagante frattura che la percorreva. Gli alberi caduti apparivano
come stelle perdute, invisibili. Ogni cosa sembrava parte della stessa porzione di
mondo. Dello stesso frammento di vita. La velocità del vento, l’improvvisa tempesta,
quello che viene portato via, la fragilità della natura, le forme di vita, perfette
e deperibili, il più ampio respiro del mondo, quel che sembra stare per accadere,
l’incapacità di intravedere negli istanti che devono ancora avvenire, le corse e la
meta che si nasconde dietro i rami degli alberi, la luce che filtra, l’incanto, il
fiatone, la gioia, la paura. La responsabilità, quel che ricade sui nostri gesti,
la nostra incuria.
Mi rivenne in mente di quel bambino che in un pomeriggio di primavera si allontanò
con il suo cane e si inoltrò per il bosco vicino a San Martino di Castrozza. Mi rivenne
in mente della paura che a un certo punto prese il padre Giandomenico e la madre Natasha.
Mi rivenne in mente che lo cercarono a lungo. A partire dalle otto di sera tutto sembrò
precipitare. I volontari. I vigili del fuoco. Il soccorso alpino. Il bosco così vicino
alle case. Il cielo così profondo. Il bosco, il cielo stellato, il vento, la Nebulosa
del Cigno. Cercando il bambino chi aveva con sé i cani fece in modo che abbaiassero
così che anche il cane che stava con il ragazzino potesse rispondere e far ritrovare
il bambino. Ma non ci fu alcuna risposta. Il silenzio. Il tramestio degli alberi,
lo scricchiolare di ante d’armadio nella notte. Il mistero del bosco. Il dedalo. Quello
che sembra farsi avanti e invece recede sempre di più. L’indietreggiare del bosco
sotto i nostri passi. Quel che cerchiamo e sembra sempre fuggire. Un passo sempre
più in là. Infine, solo nel pieno della notte qualcuno dei volontari trovò una baita.
Solo nel bel mezzo della notte, qualcuno trovò il coraggio di bussare. Ad aprire alla
porta, spuntò il volto del bambino che in un pomeriggio di primavera si era inoltrato
nel bosco. Era un sorriso quello che aveva sul volto. Un ragazzino di dieci anni che
si era perduto. Un passo più avanti. Quel che sempre cerchiamo. Staccarsi da terra.
Un salto. La rabbia. Le punte aguzze. La grande ferita che si era aperta tra i boschi
che avevo attraversato. Gli alberi come stelle remotissime ormai. Il cielo. La Fenditura
del Cigno. Le nebulose oscure. Le stelle lontanissime. E le ferite, che qualche volta,
mi dicevo, finiscono per rimarginarsi.
...