Prefazione
di Ilaria Cucchi

Il giornalismo d’inchiesta oramai non esiste quasi più da noi. Si preferiscono i prodotti cotti e mangiati, fatti in serie e tutti uguali come frutto di un franchising. Le inchieste richiedono tanto lavoro, tempo e voglia di entrare dentro le notizie, e, soprattutto, qualcuno che abbia curiosità e voglia di leggerle. Tutto questo è sempre più difficile che si realizzi nell’epoca del semplicismo populista senza freni.

Santa Maria Capua Vetere è il fallimento della struttura sociale ed istituzionale del nostro paese. L’abdicazione del sistema Giustizia. Questa inchiesta di Nello Trocchia avrebbe dovuto, in uno Stato civile e democratico, far cadere il governo ed azzerare l’intera legislatura. Suscitare uno tsunami di sdegno intelligente e riflessivo: autocritico. Niente di tutto questo. I fatti narrati da una cronaca asciutta e spietata si verificano nel ventennale dal G8 di Genova.

Leggerlo è doveroso, ma anche doloroso. Come possiamo aver permesso tutto questo? Sì, perché è colpa nostra, dell’indifferenza, del cinismo e del pregiudizio che hanno addormentato le nostre coscienze.

L’assalto al ‘carrello della felicità’, il carrello degli psicofarmaci, da parte dei detenuti, l’accaparramento convulso e senza controllo medico da parte di chi, disperato e privato di ogni diritto, non ha altra soluzione che quella, artificiosa, stordente e maligna della fuga da una realtà insostenibile, è il simbolo delle contraddizioni ipocrite del nostro sentire comune che diventa immagine e somiglianza del nostro Stato.

Tutto questo, fuori, sarebbe reato e determinerebbe condanna e reclusione per i responsabili di un simile scempio. Ma questo è il carcere. La resa del potere di fronte ad un simile sfregio sistematico ai principi fondanti la nostra Costituzione, all’opportunismo politico-giudiziario che ben viene gradito da quello del cosiddetto ‘comune sentire’.

Questo libro va letto. Sconsigliato per coloro che hanno parlato, dopo i terribili fatti che vengono raccontati, di ripristino della legalità. Così non si può dire semplicemente perché la legalità era assente già da prima.

Un grazie sentito a carabinieri e magistrati che hanno saputo e voluto far luce su questi fatti tremendi.

Prologo.
All’inizio fu Pietro Ioia

«La storia di Santa Maria è pesante, ti aiuto a trovare testimoni e riscontri. Vieni a Napoli», disse in dialetto partenopeo. Secco e preciso: «Nun perd tiemp», non perdere tempo. È lì, in spiaggia, mentre tenevo per mano mia figlia in una mattina d’estate, che è iniziata la mia inchiesta giornalistica sul pestaggio di Stato compiuto il 6 aprile 2020 da 283 poliziotti nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere. Era il 13 agosto dello stesso anno e i bagnanti affollavano il lungomare di Santa Severa.

Avevo solo una certezza: che quella storia sarebbe diventata una storia italiana, grave, imponente e che avrebbe potuto segnare per anni il racconto delle carceri nel nostro paese. Già qualche mese prima, infatti, avevo cominciato a scrivere di quanto era successo nel chiuso delle mura del carcere. Avevo parlato con diverse fonti e avevo intuito che c’era molto di più da raccontare, che non c’erano solo rivolte e caos, ma anche altro, nodi che non riuscivo a sciogliere. Dovevo solo scoprire come, mettere insieme i pezzi. Perciò, feci come diceva la mia fonte, non persi tempo e partii. Lo incontrai il giorno dopo, a Napoli.

Eccolo, il mio Virgilio. Lo avevo conosciuto anni prima mentre raccontavo le baby gang che scorrazzavano nella mia città seminando proiettili e paura, perché lui ha la conoscenza profonda delle dinamiche criminali della città, la lucidità dell’analisi, è un riferimento per quel mondo, ne raccoglie sofferenze, istanze e lamenti. Si chiama Pietro Ioia. Pietro è un ex detenuto. Oggi è il garante dei detenuti di Napoli. Per anni ha svolto un solo mestiere: il narcotrafficante. La prima volta che mi ha raccontato della donna colombiana che lo aveva portato, dopo tanto girovagare, sull’uscio della porta di un narcos sudamericano ai tempi del numero uno dei trafficanti di coca Pablo Escobar, l’avrei ascoltato per ore. Ed è ancora così. Perché mi affascina sentire parlare di quello che ho sempre combattuto, ritenuto sbagliato, immondo. Per lui e per il suo mondo criminale la droga era l’eldorado, il paradiso, a sniffarla certo, ma anche a venderla per le palate di soldi che ‘ti alzavi’, per le donne, il successo e lo status. I racconti di Pietro sono sempre vividi. È stato spacciatore di hashish, di eroina, di cocaina, scampato a un agguato per miracolo negli anni di guerra tra nuova famiglia e nuova camorra organizzata, i due cartelli criminali che si facevano la guerra negli anni Ottanta in tutta la Campania. A quel tempo, in sette anni, dal 1981 al 1988, vennero uccise 1.620 persone in provincia di Napoli. Da una parte i Casalesi, i Nuvoletta, gli Alfieri, i Moccia, i clan storici, dall’altra Raffaele Cutolo e il suo progetto di camorra autonoma dai siciliani. Erano gli anni in cui si diffusero frasi cult come «O professore ten e palle», per indicare che Cutolo aveva gli attributi, o «Dicitincell o professore che io nun l’agg tradit, e mo’ facit ampress», per ricordare un affiliato fedelissimo di Cutolo ucciso sotto la doccia nel carcere di Poggioreale mentre giurava di non averlo tradito, frasi tratte dal film Il camorrista di Giuseppe Tornatore. Pietro Ioia finì in carcere proprio in quegli anni. E anche lì comandava Raffaele Cutolo.

Correva l’anno 1982, era il mese di ottobre, quando un giorno uno dei foderi – cioè detenuti che custodiscono le armi in carcere per conto della camorra – non resistette e scaricò l’intero caricatore su un detenuto appartenente al clan rivale. Un altro fodero decise di puntare la sua beretta contro un gruppo di cutoliani nell’ora d’aria. Quella sparatoria in carcere scatenò la reazione violenta della legge e dei gruppi operativi speciali. Venne inaugurata la «cella zero».

Tutti, oggi, a Napoli, sanno cosa è stata la cella zero. È la cella che i gruppi operativi speciali della polizia penitenziaria utilizzavano per togliere dignità al recluso e mostrare la faccia feroce dello Stato.

Anche Pietro Ioia ha conosciuto la cella zero, l’ha raccontata anche in un libro. Gli anni sono passati, ma lui se la porta tutta addosso e si capisce quando riporta indietro le lancette della sua esistenza. Ogni volta che ho incontrato criminali pentiti, fuoriusciti, ex camorristi li ho sempre immaginati con una doppia pelle. A strofinare l’ultima, quella della redenzione, facilmente riemerge in superficie l’altra, quella che li ha resi uomini, sbagliati ai nostri occhi, ma è lì che addensano e posizionano il vissuto profondo. La nuova vita non cancella mai completamente quella vecchia.

Pietro ricorda: «Non ho mai dimenticato la cattiveria con la quale questi giovani si accanirono contro di noi. Quando finirono con le loro torture, ci mandarono di nuovo giù, sempre di corsa, nei sotterranei del carcere, dove si trovavano delle celle enormi. Riuscivano a contenere anche settanta, ottanta detenuti. Niente bagni, senza acqua da bere, distrutti e pieni di ematomi per i colpi ricevuti, ci mostravamo l’uno all’altro come a non volerci credere, come a cercare conferma che non fosse stato solo un brutto sogno»¹. I detenuti si cercavano negli sguardi, si trovavano nei lividi, nei segni lasciati dalle violenze. Ma l’abisso per Pietro è in un altro ricordo. «Mi sentivo soffocare e non vedevo l’ora di arrivare a destinazione, qualunque essa fosse. Dopo un bel tratto, girammo a destra. Delle chiavi aprirono una cella. Mi continuarono a trascinare e poi ci fermammo. Ero ancora incappucciato, era ancora buio attorno a me. Mi prese una tosse stizzosa, soffocante. Al centro della cella vuota, innanzi a me, una fioca luce rossa che scendeva e appesa a un filo, vicino a una fune doppia con un cappio e sotto uno sgabello. Lo scenario che mi si presentò davanti era evidente e le parole non servivano. E infatti, senza parlare, i due Gom (Gruppo operativo mobile) mi avvicinarono a quel cappio e alzandomi di peso mi diedero il loro ultimatum: o parlavo allora o, probabilmente, anzi quasi certamente, non avrei parlato più». Una sedia e un cappio. Come a dire: o confessi oppure finisci impiccato. Uno in più, uno in meno, non fa differenza. Pietro, come gli altri, era nudo fuori e dentro.

¹ Il racconto di Pietro Ioia integra i miei incontri con lui ed estratti del suo libro La «cella zero». Morte e rinascita di un uomo in gabbia, Marotta e Cafiero, 2017.

Sono ricordi datati anni Ottanta, quarant’anni fa, eppure limpidi nella memoria. Per questo Pietro capisce le ansie dei detenuti, per questo Pietro si occupa di carcere e oggi, quarant’anni dopo la cella zero, è il garante dei detenuti di Napoli. Per questo chi esce dalla cella, dal padiglione, dal carcere, trova ancora in Pietro un riferimento, un appoggio, un’ancora.

Così è stato quando il coronavirus ha colpito il nostro paese e le patrie galere. Dalle carceri arrivava la paura, la paura che il virus entrasse in cella come un bubbone dall’ingresso, dal parlatorio, dalla sala colloqui e salisse su per le scale, rapido, tra i reparti fino alle brande. A Pietro arrivavano telefonate e messaggi ogni minuto. Lui segnava, consigliava, suggeriva, calmava. E così è stato anche dopo il 6 aprile 2020, quando i detenuti gli avevano inviato messaggi, audio e foto. Un materiale che raccontava che qualcosa di storto stava succedendo nel carcere Francesco Uccella.

Ci eravamo dati appuntamento davanti al bar della sua famiglia, a 700 metri da Poggioreale. Pietro arrivò, salimmo in auto e ci muovemmo verso la provincia di Caserta. Durante il percorso mi dicevo che non era roba per me. Io di carcere non mi ero mai occupato se non per raccontare chi ci finiva dentro. Ancora non sapevo che quel cancello che io e Pietro cercavamo sarebbe stato l’inizio di un viaggio dentro il carcere di Santa Maria Capua Vetere, le sue violenze, l’incontro con detenuti e familiari. E non sapevo neppure che avrei scoperto il punto di vista di Caino, o del presunto Caino, e che avrei ceduto al dubbio, l’unica certezza di chi fa il cronista.

Giungemmo a destinazione. Fuori dal cancello ci aspettava un uomo alto, magro e con il volto dell’abbandono. Sembrava un motel a ore, di quelli bassi con gli appartamenti con porta a vista, di quelli con le tendine in nylon rosa. Ci presentammo ed entrammo in casa, una rampa, una porta e una cucina che in tre si stava a fatica. Una bottiglia d’acqua al centro, la tovaglia di plastica, l’apparenza di una vita normale e un caffè per salutare il nostro arrivo. Di caffè non ne prendevo da tempo, ma non mi sembrava il caso di rifiutare. Il testimone si alzò, riempì la macchinetta di acqua, richiuse e schiacciò. Aveva passato una vita nell’ingranaggio criminale, uno degli anelli della catena dello spaccio. Era stato arrestato e portato al Francesco Uccella prima dell’inizio del Covid e ora era uscito.

Era su quel carcere, e precisamente su quanto era accaduto tra quelle mura nel reparto Nilo quel giorno, che stavo cercando risposte. Dal carcere, dopo il 6 aprile, si erano levate le voci dei detenuti e dei familiari che denunciavano un pestaggio di massa violento, ingiustificato, abominevole per un paese democratico. La versione ufficiale di quella giornata, che si contrapponeva a quelle denunce, parlava invece di un intervento della polizia penitenziaria messo in campo per contenere una presunta rivolta dei detenuti. Pietro Ioia mi aveva portato lì perché qualcuno aprisse il blindo, la porta del reparto Nilo, per superare la versione ufficiale che si era sedimentata e stratificata nella pubblica opinione, perché trovassi una traccia, un indizio per tornare a quel 6 aprile 2020. Io avevo già raccolto spunti, indicazioni, ma era con quel viaggio che contavo di incrociare altre certezze.

Il testimone non ci girò attorno. Chiese di rimanere anonimo e iniziò a parlare, mentre io e Pietro sedevamo con lui in quella stretta cucina. Era al Francesco Uccella quando 283 poliziotti erano entrati nel reparto Nilo marciando con scudi e stivali, abbattendo corpi come statuette: «Sentiamo passi pesanti. Vedo decine di agenti arrivare verso il nostro reparto. All’inizio penso alla conta», disse. Tre volte al giorno gli agenti effettuano la conta, verificano la presenza dei detenuti all’interno della cella. Ma non era la conta. «Mi affaccio e nel corridoio vedo una marea di poliziotti penitenziari camminare con scudi, manganelli, anfibi. Erano circa 250, alcuni erano in borghese. Da quel momento non ho capito più niente. Iniziano a entrare nei padiglioni e ci riempiono di mazzate. Si dispiegano ovunque, nei corridoi, negli angoli, aprono le celle, ‘hai fatto la rivolta?’ e io ‘ma quando mai’ e giù mazzate. Mi spoglio, primo schiaffone e poi una raffica di colpi. Dalle altre celle sento che tagliano le barbe con i rasoi. Ma come vi permettete, perché? Mica siamo pecore che ci devono tosare, non abbiamo anche noi una dignità?».

Con un po’ di fatica andò avanti: «Mentre le prendevo pensavo ‘ora questi ci schiattano [riempiono] di mazzate, ora ci uccidono’. Ci buttano in mezzo al corridoio, sempre a prendere mazzate». Pietro Ioia intervenne con voce calma, posata e senza retorica mentre io trasecolai. «È successa la stessa cosa anche a me negli anni Ottanta a Poggioreale, uguale». Il testimone continuò: «Ci portano dalla cella in mezzo alla rotonda, al passeggio, alla socialità. Ci hanno ucciso di mazzate ovunque. Manganellate, anfibi, calci, pugni. Dietro alla schiena ero tutto viola. Ho percorso le quattro rampe di scale e sono arrivato al piano terra a forza di colpi. Non ho mai visto una cosa del genere, mai subìto tanta violenza. Abbiamo preso mazzate quando siamo scesi e quando siamo risaliti. Io sono entrato strisciando nella mia cella, non riuscivo ad alzarmi».

Ma è a quel punto dell’intervista che si aprì uno squarcio che ribaltò il conosciuto, mettendo sul tavolo una prova inconfutabile del massacro di Stato. Quel punto dura un attimo e in quell’attimo bisogna stare dentro il narrato. Mi è capitato di perdermelo in altre occasioni. Se ti perdi in un ricordo, in un pensiero, in una distrazione, ti trovi sguarnito nel momento topico. Quando faccio un’intervista ci devo stare dentro totalmente altrimenti meglio rimandare, annullare. Il fine è chiaro, quello di «aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane», diceva Italo Calvino. Per illuminare il buio o almeno provarci.

Il testimone usò poche parole per terremotare quanto fino a quel momento era emerso sulla vicenda: «Due mesi fa mi hanno chiamato in procura, vengo interrogato e mi dicono di non fare interviste e non rilasciare dichiarazioni. A un certo punto tirano fuori un album con foto segnaletiche e io ho fatto il riconoscimento di alcuni che ci hanno picchiato. Dopo le dichiarazioni mie mi hanno mostrato i video nei quali mi sono rivisto». Rivisto? Come rivisto? «E certo, mi sono rivisto. C’erano i video delle telecamere di videosorveglianza che mostravano le violenze». Quelle parole rappresentavano il punto di svolta. Se è vero che fino a quel momento, nonostante lo sforzo di garanti e familiari, le denunce e le proteste erano state risucchiate dalla versione ufficiale, con le immagini non si poteva più barare. Quelle erano indiscutibili.

Una frase, una in mezzo a un racconto lungo, alternato da rabbia, frustrazione e impotenza. Da lì ho avuto un solo obiettivo in mente, chiamare ogni fonte disponibile, cercare e trovare ogni riscontro: la traccia era buona, e servivano conferme per cui sarebbero stati necessari altri giorni, altri incontri, prima di chiudere il cerchio. Quella semplice frase, pronunciata da quell’omone, mi avrebbe portato a scoprire la storia di uno dei pestaggi di Stato più gravi avvenuti nel nostro paese.

Inizia la rivolta

Per capire quello che è accaduto a Santa Maria il 6 aprile 2020, bisogna fare alcuni passi indietro, a poco prima che il virus sfondasse definitivamente la diga dell’indifferenza e il nostro paese arrivasse palesemente scoperto e inadeguato al terremoto sanitario.

Il 30 gennaio l’Organizzazione mondiale della sanità dichiara l’emergenza internazionale di salute pubblica. Il governo italiano vara un decreto che proclama «lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili». Vengono bloccati i voli dalla Cina, ma è tardi. E in carcere? Che succede in carcere? Per scoprirlo bisogna mettersi le cuffie e restare in silenzio. Su Radio Radicale va in onda Radio carcere, osservatorio permanente sulla vita in detenzione. «Qui a Poggioreale la situazione è drammatica a partire dal sovraffollamento. Qui ci sono 1.500 posti, ma siamo arrivati a essere oltre 2.100 persone. Siamo in una cella costretti a vivere in tantissimi, nella nostra cella siamo 10 detenuti, un solo bagno coperto di muffa. Sono 25 metri quadrati, noi siamo 10 detenuti. Non è lo spazio che abbiamo a disposizione perché bisogna considerare lo spazio occupato da dieci brande, dieci armadietti, dieci sgabelli, due tavoli. Morale, in questa cella non abbiamo lo spazio per muoverci, così restiamo sdraiati sulle brande», dice Agostino, detenuto del carcere di Poggioreale¹. «Al terzo piano del padiglione Roma, l’acqua scende dal soffitto e si allaga tutto il corridoio. Sono anni che esiste questo problema, perché non fanno niente? Aspettano una tragedia?», conclude il recluso. Una lettera che viene letta pochi giorni prima del disastro Covid, ma che testimonia in quale sistema correrà il virus.

¹ La lettera viene letta nel corso della trasmissione Radio carcere, curata da Riccardo Arena, il 23 gennaio 2020.

Il 26 febbraio 2020 al governo del paese c’è una maggioranza di centro-sinistra, il presidente del Consiglio è Giuseppe Conte, il ministro della Giustizia è Alfonso Bonafede, il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) è Francesco Basentini. Da quel giorno, lo prevede una circolare firmata da Basentini riferibile al decreto governativo varato il giorno prima, vengono sospesi i colloqui in carcere e sostituiti con quelli a distanza tramite Skype. Sospensione dei colloqui in carcere. Detta così sembra una misura ovvia, scontata e senza conseguenze. Ma così non è. Dobbiamo capire che per il detenuto il colloquio è un giorno speciale. È come il battesimo, la comunione, il matrimonio. «Al colloquio ti prepari giorni prima, stiri il pantalone, ti radi la barba, ti fai bello. Viene tua moglie, viene tua figlia, viene la tua famiglia, ti prepari come a un evento. Il colloquio ti tiene con un piede dentro il mondo», dice un ex detenuto. Pietro Ioia racconta così come viveva, quando era detenuto, il giorno delle visite: «Dovete sapere che la notte precedente a questa giornata si dorme sempre pochissimo. Emozione e adrenalina se la giocano. Pensi solo al fatto che per un’ora sentirai i profumi di casa tua e vedrai la tua donna, i tuoi genitori o i tuoi figli e ti senti esplodere dalla gioia. Perché mentre i giorni passano le mancanze si fanno sempre più forti e quella giornata ti cambia tutta la settimana. Ti senti più forte, tanto da poter affrontare qualsiasi cosa. Gira e rigira, sai che la chiave di tutto sono sempre gli affetti veri»².

² Ioia, La «cella zero» cit.

Alla circolare viene collegato un decreto del presidente del Consiglio dei ministri che fissa la sospensione dei colloqui personali e raccomanda di «limitare i permessi e la libertà vigilata o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare»³. Le restrizioni ai colloqui vengono fissate fino al 22 marzo, ma le bozze che circolano in quelle ore parlano di una limitazione fino al 31 maggio 2020. Nel frattempo, il coronavirus dilaga, l’emergenza esplode e nessuno ha risposte su come affrontarla. In carcere non arriva nulla, né tamponi, né mascherine (all’inizio neanche per gli agenti). Quel principio di marzo segna l’inizio del buio. La sospensione dei colloqui, sommata alla paura del virus e a una cornice di diritti già compromessa, crea una combinazione esplosiva. Nei giorni 7, 8 e 9 marzo 2020 esplode il caos: gli istituti di pena diventano il punto più vulnerabile del paese.

³ Il dpcm viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale l’8 marzo e prevede «misure straordinarie per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19, e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria».

Il primo istituto a insorgere è quello di Salerno alle 14,30 del 7 marzo, un giorno prima della pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale. Segue il carcere di Poggioreale con la protesta furente dei familiari dei detenuti che chiedono amnistia e indulto, in soldoni l’immediata scarcerazione dei reclusi per estinzione del reato o della pena. Da quel momento in poi in tanti altri istituti si censiscono sommosse, rivolte, gravi episodi come il sequestro di personale medico e di polizia o evasioni di massa, come avvenuto a Foggia. Quello che segue è l’elenco delle proteste come è stato ricostruito da una parte, il Nucleo investigativo centrale (Nic) della polizia penitenziaria, in una relazione apposita.

In Basilicata succede di tutto. A Melfi si muovono i detenuti del circuito della criminalità organizzata. «Intorno alle 15 i detenuti alta sicurezza si impossessavano delle chiavi delle stanze detentive occupando l’intero reparto detentivo e tenendo bloccati 5 operatori sanitari e 4 poliziotti penitenziari. Alle 23,40, dopo una lunga trattativa i detenuti rilasciavano i sanitari e successivamente i poliziotti. Esito: sequestro di nove persone, danneggiati e resi fuori uso 14 cancelli delle camere di pernottamento della 4a sezione oltre a tutti i cancelli di accesso alle sezioni», scrive il Nic nella relazione sui fatti. A Foggia i reclusi stazionano nel cortile passeggi. Protestano, escono dal cortile, forzano i cancelli degli sbarramenti. Immediatamente viene richiesto l’intervento delle altre forze dell’ordine. I rivoltosi entrano nell’ufficio matricola e appiccano un incendio che distrugge la documentazione e la strumentazione informatica. Raggiungono la sezione femminile dove, dopo aver «strattonato le poliziotte impossessandosi delle chiavi delle stanze al fine di liberare le detenute, devastavano e vandalizzavano gli arredi e i dispositivi informatici», si legge nella relazione. Un gruppo tenta di raggiungere il direttore che viene messo in salvo, i detenuti accedono al piazzale esterno, sfondano il doppio varco della carraia, buttano a terra, in cento, il cancello esterno e molti fuggono attraverso la porta pedonale. In tutto gli evasi sono 72, tutti ricatturati nelle settimane successive. Nel carcere pugliese, «mentre era in corso la fuga dei detenuti, un agente penitenziario in preda al panico ha cominciato a brutalizzare un detenuto pestandolo a colpi sul muro, l’ho fermato prima che succedesse di peggio», ci racconta un poliziotto penitenziario che era in quell’istituto.

Durante le rivolte di quel marzo 2020 c’è anche chi muore. Erano reclusi nel carcere di Modena nove detenuti che muoiono dopo aver assunto un mix letale di sostanze, soprattutto metadone, dopo l’assalto all’infermeria. Altri tre muoiono a Rieti, uno a Bologna. Si aprono indagini, alcune si chiudono rapidamente, ma i video sulle violenze nel carcere Sant’Anna di Modena non ci sono; più correttamente, al momento della realizzazione di questo libro non sono mai stati divulgati. Di certo c’è che in una relazione di servizio delle forze dell’ordine sui fatti accaduti a Modena si fa riferimento a un frammento di un video, ma al momento non si ha traccia di quei filmati. Per i fatti accaduti in quelle ore la procura di Modena apre tre fascicoli. Uno per le devastazioni compiute dai detenuti, un altro per la morte di nove reclusi e un ultimo per le violenze che i poliziotti penitenziari avrebbero compiuto durante e dopo la rivolta. La prima indagine è ancora in corso. La seconda inchiesta è stata archiviata perché i detenuti sono morti, secondo i risultati delle indagini, per overdose di metadone e non sono emerse altre responsabilità. L’inchiesta relativa alle violenze sui detenuti si prolunga: inizialmente è a carico di ignoti, poi cinque agenti vengono iscritti nel registro degli indagati per tortura e lesioni aggravate. Emergeranno poi i veleni in carcere, le denunce di due agenti contro il comandante della polizia penitenziaria, le parole di un agente che denuncia i volti tumefatti dei detenuti visti durante la terribile rivolta⁴. Ma in questo momento le domande su quanto accaduto in quelle ore, sulle modalità di trasferimento, sulla presenza delle telecamere (che emerge da alcune annotazioni di polizia) restano ancora senza risposta⁵.

⁴ Questi fatti emergono da alcune inchieste che ho pubblicato sul quotidiano Domani nell’agosto 2022.

⁵ Su Domani, il 13 febbraio 2022, ho rivelato l’esistenza di un’indagine a carico degli agenti della polizia penitenziaria, che come si scoprirà in seguito erano inizialmente cinque. Il tutto è stato possibile perché alcuni detenuti hanno riconosciuto diversi agenti consultando un album fotografico che gli inquirenti hanno sottoposto alla loro attenzione quando sono stati ascoltati come persone informate sui fatti.

Ma chi sono i detenuti morti? Che reati avevano commesso? È utile soffermarsi e dare conto di chi fossero, perché il carcere italiano è affollato soprattutto da persone come loro. Le biografie delle vittime del marzo 2020 raccontano il dato generale in merito ai reati per i quali si aprono le porte degli istituti. Il 32,5 per cento sono stranieri. A Parma, proveniente dal carcere di Modena, muore Artur Iuzu, moldavo di origine, in attesa di giudizio di primo grado per i reati di furto aggravato, rapina e lesioni. Samir Carlos Álvarez Pérez muore a Rieti durante l’assalto all’infermeria, riportano le cronache: aveva 29 anni, era dentro per furto, ma non aveva ancora una condanna neanche in primo grado. Allargando lo sguardo alla situazione generale delle carceri italiane si vede come i reati contro il patrimonio siano quelli più rappresentati (30.745), a cui seguono quelli contro la persona (23.095) e i reati in violazione della legge sulle droghe (18.757). A seguire i reati in violazione della legge sulle armi (9.397) e i delitti legati all’associazione di stampo mafioso (7.274). Gli stranieri presenti per quest’ultima tipologia di reato sono il 3,45 per cento del totale mentre raggiungono il 34,5 per cento di chi è dentro per avere violato la legge sugli stupefacenti. È evidente che costituiscono l’anello meno significativo della catena criminale. Guardando questi numeri è chiaro che quando si dice ‘dentro non ci sono i colletti bianchi’ è la lampante verità. Dentro le celle ci sono i poveracci. Una frase che circola, che alimenta sfiducia, ma che è terribilmente vera. Rapinatori, ladri, spacciatori sono le categorie più rappresentate.

E i poveracci sono anche quelli che rimangono dentro. Anche quando è in corso una emergenza sanitaria. Anche se il carcere è in perenne sovraffollamento e quindi il luogo ideale per il contagio (nel febbraio 2020, prima della pandemia, i detenuti erano 61.000, a fronte di una capienza massima di 50.000). Mi sono imbattuto nella storia di chi, al centro di convergenti relazioni giudiziarie e politiche, è potuto uscire dal carcere, nel rispetto dei dettati normativi, salutato da vecchi amici e parenti, a fronte di altri che con gravi patologie, anche invalidanti, hanno visto negati i permessi richiesti⁶. I diritti dei primi non sono in conflitto con i diritti dei secondi, ma se la Costituzione vale solo per chi ha buoni avvocati e buone referenze si chiama giustizia per censo, non altro. A un anno dall’inizio della pandemia, nel gennaio 2021 accedo ai fascicoli di diversi detenuti nel carcere di Rebibbia, a Roma.

⁶ Di questo caso mi sono occupato il 31 gennaio 2021 su Domani in un articolo intitolato ‘A Rebibbia restano in cella malati gravi, ma Verdini è fuori’.

G.R. attualmente si trova al padiglione G14. È un detenuto che ha l’Hiv, ha perso 20 chili, è cardiopatico e presenta altre patologie, attualmente ha l’ossigeno, già due relazioni specialistiche ne hanno accertato la non compatibilità con il carcere, ma è ancora nel braccio G14.

A G.D. è andata meglio, alla fine di una battaglia lunghissima è uscito, a distanza di mesi da quando aveva fatto richiesta. Ha un tumore, una necrosi e diverse malattie. In carcere ha perso 23 chili, è finito in isolamento precauzionale per Covid. Dopo lettere e sollecitazioni è riuscito a ottenere la visita ed è stato dichiarato incompatibile con il carcere in quanto la malattia è in stato avanzato, ottenendo la scarcerazione disposta dal magistrato di sorveglianza.

Un altro detenuto ha diverse patologie, una invalidità al 100 per cento e si muove in sedia a rotelle, l’azienda sanitaria ne ha certificato il pericolo di complicanze polmonari visto anche il rischio Covid, ma il tribunale di sorveglianza ha respinto la richiesta con questa motivazione: «Le condizioni di vita non appaiono determinare un pericolo di vita, né sono tali da far apparire l’espiazione della pena in istituto in contrasto con il senso di umanità e con la tutela del diritto alla salute, costituzionalmente garantiti». Ora è ricoverato in ospedale, affetto da Covid-19, ma è ancora detenuto, al momento le sue richieste di differimento della pena sono state tutte respinte.

Malati e sofferenti, insomma, restano dietro le sbarre. Ma da Rebibbia nello stesso gennaio 2021 esce Denis Verdini, ex coordinatore del Pdl, già senatore e pluricondannato. Verdini entra in carcere a inizio novembre, riceve le visite degli educatori, degli assistenti sociali e anche dei parlamentari di ogni schieramento: Matteo Renzi, Matteo Salvini, del magistrato in aspettativa e deputato renziano Cosimo Ferri. Un cordone di amicizia e attenzioni si stringe attorno all’ex senatore e leader di Ala, il partitino di ex berlusconiani che ha tenuto in vita il governo Renzi, qualche anno fa. Pochi giorni dopo essere entrato a Rebibbia, nel nuovo complesso, Verdini è stato trasferito al G14, il reparto infermeria, ed è riuscito a ottenere la visita del medico che ne ha certificato l’incompatibilità e poi l’approvazione della misura differita da parte del magistrato di sorveglianza.

Nessuno, neanche chi protesta inascoltato, come i familiari di decine di ristretti, vuole sindacare sul caso Verdini, che esce a causa delle condizioni di salute incompatibili con il carcere, ma a leggere le storie di decine di altri detenuti emergono situazioni di una gravità inaudita da un punto di vista medico e sanitario che hanno avuto un esito differente evidenziando una disparità di trattamento. Detenuti che presentano condizioni anche più gravi, ma che non riescono a ottenere ascolto e la necessaria visita per dimostrare l’incompatibilità con la detenzione carceraria. Perché fuori dal circuito dei ‘famosi’ destinatari di attenzioni anche mediatiche, fuori dai circuiti della detenzione per mafia, carcere duro e alta sicurezza, dove la statura degli avvocati consente ricorsi e vigilanza, ci sono i senza potere. E il carcere è fatto di storie minuscole come quelle di chi presenta difetti visivi, ma non ha neanche i soldi per comprarsi gli occhiali. Occhiali per rispondere a una lettera, guardare la tv, leggere un libro o una rivista. Molti di loro ricordano i fuorilegge che Danilo Dolci, maestro della non violenza, descriveva negli anni Cinquanta soffermandosi sul confine sottile tra crimine e disagio: «Su 147 fuorilegge, 108 o non sono mai andati a scuola o hanno dimenticato quel poco che avevano imparato [...] Totale degli anni della scuola frequentata dai fuorilegge: 350. Totale degli anni di carcere (calcolando, per ognuno dei 12 ergastolani, 35 anni di media): 1032 anni e 7 mesi [...] Due gli avvelenati in carcere, e niente se ne è saputo più: tutti in silenzio [...] E i bambini che s

Pestaggio di Stato

Approfondisci ed esplora

Il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere diventa un libro-inchiesta firmato da Nello Trocchia

L'autore

Nello Trocchia

Rassegna stampa

Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.

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Pestaggio di Stato

Approfondisci ed esplora

Il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere diventa un libro-inchiesta firmato da Nello Trocchia

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Nello Trocchia

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