Introduzione

1. Negli ultimi trent’anni la criminalità, in Italia, è crollata. Gli omicidi, che nel 1991 furono 1938, sono oggi circa 300 ogni anno, e anche gli altri reati sono in larga parte diminuiti. Contemporaneamente, tuttavia, la popolazione carceraria è quasi raddoppiata: i detenuti erano 31.053 nel 1991 e sono oggi 58.083; gli ergastoli sono più che quadruplicati, passando dai 408 del 1992 agli attuali 1.867, due terzi dei quali aggravati come “ergastoli ostativi”, cui non sono applicabili i benefici di pena previsti dall’ordinamento penitenziario del 1975 e dalla riforma Gozzini del 1986. Al tempo stesso è regredita, in Italia, la cultura del ceto politico. Ancora negli anni Novanta, il 30 aprile 1998, il Senato italiano votò a larghissima maggioranza l’abrogazione dell’ergastolo, poi non portata, purtroppo, al voto della Camera. Venticinque anni dopo quasi tutte le forze presenti in Parlamento respingono con sdegno l’accusa di essere a favore dell’abolizione non diciamo dell’ergastolo, ma perfino del cosiddetto ergastolo “ostativo” alla concessione di qualunque beneficio di pena.

È difficile non vedere in questi straordinari mutamenti l’effetto di una riduzione delle garanzie del corretto processo, quali limiti all’arbitrio punitivo, e del declino del garantismo nella cultura sia del ceto politico che del ceto giudiziario. Le cause della regressione politica, culturale e morale che in tali cambiamenti si manifestano sono molteplici: l’abbassamento della qualità delle classi di governo; il clima di costante emergenza da esse alimentato; le incessanti campagne sulla sicurezza dirette a terrorizzare l’opinione pubblica onde ottenerne il consenso a inutili inasprimenti di pena; la maggiore durezza, fino alla disumanità, sia delle leggi che dei giudizi; la diffusione, indotta dai populismi, della domanda sociale di punizioni severe e vendicative e la degradazione, da essa segnalata, del senso morale a livello di massa.

La giustizia penale è stata d’altro canto al centro del dibattito politico fin da quando, trent’anni fa, ha investito le tante forme di malaffare e corruzione dei massimi esponenti politici di governo. È allora che è iniziato lo scontro tra giustizia e politica. I magistrati sono stati ogni volta accusati di politicizzazione. Mentre è vero esattamente il contrario: i giudici e i pubblici ministeri hanno cessato di fare politica quando hanno cominciato ad applicare la legge ugualmente a tutti, e quindi ad arginare lo sviluppo dell’illegalità pubblica e dei poteri occulti ad essa retrostanti e così a salvaguardare la tenuta dello stato di diritto e della democrazia.

È tuttavia innegabile che il crollo del sistema politico provocato nei primi anni Novanta del secolo scorso dalle inchieste milanesi è stato un fenomeno di patologia istituzionale, senza precedenti nella storia e senza confronti in altri ordinamenti democratici. Gli scandali sollevati dalle tante forme di corruzione hanno gettato un discredito senza precedenti sul ceto politico, che si è trasferito sui partiti e sulle stesse istituzioni rappresentative, percepite sempre più lontane dalla società. Inoltre, nello scontro che ne è seguito tra politica e giustizia, la magistratura e una parte dell’opinione pubblica hanno spesso contrapposto, all’immagine di un potere politico corrotto e inefficiente, l’idea del potere giudiziario come potere buono e salvifico; quando al contrario è sempre un fattore di salute istituzionale la consapevolezza, soprattutto tra i giudici, che tale potere, come scrisse Montesquieu, è un potere terribile, che va perciò limitato da rigorose garanzie. La difesa incondizionata della giurisdizione ha finito in questo modo per lasciare nell’ombra prassi giudiziarie illiberali e antigarantiste. Ha offerto, della magistratura, l’immagine di una corporazione di potere. Ha avallato indebite interferenze della giustizia penale nella sfera della fisiologica discrezionalità della politica e dell’amministrazione in contrasto con la separazione dei poteri; la quale ovviamente va difesa non solo dalle invadenze della politica nella giurisdizione, ma anche dal sindacato di merito del potere giudiziario sui legittimi spazi di competenza delle funzioni politiche e amministrative di governo.

È perciò una riflessione razionale, diretta a ripensare le fonti di legittimazione dei diversi poteri dello Stato e le condizioni di un loro reciproco rispetto, a identificare i guasti prodotti nel tessuto democratico dall’antipolitica e dai populismi e, insieme, a riabilitare il modello garantista della giurisdizione penale che oggi si impone alla cultura giuridica e politica. Lo scopo di questo libro è contribuire a questa riflessione all’altezza della crisi in atto. Nei 35 anni passati da quando, in Diritto e ragione, formulai una prima teoria del garantismo penale, sono avvenute, in Italia ma non solo in Italia, trasformazioni profonde e tutte regressive sia nella società che nelle istituzioni: la crescita delle disuguaglianze e le restrizioni dei diritti sociali e del lavoro; il crollo della rappresentatività del sistema politico e la sfiducia generalizzata nella sfera pubblica; l’inflazione incontrollata della legislazione e la crisi del principio di stretta legalità e tassatività; l’involuzione classista e poliziesca della giustizia penale dovuta agli aumenti delle pene nei confronti della criminalità di sussistenza, alle leggi di favore riguardo alla delinquenza dei potenti e allo spazio crescente assunto dai procedimenti di prevenzione extra o ante delictum; l’introduzione e poi il progressivo aggravamento del carcere duro ad opera degli articoli 4-bis e 41-bis dell’ordinamento penitenziario; il lungo, estenuante conflitto tra il mondo della politica e il mondo della giustizia; il riflesso corporativo del ceto giudiziario, il protagonismo di molti magistrati, soprattutto pubblici ministeri, e la crescita del potere delle Procure; la centralità acquisita, nel nostro sistema politico, dalla questione penale e dal potere punitivo e il pericolo che la giurisdizione finisca per configurarsi, o comunque per essere percepita, come un’indebita funzione di governo anziché come una funzione di garanzia; la mutazione, infine, della questione criminale, sempre più segnata dalla riduzione della vecchia delinquenza individuale e dallo sviluppo delle molteplici forme di criminalità del potere: da un lato dalla crescita dei poteri criminali organizzati e dei crimini dei potenti, sia pubblici che privati e, dall’altro, dalle violazioni massicce, ad opera di poteri globali selvaggi, dei diritti fondamentali e dei beni comuni, tanto devastanti quanto non percepiti come illeciti solo perché non trattati e in gran parte non trattabili dal diritto penale.

2. A questa crisi del garantismo penale non è estraneo il contributo di una larga parte della cultura penalistica – sia della dottrina che della magistratura – che in questi anni ha assistito alle involuzioni del proprio oggetto di studio oscillando tra rassegnazione pessimistica e accettazione realistica, e così archiviando o comunque adattando i principi garantisti ai molti mutamenti del diritto penale in trasformazione: dall’atteggiamento acritico di fronte alla crisi del principio di legalità determinata dall’inflazione legislativa, alla teorizzazione e comunque alla legittimazione del creazionismo giurisdizionale in violazione della separazione dei poteri e della soggezione dei giudici alla legge; dall’avallo prestato ai vari regimi di carcere duro e alle lesioni dei diritti umani dei migranti, alle norme sulle misure di prevenzione in contrasto con i principi di retributività e di legalità e all’opzione a favore dei patteggiamenti e dei riti alternativi introdotti, per far fronte al marasma dei processi, contro i principi del contraddittorio e del diritto al silenzio dell’indagato; dalla teorizzazione delle varie forme di tutela anticipata dei beni giuridici, attraverso l’abuso dei reati associativi e delle figure di pericolo astratto o presunto, fino al sostegno offerto alle tante differenziazioni, per tipo d’autore o di detenuto, del processo penale e dell’esecuzione della pena.

Si pone in proposito una questione epistemologica di fondo, che riguarda lo statuto della scienza giuridica e in particolare della dottrina penalistica: se questa debba limitarsi a interpretare le norme penali, come raccomandava il vecchio metodo tecnico-giuridico, o debba anche interrogarsi sui loro fondamenti etico-politici e svolgere il ruolo critico e progettuale che fu proprio della nostra Scuola classica, da Beccaria a Carrara, e che per di più è oggi imposto dalla costituzionalizzazione di gran parte dei principi garantisti; se, in altre parole, il suo approccio al diritto debba essere puramente descrittivo, o debba anche comportare la critica dei suoi profili di illegittimità politica o giuridica e la sua progettazione normativa in accordo con i principi teorici di giustizia dai quali dipende la legittimazione dell’intero sistema penale. E ancora: se la scienza penalistica debba svilupparsi all’insegna del disinteresse per gli altri saperi sociali – la filosofia giuridica e quella politica, la sociologia, la criminologia e la storiografia – o se, al contrario, debba anche riflettere sui grandi problemi filosofici del perché, del quando e del come punire, proibire e giudicare, nonché guardare al concreto funzionamento della giustizia penale, ai suoi condizionamenti extra-giuridici, ai suoi mutamenti determinati da ragioni politiche o culturali, alla natura in concreto delle pene e dei trattamenti carcerari, al grado di effettività e di ineffettività delle norme e alle disuguaglianze nelle loro applicazioni.

Queste alternative hanno segnato l’intera storia moderna del pensiero penalistico. Fino a tutto l’Ottocento la scienza del diritto penale, da Cesare Beccaria a Gaetano Filangieri e a Mario Pagano, da Gian Domenico Romagnosi a Paul Johann Anselm Ritter von Feuerbach e a Francesco Carrara, fu una disciplina giuridica dotata, più d’ogni altra, di vocazioni filosofiche. Con l’affermazione del metodo tecnico-giuridico, promosso da Arturo Rocco nella sua celebre prolusione sassarese del 15 gennaio 1910, essa si tramutò in un sapere puramente tecnico, privo di fondamenti assiologici esterni, la cui “autonomia” sia dalla cultura filosofico-politica che da quella sociologica fu addirittura assunta, rivendicata e raccomandata come condizione della sua scientificità. Nei primi decenni del secondo dopoguerra la Costituzione repubblicana, nella quale sono stati positivizzati gran parte dei principi di giustizia che disegnano il modello garantista del diritto penale e dello stato di diritto, mise in crisi, presso i giuristi più avvertiti, quel vecchio metodo tecnico-giuridico, basato sulla presunzione aprioristica di legittimità del diritto esistente. La rigidità della Costituzione retroagiva infatti sulla scienza giuridica, conferendole il compito, scientifico e politico insieme, di controllare la legittimità del suo stesso oggetto e di proporne dall’interno le correzioni consentite dalle tecniche garantiste di cui l’ordinamento è dotato e di elaborare e suggerire dall’esterno nuove forme di garanzia idonee ad attuare il progetto costituzionale.

Ho l’impressione che in questi ultimi decenni la demagogia securitaria, la diffusione delle ossessioni punitive e il clima di costante emergenza generato dallo sviluppo del terrorismo e del crimine organizzato abbiano determinato non solo l’involuzione del nostro sistema penale, ma anche il suo avallo da gran parte della cultura penalistica. Di fronte al diritto che cambia, il modello garantista del diritto penale consegnatoci dalla tradizione illuminista è apparso ed è stato da più parti dichiarato obsoleto o apertamente archiviato. Di nuovo, questo mutamento è avvenuto con la tacita estromissione di entrambi i punti di vista esterni al diritto penale che il vecchio metodo tecnico-giuridico aveva espressamente messo al bando all’inizio del secolo scorso e che erano stati riscoperti dalla penalistica civile degli anni Settanta e Ottanta: il punto di vista filosofico sui fondamenti della legittimazione etico-politica del diritto penale e il punto di vista sociologico sulla divaricazione tra il suo modello garantista, oggi in gran parte costituzionalizzato, e gli aspetti più iniqui, discriminatori e classisti del suo funzionamento di fatto.

Una rifondazione del garantismo penale non può avvenire senza il superamento di questo duplice isolamento della scienza penalistica – dalla filosofia del diritto penale e dalla sociologia giuridica – peraltro incompatibile con il costituzionalismo rigido delle nostre democrazie, che nella filosofia politica illuminista affonda le sue radici. Integrare la scienza penalistica con l’approccio filosofico sui fondamenti e con quello sociologico sul funzionamento di fatto del diritto penale, vuol dire promuovere il ruolo critico generato dalla triplice divaricazione deontica tra giustizia e validità, tra validità e vigore e tra vigore ed effettività delle sue norme. È questa la rivoluzione epistemologica imposta alla scienza penalistica, e più in generale all’intera scienza giuridica, dalla doppia artificialità del diritto delle nostre democrazie: anzitutto del suo essere legislativo e poi del suo dover essere costituzionale, cioè dei valori che le costituzioni hanno positivizzato, trasformando in una divaricazione deontica interna al diritto positivo quella che in passato era solo una divaricazione ad esso esterna tra validità e giustizia. Di qui il nesso delle discipline penalistiche con la filosofia, che non può essere ignorato se non perdendo i loro fondamenti nei valori costituzionali. Giacché è stata la filosofia politica che ha definito e fatto oggetto di riflessione le classiche parole che designano quei valori: la libertà, l’uguaglianza, i diritti umani, la dignità della persona, la separazione dei poteri, la rappresentanza politica, ma anche, nel settore più strettamente penalistico, le garanzie penali della stretta legalità, dell’offensività, della materialità e della colpevolezza e quelle processuali della presunzione di innocenza, dell’onere della prova, del contraddittorio e dei diritti della difesa. L’ignoranza o, peggio, il rifiuto di questi fondamenti sono un fattore non secondario della crisi in atto delle garanzie penali e processuali, che è un aspetto rilevante della crisi odierna della democrazia liberale.

3. Tutto questo impone un aggiornamento della teoria del garantismo penale, sulla base di una riflessione sulle sue fonti politiche e costituzionali di legittimazione e, per altro verso, sui giganteschi problemi generati dalla crisi della legalità penale, dai mutamenti della fenomenologia criminale nell’età della globalizzazione e dalle tensioni e i conflitti, aspri e velenosi, tra il potere giudiziario e i tanti poteri, politici ed economici, insofferenti della sua indipendenza.

A tal fine riproporrò e difenderò, nella prima parte di questo libro, il modello classico del diritto penale – il paradigma Beccaria, come l’hanno chiamato Philippe Audegean e Dario Ippolito – il cui abbandono da parte sia della legislazione che della giurisdizione è all’origine della svolta autoritaria, al tempo stesso illiberale e antisociale, del nostro sistema punitivo. Analizzerò innanzitutto le tre dimensioni cognitive del giudizio – l’interpretazione, la prova e l’equità – assicurate dalle garanzie penali e processuali al modello garantista del diritto e del processo penale. Mostrerò poi come questo modello è alla base della legittimità politica del diritto e della giurisdizione e sollecita, sul piano metodologico, un giuspositivismo critico finalizzato a identificare le leggi e le prassi con esso in contrasto e a progettarne il superamento. Criticherò, perché frutto di gravi equivoci epistemologici e contrarie alla separazione dei poteri e alla soggezione dei giudici alla legge, le varie dottrine del creazionismo giudiziario affermatesi con successo in questi anni. Analizzerò infine le forme e le ragioni della crisi del modello garantista, identificandone i principali fattori nella sua scomparsa o regressione nella cultura politica e nella pratica giudiziaria, nel dissesto della legalità penale quale limite all’arbitrio, nello sviluppo del populismo e delle sue opzioni per un diritto penale massimo, nella crescita abnorme delle misure e dei procedimenti ante o extra delictum e nel conseguente aumento delle forme di soggettivizzazione e di amministrativizzazione in senso classista del diritto penale.

Nella seconda parte proporrò una rifondazione del garantismo penale tramite il rafforzamento e l’ampliamento delle garanzie sostanziali e processuali in tema di reati, di pene e di processi e, insieme, mediante una ridefinizione e una riforma del ruolo e dei poteri del pubblico ministero. Illustrerò poi le garanzie ordinamentali e le regole deontologiche dirette ad assicurare l’imparzialità e l’indipendenza della funzione giudiziaria da qualunque altro potere e il ruolo progressista svolto dall’associazionismo giudiziario quale antidoto alle involuzioni burocratiche, settarie e corporative della magistratura. Infine criticherò, negli ultimi due capitoli, una triplice illusione e fallacia penalistica: l’idea che l’efficacia deterrente delle pene cresca con la loro durezza e, per altro verso, che il diritto penale sia il principale strumento di prevenzione dei delitti e la sola fonte di identificazione dei crimini. Contro queste illusioni sosterrò la necessità di una rifondazione non classista del sistema penale, quale diritto penale minimo, e di un suo ripensamento unitamente alle altre dimensioni del garantismo e ai ben più benefici sistemi non penali di prevenzione dei delitti e di garanzia dei diritti fondamentali: da un lato un garantismo sociale e politico in grado di ridurre le cause materiali sia della criminalità di sussistenza che di quella dei potenti; dall’altro un garantismo globale in grado di ridurre le cause, oltre che della criminalità transnazionale, anche delle altre violazioni criminali dei diritti umani e dei beni comuni che minacciano il futuro dell’umanità più ancora dell’insieme di tutti i delitti.

Il garantismo penale si rivelerà, perciò, solo un capitolo, e neppure il più importante, di una teoria generale del garantismo. Nato sul terreno dei delitti e delle pene, quale sistema di limiti all’arbitrio punitivo, il paradigma garantista si presta ad essere allargato, quale garantismo costituzionale, in due direzioni: da un lato nei confronti di qualunque potere, dall’altro a garanzia di qualunque diritto. Tutte le garanzie sono infatti limiti o vincoli, cioè divieti o obblighi logicamente implicati da quelle aspettative negative o positive nelle quali consistono tutti i diritti fondamentali – non solo i diritti di libertà, ma anche i diritti sociali – e normativamente imposti, dal loro rango costituzionale, all’esercizio di qualsiasi potere, sia giudiziario che politico, sia pubblico che privato, sia statale che sovrastatale. Di qui la centralità delle garanzie nella teoria della democrazia costituzionale e quindi anche nella teoria di un diritto penale costituzionalmente fondato. Tra garanzie e diritti il rapporto è di mezzi a fini. Se i diritti fondamentali sono i fini, le loro garanzie e le connesse funzioni e istituzioni di garanzia sono i mezzi. Senza i mezzi i fini non si realizzano. Senza garanzie i diritti restano sulla carta. Prendere sul serio i diritti fondamentali ed assumerli come vincolanti equivale, in tutti i settori del diritto incluso quello penale, a configurare come un obbligo l’introduzione e il rispetto delle loro garanzie. Ignorare tale obbligo equivale a non comprendere lo spirito del costituzionalismo.

Il garantismo può essere pertanto concepito come l’altra faccia – la faccia operativa ed attiva, per così dire – del costituzionalismo, dalla quale dipende interamente l’effettività dei principi costituzionalmente stabiliti. Esso si configura come la dimensione sostanziale della democrazia costituzionale, in opposizione sia alle ideologie populiste che identificano la democrazia con l’onnipotenza delle maggioranze, sia alle ideologie liberiste che identificano il mercato con un luogo di libertà anziché di relazioni asimmetriche di potere. Non ha quindi nulla a che vedere con le pretese di impunità e di limitazione dell’indipendenza della giurisdizione, a sostegno delle quali esso è dai poteri politici ed economici invocato e in questo senso perverso insostenibile. Esso è del resto incompatibile con qualunque forma di potere assoluto. Implica la soggezione alla legge di tutti i poteri, a tutela dei diritti di tutti. Designa l’insieme delle garanzie in grado di attuare in concreto, anche in materia penale, il principio di uguaglianza e i diritti fondamentali di tutti. È insomma tutt’uno con il paradigma della democrazia costituzionale, negato e capovolto nel suo contrario dal garantismo della disuguaglianza e del privilegio, che assicura l’impunità ai ricchi e ai potenti e promuove la disumanità nei confronti dei poveri e degli emarginati, destinati a pene draconiane, carcere duro e lesioni della loro dignità di persone.

Di qui la necessità di rifondare la teoria del garantismo penale e di proporre un conseguente progetto riformatore, all’interno di una teoria generale del garantismo in grado di superare la centralità associata ai processi e alle pene quali strumenti primari di difesa sociale. Il diritto penale è l’ultima e la più infelice delle tecniche di garanzia che i sistemi politici hanno il compito di assicurare ai diritti e alla sicurezza pubblica. Ben prima che con politiche penali, la criminalità si previene con politiche economiche e sociali e con adeguate riforme istituzionali. Ben più che con le pene, i diritti fondamentali, compresa l’immunità da ingiuste offese e da ingiuste punizioni, si garantiscono con potenti sistemi di garanzie sociali che la loro previsione costituzionale impone di introdurre insieme alle relative funzioni e istituzioni di garanzia. Esiste infatti una sinergia tra i diversi tipi di diritti e tra le loro diverse garanzie: ciascun diritto si giova dell’effettività degli altri e dall’ineffettività degli altri è indebolito. Il garantismo penale ha perciò il suo massimo sostegno nel garantismo sociale e in quello costituzionale, che richiedono a loro volta il sostegno di un garantismo di livello globale. Per molteplici motivi: perché è nella loro previsione costituzionale che le garanzie penali e processuali hanno il loro più solido fondamento; perché è dall’insieme delle garanzie di tutti i diritti fondamentali che soprattutto dipende la prevenzione dei crimini più gravi e la sicurezza delle persone in tutti i significati associabili a questo termine polisenso; perché infine l’umanità è sempre più integrata e interdipendente, accomunata dalla necessità delle medesime garanzie di libertà e di sopravvivenza contro le medesime sfide e le medesime aggressioni.

Oggi tutto questo dovrebbe essere evidente a causa del carattere transnazionale che hanno assunto i poteri che contano e le loro aggressioni alla civile e pacifica convivenza. Le tante carte internazionali dei diritti umani e le nuove violazioni dei diritti fondamentali e dei beni comuni, messe in atto dai poteri selvaggi degli Stati sovrani e dei mercati globali, impongono perciò la concreta estensione sia del costituzionalismo che del garantismo alla nuova geografia dei poteri disegnata dalla globalizzazione. Implicano – e non solo impongono – un garantismo che, in attuazione della logica universalistica del costituzionalismo e all’altezza delle nuove, catastrofiche sfide globali, si configuri quale sistema di limiti e vincoli ai poteri sovrastatali oltre che a quelli statali, ai poteri economici privati oltre che ai poteri politici pubblici, a garanzia dei beni vitali oltre che dei diritti fondamentali di tutti. Realizzare questo garantismo è un compito della politica. Disegnarne i lineamenti teorici è il compito primario della cultura giuridica.

1.
Giurisdizione e garantismo

1.1. Una definizione stipulativa del concetto teorico di giurisdizione Nella voce “giurisdizione”, scritta nel 1970 per l’Enciclopedia del diritto, Salvatore Satta esprimeva la propria diffidenza nei confronti dei tentativi di formulare una definizione di giurisdizione in grado di coglierne “gli infiniti aspetti”¹. La medesima tesi scettica era stata espressa, trenta anni prima, da Piero Calamandrei². Questa diffidenza e il conseguente rifiuto di una definizione sarebbero giustificati, secondo Satta, dal carattere sempre incompleto o parziale delle tante definizioni finora proposte, ciascuna delle quali coglie uno o più connotati essenziali, ma non tutti, del concetto di giurisdizione³.

Ho l’impressione che all’origine di questa diffidenza ci sia una sostanziale incomprensione della natura e del ruolo delle definizioni teoriche. Diversamente dalle definizioni lessicali dei termini normativi delle discipline giuridiche positive, ancorate alle regole d’uso stabilite dal legislatore, le definizioni dei termini teorici, quale è appunto “giurisdizione”, sono definizioni stipulative, il cui compito non è quello di cogliere il “vero” significato del termine da definire o di identificarne tutti “gli infiniti aspetti”, ma solo quello di stipularne una nozione quanto più possibile capace di dar conto, entro la teoria in costruzione, del fenomeno da esse designato⁴. Si spiega così la varietà delle definizioni proposte, ciascuna delle quali identifica, della giurisdizione, uno o più aspetti ritenuti essenziali – talora di carattere sostanziale, più spesso di carattere formale – entro la specifica teoria cui la definizione appartiene e che da tale teoria è supposta e richiesta come la più appropriata e feconda⁵.

La definizione di giurisdizione che qui proporrò non pretende quindi di cogliere tutti gli aspetti essenziali del fenomeno giurisdizionale, né tanto meno di essere una definizione vera e neppure completa. Non vuol essere, infatti, una definizione descrittiva che della giurisdizione pretenda di offrire una raffigurazione sulla base delle norme che ne regolano le molteplici forme, oppure sulla base di ciò che di fatto fanno i giudici, cioè delle loro pratiche applicative, argomentative, interpretative, probatorie e valutative. Al pari di tutte le definizioni teoriche, essa è semplicemente il frutto di una stipulazione, cioè di un’assunzione, siccome tale né vera né falsa ma solo dotata, entro la teoria del garantismo che a partire da essa sarà qui sviluppata, di una maggiore capacità esplicativa del ruolo della giurisdizione rispetto ad altre definizioni possibili e parimenti né vere né false.

Secondo questa definizione, “giurisdizione” è l’esercizio di una pubblica funzione, disciplinato da norme e consistente in un procedimento che si conclude con una decisione che risolve una controversia sulla base dell’accertamento dei suoi presupposti di fatto e di diritto⁶. Questa definizione identifica, della giurisdizione: a) il carattere di pubblico procedimento che termina con una decisione sulla fondatezza o meno di una data pretesa giudiziaria; b) la natura cognitiva, nelle sue molteplici dimensioni e significati che saranno illustrati nei paragrafi che seguono; c) l’oggetto dell’accertamento giudiziario, consistente nei presupposti giuridici e fattuali della decisione in ordine, per esempio nella giurisdizione penale, all’accettazione come vera o al rigetto come falsa della tesi che enuncia la responsabilità di una data persona per la commissione di un reato. Naturalmente, essendo la cognizione giudiziaria sempre imperfetta e relativa, il modello della giurisdizione espresso da questa definizione è un modello normativo limite, mai perfettamente realizzabile e, tuttavia, tanto più realizzabile quanto più rigoroso è il rispetto di un sistema adeguato di garanzie sostanziali e processuali, quali sono quelle che qui saranno illustrate.

Rientrano perciò, in questa nozione relativamente ristretta di giurisdizione, tutte le principali attività di solito da essa designate: dalla giurisdizione civile alla giurisdizione penale, dalla giurisdizione amministrativa alle giurisdizioni disciplinari, dalla giurisdizione costituzionale alle giurisdizioni internazionali. Non vi rientrano invece la giurisdizione arbitrale, affidata a soggetti privati anziché a organi pubblici, né gran parte della cosiddetta giurisdizione volontaria, di carattere appunto volontario anziché cognitivo. Come mostrerò più oltre, questa nozione di giurisdizione – non condivisa da gran parte della dottrina, a causa di molteplici equivoci epistemologici che criticherò nel capitolo terzo – è la più idonea a identificarne le fonti di legittimazione e a fondare l’intero edificio teorico del garantismo penale.

1.2. Tre dimensioni della cognizione giudiziaria: l’interpretazione, la prova, l’equità Dunque la giurisdizione consiste in una decisione sull’accettazione o meno come “vera” di un’ipotesi giudiziaria avanzata da un soggetto legittimato ad agire in giudizio. È perciò un sapere-potere, composto da un’attività cognitiva e da un’attività potestativa consistente nella decisione di accettare o rifiutare come plausibilmente vera la tesi, avanzata da una parte in causa, della commissione, per esempio, di una data violazione del diritto, cui conseguono gli effetti giuridici per essa predisposti dal diritto medesimo. Si capisce che quanto più ampio, in questa endiadi, è il sapere, tanto minore è il potere e tanto maggiore è la legittimazione giuridica e politica del giudizio; e viceversa.

Questo sapere-potere e, conseguentemente, quella che chiamiamo “verità processuale”, rappresentano, perciò, il tema più rilevante di ogni teoria del garantismo giudiziario. La loro analisi non è solo una questione di diritto processuale e neppure una questione di carattere soltanto giuridico. Essa è per un verso una questione epistemologica, forse la più rilevante questione epistemologica della scienza giuridica. Ma è anche, per altro verso, un tema di filosofia politica, riguardando una condizione essenziale dello stato di diritto e della separazione dei poteri: la massima limitazione possibile degli spazi di arbitrio del potere giudiziario, tramite idonee garanzie in grado di ancorare la giurisdizione all’accertamento quanto più possibile fondato della verità processuale.

Per comprendere le ragioni di questa centralità del problema della verità processuale nella teoria non solo del processo, ma anche dello stato di diritto e della democrazia, occorre muovere da una tesi elementare troppo spesso trascurata. L’applicazione della legge, nella giurisdizione, non è solo formale, cioè relativa alle forme delle decisioni giudiziarie, ma è anche sostanziale, cioè relativa ai loro contenuti, consistendo nel raggiungimento della “verità” processuale, quali che siano i criteri in base ai quali accettiamo o rifiutiamo una tesi giudiziaria come “vera”⁷. A differenza delle altre attività giuridiche, l’attività giurisdizionale, in uno stato di diritto, è infatti un’attività conoscitiva oltre che pratica e prescrittiva. Precisamente, è un’attività prescrittiva che ha come fondamento una motivazione di tipo cognitivo, argomentata come plausibilmente vera. Le leggi, i regolamenti, i provvedimenti amministrativi e i negozi privati sono tutti atti esclusivamente precettivi, né veri né falsi, la cui validità giuridica dipende dall’applicazione delle norme procedurali sulla loro formazione e la cui legittimità politica dipende non già da una qualche verità, ma nel caso degli atti pubblici dalla loro idoneità a soddisfare gli interessi generali e/o dalla loro aderenza alle volontà e agli interessi rappresentati e, nel caso dei negozi privati, dall’autonomia dei loro autori nel perseguimento dei loro personali interessi.

Le sentenze, invece, sono decisioni la cui validità giuridica e prima ancora la cui giustizia dipendono dalla “verità” delle loro motivazioni. Si diranno non solo valide ma anche giuste se e solo se sono ritenute plausibilmente “vere” le loro motivazioni in fatto e in diritto. Questa verità è mediata dalla legge, nel senso che ciò che il giudice deve accertare come “vero” è ciò che la legge predispone come oggetto del giudizio. Cognizione giudiziaria e applicazione della legge sono perciò espressioni equivalenti. Non c’è giurisdizione, infatti, ove non ricorra l’accertamento dei presupposti del suo esercizio consistente in un’applicazione sostanziale della legge. Così come, inversamente, non c’è politica, né legislazione, né amministrazione in assenza di discrezionalità quanto ai contenuti delle decisioni, non già predeterminati ma solo vincolati all’applicazione formale delle norme sulla loro formazione e al rispetto di tutte le norme ad essi sopraordinate⁸. Si capisce come questa natura cognitiva della giurisdizione è la principale garanzia, in materia penale, di quello specifico diritto fondamentale che è l’immunità della persona incolpevole da punizioni arbitrarie. Infine, come vedremo nel prossimo capitolo, essa rappresenta, nello stato di diritto, il principale fondamento teorico della legittimazione della giurisdizione, della separazione dei poteri e dell’indipendenza del potere giudiziario da qualunque altro potere.

Distinguerò tre dimensioni di questo sapere-potere nel quale consiste la giurisdizione. Parlerò in primo luogo della verità giuridica, quale verità soltanto opinabile prodotta dall’interpretazione operativa⁹ della legge, la quale opera fin dall’inizio del processo cognitivo, quando i fatti oggetto del giudizio, ancor prima che accertati empiricamente, vengono ipotizzati come rilevanti sulla base delle norme che li prevedono. Parlerò poi della verità fattuale, quale verità soltanto probabilistica raggiunta mediante le prove, cioè tramite l’induzione probatoria. Infine parlerò della valutazione equitativa, corrispondente a una terza dimensione della giurisdizione, di solito ignorata, che riguarda la comprensione della singolarità irripetibile del fatto sottoposto al giudizio¹⁰.

1.3. L’interpretazione. Verificabilità e falsificabilità, in forza del principio di stretta legalità Da quale fonte devono provenire i parametri della verità giuridica? Dai precedenti giudiziari, dalla dottrina, dalle consuetudini consolidate e dal senso di giustizia dei giudici, oppure da un testo scritto di diritto positivo, quale è la legge preesistente al giudizio?

Queste due diverse risposte alle nostre domande corrispondono, grosso modo, a due diverse fasi della storia del pensiero e delle istituzioni giuridiche. La prima risposta è quella offerta dal diritto giurisprudenziale premoderno, quando il diritto applicato dai giudici era formato non soltanto e neppure prevalentemente dalle leggi ma anche e soprattutto dai precedenti, dalla dottrina giuridica e da quello che veniva ritenuto il “diritto naturale”. La seconda risposta è quella offerta dal diritto moderno basato sul principio di legalità, in forza del quale la qualificazione giuridica dei fatti sottoposti al giudizio è affidata alla legge e perciò nessuno, in materia penale, può essere punito se non per un fatto che dalla legge sia stato previamente previsto come reato.

L’affermazione di questo principio ha cambiato la natura del diritto, le cui fonti non consistono più nelle precedenti sentenze dei giudici e nelle tesi della dottrina, bensì nell’autorità del legislatore, cioè nella predeterminazione legale, prima dello svolgimento del giudizio, e specificamente del giudizio penale, di ciò che è punibile o comunque giuridicamente rilevante. Si è trattato di un vero mutamento di paradigma. Ricordiamo le parole di Hobbes, “non è la sapienza, ma l’autorità che crea la legge”, nel Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune d’Inghilterra, in opposizione a quelle del giurista, sir Edward Coke, “non è legge ciò che è contrario alla ragione”¹¹. Auctoritas, non veritas facit legem, è la classica formula hobbesiana¹², alternativa all’opposta massima giusnaturalista veritas non auctoritas facit legem, in forza della quale è la verità, dettata dal diritto naturale e dalla sapientia iuris, e non l’autorità del sovrano, che fonda la legge.

Allora aveva ragione il giurista, dato che la dottrina del diritto naturale era la teoria del diritto allora vigente, laddove la massima hobbesiana esprimeva il progetto della positivizzazione del diritto e del monopolio statale della produzione giuridica. Veniva infatti formulato, con quella massima, il moderno principio di legalità, quale limite e vincolo al potere giudiziario e quale garanzia fondamentale della certezza del diritto e, con essa, dei diritti della persona contro l’arbitrio dei giudici. L’opposta massima giusnaturalista, secondo cui veritas non auctoritas facit legem, affidava invece la “veritas” delle pronunce giudiziarie – quella che nel Dialogo hobbesiano veniva chiamata “ragione legale” o “summa ratio” – alla sapienza del giudice, cioè alle sue opzioni e al suo senso di giustizia¹³, risolvendosi di fatto nel principio auctoritas, non veritas facit iudicium. Al contrario, è solo il principio giuspositivista di legalità auctoritas, non veritas facit legem, in forza del quale la legge prefigura esattamente i fatti da essa denotati come reati, che rende realizzabile l’opposta massima garantista veritas, non auctoritas facit iudicium e trasforma il giudizio nell’accertamento fattuale e nella qualificazione giuridica dei fatti dalla legge prefigurati¹⁴. Il cognitivismo giudiziario suppone dunque il positivismo giuridico, cioè il volontarismo e l’anti-cognitivismo delle norme da applicare; mentre il preteso cognitivismo normativo, in assenza di criteri cui ancorare la supposta fondazione oggettiva delle norme, comporta il volontarismo e il creazionismo giudiziario.

Ma è chiaro che non basta la previsione legale del fatto sottoposto al giudizio a impedire l’arbitrio dei giudici. Sono necessarie, a tal fine, altre due condizioni. La prima riguarda la semantica del linguaggio delle leggi. Le leggi possono essere sostanzialmente in bianco. È ben possibile, per esempio, che la legge consenta che sia dichiarato punibile chiunque contravvenga ai precetti del sovrano quali che siano; oppure che taluno sia dal giudice ritenuto reo perché stigmatizzabile, in base alla legge, come soggetto pericoloso o sospetto, o perché ritenuto autore di vaghe e imprecisate azioni devianti configurate dalla legge come reati. È necessario che il legislatore formuli i presupposti di fatto della pena in un linguaggio quanto più possibile chiaro e preciso, onde sia ridotta al massimo l’incertezza della loro interpretazione.

La seconda condizione, innestata nello stato di diritto dalle costituzioni rigide, consiste nell’ancoraggio della validità delle norme di legge alla coerenza con le norme costituzionali, e perciò al rispetto dei principi da queste espressi, come il principio di uguaglianza, quello della pari dignità di tutti gli esseri umani e i loro diritti fondamentali. Ove un testo normativo ammetta più interpretazioni, il giudice ha il compito di escludere, perché invalide, quelle in contrasto con la costituzione, di prescegliere quella più coerente con i principi costituzionali e di eccepirne l’incostituzionalità ove qualunque plausibile interpretazione sia con essi incompatibile.

Non è quindi sufficiente, perché delle tesi giudiziarie si possa predicare plausibilmente la verità, quello che possiamo chiamare principio di mera legalità, che è una regola rivolta ai giudici ai quali preclude la punizione di fatti non previsti dalla legge come reati. È altresì necessario, a tal fine, quello che chiamiamo principio di stretta legalità, che è una regola semantica di formazione della lingua penale rivolta al legislatore, al quale impone da un lato la coerenza con le norme costituzionali e perciò il rispetto dei principi in esse stabiliti e, dall’altro, l’uso di termini dotati di connotazione empirica esattamente determinata onde sia possibile, in sede di giudizio, la massima verificabilità e falsificabilità giuridica delle ipotesi di reato da tali termini denominate. È dalla semantica del linguaggio legale che dipende l’identificazione del fatto da provare, cioè l’oggetto della prova. Se la legge si esprime in termini vaghi, equivoci o polisensi – come “maltrattamenti”, “vilipendio”, “atti osceni”, “associazione sovversiva”, “pericolosità sociale” o simili – si apre la strada all’arbitrio, dato che le ipotesi accusatorie risultano infalsificabili e il giudizio si trasforma da cognitivo in potestativo. Utilizzando la nota distinzione di Frege tra l’“estensione” o “significato estensionale” di un segno, che consiste nell’insieme degli oggetti da esso denotati, e la sua “intensione” o “significato intensionale”, che consiste nell’insieme delle proprietà connotate dal segno e possedute dagli oggetti che rientrano nella sua estensione¹⁵, diremo che la stretta legalità impone che i nomina iuris utilizzati dal legislatore per denominare le figure di reato siano dotati di intensione quanto più possibile precisa onde la loro estensione sia quanto più possibile determinata, sicché i fatti da essi denotati siano chiaramente identificabili sulla base dei loro connotati legali e ne sia perciò possibile la prova o la smentita empirica.

Possiamo caratterizzare le garanzie sostanziali come le regole che assicurano al massimo grado, a livello legale, la verificabilità e la falsificabilità in astratto delle ipotesi giudiziarie. La più importante di queste regole è quella appena menzionata della stretta legalità, che impone al legislatore l’uso di termini di cui sia possibile l’uso, grazie alla precisione della loro intensione e alla determinatezza della loro estensione, come predicati dei fatti empirici da essi denotati in proposizioni giudiziarie plausibilmente “vere”. È poi evidente che la tassatività delle denotazioni richiesta dalla stretta legalità può essere garantita, in materia penale, solo dal loro riferimento a fatti empirici determinati, quale risulta da tutte le altre garanzie penali sostanziali: dalla materialità dell’azione, dall’offensività dell’evento e dalla responsabilità dell’autore. Naturalmente si tratta di una tassatività sempre relativa, sicché la verità giuridica raggiunta con l’interpretazione è sempre più o meno opinabile e richiede quindi una decisione argomentata in ordine alla scelta interpretativa ritenuta più plausibile.

Aggiungo che il principio di stretta legalità – cioè la tassatività e la determinatezza delle norme quali condizioni della verificabilità e della falsificabilità giuridica delle tesi giudiziarie – non è solo il maggior limite all’arbitrio e perciò la prima garanzia dell’immunità delle persone da decisioni infondate. Non è solo una condizione della libertà delle persone. È anche una fondamentale condizione della loro uguaglianza di fronte alla legge. Infatti, non siamo uguali di fronte alla legge se la legge è a tal punto indeterminata da consentire, a seconda dei diversi giudici e giudizi, interpretazioni operative opposte, come per esempio, in materia penale, sia la condanna per un fatto qualificato da un giudice come reato che l’assoluzione per il medesimo fatto che, a parere di un giudice diverso, non costituisce reato.

1.4. La prova. Conferma per modus ponens e confutazione per modus tollens Anche a proposito dell’accertamento della verità fattuale si è verificato, con il processo moderno, un mutamento di paradigma rispetto al vecchio processo inquisitorio: il riconoscimento del carattere sempre relativo e solo probabilistico delle prove giudiziarie, non a caso simultaneo alla rivoluzione epistemologica avvenuta negli stessi anni in materia di conoscenza empirica. Questa rivoluzione è consistita nella scoperta che tutte le verità empiriche sono frutto di induzione, e non di deduzione, e sono sempre, perciò, verità relative, delle quali è sempre possibile ipotizzare la falsità. Soltanto le verità delle tesi della logica o della matematica sono assolutamente certe. Ma lo sono perché tautologiche rispetto alle premesse da cui sono derivate.

È un mutamento di paradigma non meno radicale di quello prodottosi, in tema di verità giuridica, con l’affermazione del principio di legalità. Il diritto premoderno era informato all’idea che fosse possibile raggiungere, nel processo, una verità oggettiva e assoluta. È l’illusione che è sempre alla base dell’epistemologia inquisitoria: l’idea che il giudice inquirente possa pervenire a una verità assolutamente certa e oggettiva, grazie alla concezione dell’accertamento della verità fattuale come deduzione. Questa concezione fu resa possibile dalla configurazione delle prove giudiziarie come prove legali, così chiamate perché giuridicamente fornite, ciascuna, di un grado di rilevanza probatoria quantificato dal diritto medesimo: la confessione, per esempio, equivaleva a una prova piena, la testimonianza a una mezza prova in grado di diventare prova piena se confermata da altre testimonianze. Erano stati elaborati dei veri tariffari delle prove – si pensi ai molti trattati cinquecenteschi e secenteschi, come quello esemplare di Flaminio Cartari¹⁶ – che assegnavano un coefficiente probatorio a ciascun tipo di prova. In questo modo il giudizio di colpevolezza veniva a trasformarsi in una deduzione dalle prove raccolte: se ricorrono la confessione dell’imputato, oppure due o più testimonianze concordi, o comunque un numero di prove il cui grado probatorio complessivo è uguale a uno, allora l’imputato è colpevole e deve essere condannato; altrimenti deve essere assolto.

Naturalmente tutto questo è assurdo. Fu un merito del pensiero illuminista l’archiviazione di questo metodo probatorio, soppresso formalmente, insieme alle prove legali, negli anni della Rivoluzione francese con i decreti dell’8-9 ottobre 1789 e del 16-19 settembre 1791. Si deve a Locke, a Leibniz e soprattutto a Hume, e sul piano della teoria del processo a Gaetano Filangieri, a Mario Pagano e a Giovanni Carmignani¹⁷, il riconoscimento del carattere induttivo e non deduttivo e perciò soltanto probabilistico di qualunque verità empirica, inclusa la verità processuale fattuale; la quale non può mai essere dimostrata, come avviene con le tesi della logica e della matematica, ma solo provata, cioè confermata da prove. In forza di questo carattere induttivo della verità fattuale, una tesi accusatoria può essere accettata come vera solo se coerente, per modus ponens, con molteplici prove e non contraddetta, per modus tollens, da nessuna controprova: dove il modus ponens e il modus tollens consistono nell’induzione probatoria, con l’ausilio di massime d’esperienza, l’uno delle conferme e l’altro della smentita dell’ipotesi da provare.

È chiaro che la conoscenza così raggiunta non è né oggettiva né certa, ma solo opinabile sul piano giuridico e probabile sul piano fattuale. Con la conseguenza che si richiedono decisioni argomentate sulla verità delle tesi giudiziarie, formulate sulla base sia dell’interpretazione della legge che della valutazione delle prove. Sono tuttavia le garanzie, sia sostanziali che processuali, che possono ridurre la discrezionalità di tali decisioni. Le garanzie sostanziali, infatti, altro non sono che la traduzione in norme giuridiche delle regole linguistiche di una rigorosa semantica della lingua legale, mentre quelle processuali lo sono delle regole epistemiche della logica induttiva. Le prime sono rivolte alla legislazione, le seconde alla giurisdizione¹⁸. Sia le une che le altre operano quindi non solo come garanzie di libertà, ma anche come garanzie di verità contro l’arbitrio. Per questo, come mostrerò nel prossimo capitolo, esse rappresentano altrettante fonti di legittimazione della giurisdizione.

Precisamente, mentre le garanzie sostanziali, prima tra tutte la stretta legalità o tassatività, sono le regole che a livello legislativo, come si è detto nel § 1.3, assicurano al massimo grado la verificabilità ela falsificabilità giuridica o in astratto delle ipotesi giudiziarie, le garanzie processuali sono le regole che assicurano al massimo grado, a livello giurisdizionale, la verificazione o la falsificazione fattuale o in concreto delle medesime ipotesi. Se infatti una tesi è vera, allora sono molte ed eterogenee – come accade in maniera esemplare nelle conclusioni dei libri gialli – le conferme in grado di suffragarla, senza che ne ricorra alcuna smentita, come accade invece, ad opera delle prove raccolte, per altre ipotesi ad essa alternative. Diremo perciò che la prova di un’ipotesi d’accusa è sufficiente solo se ricorrono, a suo sostegno, tre condizioni suffragate da una motivazione adeguata: a) in primo luogo una pluralità quanto più ampia possibile di conferme per modus ponens, da cui è soddisfatto l’onere della prova; b) in secondo luogo la mancanza anche di una sola smentita per modus tollens, con cui è esercitato il diritto di difesa; c) in terzo luogo la maggiore plausibilità dell’ipotesi accusatoria rispetto a tutte le ipotesi esplicative ad essa alternative¹⁹.

Sono i tre momenti della logica induttiva che comunemente fanno parte del medesimo ragionamento ma che, nella trasposizione scenica del processo, corrispondono a tre ruoli processuali diversi, che un’epistemologia garantista impone che siano tenuti rigorosamente separati, perché espressioni di interessi e funzioni diverse e contrapposte in capo ai tre protagonisti del processo. In primo luogo la separazione tra giudice e accusa, che è un tratto caratteristico del processo accusatorio e richiede la netta distinzione delle loro funzioni e delle loro carriere onde sia assicurato il corretto accertamento della verità processuale, tramite la parità delle parti e l’imparzialità del giudice nella valutazione delle prove che è onere dell’accusa produrre e diritto della difesa confutare. In secondo luogo la separazione tra accusa e difesa, che esclude il coinvolgimento dell’imputato nella raccolta di prove a suo carico e impone la garanzia del suo diritto al silenzio, nonché il non ricorso a riduzioni di pena o all’uso della custodia cautelare quali strumenti per ottenere confessioni o chiamate in correità. In terzo luogo la separazione tra difesa e giudice, che impone il più ampio potere di ricusazione del secondo da parte della prima, ove nel secondo non abbia fiducia, ed esclude qualunque interesse personale del giudice all’esito del processo. La raffigurazione scenica di questi tre ruoli – diversi, tra loro separati e non confondibili – è ben offerta dall’art. 111, 2° comma della Costituzione italiana, secondo cui “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale”. Tutte le garanzie processuali sono dirette a realizzare e a salvaguardare queste tre separazioni sulle quali si basa il metodo accusatorio di accertamento della verità processuale.

Per quanto perfezionato sia il sistema delle garanzie, restano peraltro limiti intrinseci e irriducibili all’accertamento della verità processuale, che fanno di questa una verità comunque relativa e approssimativa perché probabilistica in fatto e opinabile in diritto²⁰. Ma questo, come mostrerò nel capitolo terzo, non giustifica la fuga nello scetticismo cognitivo, e perciò nel creazionismo giudiziario, così come non giustifica la fuga nell’irrazionalismo il riconoscimento del carattere relativo e probabilistico di qualunque tesi empirica, sia essa scientifica o storiografica. Al contrario, il carattere inevitabilmente relativo della verità processuale comporta due conseguenze all’apparenza opposte: l’etica del dubbio quale abito deontologico del giudice e, insieme, la necessità che l’impossibile certezza oggettiva sia compensata da quel suo debole ma indispensabile surrogato che è la certezza soggettiva, cioè il cosiddetto “libero convincimento del giudice”. L’espressione “libero convincimento” può risultare fuorviante. Come ha scritto Perfecto Andrés Ibáñez, con essa non si vuol “dare copertura alla discrezionalità incontrollata” e al “decisionismo immotivato” e arbitrario²¹. Esattamente al contrario, il convincimento del giudice, “libero” perché non vincolato a prove legali, deve essere accompagnato dalla consapevolezza epistemologica che è sempre possibile l’errore e adeguatamente motivato da valutazioni delle prove che soddisfino le tre condizioni più sopra enunciate.

I limiti della verità processuale generano pertanto una specifica responsabilità della cultura giuridica e della legislazione: il dovere di elaborare e di istituire un sistema di garanzie idoneo a ridurre, anche se non a eliminare, i possibili errori e gli inevitabili spazi di arbitrio aperti alla decisione sull’accettazione come “vere” delle conclusioni giudiziarie. Sono in gioco la legittimazione della giurisdizione e, con essa, la separazione dei poteri. Accade purtroppo che taluni orientamenti teorici, che non meriterebbero di essere discussi se non esercitassero un’inspiegabile influenza, perseguano l’obiettivo esattamente opposto. Ricorderò quello che mi pare il più bizzarro. Muovendo dalla strana tesi che negli Stati Uniti “gli indici di detenzione e di pena sono estremamente bassi” a causa delle troppe “false assoluzioni” (oltre 2 milioni di detenuti!), Larry Laudan sostiene che per ridurre il numero dei delitti occorrerebbe “un maggior numero di condanne”²². E propone a tal fine, accreditandoli con ragioni di carattere “epistemologico”, metodi più sbrigativi di valutazione delle prove, senza quelli che chiama “ostacoli” e che sono invece elementari garanzie processuali: l’abbassamento del grado di probabilità associato a un’ipotesi accusatoria perché la si ritenga provata; l’abbandono del criterio espresso dalle parole “al di là di ogni ragionevole dubbio” a favore di un misterioso criterio o “standard oggettivo”, che ovviamente richiama l’antico metodo delle prove legali; l’indebolimento per i recidivi della presunzione di innocenza; la negazione del diritto dell’indagato al silenzio, a favore del principio opposto del suo dovere di collaborare con l’accusa; l’eliminazione dell’inammissibilità delle prove formate illecitamente a favore dell’opposto principio della loro ammissibilità, incluse quelle raccolte senza garanzie di difesa dalle indagini di polizia. Tre secoli di conquiste garantiste vengono così ignorati e sacrificati alle ragioni di un’insensata efficienza repressiva²³.

1.5. L’equità. La comprensione equitativa della singolarità del caso C’è infine una terza dimensione conoscitiva della giurisdizione, a mio parere fondamentale sul piano epistemologico, sostanzialmente ignorata dalle teorie correnti e troppo spesso violata dall’esercizio burocratico del potere giudiziario. È la dimensione equitativa, che dovrebbe essere presente in qualunque giudizio, dato che riguarda il rapporto tra l’universalità delle norme applicate e la singolarità dei casi concreti che sono oggetto del giudizio. La sua analisi si rivelerà decisiva, nel capitolo terzo, ai fini della critica delle concezioni creazioniste della giurisdizione e, in particolare, delle tesi sulla ponderazione dei principi normativi. Per comprenderne il significato e la portata, è utile ricordare il paradosso generato dalla sua totale negazione nel codice penale francese del 1791, il cui art. 3, in nome di un assurdo principio di uguaglianza legale, stabilì per ciascun tipo di reato pene fisse e invariabili, senza consentire al giudice nessuna possibilità di graduarle a seconda della gravità del fatto concretamente commesso. Ma anche dopo il superamento di questa assurdità la dimensione equitativa del giudizio è rimasta incompresa.

In che cosa consiste l’equità? Nella nostra tradizione filosofica, il rapporto tra legalità ed equità, tra astrattezza della norma e singolarità del caso concreto è stato sempre concepito come un rapporto di opposizione, o quanto meno di integrazione o di correzione extra-legale: l’equità, quale giustizia del caso concreto, sarebbe contrapposta alla dura legalità espressa dalle regole generali ed astratte. È ad Aristotele che risale questa concezione dell’equità come rimedio all’astrattezza della legge richiesto dalla concretezza del caso giudicato. Ciò che è equo, ovvero “conveniente”, egli scrive nell’Etica Nicomachea, “è pur giusto, ma non secondo la legge, bensì è come un correttivo del giusto legale. La causa è che ogni legge è universale, mentre non è possibile in universale prescrivere rettamente intorno ad alcune cose particolari... Quando dunque la legge parli in generale, ma in concreto avvenga qualcosa che non rientri nell’universale, allora è cosa retta il correggere la lacuna là dove il legislatore ha omesso ed errato, parlando in generale: e ciò direbbe anche il legislatore stesso se fosse presente colà, e se avesse previsto la cosa, l’avrebbe regolata nella legge... Questa è appunto la natura del conveniente, di correggere la legge là dove essa è insufficiente a causa del suo esprimersi in universale”²⁴.

Ciò che ho sempre trovato insostenibile in questa concezione aristotelica dell’equità – ripresa da Hobbes, da Muratori, da Genovesi, da Kant e da Hegel e giunta fino a noi con le tesi di Perelman e di Bobbio e poi con l’approccio ermeneutico inaugurato da Gadamer – è l’opposizione tra equità e legalità, basata sull’idea che la forma universale, cioè generale e/o astratta delle norme, comporterebbe una loro “lacuna” o “insufficienza”, o addirittura una “omissione” o un “errore” rispetto a cui l’equità sarebbe “un correttivo”²⁵. Ne risulta una concezione dell’applicazione equitativa della legge al caso concreto – pur basata sul dato strutturale che è proprio delle leggi “prescrivere in generale” e dei giudizi decidere sui casi particolari che “non basterebbe una vita a precisare”²⁶ – come un’operazione non intra-, ma extra- o ultra- o addirittura contra legem.

Io credo che possiamo superare questa singolare opposizione tra legalità ed equità, tra universalità della legge e particolarità del caso sottoposto al giudizio con una tesi elementare: tra legge e sentenza, tra legislazione e giurisdizione, tra diritto vigente e diritto vivente, tra law in books e law in action, tra previsione normativa in astratto e qualificazione giuridica del caso concreto c’è lo stesso rapporto che c’è tra lingua e linguaggio, ovverosia, per usare il lessico di Ferdinand de Saussure, tra langue e parole²⁷. La legislazione crea la lingua nella quale sono formulati gli enunciati legislativi: stabilisce le regole d’uso, per esempio, delle parole ‘furto’, o ‘truffa’ o ‘comodato’ enunciandone gli elementi costitutivi. La giurisdizione fa uso della lingua legale per nominare, nel linguaggio operativo e specificamente giudiziario, i fatti sottoposti al giudizio: nei nostri esempi, per chiamare tali fatti ‘furto’, o ‘truffa’ o ‘comodato’ o simili. Nel linguaggio giurisdizionale impiegato nella prassi giudiziaria, e più in generale nel linguaggio utilizzato in qualunque pratica giuridica, si fa uso della lingua legale, cioè delle regole d’uso delle parole definite dalla legge, per denotare un’infinità di fatti tutti diversi l’uno dall’altro, esattamente nello stesso modo in cui, nel linguaggio comune, si fa uso della lingua nella quale si parla per denotare con le stesse parole innumerevoli fatti o cose tra loro differenti.

Questa configurazione del rapporto tra norma generale ed astratta e qualificazione normativa del caso concreto come rapporto tra lingua e linguaggio consente una ricostruzione alternativa del rapporto tra norme e fatti in grado di dar conto, al tempo stesso, sia della verità giuridica delle tesi giudiziarie e della soggezione del giudice alla legge, senza né deroghe né correttivi né ponderazioni, sia della centralità del caso concreto e della sua valutazione nel momento del giudizio. Si prenda una sentenza penale di condanna per il reato di furto. “Furto” è il termine della lingua legale che, come nei dizionari, è definito in astratto dalla legge ed è utilizzato, nel linguaggio giudiziario, per denominare tutti i fatti che presentino i connotati essenziali o gli elementi costitutivi del furto denotati dalla sua definizione legale. Ma la qualificazione come furto del fatto sottoposto al giudizio non esaurisce l’attività conoscitiva della giurisdizione. Il giudice non giudica il furto in astratto, ma i concreti furti che accadono nella vita reale e che – al di là della loro qualificazione normativa, cioè dei connotati del concetto legale di furto da tutti posseduti – sono irriducibilmente diversi l’uno dall’altro. Ciascun (caso di) furto presenta infatti, oltre ai tratti previsti dalla legge, connotati o circostanze singolari che il giudice ha il compito di comprendere e valutare, pur se essi non sono previsti e soprattutto non sono prevedibili dalle norme che, della parola “furto”, dettano le regole d’uso.

È in questa comprensione e valutazione che consiste l’ineludibile dimensione equitativa del giudizio, la quale richiede un’argomentazione ulteriore e diversa dall’argomentazione delle scelte interpretative e delle valutazioni probatorie. L’argomentazione interpretativa, al pari dell’argomentazione dottrinaria, riguarda infatti il significato delle norme da cui dipende, sul piano operativo, la verità giuridica delle qualificazioni normative. L’argomentazioneprobatoria, a sua volta, riguarda l’esistenza o meno di prove credibili a sostegno della commissione del fatto sottoposto al giudizio e della responsabilità del suo autore. L’argomentazione equitativa riguarda invece gli specifici connotati che fanno del caso concreto, empiricamente provato e giuridicamente qualificato, un caso sempre diverso da tutti gli altri, pur accomunati dagli stessi connotati legali e nominati dagli stessi nomina iuris. Diversamente dall’argomentazione interpretativa e analogamente a quella probatoria, essa si riferisce ai fatti, e non alle norme; tanto è vero che è assente, come quella probatoria, nell’argomentazione dottrinaria, la quale si riferisce sempre e solo alle norme, e non certo ai fatti concreti che formano volta a volta l’oggetto dei giudizi.

Riprendendo la già ricordata distinzione di Frege tra significato estensionale di un termine, consistente nella classe degli individui da esso denotati, e significato intensionale, consistente nell’insieme delle proprietà da esso connotate, diremo che la legalità di una tesi giudiziaria risiede nella verità giuridica della denotazione del fatto sottoposto al giudizio con le parole connotate dalla legge, mentre la sua equità consiste nella valutazione del medesimo fatto sulla base dei suoi connotati singolari e irripetibili. Sia il furto di un diamante che il furto di una mela rientrano parimenti nell’estensione della parola “furto”, in quanto presentano entrambi i connotati o gli elementi costitutivi con cui la legge denota il reato di furto; ma chiaramente sono diversi i connotati singolari dei due fatti e, in generale, degli infiniti fatti denotati dalla parola “furto” negli infiniti giudizi penali. Diremo perciò che il giudice denota ciò che la legge connota e connota ciò che la legge denota; mentre la legge connota ciò che il giudice denota e denota ciò che il giudice connota²⁸. Il giudice, infatti, denota i fatti sottoposti al suo giudizio con i nomina iuris connotati dalla legge ove di tali connotati ritenga provata l’esistenza. Ma di quei medesimi fatti deve altresì identificare, comprendere e valutare, al di là della loro denotazione legale, i connotati specifici e singolari che sono volta a volta rilevanti ai fini del giudizio, pur non essendo né potendo essere previsti dalla legge perché sono diversi da caso a caso. Anche nel linguaggio ordinario noi denotiamo con le parole della lingua ciò che i dizionari connotano con le loro definizioni e, insieme, ci riferiamo e siamo interessati ai connotati sempre diversi e singolari di ciò di cui parliamo.

Per questo non ha senso contrapporre legalità ed equità, verificazione legale e comprensione equitativa, sussunzione e concretizzazione della legge come se l’una possa darsi separatamente o addirittura alternativamente all’altra. Per questo l’equità non consiste in un’integrazione straordinaria della legalità, o in una deroga o in una correzione dell’“errore della legge”, come scrisse Aristotele, e neppure in un suo “mezzo di completamento”²⁹ o nell’“adattamento della legge generale e astratta alle singolarità dei fatti” e “alle peculiarità del caso”³⁰, più di quanto il nostro linguaggio parlato non consista in una deroga, o in una correzione, o in un perfezionamento della lingua nella quale parliamo o in un suo adattamento a ciò che diciamo. Essa non è quindi un’integrazione straordinaria, ma una dimensione ordinaria e inderogabile di qualunque giudizio. Consiste, semplicemente, nella comprensione e nella valutazione delle circostanze singolari e irripetibili che fanno di ciascun caso, di ciascuna vicenda sottoposta al giudizio un caso e una vicenda irriducibilmente diversa da qualunque altra, pur se l’uno e l’altra sussumibili – per esempio il furto di una mela come il furto di un diamante – nella medesima fattispecie legale. Giacché ogni fatto è diverso da qualunque altro, e i giudici, e ancor prima i pubblici ministeri, giudicando il fatto concreto sottoposto al giudizio e non la loro astratta figura, non possono sottrarsi alla comprensione equitativa degli specifici e irripetibili connotati che lo differenziano da qualunque altro. È pur vero che i codici penali prevedono attenuanti e aggravanti per meglio connotare ciascun fatto da essi previsto come reato. Ma nessun insieme di circostanze normative è sufficiente a sostituire la dimensione equitativa del giudizio, legata all’infinità dei connotati di ciascun fatto, ognuno dei quali impone al giudice il dovere di valutarne la complessità e la singolarità alla luce dei valori costituzionali. È poi evidente che la comprensione del contesto, delle concrete circostanze e delle ragioni singolari del fatto giudicato comporta sempre un atteggiamento di indulgenza, soprattutto a favore dei soggetti più deboli, la cui debolezza è un connotato non trascurabile delle loro vicende sottoposte al giudizio.

1.6. Le tentazioni della verità assoluta Il modello qui illustrato della giurisdizione quale attività cognitiva di applicazione della legge è un modello teorico e normativo, largamente contraddetto dai larghi spazi di discrezionalità generati dalla debolezza delle garanzie dei nostri sistemi giudiziari. Come si vedrà nel prossimo capitolo, questo modello-limite rappresenta la principale fonte di legittimazione di qualunque giurisdizione. Nel diritto penale la sua attuazione svolge un ruolo insostituibile di garanzia delle libertà fondamentali contro abusi e punizioni arbitrarie. D’altro canto, esso non garantisce affatto il raggiungimento di una verità assoluta, ma solo di una verità relativa, probabilistica in fatto e opinabile in diritto, il cui banco di prova è la falsificabilità delle ipotesi giudiziarie nel contraddittorio tra le parti. Di qui il carattere inevitabilmente imperfetto della legittimazione dell’attività giurisdizionale.

Il principio generale della logica induttiva, secondo cui non sono raggiungibili verità empiriche assolute ma soltanto verità relative plausibilmente argomentate, va peraltro affermato e difeso a proposito dell’induzione processuale probatoria, contro insensate pretese di assolutezza, ancor più di quanto lo sia con riguardo a qualunque altra induzione empirica, a cominciare dalle induzioni operate nelle scienze naturali o nella storiografia. Le tesi giudiziarie, diversamente dalle tesi scientifiche e da quelle storiografiche, sono infatti le più refrattarie alla falsificazione, le più esposte alla forza del pregiudizio e per di più, se formulate nell’ultimo grado del processo, non sono modificabili bensì consacrate dal carattere definitivo della cosa giudicata. Assai più delle ipotesi scientifiche e di quelle storiografiche, che il gusto della ricerca e della scoperta porta costantemente a mettere in discussione, le ipotesi giudiziarie, soprattutto se rese pubbliche dai media, tendono a resistere alle confutazioni e a rendersi impermeabili al dubbio. Il rischio, nell’investigazione processuale, è che si inizi andando alla ricerca spregiudicata della verità, cioè delle conferme delle proprie ipotesi investigative, e si termini difendendo comunque la verità delle proprie ipotesi originarie.

È su questo rischio, sempre immanente nella giurisdizione, che occorre ora soffermarsi. È un rischio nel quale si cade ove si perseguano due illusorie e infondate certezze: la prima, di tipo antico, proviene dalla potente e mai spenta tentazione della logica inquisitoria; la seconda, di tipo nuovo, proviene dalle tentazioni indotte dalle innovazioni dell’odierna tecnologia dell’intelligenza artificiale.

1.6.1. La perversione inquisitoria Il primo pericolo che proviene alla giurisdizione dall’illusoria pretesa di un’assoluta certezza delle sue pronunce è quello della sua perversione inquisitoria. Esso fu messo in luce da Cesare Beccaria allorquando contrappose, a quello da lui chiamato “processo informativo”, basato sulla “indifferente ricerca del fatto” e sulla disponibilità del giudice all’ascolto delle opposte ragioni, quello da lui chiamato “processo offensivo”, nel quale, egli scrisse, “il giudice diviene nemico del reo” e “non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose”³¹. Si tratta di un rischio prodotto dallo spirito partigiano e settario, frequente in molti pubblici ministeri, che anima spesso le indagini giudiziarie e che, nei casi limite, si esprime nella concezione dell’imputato come nemico e del processo come un’arena nella quale si vince o si perde. Laddove dovrebbe essere chiaro che il pubblico ministero non è un avvocato e il processo non è una partita nella quale, come dice Beccaria, l’inquirente perde se non riesce a far prevalere le proprie tesi.

Questa tendenza più o meno consapevole al processo offensivo è il principale fattore della regressione alla logica dell’inquisizione, del resto assai più diffusa, nel senso comune, della logica dell’induzione. Si tratta di una logica diametralmente opposta alla logica induttiva propria dell’epistemologia falsificazionista quale è recepita dal processo accusatorio, basato sulla parità delle parti in causa e sul loro contraddittorio – la parte attiva gravata dall’onere della prova, cioè delle conferme, e quella passiva dotata del diritto di difesa tramite smentite e controprove –, nonché sulla terzietà del giudice e sulla pubblicità e l’oralità del giudizio. La logica inquisitoria trasforma sempre l’induzione probatoria in una deduzione. Nel processo premoderno, come ho ricordato nel § 1.4, questa trasformazione fu resa possibile dal metodo delle prove legali, in forza del quale la tesi della colpevolezza veniva dedotta, anziché indotta, dalle prove raccolte. Di qui il carattere assoluto e non ipotetico né probabilistico della verità processuale, la non necessità del contraddittorio, lo schema monadico e monologante anziché triadico e dialogante del processo. Per dimostrare, cioè per dedurre quella che si ritiene una verità assoluta, non c’è infatti bisogno né di separazione tra giudice e accusa, né di contraddittorio, ma solo di un giusto inquisitore con il quale tutte le parti, incluso l’accusato, sono chiamate a collaborare e qualunque mezzo – in passato la tortura, oggi la collaborazione premiata e, al fine di ottenerla, la carcerazione preventiva – è ammesso ai fini del suo raggiungimento. Questa epistemologia rozza e primitiva ha caratterizzato il processo penale nell’età dell’inquisizione, che va grosso modo dal secolo XIII – cui risalgono le Costituzioni di Federico II, le decretali De accusationibus e De judicis di Innocenzo III e la bolla Ad extirpanda di Innocenzo IV – fino al secolo XVIII. È infatti con l’età dell’illuminismo e poi con le codificazioni del primo Ottocento che le prove legali vengono soppresse e in tutta Europa si affermano, almeno nella fase del dibattimento, i principi del processo accusatorio: l’oralità, la pubblicità, la separazione tra giudice e accusa, l’onere della prova a carico di quest’ultima, il contraddittorio, il diritto di difesa, la parità tra accusa e difesa e il libero convincimento del giudice.

Ma la tentazione di vantare il raggiungimento, nel processo, di una verità processuale assoluta permane, e si manifesta oggi in un approccio alle indagini assai più insidioso di quello proprio del sistema delle prove legali, che almeno lasciava aperta la strada della non deducibilità dell’ipotesi giudiziaria per l’insufficienza delle prove raccolte. L’approccio inquisitorio odierno è il frutto di una ben più grave epistemologia autoreferenziale e monologante che continua a caratterizzare la mentalità di molti magistrati, poco importa se in maniera inconsapevole, e ad imprimere al ragionamento probatorio un carattere di nuovo sostanzialmente deduttivo, così da fondarne le conclusioni come teoremi anziché come convincimenti suffragati da prove. Si tratta di un fenomeno culturale e di un abito mentale che persistono al di là e contro le stesse regole processuali. È una tentazione permanente, suscitata dalla forza suggestiva del pre-giudizio, resistente a qualunque smentita o controprova, in grado di vanificare l’intero insieme delle garanzie processuali e di condizionare non solo il processo penale, ma anche l’informazione e il dibattito politico.

Questa tentazione, che anima più o meno consapevolmente gli stili argomentativi di molti giudici e pubblici ministeri, soprattutto nei processi penali per fatti di estrema gravità come i crimini delle organizzazioni criminali³², si esprime in un approccio argomentativo che è il tratto inconfondibile e fallace della logica inquisitoria: la petizione di principio. In forza di questo approccio la tesi da provare, che è solo un’ipotesi, per di più accompagnata da una presunzione legale di falsità – la presunzione di non colpevolezza – e richiede quindi di essere suffragata da conferme e non smentita da controprove, viene invece assunta apoditticamente come vera, funzionando come criterio di selezione e di valutazione delle prove. Grazie a questo sofisma, che conferisce al ragionamento probatorio un andamento tautologico e circolare, la tesi accusatoria risulta di fatto infalsificabile, funzionando da criterio di orientamento delle indagini, da filtro selettivo della credibilità e della rilevanza delle prove e delle controprove e da chiave di lettura dell’intero materiale processuale. È così che il pregiudizio, assunto come postulato, condiziona rigidamente le conclusioni del giudizio, da esso derivate come un teorema³³.

Si esprime, in questa epistemologia autoreferenziale, un’inclinazione alla presunzione di colpevolezza che è da sempre una tentazione tipicamente propria della mentalità inquisitoria. È la tentazione più grave alla quale possa cedere un giudice, dato che contraddice tutti i principi – giuridici, logici e deontologici – del corretto processo quale procedura induttiva di verifica empirica sottoposta all’onere accusatorio della prova ed esposta alla falsificazione da parte della difesa. È da questa logica e da questa tentazione che i giudici e i pubblici ministeri si devono soprattutto guardare: da questa sorta di resistenza aprioristica alla falsificazione delle ipotesi giudiziarie, indisponibili ad essere confutate come invece impone il metodo probatorio sopra illustrato.

Oggi questo vizio è purtroppo potentemente favorito dalla spettacolarità dei processi e dalla straordinaria visibilità dei giudici e soprattutto dei pubblici ministeri, in forza delle quali la loro difesa degli assunti accusatori, una volta che questi sono diventati di pubblico dominio, diventa, più o meno consapevolmente, la difesa del loro lavoro e con esso della loro reputazione. Quasi che ammettere il proprio errore, o meglio la mancata conferma delle proprie ipotesi iniziali, equivalga a confessare una scarsa professionalità o peggio a riconoscere una sconfitta. Laddove la massima prova di professionalità e, diciamo anche, di indipendenza di giudizio e di onestà intellettuale consiste precisamente nella capacità di riconoscere l’errore e di ammettere che le ipotesi d’accusa sono pur sempre ipotesi, in quanto tali non sempre vere.

1.6.2. L’intelligenza artificiale e l’illusione di una giustizia predittiva Il secondo pericolo è non meno grave e forse ancor più inquietante. L’innovazione digitale è una rivoluzione tecnologica irreversibile, che non può essere ignorata. È un mutamento generale nelle condizioni di vita e nelle relazioni sociali che non può essere né acriticamente esaltato, né passivamente subito. Sono certamente innegabili i suoi vantaggi: la facilità e la rapidità con cui si possono ottenere informazioni sui precedenti giudiziari; la crescita del potere delle persone di conoscere i loro diritti e di agire in loro difesa senza la necessaria mediazione dei professionisti del diritto; l’accesso diretto e gratuito ai dati giuridici, in un linguaggio comprensibile e non in quello criptico dei chierici del diritto; la maggiore rapidità delle procedure consentita talora dal superamento dei problemi legati allo spazio e al tempo; la possibilità offerta alle persone di redigere per conto proprio atti negoziali come contratti, testamenti, statuti societari e simili, e magari di ricevere consigli gratuiti sui propri casi e le proprie vicende giuridiche; l’informazione infine che un algoritmo è in grado di fornire circa le possibilità di successo di una causa e sulla sua possibile durata, utilizzando database di milioni di precedenti negli ultimi decenni³⁴. Sotto questi aspetti le tecnologie digitali non solo contribuiscono a una maggiore efficienza della giustizia, ma hanno anche una valenza democratica.

Sono tuttavia enormi i pericoli per il giusto processo rappresentati da un’utilizzazione di queste nuove tecnologie nella formazione dei giudizi. L’idea di una giustizia esatta anziché giusta, accreditata da un’ingenua fiducia nella tecnologia ben più che nei magistrati, rischia infatti di travolgere l’intero edificio delle garanzie processuali e di generare l’illusione di una sua maggiore oggettività, imparzialità e credibilità³⁵. Possiamo distinguere due ambiti nei quali le nuove tecnologie sono in grado di generare questi pericoli e questa illusione: il primo ambito è quello che riguarda le prove, cioè la loro ricerca, la loro formazione e la loro valutazione; il secondo riguarda la prospettiva della cosiddetta “giustizia predittiva” basata sull’intelligenza artificiale.

In tema di ricerca delle prove, innanzitutto, le nuove tecnologie consentono l’acquisizione di una mole sterminata di dati e di informazioni, non tutte rilevanti per il processo penale, attraverso i sequestri di documenti informatici, di e-mail e messaggi, ma anche mediante la loro captazione occulta e potentemente intrusiva in violazione del diritto alla riservatezza delle persone quanto al loro domicilio, alla loro corrispondenza e alla loro vita di relazione³⁶. Le prove così acquisite si sottraggono peraltro alla piena valutazione della difesa, al contraddittorio tra le parti e perciò alla loro possibile falsificazione, se non altro per il segreto che grava sul funzionamento dei programmi informatici di captazione dei dati, di solito di produzione e di proprietà privata, e la conseguente privatizzazione di queste potenti tecnologie di indagine giudiziaria. È poi evidente che la polizia e la pubblica accusa hanno un accesso a tali tecnologie incomparabilmente maggiore di quello possibile alla difesa, sicché viene meno la “parità delle armi” che forma un principio basilare del corretto processo³⁷. Infine l’acquisizione occulta della sterminata quantità di dati relativi alle abitudini di vita, alle tendenze sessuali, alle relazioni sociali, ai gusti commerciali, alle opinioni politiche e religiose e all’intera attività in rete dell’imputato viola di fatto il diritto di questi al silenzio, cioè il vecchio principio garantista nemo tenetur se detegere.

Ma soprattutto è illusoria e in contraddizione con tutti i principi del corretto processo l’idea che alla giustizia tradizionale possa sostituirsi una giustizia digitale o predittiva quale “fonte alternativa di normatività giuridica”³⁸. Lo è rispetto a tutti e tre i momenti della cognizione giudiziaria: l’interpretazione, la prova e l’equità. Ho già detto che sul piano sociologico le tecnologie digitali, grazie al ruolo predittivo svolto dai big data in materia di precedenti, possono servire, ai cittadini e agli avvocati, a regolare le loro condotte in previsione dell’accoglimento o meno delle loro pretese. Per i giudici, invece, il condizionamento o peggio il venir meno, a causa dell’adozione di queste tecnologie, dell’interpretazione della legge ai fini della decisione sulla verità giuridica equivarrebbe all’abdicazione dal loro ruolo³⁹. Finirebbe inevitabilmente per favorire la fissità giurisprudenziale e l’omologazione, il conservatorismo e il conformismo giudiziario⁴⁰. Non solo. Riguardato dal punto di vista del cittadino, un simile uso della tecnologia digitale e predittiva, basato essenzialmente sui dati statistici, violerebbe il principio del giudice naturale precostituito per legge, cioè il diritto di ciascuno, stabilito dall’art. 25, 1° comma della nostra Costituzione, ad essere giudicato dal proprio giudice e non dai giudici che hanno giudicato casi precedenti.

A loro volta, la dimensione probatoria e, più ancora, quella equitativa del giudizio risulterebbero totalmente compromesse da questa pretesa giustizia predittiva. Se infatti in tema di verità giuridica le tecnologie digitali e l’idea stessa di una giustizia predittiva annullano o quanto meno mortificano il momento dell’interpretazione e le capacità di innovazione interpretativa che può avere la giurisdizione, nessun ruolo esse possono svolgere per quanto riguarda l’accertamento della verità fattuale e la valutazione equitativa della singolarità dei casi volta a volta sottoposti al giudizio. Ogni caso, infatti, è diverso da qualunque altro. E diverse sono le sue fonti di prova e la loro rilevanza e credibilità, che nessuna indagine statistica può prestabilire. Sicché non possono non essere volta a volta diverse e specifiche sia l’argomentazione probatoria che la valutazione equitativa dei suoi innumerevoli connotati singolari.

Una forte deformazione del giudizio, in particolare, è quella prodotta dagli algoritmi predittivi proposti, sulla base di un elevato numero di dati statistici, in tema di pericolosità sociale e di pericolo di fuga. Si tratta di previsioni che, basandosi sulle caratteristiche degli autori anziché dei reati, finiscono per riproporre modelli di diritto penale basati sul tipo d’autore, anziché sul tipo di “fatto commesso”, come è richiesto dall’art. 25, 2° comma della Costituzione italiana. Di qui il loro carattere anti-egualitario, dato che il pericolo della recidiva o della fuga dell’imputato viene calcolato sulla base delle sue condizioni economiche e dei suoi stili di vita, ovviamente legati al carattere classista e razzista delle nostre società. Di qui la violazione, altresì, del principio di trasparenza e della riserva assoluta di legge in materia penale, dato che tali algoritmi predittivi finiscono per integrare o peggio sostituirsi alla legge⁴¹. Fortunatamente, in Italia, tali algoritmi, consistendo in ausili di tipo tecnico non diversi da quelli procurati dalle perizie, possono ben essere considerati vietati dall’art. 220, 2° comma del nostro codice di procedura penale, secondo cui, “salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”.

Insomma, la delega alle macchine che si vorrebbe realizzare con simili tecnologie, se nelle funzioni di governo equivale alla negazione della politica, nelle funzioni giurisdizionali equivale alla negazione della giustizia. Equivarrebbe alla realizzazione, nelle forme più perverse e illusorie, dell’idea montesquieviana dei giudici come “esseri inanimati”⁴². Formule come “libero convincimento del giudice”, “al di là di ogni ragionevole dubbio” e “comprensione della singolarità del fatto” non avrebbero alcun senso entro un simile modello di giustizia predittiva. Si rivela, in proposito, il contrasto tra il carattere descrittivo delle previsioni e il carattere normativo del diritto⁴³. Parole come “predittivo”, “predire”, “prevedere” e simili appartengono al lessico delle scienze empiriche, inclusa la sociologia, ma sono totalmente estranee all’universo del discorso del diritto e della scienza normativa del diritto. Dire che una data soluzione giuridica di una vicenda giudiziaria è prevedibile non equivale affatto a dire che è giuridicamente valida. Non a caso la giustizia predittiva quale modello alternativo alla giustizia tradizionale è figlia, se non altro perché gli algoritmi sono prodotti da imprese private, dell’ideologia liberista. Con la sua pretesa di calcolabilità statistica degli esiti dei processi e con i suoi automatismi, essa è al servizio del mercato, e precisamente dei predatori di big data, ben più che della giustizia. La sua unica logica e il suo unico valore sono la logica del profitto e il valore dell’efficienza e del successo economico⁴⁴, che con la giustizia non hanno nulla a che vedere.

2.
Le fonti di legittimazione della giustizia penale.
Il ruolo garantista del positivismo giuridico

2.1. Una riformulazione della separazione dei poteri: funzioni di governo e funzioni di garanzia, primaria e secondaria Come ho avuto più volte occasione di sostenere, la tripartizione dei poteri formulata quasi tre secoli fa da Montesquieu non è più in grado di dar conto della complessità istituzionale dei sistemi politici odierni. Per un verso, con l’affermazione della democrazia politica, il potere legislativo e il potere esecutivo hanno acquistato e condiviso la medesima fonte di legittimazione – la rappresentanza politica del corpo elettorale – al punto da risultare, nelle democrazie parlamentari, assai più connessi che separati, essendo il governo sottoposto alla fiducia del Parlamento che a sua volta può essere sciolto dal governo, in accordo talora, come in Italia, con il Presidente della Repubblica. Per altro verso si sono sviluppate, con la costruzione dello Stato sociale, funzioni di garanzia diretta dei diritti fondamentali ignote alla tripartizione montesquieviana, come la sanità e l’istruzione pubblica, l’assistenza e la previdenza, che non potendo essere affidate al potere legislativo o al potere giudiziario si sono collocate all’interno di quel grande contenitore che è la Pubblica amministrazione alle dipendenze dell’esecutivo; mentre invece, essendo legittimate, non meno della funzione giudiziaria, dall’applicazione sostanziale della legge e dalla garanzia dei diritti, dovrebbero essere anch’esse indipendenti e separate dal potere politico.

Sulla base della loro diversa natura e delle loro diverse fonti di legittimazione è perciò utile, a mio parere, distinguere le funzioni pubbliche essenzialmente in due grandi classi, riconducibili grosso modo alle due grandi dimensioni dell’esperienza: volontà e conoscenza, potere e sapere, produzione e applicazione del diritto, legis-latio e iuris-dictio, l’una deputata ad operare in quella che ho chiamato la sfera del decidibile, l’altra finalizzata alla difesa e all’attuazione di quella che, nelle democrazie costituzionali, ho chiamato la sfera del non decidibile (che o che non). Appartengono alla sfera discrezionale del decidibile le funzioni di governo, nelle quali possiamo includere tutte le funzioni di innovazione o creazione di nuovo diritto: non solo quindi le funzioni in senso stretto governative e quelle a queste ausiliarie di tipo amministrativo, ma anche le funzioni legislative. Sono invece istituite a difesa e in attuazione della sfera del non decidibile, disegnata dalla formulazione dei suoi principi normativi in costituzioni rigide, quelle che possiamo chiamare funzioni di garanzia, nelle quali possiamo includere tutte le funzioni di attuazione del diritto vigente: non solo quindi le funzioni giurisdizionali di garanzia secondaria consistenti nell’applicazione sostanziale della legge alle sue violazioni, ma anche le funzioni amministrative di garanzia primaria dei diritti fondamentali – come la scuola e la sanità pubblica, la previdenza e l’assistenza sociale – vincolate anch’esse, non meno della giurisdizione, all’applicazione sostanziale del diritto vigente⁴⁵. Le funzioni di governo disegnano lo spazio della politica, i cui parametri di valutazione sono l’efficienza e l’utilità dal punto di vista degli interessi generali e le cui fonti di legittimazione democratica sono la rappresentanza politica e il consenso popolare. Le funzioni di garanzia corrispondono invece allo spazio della giurisdizione e dell’amministrazione vincolata, i cui criteri di valutazione e le cui fonti di legittimazione sono la correttezza e la fondatezza degli accertamenti dei loro presupposti legali. L’esercizio delle prime consiste, in democrazia, nella produzione di nuovo diritto affidata alle decisioni di maggioranza. L’esercizio delle seconde consiste nell’attuazione del diritto prodotto e nella garanzia, contro le sue possibili violazioni, di quelle precondizioni del vivere civile – la vita, l’uguaglianza, la dignità delle persone, i minimi vitali, le libertà fondamentali – che nel patto costituzionale si è convenuto di sottrarre alla volontà delle maggioranze e di assicurare a tutti.

È questa diversità delle loro fonti di legittimazione che fonda e giustifica, a mio parere, la separazione dei poteri: precisamente, la separazione tra le funzioni politiche di governo, siano esse legislative o esecutive, e le funzioni di garanzia, non solo quelle secondarie di tipo giudiziario ma anche quelle primarie di tipo amministrativo, che parimenti dovrebbero essere indipendenti dal potere politico, essendo vincolate all’applicazione della legge sulla base del semplice accertamento dei loro presupposti legalmente pre-stabiliti⁴⁶. È poi evidente che le garanzie, disegnando la sfera del non decidibile, sono un limite alla democrazia politica e alla sfera del decidibile ad essa appartenente. Ma la loro valenza democratica consiste nel fatto che esse garantiscono tutti, e perciò alludono al popolo in un senso ancor più pregnante dello stesso principio di maggioranza: nel senso che, assicurando l’uguaglianza nei diritti fondamentali, esse garantiscono la dignità e gli interessi vitali di qualunque essere umano, senza discriminazioni né privilegi. Designano la dimensione sostanziale della democrazia, relativa alla sostanza delle decisioni, in aggiunta alla dimensione formale, consistente nella loro forma rappresentativa.

C’è peraltro un principio normativo di carattere generale che possiamo enunciare in tema di garanzie dei diritti: il principio della loro completezza. Il problema non si pone per i diritti patrimoniali, che nascono insieme alle loro garanzie: il diritto di credito insieme al debito corrispondente, i diritti reali insieme al divieto di impedirne o turbarne l’esercizio. Si pone invece per i diritti fondamentali, le cui garanzie vengono ad esistenza solo se introdotte da specifiche norme di attuazione. È nell’obbligo di introdurre queste norme che consiste il principio di completezza delle garanzie: in primo luogo nell’obbligo di introdurre le garanzie primarie, cioè i divieti e gli obblighi logicamente implicati da quelle aspettative negative o positive nelle quali consistono tutti i diritti soggettivi; in secondo luogo nell’obbligo di introdurre le garanzie secondarie o giurisdizionali, in forza delle quali per ogni violazione dei diritti o dei beni fondamentali ci devono essere sia un giudice in grado di giudicarla che un soggetto, privato o pubblico, in grado di attivare il relativo giudizio⁴⁷.

Le garanzie dei diritti fondamentali devono dunque essere introdotte, e nella loro introduzione consiste la costruzione dello stato di diritto e della democrazia costituzionale. Esse sono il lato attivo dei rapporti giuridici – gli obblighi di prestazione e i divieti di lesione – di cui le aspettative positive o negative nelle quali consistono i diritti sono il lato passivo. Sono perciò i mezzi che vanno istituiti, perché da essi dipende l’attuazione dei fini, cioè dei diritti garantiti. Vanno introdotte le garanzie primarie dei diritti di libertà e di immunità, cioè i divieti delle loro lesioni, a cominciare dalle garanzie penali e processuali cui è soprattutto dedicato questo libro, implicate ed imposte, quali limiti alla potestà punitiva dello Stato, dai diritti di immunità da ingiuste offese e da arbitrarie punizioni. Vanno introdotte le garanzie primarie dei diritti sociali – come i diritti alla salute, all’istruzione e alla sussistenza –, cioè gli obblighi delle corrispondenti prestazioni, consistenti nelle funzioni e nelle istituzioni di garanzia primaria, come il servizio sanitario e l’istruzione pubblica, l’uno e l’altra universali. Vanno infine introdotte le funzioni di garanzia secondaria o giurisdizionale, la cui legittimazione, come ora vedremo, consiste nel loro ruolo di accertamento e di prevenzione delle violazioni del diritto e, in particolare, dei diritti e delle loro garanzie primarie.

2.2. Le fonti di legittimazione del diritto penale sostanziale. Un utilitarismo penale non dimezzato: il diritto penale minimo Per intendere le specifiche fonti di legittimazione della giustizia penale e i limiti imposti all’arbitrio punitivo dalle relative garanzie, è necessario identificare lo scopo che giustifica e legittima il diritto penale sostanziale. Tale scopo consiste, a mio parere, nella minimizzazione della violenza e dell’arbitrio nella società: nella prevenzione, quindi, non soltanto, come si ritiene di solito, dei soli delitti, ma anche delle pene informali ed eccessive, ossia delle vendette, della ragion fattasi, degli arbitri e dei soprusi polizieschi che si produrrebbero in assenza delle norme penali e processuali.

Questa doppia fonte della legittimazione del diritto penale – la prevenzione delle ingiuste punizioni, oltre che degli ingiusti delitti – è il frutto di una riforma, a mio parere necessaria, dell’utilitarismo giuridico tradizionale, basato sul celebre principio della “massima felicità divisa nel maggior numero”⁴⁸ formulato da Cesare Beccaria e ripreso da Jeremy Bentham – “la maggior felicità possibile del maggior numero possibile di individui”⁴⁹–, che lo estese a tutto il diritto, fondando su di esso la legittimazione politica di qualunque norma giuridica. In questa versione questo principio non è in grado, a causa del suo riferimento alla sola utilità del “maggior numero”, cioè delle maggioranze, di imporre limiti alla potestà punitiva dello Stato. Si tratta infatti di un utilitarismo penale dimezzato, idoneo a promuovere modelli di diritto penale massimo quali possono essere giustificati sulla base di tutte le dottrine utilitaristiche della difesa sociale. Queste dottrine, assegnando al diritto penale il solo scopo della prevenzione dei delitti, non impediscono quello che Gustav Radbruch ha chiamato il “terrorismo penale”, dato che inducono a supporre che la minaccia penale, dovendo servire come controspinta o intimidazione, è tanto più efficace quanto più elevate e severe sono le pene minacciate⁵⁰.

A questa nozione ristretta dell’utilitarismo ho quindi opposto una concezione allargata dello scopo del diritto penale, identificandolo non solo con la massima utilità dei non devianti, ma anche con la minima afflizione dei devianti e di quanti sono accusati di essere tali; non già con la statalizzazione della vendetta, bensì con la sua negazione; non solo, quindi, con la minimizzazione dei delitti, ma anche con la minimizzazione delle pene, ed anzi con l’asimmetria, come si dirà alla fine del § 5.3.2 e poi nel § 7.3.2, tra la brutalità dei primi e la mitezza delle seconde. È questo doppio scopo il fondamento teorico di quello che chiamai, quaranta anni fa, “diritto penale minimo” e che consente di configurare il diritto penale, nel suo modello garantista, come la legge del più debole: la legge – alternativa alla legge del più forte – istituita a tutela del soggetto più debole, che nel momento del delitto è la parte offesa, nel momento del processo è l’imputato e in quello dell’esecuzione penale è il condannato⁵¹.

Questa giustificazione non può essere aprioristica e in astratto, cioè del diritto penale in quanto tale – di qualunque diritto penale, o peggio di qualunque norma penale – come è quella offerta da tutte le dottrine giustificazioniste correnti. Occorre infatti distinguere, perché appartenenti a livelli di discorso diversi, l’uno teorico e l’altro meta-teorico, tra giustificazioni e dottrine della giustificazione del diritto penale. Una dottrina meta-teorica di giustificazione consistente e non ideologica deve essere in grado, grazie a questa distinzione, di suggerire e fondare, sul piano teorico, sia giustificazioni che non giustificazioni. È in questo senso che vanno intese le finalità e le dottrine di legittimazione del diritto penale. Esse devono consentire giustificazioni soltanto condizionate, a posteriori, riferite a sistemi penali concreti e alle loro singole norme o istituti, e quindi anche non giustificazioni, cioè critiche e delegittimazioni di quelle norme – ne esistono in tutti gli ordinamenti – che quelle finalità ignorino o comunque non realizzino⁵².

È sulla base di questo modello meta-teorico di giustificazione del diritto penale sostanziale che possiamo ora identificare gli specifici fondamenti della legittimazione della giurisdizione penale e, insieme, di una teoria garantista dei limiti al potere punitivo. Questi fondamenti, a mio parere, sono due, l’uno di carattere formale, l’altro di carattere sostanziale, entrambi consistenti nella limitazione dell’arbitrio e della violenza punitiva. Il primo è costituito dalla natura essenzialmente cognitiva dei presupposti della giurisdizione quale è stata illustrata nel capitolo che precede. Il secondo è costituito dalla garanzia dei diritti dei cittadini – e in particolare della loro immunità da ingiuste offese e da ingiuste punizioni – e perciò dal ruolo di contro-potere svolto dalla funzione giudiziaria. Entrambi valgono anche a fondare la separazione dei poteri, l’indipendenza dei giudici da qualunque potere – non solo dai poteri esterni alle istituzioni giudiziarie, primo tra tutti il potere politico, ma anche da poteri ad esse interni – e le tre divaricazioni deontiche conseguenti, come più oltre vedremo, ad altrettanti punti di vista critici e progettuali sul diritto positivo. Essi disegnano modelli limite, mai perfettamente realizzabili e di fatto largamente irrealizzati, e tuttavia realizzabili, sia pure imperfettamente, mediante opportune garanzie. In questo paragrafo saranno illustrati con riferimento alla sola giurisdizione, cioè alle funzioni di garanzia secondaria e in particolare alla giurisdizione penale. Ma valgono – e a rigore dovrebbero essere garantiti – anche per le funzioni amministrative di garanzia primaria, sviluppatesi alle dipendenze del potere esecutivo e tuttavia consistenti anch’esse, come quelle giudiziarie, nell’accertamento dei presupposti legali delle prestazioni dovute e perciò nell’applicazione sostanziale della legge a tutela dei diritti delle persone⁵³.

2.2.1. Il primo fondamento, formale, della legittimità della giurisdizione penale: la verità processuale Il primo fondamento della legittimità della giurisdizione risiede nel corretto accertamento delle violazioni di legge ad essa sottoposte. Diciamo, per esempio, che una sentenza penale di condanna è giusta, ancor prima che giuridicamente valida, se e solo se è vero che il condannato ha commesso il fatto addebitatogli come reato, mentre è invalida e ingiusta in caso contrario. Se poi critichiamo una condanna o un’assoluzione come ingiuste o infondate è perché riteniamo false le loro motivazioni, in fatto e/o in diritto. Per un verso, la natura cognitiva della giurisdizione vale perciò a configurarla, diversamente dalla legislazione e dall’amministrazione, come affermazione o applicazione sostanziale anziché come semplice rispetto della legge⁵⁴. Per altro verso, essa vale a garantire quello specifico diritto fondamentale che è l’immunità delle persone da pronunce arbitrarie e che, come vedremo, è il secondo fondamento della legittimità della giurisdizione.

Basterebbe questo a spiegare il carattere non consensuale né rappresentativo della legittimazione dei giudici e a fondarne i requisiti di imparzialità e di indipendenza da qualunque potere, inclusi i poteri rappresentativi delle maggioranze. Proprio perché risiede nella garanzia dell’imparziale accertamento del vero⁵⁵, la legittimità del giudizio non può dipendere dal consenso politico. Nessuna maggioranza, neanche l’unanimità dei consensi o dei dissensi possono rendere vero ciò che è falso o falso ciò che è vero. Consensi e dissensi non aggiungono nulla alla falsità o alla verità di una motivazione. Per questo il carattere elettivo dei magistrati, presente per esempio nell’esperienza americana, è in contraddizione con la fonte di legittimazione della giurisdizione. In Italia la loro elettività provocherebbe la massima politicizzazione della giurisdizione: avremmo giudici di destra, di centro e di sinistra, in contrasto, oltre che con il vincolo dell’imparzialità, con il principio di uguaglianza delle persone di fronte alla legge e con l’intera logica dello stato di diritto. Al contrario, il senso della famosa frase “ci sarà pure un giudice a Berlino”⁵⁶ è che deve pur esserci un giudice capace, per la sua indipendenza e imparzialità, di assolvere, in mancanza di prove, anche quando tutti – giornali, forze politiche, governi, opinione pubblica – richiedono la condanna, e di condannare, in presenza di prove adeguate, quando i medesimi soggetti e i medesimi poteri pretendono l’assoluzione. Con paradosso apparente, la soggezione del giudice alla legge ne implica l’indipendenza e la separazione da qualunque altro potere, a cominciare da quello politico titolare della funzione legislativa.

Tutto questo vale anche per la pubblica accusa, la cui legittimazione e la cui indipendenza si basano parimenti sulla natura cognitiva delle ipotesi accusatorie. Deve pur esserci una pubblica accusa indipendente – pur se separata, a sua volta, dalla funzione giudicante – in grado di indagare, senza condizionamenti di potere, sull’esistenza dei presupposti dell’azione penale che è talora rivolta proprio contro i titolari di rilevanti poteri pubblici o privati. Vale altresì per la polizia giudiziaria, che è di solito, come in Italia, inquadrata nell’esecutivo in contrasto, di nuovo, con la natura cognitiva e perciò garantista delle sue funzioni investigative. E dovrebbe valere, aggiungo, anche per tutte le funzioni amministrative di garanzia primaria, che in tanto sono tali in quanto il loro esercizio è vincolato all’applicazione sostanziale della legge. Si tratta, in tutti questi casi, di funzioni che non comportano discrezionalità politica, ma solo una discrezionalità tecnica non diversa, sul piano epistemologico, da quella giurisdizionale.

È in forza della sua natura cognitiva, d’altro canto, che anche la giurisdizione, in democrazia, si collega, come la legislazione, alla volontà espressa dalle rappresentanze parlamentari: perché è applicazione di quella volontà politica che si è manifestata sia nelle leggi che nelle norme costituzionali, stipulate le une e le altre prima del fatto sottoposto al giudizio e perciò con il velo di ignoranza connesso al loro carattere di regole generali ed astratte. È una soggezione diversa e assai più vincolante rispetto a quella cui sono sottoposti, nello stato di diritto, gli altri pubblici poteri, da quello legislativo a quelli amministrativi e di governo. Essa richiede, ripeto, non già il semplice rispetto delle norme sopraordinate richiesto alla legislazione e alla Pubblica amministrazione, cioè il divieto di contraddirle, bensì la loro applicazione sostanziale, cioè l’obbligo di applicarle sulla base della ritenuta corrispondenza dei fatti accertati ai presupposti da esse predisposti.

È precisamente in quest’obbligo che risiede il significato del principio dell’indipendenza dei giudici stabilito dall’articolo 101 della nostra Costituzione secondo cui essi “sono soggetti soltanto alla legge”. La soggezione alla legge, che equivale alla sua applicazione sostanziale, forma infatti il fondamento della cognizione giudiziaria. Essa sarà per i giudici tanto più vincolante quanto più precise, determinate e tassative saranno le norme che essi sono chiamati ad applicare. Per questo, come si disse nel § 1.3, il solo modo per limitare la discrezionalità giudiziaria è che il legislatore produca norme di significato quanto più possibile chiaro ed univoco. È ciò che stabilisce il principio di stretta legalità o di tassatività, che soprattutto in materia penale impone al legislatore l’uso di un linguaggio rigoroso e si rivela perciò a) come la principale garanzia del primato della legge, e quindi della politica da cui la legge è prodotta; b) come il primo fondamento dell’effettiva separazione dei poteri e perciò dell’indipendenza della giurisdizione; c) come la condizione elementare dell’uguaglianza delle persone di fronte alla legge. Della dimensione conoscitiva del giudizio, peraltro, fa parte anche la comprensione equitativa dei fatti giudicati qui illustrata nel § 1.5, che perciò è anch’essa una fonte essenziale della legittimazione della giurisdizione. I giudici non sono affatto gli “esseri inanimati” di cui parlò Montesquieu^{{
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