Sommario

Prefazione.
La storia di un libro incompiuto

Il 1° gennaio 2015 a Monaco era una magnifica giornata invernale: cielo azzurro, tanto sole e una neve scintillante. Un paesaggio da cartolina, pieno di magica bellezza. Ulrich ed io, di buon umore, uscimmo a fare una passeggiata nel parco più vicino, il celebre Englischer Garten. Qualche settimana prima, agli inizi di dicembre, Ulrich aveva inviato a Polity Press un manoscritto provvisorio di Metamorphosis, e alla fine di dicembre erano arrivate le prime revisioni. Qualche commento lo aveva un po’ irritato, ma durante la nostra passeggiata, parlandone, Ulrich si rese conto che le obiezioni toccavano aspetti importanti. Iniziò a fare brainstorming, e io con lui. Parlammo della possibilità di aggiungere nuove parti per chiarire e correggere alcuni punti critici.

Ma ecco, in pieno brainstorming, la fine.

Un infarto, all’improvviso.

Ulrich era morto.

Pochi giorni dopo provai a registrare i principali punti di cui avevamo parlato durante quella bella passeggiata di Capodanno. Ma per quanto mi sforzassi, non ci riuscivo.La memoria non mi assisteva. Tutto ciò che riuscivo a ricordare erano frammenti, ben poca cosa. L’essenza era andata perduta.

A febbraio del 2015 la London School of Economics organizzò un evento in onore di Ulrich. Anthony Giddens parlò di Metamorphosis, chiamandolo un «libro incompiuto». Nei mesi seguenti mi resi conto di quanto avesse ragione. Fu quando iniziò il lavoro per trasformare in libro il manoscritto preliminare: un lavoro che mi è parso infinito. Era l’ultimo capitolo di una lunga storia che ha visto coinvolte tante persone ed è legata a filo doppio alla Erc Advanced Grant di Ulrich, Methodological Cosmopolitanism – In the Laboratory of Climate Change.

Anders Blok (Copenaghen) e Sabine Selchow (Londra) sono stati coinvolti fin dalle prime versioni nell’esame del manoscritto: un lavoro cui entrambi hanno dedicato moltissimo tempo, energia e competenza. Dai loro sforzi il testo ha guadagnato sia in profondità e solidità teorica, sia in precisione e dettagli empirici. Ma anche molti altri – in parte membri del team Erc, colleghi con differenti background accademici, qualcuno a Monaco, qualcuno lontano, in altri paesi e persino continenti – hanno dato consigli preziosi o suggerito nuove idee. A questa rete di collaborazione cosmopolita hanno partecipato Martin Albrow (Londra), Christoph Lau (Monaco), Daniel Levy (New York), Zhifei Mao (Hong Kong), Svetla Marinova (Sofia), Gabe Mythen (Liverpool), Shalini Randeria (Vienna), Maria S. Rerrich (Monaco/Blackstock, South Carolina), Natan Sznaider (Tel Aviv), John Thompson (Cambridge), David Tyfield (Lancaster/Canton), Ingrid Volkmer (Melbourne) e Johannes Willms (Monaco). Ed è toccato ancora una volta ad Almut Kleine (Monaco), forte di una ventennale esperienza di lavoro con Ulrich, destreggiarsi tra le sue annotazioni e correzioni a mano, navigando abilmente tra le tante versioni del testo. Infine, le ultime imperfezioni del testo sono state cancellate, in Polity, dallo splendido copyditing di Caroline Richmond.

Ma prima c’era stato il lavoro per completare il libro incompiuto. Una vera sfida, sostenuta da tre persone.

Fortunatamente, nei decenni trascorsi vicino a Ulrich come compagna di vita e come collega, il tema della metamorfosi era stato quotidianamente presente nelle nostre conversazioni, o meglio nella nostra vita. Avevo visto Ulrich combattere e alla fine venirne a capo. Potevo anche far leva sull’esperienza di quattro libri e parecchi articoli scritti insieme. Eppure, al momento di arrivare alla stesura finale di Metamorphosis – la versione da mandare in stampa – rimaneva in ogni capitolo una serie di questioni aperte, di metafore dal significato misterioso e affermazioni prive di indicazione della fonte. In tutti questi momenti – e ce ne sono stati davvero molti – è sceso in campo John Thompson, stretto collega e intimo amico, che vi ha investito una infinità di tempo e di energie, di sapere sociologico e di esperienza editoriale. Ogni volta che cercavo di tirare il fiato, staccarmi per un po’ da Metamorphosis e magari cercare di finire il mio libro, John pazientemente mi rimetteva in riga e mi incoraggiava a proseguire – oppure lo faceva lui stesso. E spessissimo mi aiutava a dar senso o a completare una frase, un paragrafo che s’interrompeva bruscamente o un testo (scritto in inglese) che suonava troppo tedesco.

Ma, alla fine, né John né io ce l’avremmo fatta se non fosse stato per Albert Gröber, coordinatore scientifico del team Erc ed esperto riconosciuto degli scritti di Ulrich in tutti i loro dettagli. Nel difficilissimo periodo seguito alla morte di Ulrich, Albert non solo ha avuto un ruolo fondamentale nel pilotare il progetto Erc tra notevoli problemi, ma ha anche attivamente contribuito a ultimare Metamorphosis,stanando abilmente riferimenti, recuperando citazioni implicite e compilando un elenco di autori e pubblicazioni rilevanti.

In tal modo il manoscritto incompiuto ha preso gradualmente forma, e alla fine è diventato un libro. Ho un grande debito verso John e Albert, e li ringrazio entrambi di cuore.

Mi auguro che nell’insieme il risultato finale sia buono, o che almeno lo sia nella maggior parte dei casi. E spero che questo risultato ci permetta di comprendere la visione che aveva in mente Ulrich quando si mise in viaggio verso Metamorphosis.

Elisabeth Beck-Gernsheim

settembre 2015

Premessa

Il mondo è fuori dei cardini. Sono molti a crederlo. Vaghiamo senza meta, confusi, discutendo pro e contro questo e quello. Su una frase la maggioranza delle persone si trova d’accordo, al di là di tutti gli antagonismi, e in tutti i continenti: «Non capisco più il mondo».

Scopo di questo libro è provare a capire, e spiegare, perché non capiamo più il mondo. A tal fine introduco la distinzione tra cambiamento e metamorfosi o, più esattamente, tra cambiamento nella società e metamorfosi del mondo. Parlare di cambiamento nella società, di cambiamento sociale, è un modo abituale di esprimere un concetto chiave della sociologia. Cosa vuol dire lo sanno tutti. Il «cambiamento» concentra l’attenzione su una caratteristica del futuro nella modernità – la trasformazione permanente –, mentre i concetti di base, e le certezze su cui poggiano, rimangono costanti. La metamorfosi, invece, destabilizza proprio queste certezze della società moderna. Sposta l’attenzione sull’«essere nel mondo» e sul «vedere il mondo»: su eventi e processi non intenzionali, che passano generalmente inosservati e si affermano, al di là della sfera della politica e della democrazia, come effetti collaterali di una radicale modernizzazione tecnica ed economica. Questi fenomeni generano uno choc di fondo, una svolta che fa saltare quelle che fino a quel momento erano le costanti antropologiche della nostra vita e della nostra concezione del mondo. La «metamorfosi», così intesa, significa semplicemente che ciò che fino a ieri era impensabile oggi è reale e possibile.

Negli ultimi decenni ci siamo trovati più volte davanti a metamorfosi di questa portata, a una serie di avvenimenti «pazzeschi» (per usare un termine colloquiale): la caduta del Muro di Berlino, gli attentati dell’11 settembre, il catastrofico mutamento climatico in tutto il mondo, il disastro del reattore di Fukushima, fino alle crisi della finanza e dell’euro e alle minacce alla libertà create, come ci ha rivelato Edward Snowden, dalla sorveglianza totalitaria nell’era della comunicazione digitale. Lo schema è sempre lo stesso: ciò che prima veniva escluso a priori perché totalmente inconcepibile accade: come evento globale, quasi sempre osservabile dal salotto di casa, in qualunque luogo al mondo, perché trasmesso dai mass media.

1.
Perché metamorfosi
e non trasformazione del mondo

Questo libro è un tentativo di salvare me stesso, e forse anche altri, da un forte imbarazzo. Ho passato molti anni a insegnare sociologia e a studiare la trasformazione delle società moderne, senza mai riuscire a trovare risposta alla domanda, semplice ma ineludibile: «Qual è il significato degli eventi globali che scorrono in televisione davanti ai nostri occhi?». Alla fine ho dovuto dichiarare fallimento. Non c’era nulla – nessuna idea o teoria – in grado di esprimere in termini concettuali il tumulto di questo mondo (come richiedeva il filosofo tedesco Hegel).

Questo tumulto non si può concettualizzare con le nozioni di «cambiamento» di cui dispone la sociologia, ossia in termini di «evoluzione», «rivoluzione» o «trasformazione». Noi viviamo infatti in un mondo che non sta semplicemente cambiando, ma che è nel bel mezzo di una metamorfosi. Cambiamento significa che alcune cose mutano ma altre rimangono uguali: il capitalismo, ad esempio, cambia, ma alcuni aspetti del capitalismo restano quali sono sempre stati. La metamorfosi, invece, implica una trasformazione molto più radicale, in cui le vecchie certezze della società moderna vengono meno e nasce qualcosa di totalmente nuovo. Per cogliere questa metamorfosi del mondo è necessario indagare i nuovi inizi, puntare lo sguardo su ciò che sta emergendo dal vecchio, cercare d’intravedere, nel tumulto del presente, le strutture e le norme future.

Prendiamo il cambiamento climatico: gran parte del dibattito sul tema si è concentrato sulla questione se stia accadendo davvero e, nel caso, su quello che possiamo fare per fermarlo o limitarlo. Ma quest’attenzione preminente per le soluzioni ci impedisce di renderci conto che il cambiamento climatico è in sé stesso un agente di quella trasformazione più radicale, è agente di metamorfosi. Esso ha già cambiato il nostro modo di essere nel mondo – di vivere nel mondo, di pensare il mondo, di cercare d’agire sul mondo attraverso l’azione sociale e la politica. L’innalzamento del livello dei mari sta creando nuovi paesaggi di disuguaglianza, sta disegnando nuove mappe le cui linee chiave non sono quelle dei tradizionali confini tra gli Stati-nazione ma quelle delle quote sul livello del mare. Crea un modo totalmente diverso di concettualizzare il mondo e le nostre possibilità di sopravvivere in esso.

La teoria della metamorfosi va oltre la teoria della società mondiale del rischio: non riguarda gli effetti collaterali negativi dei beni, ma gli effetti collaterali positivi dei mali. Questi ultimi generano orizzonti normativi di beni comuni e ci spingono al di là del quadro nazionale verso una visione cosmopolita.

Ma la parola «metamorfosi» dev’essere maneggiata con cautela, messa tra virgolette. Per il momento appare ancora come un corpo estraneo; per un po’ dovrà accontentarsi di fare la parte di immigrato con permesso di lavoro temporaneo, ed è presto per dire se prima o poi entrerà a far parte del nostro senso comune. In ogni caso, qui io voglio proporre che il termine al momento migrante di «metamorfosi» venga adottato nel senso comune sociale di paesi e lingue. È semplicemente un tentativo di offrire una risposta plausibile alla domanda impellente «In che mondo viviamo davvero?». La mia risposta è: viviamo nella metamorfosi del mondo. Ma è una risposta che chiede al lettore la disponibilità ad accettare il rischio di una metamorfosi della sua visione del mondo.

E naturalmente c’è un’altra parola molto pesante nel titolo di questo libro: la parola «mondo», strettamente legata al termine «umanità». Che significa?

Quando parliamo di fallimento del mondo l’attenzione viene concentrata sul concetto di «mondo». Tutte le istituzioni stanno fallendo: non c’è nulla e nessuno che possa dirsi decisivo nel venire a capo, ad esempio, del rischio climatico globale. Ed è proprio questa insistenza sul fallimento che mette il mondo al centro come punto di riferimento per la creazione di un mondo migliore.

È così che il concetto di «mondo» ci è diventato familiare. Ormai è un termine indispensabile per descrivere anche le cose più banali. Ha perso il suo splendido isolamento, la sua grandiosità himalayana: passando dalla porta di servizio, si è intrufolato nel nostro linguaggio quotidiano, privato. Ormai lo sanno tutti: anche gli ananas, o le infermiere che badano agli anziani, hanno un retroterra globale. E se qualcuno chiede da dove vengono quegli ananas, gli verrà detto che sono «ananas d’importazione». Analogamente, ci sono «madri d’importazione» disposte (o obbligate) a pensare e a provvedere ai figli di qualcun altro qui, e al tempo stesso ai propri figli rimasti a casa, in base alle regole dell’«amore a distanza». Basta una riflessione anche frettolosa per rendersi conto che «il mondo» e «la nostra vita» non sono più entità reciprocamente estranee, che tra loro si è formato un legame di «coabitazione» – e dico «coabitazione» perché non c’è nessun documento ufficiale (rilasciato dalla scienza o dallo Stato) che ratifichi questa unione globale a vita.

Ciò detto, resta la domanda: perché metamorfosi del mondo, e non «cambiamento sociale» o «trasformazione»?

Prendiamo il caso della Cina. Quello che è avvenuto in Cina a partire dalla Rivoluzione culturale e dalla riforma economica si può definire trasformazione: un percorso evolutivo dalla chiusura all’apertura, dal nazionale al globale, dalla povertà alla ricchezza, dall’isolamento all’integrazione. Metamorfosi del mondo significa qualcosa di più e di diverso rispetto a una semplice evoluzione dalla chiusura all’apertura. Significa cambiamento epocale di visioni del mondo, un nuovo disegno della visione del mondo nazionale. Un simile cambiamento, tuttavia, non è causato da una guerra, da violenza o da un’aggressione imperialistica. È provocato invece dagli effetti collaterali di una modernizzazione che si è imposta con successo, cose come la digitalizzazione o le capacità di previsione della catastrofe climatica che incombe sull’umanità. Ma il Weltbild nazionale-internazionale istituzionalizzato – ovvero la nostra «immagine del mondo», il modo in cui comprendiamo il mondo – è appassito. «Immagine del mondo» vuol dire: per ogni cosmos c’è un corrispondente nomos, in cui si fondono certezze normative ed empiriche sul mondo, sul suo passato e sul suo futuro. Bene, queste «stelle fisse», queste certezze, non sono più fisse. La loro metamorfosi si potrebbe definire una «Svolta copernicana 2.0».

Galileo scoprì che non è il Sole a girare attorno alla Terra, ma la Terra attorno al Sole. Oggi siamo in una situazione diversa, ma per certi versi simile. Il rischio climatico, ad esempio, c’insegna che la nazione non è il centro del mondo. Il mondo non gira attorno alla nazione: sono le nazioni a girare attorno a quelle nuove stelle fisse che sono il «mondo» e l’«umanità». Internet ne è un esempio: crea il mondo in quanto unità della comunicazione, e crea l’umanità, per il semplice fatto che offre la potenzialità d’interconnettere, letteralmente, chiunque. È in questo spazio che i confini – nazionali e non – vengono superati, scompaiono e vengono costruiti ex novo: cioè, vanno incontro a «metamorfosi».

Il «nazionalismo metodologico» dice che il Sole gira attorno alla Terra, ovvero il mondo gira attorno alla nazione. Il «cosmopolitismo metodologico», al contrario, insegna che è la Terra a girare attorno al Sole, ovvero che sono le nazioni a girare attorno al «mondo a rischio». In un’ottica nazionale la nazione è l’asse, la stella fissa attorno a cui gira il mondo. Questa visione nazione-centrica del mondo appare storicamente falsa da un punto di vista cosmopolita. Metamorfosi del mondo significa che la «metafisica» del mondo sta cambiando¹.^.

1 Il termine metamorfosi ci viene dal latino che lo aveva tratto dal greco (metà significa «cambiamento» e morphé «forma»), e il suo significato chiave è «cambiamento di forma» (in inglese compare per la prima volta nel 1530 in rapporto alla magia o alla stregoneria). Il sinonimo più calzante non è riconfigurazione, ma trasfigurazione. La «metamorfosi» si può, dunque, definire come un mutamento di primaria importanza per cui una certa cosa diventa qualcos’altro, e implica una trasformazione totale in un diverso tipo, in una diversa realtà, in un diverso modo di essere nel mondo, di vedere il mondo e di fare politica.

Per capire come mai quell’immagine del mondo sia «storicamente falsa» dobbiamo distinguere tra la svolta copernicana delle scienze della natura e la Svolta copernicana 2.0 delle scienze sociali. L’immagine del mondo secondo cui il Sole gira attorno alla Terra è sempre stata falsa: ma questa realtà veniva negata dai seguaci e difensori del dogma religioso. La Svolta copernicana 2.0 si dispiega, invece, nella realtà – ossia nell’attività quotidiana – come sovvertimento e crollo effettuale dell’ordine del mondo. Ciò non comporta la dissoluzione e la scomparsa delle nazioni e degli Stati nazionali, ma soltanto la loro «metamorfosi». Le nazioni devono trovare il loro posto nel mondo digitale, devono (re)inventare sé stesse girando attorno alle nuove stelle fisse: il «mondo» e l’«umanità».

Un po’ come accaduto con l’ordine internazionale moderno, lo Stato sovrano, l’industrializzazione, il capitale, le classi, le nazioni e la democrazia che sono sorti e si sono dispiegati dopo il crollo dell’ordine del mondo basato sulla religione, il rischio climatico globale porta in sé una sorta di sistema di navigazione per il mondo in pericolo. Il rischio climatico indica la strada. Ma non è detto che essa porti al successo. È anche possibile che in fondo alla strada scelta l’umanità trovi l’autodistruzione. Questa possibilità esiste anche perché, nel momento in cui la strada appare alla vista, si vede chiaramente che le «eterne certezze» della visione nazionale del mondo sono miopi e sbagliate, non appaiono più come verità evidenti e si rivelano invece come credenze legate a un’epoca.

La storia della metamorfosi è una storia di conflitti ideologici (pensiamo ad esempio alle guerre di religione). Carlo Magno edificò il suo impero cristiano sulla salda certezza che per la vera fede fosse lecito uccidere, spazzare via i pagani e la loro cultura; si alleò con il papa e impose i comandamenti di Dio con la forza bruta. Questa visione religiosa del mondo di stampo cristiano si basava sull’unità di conquista e missione, sull’alleanza tra la spada e la croce. Il battesimo cristiano si realizzava nella violenza dell’atto di sottomissione. Questa visione religiosa del mondo insegnava che la pace è possibile solo nell’unità della cristianità. Quello che ieri si combatteva su scala regionale, oggi si combatte su scala globale.

Stiamo vivendo uno scontro tra immagini del mondo rivali che, come un tempo quello tra cristiani e barbari pagani, porta con sé conflitti feroci e brutali, conquiste sanguinose, guerre sporche, terrore e controterrore.

Nell’attuale variante storica della scoperta di Galileo il mondo non ruota più attorno a piccoli principati, al conflitto tra cattolici e ugonotti, dominatori coloniali e barbari, superuomini e razze inferiori. La visione del mondo centrata sulla razza è morta e sepolta (soprattutto in Germania e in Europa, per reazione al fanatismo dei nazisti), e lo stesso vale (anche se non in tutto il mondo) per la visione del mondo patriarcale o per quella che mentre celebra l’uguaglianza esclude le donne, gli schiavi e i «barbari». (Pensiamo ai padri fondatori degli Stati Uniti d’America e alla loro costituzione: non si accorsero neanche che gli afroamericani erano esclusi dai diritti umani, ma ai loro occhi era la cosa più naturale del mondo.)

Cosa vuol dire esattamente che il Weltbild ancora presente è «appassito»? Molte di queste immagini del mondo – forse tutte – continuano a esistere simultaneamente, una accanto all’altra. Ma allora il fatto che siano «appassite» significa due cose: primo, che esse hanno smesso di essere certe, hanno perso la loro supremazia; secondo, che nessuno sfugge alla dimensione del globale. Come vedremo più avanti, il globale – ossia la realtà cosmopolitizzata – non è semplicemente «là fuori», da qualche parte, ma è la realtà strategica in cui vive ciascuno di noi.

Per comprenderlo dobbiamo distinguere tra Glaubenssätze, «dottrine», e Handlungsräume, «spazi d’azione», che sono i parametri entro cui si compie l’attività sociale che coinvolge le immagini del mondo. Le dottrine potranno anche essere particolaristiche, orientate alle minoranze, anticosmopolite, antieuropee, religiosamente fondamentaliste, etniche, razziste; ma gli spazi d’azione sono inevitabilmente costituiti in termini cosmopolitici. Gli antieuropei di fatto siedono nel Parlamento europeo (se non lo facessero non conterebbero nulla). I fondamentalisti religiosi antimoderni celebrano la decapitazione degli ostaggi occidentali su tv e piattaforme digitali per colpire il mondo con il loro regime di terrore disumano. E se un domani dovesse comparire un gruppo che predica la superiorità politica dei pellerossa che scrivono con la sinistra, non si limiterebbe a proclamare e praticare le proprie convinzioni localmente, ma lo farebbe su scala globale.

Anche chi non si sposta ormai è cosmopolitizzato. Chi non è mai uscito dal proprio villaggio, chi non ha mai messo piede su un aereo, è comunque strettamente e costantemente collegato al mondo: in un modo o nell’altro è influenzato dai rischi globali. È collegato al mondo anche perché il telefono cellulare è ormai parte integrante della quotidianità, su tutto il pianeta. E qui la metamorfosi non consiste semplicemente nel fatto che ciascuno è (potenzialmente) interconnesso agli altri, ma che questo entrare nel «mondo» significa entrare in qualcosa che segue una logica del tutto diversa. Ognuno si ritrova in un mondo sostanzialmente diverso da quello che si immagina e si aspetta: un mondo in cui il solo fatto di usare un telefono mobile comporta la metamorfosi di una persona in risorsa (informativa), in consumatore trasparente esposto al controllo delle imprese transnazionali globali. Questa è una caratteristica chiave della metamorfosi.

Se vuoi pagare meno tasse, o se non puoi avere figli ma vuoi averli lo stesso, tutto ciò che devi fare è comprendere e sfruttare a tuo vantaggio le differenze giuridiche ed economiche tra le varie sfere economiche e giuridiche dei diversi contesti nazionali. Un costruttore che ragionasse in termini esclusivamente nazionali – assumendo ad esempio solo operai tedeschi, anche se più costosi di quelli stranieri – fallirebbe. In altre parole, nel mondo cosmopolitizzato chi eleva il criterio nazionale a imperativo del proprio agire – rimanendo chiuso nei confini nazionali – è destinato a perdere.

Naturalmente ognuno è libero di non salire su un aereo o di non usare l’email; ma questa decisione equivale a tagliarsi fuori dagli spazi in cui può agire efficacemente. L’ordine del mondo si basa sulla necessità storica di operare fuori e oltre i confini per realizzare i propri fondamentali obiettivi di vita. In altri termini, globalmente si afferma un imperativo all’azione cosmopolitizzata: non importa come la pensiamo o cosa crediamo, se siamo nazionalisti, fondamentalisti religiosi, femministi, patriarcali, (anti)europeisti, (anti)cosmopolitici o tutte queste cose insieme: agire su scala nazionale o locale significa restare indietro. Non importa in quale passato le persone cerchino di rifugiarsi mentalmente – se nell’Età della pietra, nel Biedermeier, ai tempi di Maometto, nell’Illuminismo italiano, nel nazionalismo ottocentesco: per avere successo devono creare ponti con il mondo, con il mondo degli «altri». All’inizio del ventunesimo secolo gli spazi d’azione sono ormai cosmopolitizzati: e ciò significa che il contesto in cui operiamo non è più soltanto nazionale e integrato, ma globale e disintegrato, e comprende le differenze tra le varie regole nazionali sul terreno delle leggi, della politica, della cittadinanza, dei servizi e via dicendo.

Nel mondo cosmopolitizzato persino le elezioni nazionali sono organizzate in modo cosmopolita: se un partito vuol vincere deve conquistare anche i voti dei cittadini che vivono all’estero, per esempio dei turchi residenti in Germania o degli americani che vivono fuori degli Stati Uniti. Gli Stati che reagiscono alla «criminalità cosmopolita» in termini esclusivamente nazionali dimenticano che il crimine si è cosmopolitizzato: per reagire e intervenire adeguatamente è indispensabile analizzare e comprendere gli spazi d’azione cosmopolitizzati dei criminali e delle grandi imprese che operano con modalità «translegali».

L’idealismo cosmopolita è finito, inizia il realismo cosmopolita. Per riuscire dobbiamo aprirci al mondo!

Per chi continua a identificare la propria certezza metafisica con la nazione, l’etnia o la religione, il mondo si sta sfasciando. E la disperazione spinge al fondamentalismo nazionale e religioso. È per questo che centinaia di studi sociologici si chiedono cosa pensano le persone, cos’abbiano inmente, ci parlano di un contraccolpo, di un ritorno agli orientamenti nazionalistici. Sarà anche vero che le persone la pensano così, ma... come agiscono, quelle stesse persone? Se si guarda solo agli orientamenti si perde di vista l’essenziale, e cioè che nessuno, a prescindere da cosa pensi e creda, può sfuggire a quel paradosso della metamorfosi che è il mondo cosmopolitizzato: per difendere il proprio fondamentalismo nazionale e religioso le persone devono agire – e cioè pensare e pianificare – in modo cosmopolita. E in tal modo finiscono per favorire proprio ciò che intendevano evitare: la metamorfosi del mondo.

Anche i poveri, devono agire in modo transnazionale – adeguandosi alla «mobilità nel mondo», ossia emigrando – per non impoverirsi ancora di più rimanendo nelle bidonville del Bangladesh o dell’Africa settentrionale o nei ghetti americani. E i ricchi nello spazio transnazionale si arricchiscono ulteriormente, perché possono investire i loro soldi ovunque rendano di più e si paghino meno tasse. La stessa logica vale per le scienze sociali: chi resta fermo al nazionalismo metodologico è destinato a perdere. I sociologi che fanno ricerca solo nel e sul loro contesto nazionale non fanno più carriera e rimangono ciò che sono: sociologi nazionali.

Se vuoi riuscire nelle tue attività devi imparare a muoverti in spazi d’azione cosmopolitizzati (condizione necessaria, anche se non sufficiente). Se non puoi avere un figlio ma lo desideri, devi «googlare» la giusta donatrice di ovuli, la madre surrogata ideale o il donatore di sperma che faccia al caso tuo. Così pure per trovare aiuto domestico, per decidere dove andare a studiare o trovare lavoro: per operare con successo bisogna «googlare», sempre. È il quadro cosmopolitico a garantire il successo dell’azione locale: pensiamo agli ananas di cui sopra, o alla squadra di calcio del Bayern Monaco!

All’inizio del ventunesimo secolo il mondo sta diventando radicalmente schizofrenico. Indipendentemente da ciò che credono, sperano o negano, le persone che vogliono riuscire – nell’economia, nella religione, nella nazione, nella comunità o nella loro famiglia, nel loro lavoro, nel loro tifo calcistico, nella loro vita sentimentale – devono agire cosmopoliticamente; persino nel loro terrorismo. E la cosmopolitizzazione si estende finanche al corpo. Chi pretende di mangiare cibo esclusivamente locale rischia di morir di fame. E in tempi di cambiamento climatico, chi vuol respirare solo l’aria di casa sua finirà per soffocare. La distinzione tra dottrine e spazi d’azione è dunque cruciale.

2.
Giocare a essere Dio

La metamorfosi del mondo – questa la mia tesi – comprende la metamorfosi dell’immagine del mondo, che a sua volta ha due dimensioni: la metamorfosi dell’inquadramento generale (framing) e la metamorfosi della pratica e dell’agire. Questa idea verrà sviluppata nel corso del capitolo. La visione del mondo include sempre un’immagine dell’umanità. Prendiamo a esempio la medicina riproduttiva: propongo di tracciare da una parte la metamorfosi della vita umana, e dall’altra la metamorfosi dell’immagine dell’umanità, l’immagine della maternità, della paternità e della genitorialità che è stata valida per millenni. Con le nuove opzioni offerte dalla tecnologia medica sta emergendo un nuovo quadro di riferimento e spazio d’azione cosmopolitico, in particolare in un ambito in cui nei pensieri della gente prevale ancora la vecchia immagine dell’umanità. In breve: un atto considerato intimo e quasi «sacro» è diventato, per metamorfosi, un campo di attività cosmopolitizzate globali.

La metamorfosi del mondo

L'autore

Ulrich Beck

Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.

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