Premessa
Parlare di disobbedienza riflette l’urgenza di discutere un tema che il pubblico generale
considera spesso futile se non pericoloso. Futile quando vede la disobbedienza come
una semplice postura esistenziale in ritardo con la storia; pericolosa quando vede
il dissenso come un attacco tout court all’ordine sociale. Ma questa è una visione falsata del reale. Anche se qualche minoranza
considera la conflittualità e la disobbedienza come degli ingredienti fondamentali
di una democrazia funzionante, l’opinione pubblica ha vissuto gli ultimi anni in un
clima di relativa calma e si è abituata a considerare l’assenza di conflitto come
lo standard del reale. Nonostante nel patrimonio culturale di molti rimanga il mito
sessantottino, gli ultimi decenni hanno avuto una conflittualità sociale piuttosto
localizzata. Dopo il fallimento delle proteste no global a cavallo del passaggio di
millennio e la ritirata dal conflitto post-crisi 2008, molti hanno dato per scontato
che la disobbedienza e la conflittualità fossero ormai sconfitte con la ritirata della
critica radicale al sistema economico-sociale attuale. Tuttavia, il dissenso è rimasto
e si è espresso in ondate di manifestazioni (di protesta politica su questioni locali,
o su grandi temi come la difesa del clima o la parità di genere) in maniera per lo
più pacifica. Questo significa che la conflittualità e la disobbedienza appartengono
ancora all’orizzonte delle nostre società, ma ci si è abituati a pensarle come marginali.
E, anche quando riemergono, vengono troppo spesso paragonate, nel bene e nel male,
a esperienze ormai troppo diverse perché ci sia un confronto rilevante: insufficienti
per sembrare l’anticamera della rivoluzione, ma sufficienti per disturbare il tran
tran dell’ordinario. In ogni caso esse sono poco capite nella loro portata specifica.
Al giorno d’oggi il radicalismo e la disobbedienza assumono forme impreviste, molto
più trasversali e indipendenti dallo scontro tradizionale. La sfida, quindi, è pensare
alla disobbedienza oggi con categorie aggiornate.
Nel mappare alcune forme di disobbedienza emerse nella cronaca politica degli ultimi
anni sarà necessario fare qualche riferimento ai classici della disobbedienza (Thoreau,
Gandhi, Martin Luther King, ma non solo), al fine però di valorizzare quanto di nuovo
c’è nelle sfide attuali. Infatti, pur appellandosi a strumenti classici (e talvolta
idealizzati) come la disobbedienza civile e la non-violenza, le nuove istanze pongono
sfide diverse. Utilizzando categorie analitiche provenienti dal dibattito teorico
internazionale per gettare luce su casi di cronaca vicini a noi, si cercherà di vagliare
l’attualità della disobbedienza civile, così come di confrontare la disobbedienza
civile con forme non-civili di protesta, per capire se e quando quest’ultime possono
essere accettabili. Senza avanzare una teoria generale della disobbedienza, ci si
dovrà misurare con gli inevitabili giudizi individuali, fornendo una mappa ragionata
di un territorio accidentato. La sfida è ovviamente enorme e per certi aspetti impossibile.
Qui non si può che fornire l’analisi di uno spicchio minimo all’interno di un’area
molto più vasta. Ma nel farlo si cercherà di fornire una prospettiva attraversabile
e digeribile da un pubblico il più possibile ampio.
In tal senso, il ruolo di chi scrive non sarà né quello del teorico disinteressato
che discute solo di categorie astratte, né quello del militante che spinge avanti
certe rivendicazioni. La presentazione delle categorie teoriche servirà a illuminare
casi specifici, di fronte ai quali sarà necessario prendere una posizione. Una posizione
rivedibile alla luce di nuove informazioni o di un confronto con altri casi analoghi.
Una posizione inevitabilmente morale, cioè di moralità politica, che non può che derivare
dalle riflessioni dello scrivente. Cercando di difenderne la plausibilità, si inviterà
chi legge a usare a sua volta le categorie generali per fare un esercizio di giudizio
politico. Contestuale, rivedibile e necessariamente dipendente dai propri valori,
ma non per questo puramente soggettivo e arbitrario.
In questa carrellata di precisazioni sul senso dello scritto e sulla posizione instabile
dell’autore (né espressamente scomoda e controcorrente, né protetta dal comfort della
pura analisi teorica) è doveroso spiegare una scelta stilistica che è connessa ad
altre questioni politiche e valoriali. In questo volume non si userà lo schwa o l’asterisco
per garantire un neutro di genere. Pur condividendo le ragioni sottese all’inclusività
linguistica, si cercherà di perseguire una via più articolata e ispirata alla ricchezza
della lingua ordinaria. In molti casi la frase sarà formulata in maniera neutra, in
modo da evitare l’esplicitazione del genere dei soggetti. In alcuni casi saranno esplicitati
i vari generi in questione (“attiviste e attivisti”). In altri casi, per ragioni di
fluidità del discorso, si è mantenuto il maschile sovraesteso. Questa scelta stilistica
potrà forse essere frutto di un mero passaggio storico intermedio, in attesa dell’affermazione
di un compromesso tra le nuove esigenze e la struttura tradizionale della lingua.
Ma si tratta di un compromesso linguistico che è analogo al modo in cui si procederà
con l’analisi della disobbedienza: il tentativo di costruire uno spazio discorsivo
condiviso aperto a prospettive valoriali, politiche e umane di diversa origine.
I riferimenti ai casi di cronaca o alle teorie, se non di dominio pubblico, sono indicati
nella bibliografia ragionata alla fine di ogni capitolo.
Per le discussioni e i suggerimenti desidero ringraziare Sebastiano Benasso, Enrico
Biale, Michele Bocchiola, Paolo Bodini, Emanuela Ceva, Isabel Fanlo Cortés, Corrado
Fumagalli, Marta Giunta, Robert Jubb, Alfred Moore, Valeria Ottonelli, Andrea Pirni,
Luca Raffini, Massimo Renzo, Guri Schwarz, Maria Silvia Vaccarezza.
Disobbedienza e torpore collettivo
La disobbedienza compare quotidianamente nella discussione pubblica. C’è chi la evoca
fiducioso, e chi la deplora; chi l’attende, e chi la teme. In ogni caso, sembra far
parte del nostro vissuto politico quotidiano. Eppure, oggi è difficile valutarne la
consistenza storica e politica. Un confronto generazionale sembra averne ridotto la
portata rispetto ai movimenti sociali dei baby boomers, così come rispetto alle grandi manifestazioni contro la globalizzazione e la guerra
in Iraq. C’è chi rimpiange nostalgicamente la radicalità politica ed esistenziale
della disobbedienza passata, e chi ridicolizza la pretesa di incidere su fenomeni
globali come la crisi climatica attraverso azioni puramente simboliche. Tuttavia,
a dispetto delle impressioni di calma piatta, gli ultimi anni hanno visto sorgere
nuovi movimenti che si sono espressi in manifestazioni molto partecipate (soprattutto
quelle femministe e climatiche). Eppure, nella percezione del pubblico medio, la protesta,
anche per una causa condivisa, è ammissibile solo se non comporta inconvenienti e
non infrange la superficie della routine. Sembra esserci una sfasatura tra la realtà
degli atti di disobbedienza della cronaca recente e i parametri di valutazione. Una
sfasatura tra l’urgenza morale delle iniziative e l’apparente inerzia dell’opinione
pubblica. Ma anche una sfasatura tra l’impatto piuttosto circoscritto di molte di
queste proteste e le preoccupazioni indignate di chi si scandalizza al riguardo.
Emerge, in tal senso, una difficoltà da parte dell’opinione pubblica nel valutare
la disobbedienza secondo categorie appropriate. Come se la fine delle grandi ideologie
novecentesche avesse lasciato non soltanto un vuoto politico, ma anche un vuoto concettuale
nell’interpretazione dei fenomeni. Così come alcuni, legati a parametri passati, lamentano
l’assenza di iniziativa politica delle nuove generazioni, altri invece gridano all’inutilità
delle proteste attuali, che sarebbero non solo incapaci di incidere sul reale ma anche,
più colpevolmente, mera espressione di un bisogno narcisistico di visibilità pubblica.
La difficoltà interpretativa va ovviamente di pari passo con la difficoltà di azione
politica. È tanto falso dire che attualmente le azioni di disobbedienza sono inutili
o pericolose, quanto dire che sono l’unico faro di speranza – sebbene non tanto luminoso
quanto le iniziative politiche degli scorsi decenni. Per capire la sfasatura tra realtà
e categorie interpretative, tra consistenza delle azioni e discorso pubblico al loro
riguardo, può essere utile una breve parentesi macrostorica sul rapporto tra movimenti
politici e tendenze storiche di lungo periodo. Non è il caso di richiamare qui la
vulgata sull’illusoria fine della storia emersa alla fine del secolo scorso. Vulgata
tanto ideologica, quanto decantata a livello di dibattito pubblico. Sebbene la celebre
tesi di Francis Fukuyama fosse un po’ diversa da questa formuletta, presupponendo
una direzione storica globale che vedeva il compimento della democrazia liberale come
la migliore espressione del progresso umano, la sua ricezione ha indubbiamente provocato
un assopimento presuntuoso dell’opinione pubblica occidentale, che fece presumere
a molti (ma non a tutti) di vivere nella migliore traiettoria storico-politica possibile:
fine dell’unico sistema alternativo alla democrazia liberale e vittoria di quest’ultima
a livello globale. Il risveglio dal torpore indotto da questo oppiaceo del dibattito
pubblico è avvenuto in Europa e Stati Uniti a cavallo del nuovo millennio con le ondate
di protesta radicale dei movimenti no global, poi riprese dai movimenti contro la
guerra in Iraq nei primi anni Duemila. In seguito, il mantello del consenso unanime
percepito alla fine del secolo scorso è stato squarciato solo da alcune proteste.
Sebbene vi siano state diverse ondate di proteste globali e locali (contro l’assetto
proprietario del capitalismo, la discriminazione e la violenza di genere, e il riscaldamento
globale), pochi movimenti sono stati percepiti come globalmente rilevanti. Tra questi,
il più importante e diffuso fu probabilmente l’ondata di proteste successiva alla
crisi economica e finanziaria del 2008. Eppure, nonostante il riemergere carsico di
varie forme di dissenso radicale, la coscienza pubblica mainstream ha spesso faticato
a comprenderne le ragioni e soprattutto la specificità, arrivando così a confondere
azioni molto diverse: manifestazioni di piazza e tentativi di organizzare spazi di
esistenza alternativa; disobbedienza civile e chiamata al boicottaggio di nazioni
e aziende; e tanto altro. Tutte queste forme di attivismo si richiamano a tattiche
tutt’altro che nuove, ma sono state salutate dal pubblico occidentale con indifferenza
o eccessivo timore, oppure con speranze malriposte e successiva disillusione.
Queste sfasature tra realtà e aspettative non rendono giustizia alla possibile novità
che abbiamo sotto gli occhi. In questi ultimi anni chi è memore della galassia post-sessantottina
ha fatto fatica a comprendere la realtà della nuova disobbedienza (ambientalista,
antirazzista, animalista). Interpretando questo dissenso alla luce della radicalità
esistenziale, oltre che politica, della propria esperienza, non si è capita la specificità
delle nuove istanze, difendendosi dietro un legittimismo a priori o sottovalutandone
la portata politica. Vittima di un timore eccessivo verso qualsiasi azione di rottura,
il pubblico ha sopravvalutato il rischio per l’ordine sociale di molte azioni politiche,
come se fossero tentativi violenti di rivoluzione, o ne ha sottostimato la rilevanza
collettiva derubricandole a estemporanee esigenze dei giovani. Un legalismo formale
e un paternalismo anche più conservatore di quanto il mainstream pretenderebbe di
essere.
Dall’altro lato, il pubblico interessato alla rottura radicale e insofferente verso
l’apparente mancanza di alternative al sistema si è buttato idealmente ad abbracciare
ogni nuova iniziativa. In cerca di sfide radicali, molti hanno visto ogni istanza
di rottura come se fosse la tessera di un unico puzzle globale di rovesciamento dell’ordine.
L’effetto implicito di questo atteggiamento è stato l’entusiasmo a priori verso la
forma della disobbedienza, come se l’atto di rottura fosse il fine e non il mezzo,
la realizzazione e non il percorso di cambiamento. Frustrato dai molti fallimenti,
il pubblico che si percepisce come alternativo si è talvolta accontentato del gesto,
non potendo sperare realmente nel compimento delle intenzioni.
In tutta questa complessa dinamica, tratteggiata qui per sommi capi, si è persa la
capacità di discernere. Entrambi i punti di vista, mainstream e radicale, non hanno
reso giustizia alla specificità delle rivendicazioni disobbedienti. È quindi necessario
ripensare il senso e la legittimità della disobbedienza per evitare la Scilla di un
timore legittimistico verso ogni rottura dell’ordine e la Cariddi dell’entusiasmo
cieco verso ogni tipo di rivendicazione. Senza pretendere di dare patenti di giustificazione,
è necessaria un’analisi delle condizioni di validità per capire in che forme le azioni
di disobbedienza possono essere moralmente giustificate, oltre che politicamente fruttuose.
Obbligo politico e disobbedienza
Tutto questo sembra un po’ banale e ovvio, ma si scontra con un’obiezione fondamentale.
Anche ammettendo che in generale il rispetto della legge sia solitamente un bene,
si deve riconoscere che ci sono leggi ingiuste, poiché sono dei veri affronti alla
moralità comune, o perché sono imposte da sistemi oppressivi. Si pensi al famosissimo
caso di Oskar Schindler. Industriale tedesco iscritto al partito nazista, impiegò
migliaia di ebrei nella sua fabbrica e li protesse dalla deportazione nei campi di
concentramento. Con le sue conoscenze politiche e le sue disponibilità economiche
corruppe personaggi chiave delle gerarchie naziste salvando la vita di migliaia di
ebrei. Chiaramente gli atti in violazione della legge che Schindler perpetrò ora sono
considerati come necessarie espressioni di umanità e coraggio morale di fronte alla
disumanità nazista. Oppure si pensi a quanto viene attribuito a Gino Bartali. Già
ciclista conosciutissimo e amato, pare abbia fatto un’attività di supporto clandestino
durante gli ultimi anni del regime fascista. Con la copertura degli allenamenti, pare
abbia trasportato i documenti per numerosi ebrei italiani salvandoli dalla deportazione
verso i campi di concentramento. Quale che sia la verità storica sui casi di Schindler e Bartali, essi rimangono
esemplificativi di una sfida a leggi e regimi radicalmente ingiusti. Giustamente li
consideriamo eroi, non solo perché hanno fatto la cosa giusta ma anche perché nel
farlo hanno messo a rischio la propria vita.
Si può pensare che questi casi, seppure ammirevoli ed esemplari, non possano indicarci
un criterio adatto per i nostri giorni poiché i regimi nazisti e fascisti costituiscono
un unicum estremo di immoralità e di indicibilità politica. Si trattava di regimi illegittimi
da tanti punti di vista e giustamente guardiamo all’apparente consenso su cui vissero
per anni come frutto della più spietata manipolazione propagandistica, e come espressione
del sadismo gerarchico di qualche genuino sostenitore del sistema. O al massimo pensiamo
che la maggior parte delle persone non si ribellava agli ordini ingiusti per pura
e comprensibile paura, volendo vivere una vita il più possibile ordinaria anche nei
regimi meno ordinari della storia. In ogni caso, non pensiamo che ci fosse un obbligo
genuino di rispettarne gli ordini specifici. Ciò non vuol dire che le persone fossero
legittimate a comportarsi in maniera contraria a ogni disposizione legale di quei
regimi. Anche regimi sommamente illegittimi e ingiusti comprendono norme legali comuni
a tutti gli altri sistemi: ad esempio, la proibizione della violenza ordinaria o del
furto della proprietà altrui. Seppure ingiusti e oppressivi, anche questi regimi costituirono
forme di ordine sociale. Quindi ci si deve porre la domanda sulla legittimità della
disobbedienza anche riguardo a questi regimi poiché un rifiuto generalizzato di ogni
norma emanata dall’autorità, anche da quella più odiosa, non può essere moralmente
accettabile: anche in uno stato sommamente ingiusto non è accettabile disobbedire
a leggi che tutelano l’integrità corporea delle persone. Quindi, la legittimità della
disobbedienza, anche nel caso nazifascista, va misurata rispetto alle questioni specifiche.
In altre parole, l’illegittimità estrema di uno stato non garantisce un lasciapassare
alla violazione ordinaria di ogni tipo di norma, ma giustifica sicuramente la disobbedienza
almeno verso le norme ingiuste (ad esempio, lo sterminio degli ebrei, il confino o
l’eliminazione degli oppositori politici, la discriminazione palese verso intere categorie
di persone, e tante altre).
La disobbedienza al nazifascismo potrebbe essere un esempio estremo, seppur ammirevole,
che è di scarso aiuto nel valutare la disobbedienza oggi. Del resto, non ogni ingiustizia
o discriminazione esprime la tendenza fascista di un ordine sociale, e giustamente
si riconosce che la facile accusa di fascismo o nazismo che spesso viene mossa nel
dibattito pubblico attuale è una sorta di fallacia argomentativa (ad Hitlerum!), usata per bloccare il discorso di qualcuno che per qualche motivo non ci piace.
Ma oltre alla disobbedienza al nazifascismo ci sono altri esempi di disobbedienza
a regimi legali e sociali molto ingiusti, pur non essendo propriamente nazifascisti.
Si pensi alla lotta politica di Gandhi e Martin Luther King. Pur predicando e praticando
la non-violenza, molte loro iniziative prevedevano la disobbedienza a leggi e decisioni
amministrative. Celeberrima fu la marcia del sale promossa da Gandhi nel 1930. Sotto
il dominio coloniale inglese, agli indiani era proibito produrre autonomamente il
sale, vedendosi costretti a comprare quello prodotto altrove e ampiamente tassato
da parte inglese. Il monopolio inglese e l’impossibilità di autoprodurre un bene di
prima necessità non fu che uno dei tanti aspetti della dominazione inglese, sebbene
la sua odiosità ordinaria ne fece il motore di una delle proteste più significative
e famose. Insieme alla campagna di non-collaborazione degli anni precedenti, fu uno
degli aspetti principali della strategia gandhiana di opposizione non-violenta e di
rifiuto di assoggettarsi a leggi particolarmente discriminatorie e odiose. Alla marcia
aderirono decine di migliaia di persone e, come reazione pratica, molte persone si
misero ad autoprodurre il sale violando il divieto. Il movimento fu soppresso con
la forza dagli inglesi, ma permise di mostrare un esempio della risposta gandhiana:
di fronte alla violenza i manifestanti furono istruiti a non rispondere con altra
violenza, anche a costo di soffrire e di mettere a repentaglio il proprio corpo.
Si consideri anche la famosa marcia di Birmingham (Alabama) guidata da Martin Luther
King nel 1963. A differenza di altre proteste pubbliche, in questo caso il movimento
decise di sfidare l’ingiunzione di un tribunale che proibiva, per motivi di ordine
pubblico, la marcia. Sebbene King a quel tempo avesse già promosso e organizzato la
disobbedienza verso leggi e ordinamenti locali che discriminavano i neri, non aveva,
sino a quel punto, sfidato le corti di giustizia, ritenendole espressione di un ordinamento
statale in generale accettabile (o per lo meno più accettabile delle amministrazioni
locali). La sua posizione privata rimase probabilmente ambigua, ma a livello pubblico
la sua strategia e i suoi discorsi si basavano più sulla fiducia nelle corti che sulla
possibilità che la politica locale potesse invertire la rotta senza una corposa spinta
dall’opinione pubblica nazionale e dalle istituzioni federali. Sul caso specifico,
si può dire che il divieto di manifestazione sembra in generale una limitazione odiosa
a un diritto costituzionale. Ma è concepibile che, almeno in alcuni casi, esigenze
di ordine pubblico possano limitare l’espressione di questo diritto. La scelta di
King e del movimento di andare verso un confronto più diretto e di sfidare la decisione
di un organo indipendente dalle autorità locali sembra al giorno d’oggi giustificata,
ma comportò un cambio di rotta, di cui King era cosciente, nel tipo di disobbedienza
alle autorità.
Oggi salutiamo queste iniziative come grandi contributi a delle cause sacrosante:
l’emancipazione coloniale e la lotta alla discriminazione razziale. E nel farlo dimentichiamo
che, al loro tempo, furono considerate campagne controverse, anche da parte di alcuni
che sostenevano la causa, perché intenzionalmente violavano leggi, ordinamenti locali
o decisioni di istituzioni (tribunali) altrimenti ritenuti legittimi. Il regime coloniale
britannico discriminava e opprimeva l’India, pur essendo inserito in un sistema di
governo della legge nella liberale Inghilterra. Il sistema razzista degli stati del
sud statunitense sopravviveva in un paese democratico come gli Stati Uniti della metà
del XX secolo, in cui formalmente la discriminazione era vietata costituzionalmente.
Sebbene la non-discriminazione e il governo della legge siano ingredienti tipici di
regimi capaci di generare obbligo politico, il dominio coloniale e il razzismo degli
stati del sud (il cosiddetto sistema Jim Crow) creavano un regime radicalmente ingiusto
all’interno di un apparato statale almeno in parte legittimo. Pur essendo sistemi
solo in parte legittimi, data la persistenza delle ingiustizie coloniali e razziste,
la disobbedienza a quelle leggi ci appare oggi come legittima e sacrosanta, anche
se ai tempi non tutti la vedevano in quel modo.
Sebbene gli esempi citati non siano sullo stesso piano – una cosa è il regime nazista
che esegue lo sterminio degli ebrei, un’altra il sistema di discriminazione razziale
americano o il dominio inglese in India –, tutti questi casi mostrano che non è sempre
vero che abbiamo un dovere di rispettare la legge o il sistema politico in cui è inserita.
È intuitivamente chiaro che di fronte a sistemi totalmente sbagliati abbiamo un diritto
(o un dovere?) di non ottemperare agli obblighi legali e forse anche di ribellarci.
I regimi radicalmente ingiusti sopravvivono grazie all’acquiescenza, pigra, intimorita,
o consapevole, della maggioranza della popolazione, come sostenne il celebre Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie. Ma il semplice fatto che vengano accettati o che non ci sia
una ribellione non ne decreta la legittimità. Quando, invece, abbiamo un obbligo generale
di rispettare la legge?
Al giorno d’oggi si ritiene che un sistema che violi i diritti umani fondamentali
– ad esempio, le libertà di base e l’uguaglianza di tutte le persone di fronte alla
legge – non meriti il rispetto. Invece, si ritiene che un sistema sostanzialmente
giusto generi un obbligo al rispetto, quello che nel lessico filosofico viene definito
come obbligo politico. È convinzione diffusa che, se le leggi rispettano questi principi di base e sono
elaborate da un sistema politico accettabile, i cittadini abbiano un obbligo a rispettarle.
Ovvero si ritiene che ci sia un dovere di osservanza delle leggi in quanto tali, nella
misura in cui siano state emesse da un sistema in generale legittimo e siano rispettose
di un insieme di principi universalmente validi. Anche se questa idea in generale
sembra ovvia, è difficile stabilire quali siano i diritti umani fondamentali (tutti
concordano su libertà e non-discriminazione, ma dobbiamo includere anche i diritti
sociali?) e quale sia un sistema accettabile (deve essere pienamente democratico o
basta una qualche forma di rappresentanza?). Rispondere a queste domande richiederebbe
un lungo discorso. Qui ci basti confrontare la disobbedienza a regimi chiaramente
ingiusti e la disobbedienza in un sistema sostanzialmente legittimo perché afferma
i diritti fondamentali e si esprime in un processo politico accettabile: nel primo
caso ci sono pochi dubbi che le persone abbiano diritto a disobbedire almeno a leggi
palesemente ingiuste, nel secondo caso non è chiaro se le persone abbiano questo diritto.
Abbiamo un obbligo politico di rispettare leggi ingiuste in sistemi politici e sociali
legittimi e per lo più giusti? Intuitivamente si potrebbe pensare che, in ultima analisi,
ciò che conta è la giustizia sostanziale e che, di fronte a leggi ingiuste in un sistema
per il resto legittimo, abbiamo il diritto di violarle. Tra i tanti esempi vicini
e lontani a noi, si pensi a quanto fatto da Marco Cappato per la questione della morte
degna e libera. Il dibattito sull’eutanasia, o più semplicemente sull’aiuto alla sospensione
delle cure, si scontrava in Italia con il divieto di istigazione o aiuto al suicidio
(art. 580 del codice penale). Sebbene negli ultimi anni la situazione legale in Italia
sia stata smossa dall’attivismo di Cappato e ancor prima dal caso Englaro, al momento
è permissibile solo la sospensione di trattamenti salvavita. Negli altri casi, cioè
nei casi in cui una persona in piena coscienza decida di porre fine alla propria vita
per i tormenti di una malattia incurabile, la legislazione italiana vieta ancora il
suicidio assistito. In questo quadro, negli ultimi anni Cappato, in piena coscienza
e pubblicamente, ha aiutato diverse persone ad andare in Svizzera per ottenere una
pratica eutanasica legale. Imputato per il reato di istigazione e aiuto al suicidio
di un malato di sclerosi multipla, Cappato è stato poi assolto.
Non è chiaro come evolverà la questione da un punto di vista legale e politico, anche
se è riscontrabile una traiettoria molto più permissiva del passato. In ogni caso,
è evidente che, a prescindere da quanto uno farebbe per sé, in questi casi l’assistenza
serve a dare sostanza al principio fondamentale del diritto all’autodeterminazione,
che deve valere in ogni condizione in cui una persona è capace di intendere e di volere.
Ci troviamo qui di fronte a un conflitto tra due intuizioni apparentemente valide:
la norma del codice penale e il dovere di aiutare una persona a realizzare la propria
volontà, la cui soddisfazione è bloccata da macchinari, incapacità fisica o sofferenze
dovute a malattie. Qualsiasi cosa si pensi della questione, è evidente che la violazione
della legge, vera o presunta, è stata portata avanti con argomenti e valori altamente
morali.
Questo è solo uno dei tanti esempi di leggi da molti ritenute ingiuste che sono presenti
in stati democratici e rispettosi dei diritti fondamentali. Se troviamo intuitivamente
convincente il caso di Cappato, potremmo estenderne la rilevanza e sostenere che ciascuna
persona abbia il diritto di opporsi a leggi ingiuste anche in regimi legittimi e sostanzialmente
giusti. Il problema di questa idea intuitiva è che non è sempre ovvio stabilire cosa
sia chiaramente giusto o ingiusto, e vi è un continuo e inevitabile disaccordo su
tantissime cause. Se si mette in discussione l’autorità della legge di stabilire il
giusto e lo sbagliato, chi sarà il giudice ultimo della giustizia? Ciascuna persona
avrà la pretesa di essere un ottimo giudice delle cause giuste. Ma pretendere che
il proprio foro interno sia l’ultimo arbitro della giustizia, anche quando viene fatto in buona fede, non
può che portare alla dissoluzione dell’ordine legale. In primo luogo, è ovvio che
ci sarebbero diversi criteri di giustizia che ciascuno rivendicherebbe come superiori
agli altri. In secondo luogo, nell’assurgere a giudice ultimo, la coscienza individuale
si pone come superiore a quanto deliberato da un’assemblea democratica o dalle interazioni
di innumerevoli altre persone. Quindi l’idea generalizzata che la coscienza individuale
sia il giudice ultimo e insindacabile della giustizia può portare all’anarchia, oltre
a costituire, paradossalmente, una rivendicazione di superiorità rispetto alla coscienza
altrui.
Sebbene questi argomenti sembrino sconfessare la plausibilità del diritto diffuso
alla disobbedienza, a livello teorico la questione non è così ovvia. Infatti, il cosiddetto
anarchismo filosofico sostiene che lo stato, in quanto istituzione coercitiva, è di
principio contrario alla base della moralità, cioè l’autonomia delle persone. Secondo
l’anarchismo filosofico, la pretesa dello stato di costituirsi come autorità ultima
dei comportamenti ammessi è contraria al principio fondamentale dell’autonomia morale
delle persone. Posto in questi termini, l’obbligo politico sembrerebbe in flagrante
contrasto con il valore fondamentale dell’autonomia personale. L’anarchismo filosofico
non predica certo caos, sopraffazione o mancanza di rispetto. Pone, piuttosto, una
questione di autorità di ultimo livello: secondo l’anarchismo, la coscienza individuale
è sovrana e non ha altro potere valido al di sopra di sé. Ma la coscienza individuale
sarà disposta a rispettare accordi con altre persone o anche principi nella forma
di leggi, nella misura in cui possa riconoscere che sono giusti, secondo la propria
misura di correttezza morale? In breve, anche in una condizione a-statuale, secondo
l’anarchismo, è possibile l’ordine sociale e la moralità. Ciò che dobbiamo rifiutare,
secondo l’anarchismo, è la presunzione di autorità del potere statale e, quindi, delle
leggi costrittive come fonti di obbligo che vengano prima e sono più importanti dell’autonomia
individuale.
Sono stati proposti vari argomenti per rispondere alla sfida anarchica. Senza dilungarci
eccessivamente, possiamo tratteggiare alcune tendenze fondamentali. Da un lato, vi
sono teorie che sostengono che lo stato genera un obbligo politico valido perché gli
individui acconsentono all’istituzione statale. Dall’altro, vi sono teorie che sostengono
l’obbligo politico in virtù dei vantaggi e delle interazioni sociali che vivere in
uno stato generano. Secondo i primi argomenti, sono gli individui stessi che riconoscono
allo stato l’autorità coercitiva in maniera esplicita, implicita o ipotetica. In breve,
l’idea sottostante a queste teorie è che l’obbligo, per essere valido, deve essere
sottoscritto volontariamente dalle parti, come se fosse un contratto. Analogamente,
ciò dovrebbe valere anche per il nostro obbligo di rispettare le istituzioni e le
leggi dello stato. Il problema è che solo in rari casi possiamo riscontrare un impegno
esplicito in tal senso (ad esempio, nelle cerimonie di giuramento che alcuni stati
prevedono per l’acquisizione di una nuova cittadinanza). Negli altri casi, secondo
queste teorie, l’adesione volontaria si desume implicitamente dall’accettazione, di
fatto, che abbiamo nei confronti di tutti i servizi che lo stato ci propone direttamente
o garantisce (scuole, codice della strada, moneta, ecc.). In alternativa a questa
idea di tacito assenso, altre teorie usano un argomento di accordo ipotetico. Se pensiamo
che l’adesione quotidiana e implicita sia troppo automatica e irriflessa, dobbiamo
immaginarci una condizione di totale assenza di istituzioni statali, che tradizionalmente
viene chiamata stato di natura. In questa precaria condizione, sarebbe razionale e necessario impegnarsi a costituire
uno stato civile perché la vita senza la tutela delle leggi, della polizia e delle
istituzioni sarebbe grama e priva di cooperazione, oppure sarebbe esposta al dominio
del più forte. Pur essendo una situazione ipotetica, cioè non esistente, questo ragionamento
giustificherebbe l’obbligo politico perché, se l’alternativa fosse l’anarchia, sarebbe
razionale scegliere di rispettare le leggi e l’ordine statale.
Secondo l’altro tipo di argomenti, non è necessario pensare che solo gli accordi volontari
(attuali, impliciti o ipotetici) generino obblighi. Vivendo nello stato dobbiamo rispettarne
le leggi poiché ne traiamo un beneficio. Violando le leggi non riconosciamo questo
beneficio e tradiamo il dovere di riconoscere il vantaggio che ci procura. In tal
senso, chi non riconosce l’autorità statale è una sorta di ingrato, sebbene lo sia
rispetto a una serie di servizi che non ha necessariamente richiesto. Oltre all’ingratitudine,
non riconoscendo l’autorità statale violiamo anche il dovere di fare la nostra parte
nell’attività cooperativa che costituisce la vita sociale (fair play). Vale a dire, non rispettando le leggi siamo ingiusti nei confronti di tutti quelli
che lo fanno e che nel farlo producono una cooperazione sociale ordinata. Ma, anche
in questo caso, si potrebbe dire, il dovere di fair play si attiva solo se una persona entra volontariamente nel gioco, non se ci si trova
dalla nascita, come capita alla maggior parte di noi nel nostro rapporto con lo stato.
Benché la discussione filosofica sul fondamento dell’obbligo politico non sia conclusa,
poiché tutti questi argomenti hanno punti deboli, da un punto di vista di discussione
pubblica più ordinaria sembra difficile accettare la base di partenza della sfida
anarchica. Sebbene l’autonomia sia un valore largamente riconosciuto, assumere che
sia assoluta e prioritaria rispetto a tutti gli altri valori implica che ciascuno
si possa ergere a giudice supremo della validità delle leggi. L’autonomia, infatti,
è uno dei valori fondanti della democrazia liberale, ma è ben lungi dall’essere l’unico
o quello che deve essere anteposto agli altri in ogni caso. Inoltre, per poter immaginare
una società prioritariamente fondata su di esso, si dovrebbe presumere che esistano
dei meccanismi correttivi nel caso gli individui non siano in grado di esercitare
propriamente la loro capacità di agire in maniera autonoma senza danneggiare ingiustamente
gli altri. Ma, anche se ammettessimo che a livello ideale ciascuno dovrebbe essere
il sovrano ultimo delle proprie azioni senza riconoscere altre autorità oltre a sé,
nella quotidianità spesso accade che la capacità di essere autonomi e di ragionare
moralmente sia piuttosto fallimentare. Mancando una capacità diffusa di agire in maniera
autonoma senza violare i diritti altrui, sembra necessario basarsi su sistemi correttivi
dei deficit individuali, cioè su un meccanismo che assicuri i diritti di tutti di
fronte alle possibili violazioni di qualcuno. Nelle società moderne, questo meccanismo
è il sistema giuridico imperniato sull’obbligatorietà delle leggi.
In sostanza, è sensato assumere che in stati accettabili ci sia un obbligo politico
generale di rispetto delle leggi. Il problema è stabilire quali siano gli stati accettabili.
I regimi nazifascisti sono l’emblema dell’inaccettabile. Ma anche un regime tradizionalista
non del tutto democratico è tanto inaccettabile da giustificare la disobbedienza alle
sue leggi? Forse sì, ma il giudizio non può essere sempre così netto. Venendo più
vicino alla realtà quotidiana, gli stati liberali e democratici sono ben lungi dal
rispecchiare pienamente i principi teorici di rispetto dei diritti e della correttezza
dell’ideale democratico. Discriminazioni e ingiustizie sostanziali da un lato, e scarsa
democraticità del processo politico dall’altro sono sotto gli occhi di tutti. Ma esistono
sistemi per correggere le ingiustizie, le costituzioni incardinano diritti umani fondamentali,
ci si può appellare ai tribunali e c’è un dibattito pubblico, per quanto manipolato
e largamente imperfetto. Quindi sarebbe non solo ingiusto ma anche politicamente miope
equiparare gli stati liberali e democratici a regimi totalmente ingiusti. E, sulla
base di questi argomenti, si può presupporre che in generale negli stati liberali
e democratici effettivamente esistenti vi sia un obbligo generale di rispettare la
legge. Ma, anche in questi contesti, alcune leggi e alcune pratiche sembrano palesemente
ingiuste. In questi casi è legittimo disobbedire? Una prima risposta è che di fronte
al fatto dell’ingiustizia (si pensi, per esempio, alla discriminazione verso tante
categorie di persone, o alla cecità verso le generazioni future) ci sono tanti percorsi
legali per raddrizzare la situazione: si può protestare, si può cercare di migliorare
la discussione pubblica sperando che le istituzioni politiche cambino le leggi, si
può fare causa e portare di fronte a un tribunale aziende e istituzioni per cercare
giustizia. Ma in molti casi, come per esempio la questione climatica, queste vie democratiche
sono state sinora fallimentari, perché l’opinione pubblica è insensibile, i partiti
sono concentrati sugli interessi di maggioranze miopi, o i tribunali non riescono
a restituire giustizia.
In questi casi, la disobbedienza può essere vista come l’ultima arma per difendere
e affermare cause sacrosante ma altrimenti destinate al perenne fallimento. I critici
della disobbedienza, anche rispetto a casi del genere, potrebbero sostenere che si
debba continuare a perseguire le vie legali, anche se finora infruttuose. L’obbligo
politico come garanzia dell’ordine sociale non può essere così facilmente abbandonato.
A sostegno delle ragioni della disobbedienza, però, si deve riconoscere che ci sono
certe cause in cui l’inerzia democratica è particolarmente pericolosa. Senza interventi
urgenti non solo si continua ad accettare l’ingiustizia, ma ci si preclude di poterla
risolvere, come nel caso climatico. Quindi, nel prosieguo del volume, pur senza mettere
in discussione la validità generale dell’obbligo politico, ci occuperemo in particolar
modo di quei casi in cui la disobbedienza è usata come ultima risorsa a disposizione
di iniziative che hanno esaurito il repertorio di strategie ordinarie.
Per disobbedienza quindi si intenderà la violazione di una o più leggi, o pratiche
sociali largamente sostenute dalla legge, per perseguire uno scopo politico o morale,
quando i canali ordinari (proteste, cause in tribunale, deliberazione democratica)
si sono dimostrati incapaci di rimediare a un’ingiustizia palese. La disobbedienza
che prenderemo in considerazione, quindi, non sarà il mero rifiuto di adempiere a
un obbligo legale. Sebbene dal punto di vista giuridico ogni violazione della legge
sia un crimine, si può distinguere la disobbedienza qui considerata dagli atti criminali,
come quel tipo di rifiuto di un obbligo legale che ha fini morali o politici, cioè
degli scopi che potrebbero essere rivendicati in pubblico per migliorare lo stato
di giustizia di un sistema. Se, da un lato, la disobbedienza differisce dal crimine
in generale, dall’altro differisce anche da iniziative più radicali di cambiamento
completo della struttura totale dello stato. In questo senso, la disobbedienza che
prenderemo in considerazione non avrà uno scopo di rivoluzione, cioè l’intento di
cambiare completamente la struttura dello stato e delle istituzioni. Né, tantomeno,
considereremo quegli atti violenti che colpiscono indiscriminatamente la popolazione
al fine di destabilizzare un regime o l’ordine sociale per ottenere uno scopo di natura
politica (terrorismo). La rivoluzione e il terrorismo, infatti, non mirano a migliorare
il sistema disobbedendo a questioni specifiche, bensì vogliono ribaltare la struttura
generale del sistema. In breve, il tema centrale sarà se e quando è legittimo disobbedire a leggi in sistemi politici e sociali generalmente legittimi.
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