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Edizione: 2025
Pagine: 264
Collana: Storia e Società
ISBN carta: 9788858157213
ISBN digitale: 9788858158296
Argomenti: Storia contemporanea

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Le donne nella lotta armata

Daniela Bini

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1000 donne. Questo è il numero delle militanti che scelsero la lotta armata negli anni ’70 nelle varie formazioni della sinistra extraparlamentare. Una presenza numerosa e molto significativa: quasi il 30% degli effettivi nei 15 anni che vanno dal 1970, anno di nascita delle Brigate rosse, al 1985, anno in cui venne arrestata Barbara Balzerani. Quale fu il loro retroterra sociale e la loro formazione culturale? Perché scelsero la clandestinità e con quali motivazioni? Quale fu il loro ruolo? Si distinsero per il loro protagonismo o ebbero un ruolo ancillare? Dopo la fine della lotta armata, fu più difficile il loro percorso di riabilitazione?

In questo libro, basato su interviste, testimonianze e autobiografie, ne leggiamo le parole, le riflessioni a posteriori su quegli anni, la rielaborazione del loro vissuto. Scopriamo così la complessità di un periodo non lontano della storia italiana, spesso liquidato con la suggestiva espressione di ‘anni di piombo’.

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Edizione: 2025
Pagine: 264
Collana: Storia e Società
ISBN: 9788858157213

L'autore

Daniela Bini

Daniela Bini insegna al Liceo Classico e Musicale Bartolomeo Zucchi di Monza, città nella quale vive. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Pisa con un progetto sulle donne che presero parte alla lotta armata degli anni Settanta in Italia, pubblicato poi con il titolo Donne e lotta armata in Italia (1970-1985) (DeriveApprodi 2017). Ha inoltre curato Fuori programma. Scrittrici italiane dal Novecento a oggi (con M. Quinto, Mimesis Edizioni 2023).

Scopri l'autore

Introduzione

Il 16 aprile 1978 è stato per l’Italia un giorno che, con le dovute distinzioni, può essere paragonato all’11 settembre 2001 per gli Stati Uniti. Non ci sono state le migliaia di vittime che l’attentato alle Torri Gemelle ha provocato, certo, ma l’impatto che il rapimento di Aldo Moro e l’omicidio dei cinque uomini della sua scorta hanno avuto sull’immaginario collettivo italiano, e la tensione emotiva creata dai cinquantacinque giorni di prigionia del presidente della Democrazia cristiana, hanno determinato un discrimine nella storia e nella società di questo Paese, una sorta di passaggio epocale. Ci sono un prima e un dopo il rapimento e la morte di Moro, così come per gli Stati Uniti ci sono un prima e un dopo gli attentati dell’11 settembre. In entrambi i casi, sempre tenendo conto delle opportune differenze, le ripercussioni che i due tragici eventi hanno generato sulle vicende politiche degli anni a seguire e sulla percezione di esse da parte dell’opinione pubblica sono state profonde e radicali. Un diffuso e comune senso di fragilità e di impotenza delle istituzioni di fronte al terrore, una sensazione di trovarsi su un terreno friabile e incerto, il timore di non aver compreso a fondo, e avere a tratti sottostimato, la violenza delle formazioni armate dell’estrema sinistra in Italia e del terrorismo islamico negli Usa, sono tutti fattori che rendono drammaticamente simili gli effetti che i due avvenimenti hanno portato con sé.

Coloro che hanno un’età tale da poter ricordare il 16 marzo 1978 rammentano perfettamente cosa stessero facendo nel momento in cui ricevettero la notizia del rapimento di Moro, proprio come gli americani che all’epoca erano in grado di comprendere la portata di un evento traumatico e dirompente hanno memoria di dove si trovassero e di come vennero a sapere degli attentati. Le immagini delle due auto del presidente della Dc e degli uomini della scorta in via Fani, crivellate di colpi di mitra, dei lenzuoli bianchi sopra le vittime, del sangue, come quelle delle Torri Gemelle che bruciano e poi crollano disgregandosi come castelli di sabbia, sono rimaste impresse nella memoria collettiva, trasformandosi in una sorta di ammonimento a non dimenticare, a cogliere la complessità degli eventi, e in un vero imperativo categorico a capire, rivolto a tutti noi.

La scoperta che una donna era presente nel commando di militanti che rapì Moro e uccise la scorta, scoperta che feci molti anni dopo i fatti del 1978, ha aperto quella che mi piace considerare una nuova prospettiva di approccio alla lotta armata. Le ragioni sono semplici da cogliere: pensare a una donna che, negli anni Settanta, nel bel mezzo delle rivendicazioni femministe per la parità sociale con l’uomo, per il riconoscimento della dignità del lavoro, domestico e non, compie la scelta di entrare in un gruppo armato, lascia la famiglia, a volte anche dei figli, entra in clandestinità e impara a uccidere per motivazioni ideologiche e politiche, ancora oggi produce spesso due reazioni. Da un lato – ed è questo che accade alla maggior parte delle persone – si avverte un mal celato disprezzo, una sensazione di disgusto, di rifiuto di una immagine della donna legata alla brutalità della violenza, che spingono a ritenere le militanti l’esito di un fanatismo maschile da cui si fecero contagiare; dall’altro – assai meno frequentemente – si comincia ad afferrare la complessità del fenomeno della lotta armata, che per la prima volta nella storia italiana, se si fa eccezione per alcuni episodi della Resistenza, ha visto uomini e donne, tutti molto giovani, perlopiù di buon livello culturale, uniti nella lotta contro il sistema politico e sociale.

«Anche allora eravamo belle», scrive Susanna Ronconi, per breve tempo militante nelle Brigate rosse e poi in Prima linea, in un «diario carcerario» che sintetizza ricordi, impressioni, sensazioni, eventi vissuti durante la detenzione in alcune carceri italiane dopo il suo arresto. L’espressione è utilizzata dall’autrice per descrivere difficili e penosi momenti vissuti nel carcere di massima sicurezza di Voghera. La «bellezza» cui Ronconi fa riferimento nel suo racconto non si configura come dato fisico: si tratta di un concetto molto più articolato e profondo, che si lega inscindibilmente sia alla condizione della carcerazione sia alla componente ideale delle ragioni sottese alla violenza rivoluzionaria degli anni Settanta. Quelle donne erano «belle» nelle carceri di massima sicurezza, pur sottoposte alla durezza della detenzione, perché si sforzavano di conservare la dignità di esseri umani. Erano state «belle» anche prima, quando avevano aderito a una formazione armata per fare la rivoluzione, perché in quell’idea avevano creduto fermamente ed erano state disposte a rinunciare a una «normale» esistenza per affrontare una vita difficile, clandestina, in fuga perenne. In nome di quella rivoluzione, tuttavia, esse hanno ucciso o contribuito a uccidere, e questo è di per sé un dato molto grave, nonché essenziale da trattare se si vogliono capire le ragioni di quel periodo della storia italiana. La questione verte non solo sul fatto che abbiano ucciso ma sulla domanda: perché hanno ucciso? La questione etica, presente e pressante, si interseca a quella politica ed entrambe hanno a che fare non solo con il piano della ricostruzione storica ma anche – direi soprattutto – con quello della comprensione non pregiudiziale delle ragioni della loro scelta. Il dato etico è inscindibilmente legato a quello politico e deve essere inserito nel quadro complessivo dell’esperienza storica, che, in quanto tale, è sempre un’esperienza compiuta da esseri umani. Il nodo dell’uso della violenza, del resto, perpetrata da uomini e donne, resta cruciale in tale contesto e, a uno sguardo attento e profondo, si configura come il dato fondamentale e come la principale chiave di lettura e di interpretazione dell’intero quindicennio 1970-85, con le inevitabili implicazioni morali che esso porta con sé.

In questo nodo consiste la vera, grande difficoltà insita nella riflessione sull’esperienza armata degli anni Settanta. Sarebbe ormai necessario, a ormai quarant’anni dalla sua conclusione, non limitarsi all’assoluta, e del resto comprensibile, condanna della violenza tout court ma valutarne le radici, lo sviluppo e le implicazioni attraverso una serie di ragionamenti e di ricostruzioni storiche e umane che vedano in essa ciò che effettivamente è stata: un mezzo per conseguire risultati. Il che non significa giustificare l’operato dei militanti, anzi: l’approccio più distaccato e oggettivo, l’analisi meno compromessa da rigidità ideologiche o morali, la disponibilità a comprendere senza fornire alibi o scusanti, possono aiutare a fornire un quadro meglio definito e compiuto di un periodo davvero intenso e ricco di complessità come mai più si è ripetuto nel panorama storico-sociale del nostro Paese.

Si tratta pertanto, sulla scorta delle parole di Susanna Ronconi, per me stessa in primo luogo, e per chi leggerà il presente volume, di rimuovere i pregiudizi ideologici e le prevenzioni di ordine morale che, di solito, quando si affrontano gli anni Settanta e Ottanta, sono in agguato e spesso impediscono di avvicinarsi all’argomento con la giusta distanza.

Il punto di vista femminile per trattare della lotta armata nel quindicennio 1970-85 è trasversale a quello maschile e, in qualche misura, compensativo, almeno in relazione a una riflessione storica in cui la presenza femminile è stata sovente trascurata o comunque sottostimata, proprio a causa della visione ancora prevalente della donna come mera datrice di vita e perciò naturalmente incapace di praticare qualsiasi forma di violenza. La necessità più urgente è, invece, quella di individuare un diverso metodo di indagine, che tenga conto di criteri non più – o non esclusivamente – legati al ruolo biologico femminile e alla percezione che della donna ha sviluppato nei secoli l’opinione comune, ma al ruolo storico e sociale che essa ha svolto, in particolare proprio dalla fine degli anni Sessanta in avanti.

L’arco temporale, 1970-85, trae origine dal punto di vista adottato, quello femminile. Il 1970 è l’anno di nascita delle Br e una donna, Margherita Cagol, era tra i fondatori del gruppo. Il 1985 è l’anno dell’arresto di Barbara Balzerani, l’ultimo esponente femminile delle Br che ricoprì ruoli direttivi all’interno dell’organizzazione. Tale lasso di tempo è pertanto motivato dallo spirito che ha sollecitato le riflessioni contenute in queste pagine e non ha la pretesa di individuare un arco cronologico che esaurisca il fenomeno della lotta armata tout court. Il quindicennio 1970-85 si configura comunque come il periodo di massima attività delle organizzazioni di estrema sinistra e di estrema destra e consente di analizzare a fondo sia le fasi embrionali della stagione del terrorismo e dello stragismo sia i suoi sviluppi, fino a giungere alla fase decrescente e alla graduale scomparsa delle principali formazioni armate che furono protagoniste di quel periodo della recente storia italiana. Ciò che premeva, in sostanza, era di sottolineare come alle origini e alla fine del più importante gruppo terroristico di estrema sinistra della storia italiana di quegli anni vi siano state anche due donne.

La scelta di restringere l’oggetto dell’indagine ai due principali gruppi, Br e Prima linea, è stata determinata, oltre che dalla loro oggettiva rilevanza nel panorama politico del tempo, dalla relativa facilità nel reperire testimonianze scritte e, quando è stato possibile, orali, di ex militanti rispetto a quanto non sia possibile fare per le numerose altre formazioni che nacquero, si svilupparono, e spesso in breve si estinsero in quell’arco temporale. Una parte del ragionamento si estende a un contesto armato dell’estrema destra, i Nar, Nuclei armati rivoluzionari, all’interno del quale una donna, Francesca Mambro, occupò un importante ruolo sia nella fase della fondazione dell’organizzazione sia dopo, nelle fasi operative. Si tratta di un unicum nell’ambito dell’eversione di matrice neofascista, utile per un confronto con l’estrema sinistra.

Ciò che costituisce il cuore del presente studio è l’indagine sulle ragioni per cui una donna sceglie di intraprendere la lotta armata ma anche i rapporti, a livello sia personale sia politico e ideologico, con i membri maschili dei gruppi presi in esame; le ragioni della decisione di uscire dal gruppo, quando l’uscita è stata spontanea e volontaria, o le modalità della costrizione a uscire, quando l’allontanamento è avvenuto tramite arresto. A ciò è stata aggiunta una riflessione sul bilancio a posteriori dell’esperienza di lotta effettuato da alcune di queste donne, dichiaratesi disponibili a un incontro e a un’intervista. Le interviste, non solo rivolte a donne ma anche a tre esponenti uomini, interpellati per sondare la natura dei loro rapporti, politici e di convivenza nello stesso gruppo, con le militanti, costituiscono un esempio illuminante di come la descrizione di un’esperienza personale, in generale, possa sia rivelare un mondo interiore intimo e variegato, sia risentire di alcuni limiti di fondo, inscindibilmente legati alla natura stessa della rievocazione di esperienze vissute in presa diretta. Si corre un rischio costante di imbattersi nell’esagerazione di alcuni dati, nella minimizzazione di altri e nell’azione selettiva della memoria che, più o meno consapevolmente, conduce chi ricorda a privilegiare alcune circostanze o sensazioni a discapito di altre. Risulta spesso particolarmente difficile spiegare un’esperienza come quella di chi, negli anni Settanta, intraprese la lotta armata, per molteplici motivi: la complessità della situazione socio-politica di allora, l’emarginazione che gli ex militanti hanno subìto a posteriori nella società civile, la strumentalizzazione politica che, nel tempo, è stata compiuta delle vicende della lotta armata. Di tale difficoltà mi sembrano documenti significativi le molte pubblicazioni di esponenti del mondo giornalistico che, senza un’accurata disamina del contesto politico e sociale del Paese in quegli anni, hanno spesso puntato l’attenzione ora sul «caso umano» di una vittima o di un militante, ora sul fanatismo dei membri di gruppi armati, ora sulle loro vicende processuali e giudiziarie, ora sulla curiosità suscitata, per esempio, dalla storia di una donna che, lasciata la famiglia, si dedica all’esperienza armata. A queste pubblicazioni l’ex militante ha risposto scrivendo la «sua» storia nel gruppo di appartenenza oppure rendendosi disponibile a rilasciare interviste: in entrambi i casi, ha sentito e sente il bisogno di rispondere personalmente al ritratto del «terrorista» che si è sedimentato nell’immaginario collettivo e di fornire una versione della sua microstoria, nella storia italiana, che risponda a effettive necessità di chiarezza. Quando, però, un ex militante rievoca il passato per descrivere la propria esperienza, mescola, anche se in buona fede – elemento, di per sé, peraltro non facile da riconoscere ed eventualmente apprezzare –, realtà e verosimiglianza, realtà e invenzione. Talora addolcisce o rende più cruda una descrizione, talora tenta di fornire un’idea di sé e del proprio gruppo armato meno crudele o fanatica di quanto si possa ritenere. In tutti i casi, offre una versione alternativa, umanamente avvincente e degna di attenzione rispetto ad altre fonti.

Per tutte queste ragioni, e per la necessità di analizzare più compiutamente le diverse modalità con cui la memoria soggettiva ha filtrato gli eventi, le interviste e la lettura dei memoriali degli ex militanti sono da considerarsi la fonte peculiare del presente studio.

Per le donne questo vale ancora di più, perché senza ombra di dubbio le loro testimonianze sono meno presenti nel panorama della memorialistica degli anni Settanta e meno note: a una notevole pubblicistica maschile che ancora oggi è possibile trovare nelle librerie italiane – penso a testi come quelli di Gallinari, Moretti, Fenzi, Morucci, Segio – non corrisponde, se non per poche eccezioni (il testo di Anna Laura Braghetti, per esempio, ma soprattutto perché è stato all’origine del film Buongiorno, notte di Marco Bellocchio), la pubblicistica femminile. Ciò è dovuto certamente al minor numero di pubblicazioni femminili, ma anche a una loro minore diffusione sul mercato editoriale e, di conseguenza, a un minor interesse anche da parte del mondo scientifico. Lo stesso si può affermare per la realtà mediatica: a parte il volto di Adriana Faranda, più presente di altri in trasmissioni televisive negli anni Ottanta, i volti e i nomi delle altre ex militanti sono spesso poco conosciuti.

Le testimonianze consentono infine – e il dato è tutt’altro che trascurabile – uno studio del linguaggio, del lessico utilizzato nella rievocazione del passato, della peculiarità espressiva che ha contraddistinto la rielaborazione dell’esperienza vissuta dalle ex militanti, anche nel confronto con le modalità espressive maschili. In una parola, fonte di curiosità e di analisi è stato il modo in cui si è esercitata, e si esercita ancora, la memoria nel suo continuo rapportarsi con il passato. Come ben ha scritto Luisa Passerini, «[la memoria] la assumiamo come l’atto narrante di un individuo in un contesto sociale, nel tentativo di conferire significati condivisibili a certi eventi o aspetti del mondo ed eventualmente di metterne in secondo piano altri».

Si può a ragion veduta ritenere che le donne che hanno preso parte alla lotta armata e hanno poi, a distanza di tempo, accettato di raccontarla e raccontarsi, abbiano fatto tale scelta per chiarire, e di conseguenza rendere condivisibili – nel senso di dare loro significati che vengano messi in comune – le ragioni, personali e non solo, della loro decisione. L’aggettivo condivisibile va dunque accolto non nella sua accezione di «accettabile» o «comprensibile» e quindi giustificabile, ma in quello letterale di mettere a disposizione di altri alcune parti di un fenomeno faticoso da capire e tragico nei suoi esiti. Chi ha commesso azioni brutali deve risponderne non solo alla giustizia ma anche a se stesso e alla società nella quale ha perpetrato atti violenti. Se tale risposta non viene esplicitata ed evidenziata, la storia non potrà mai dare del terrorismo di quegli anni una valutazione compiuta e il fenomeno della violenza politica resterà confinato nei limiti di un’esperienza non contestualizzabile, perciò di fatto da liquidare come fenomeno genericamente criminale. Scrivere, parlare, testimoniare non in un’aula di tribunale, ma davanti alla gente comune, agli storici, diventa quindi, per il perpetratore, un gesto di apertura verso chi pone interrogativi e, legittimamente, vuole comprendere le ragioni di un momento della propria storia che ha avuto risvolti drammatici e pesanti ripercussioni sugli eventi successivi.

La memoria di cui si parla in questa ricerca, dunque, non è un dato spontaneo e immediato, ma un’operazione articolata, che richiede tra l’altro il ricorso alla selezione e alla rielaborazione dei dati immediati della coscienza, dei ricordi. Ciò che distingue la memoria dal ricordo è sia il dato della rielaborazione a posteriori sia, soprattutto, la spinta – quando non l’esplicita volontà – individuale a indirizzare e consegnare il proprio patrimonio di esperienze ad altri, ai posteri. In tale meccanismo l’interazione tra memoria individuale e collettiva gioca un ruolo essenziale: chi ha vissuto gli anni Settanta da protagonista «attivo», da attore di azioni violente, può mettere in campo, appunto, ricordi – che saranno inevitabilmente diversi, perché frutto di percezioni soggettive, pur se relativi ai medesimi eventi – per una memoria collettiva che possa essere meglio analizzata e indagata e, di conseguenza, condivisa. In tale prospettiva le testimonianze dirette, di qualunque natura, in qualunque forma, costituiscono un corpus di materiali di estrema importanza, soprattutto quando è possibile porle a confronto in contesti crono-spaziali differenti.

Il punto da cui partire è sintetizzato in due domande, semplici ma ineludibili: perché in Italia, negli anni Settanta e in buona parte degli anni Ottanta, si è registrato il periodo di violenza armata più intenso di qualsiasi altro Paese europeo? Perché questa violenza fu perpetrata da un numero ragguardevole di donne? Scopo del presente lavoro non è tanto quello di fornire risposte a questi interrogativi, ma di offrire agli studiosi e ai lettori nuovi elementi di conoscenza e di riflessione che ci possano aiutare a leggere e a comprendere meglio alcuni aspetti della tormentata vicenda politica dell’Italia di quegli anni.

1.
Raccontare e raccontarsi:
gli ex militanti e la memoria storica

Si commetterebbe un errore a pensare che le autobiografie siano piene di bugie e di inganni. Sebbene mentire sia ovunque possibile, è più difficile farlo in quel contesto che altrove. Ingannare in un’autobiografia è così difficile che a stento si può trovare qualcuno che nel complesso non sia più accurato nello scrivere un’autobiografia piuttosto che nello scrivere un’opera di storia.

Arthur Schopenhauer¹

1.1. Autori e lettori

Perché leggere l’autobiografia di un ex militante in un gruppo armato? Da questa domanda bisogna partire per comprendere, di riflesso, il possibile ventaglio di risposte sottese a quella che si configura come la domanda cruciale: perché un ex militante scrive la propria autobiografia? A chi giova? Chi potrebbe nutrire interesse per tale narrazione?

A partire dalla fine degli anni Ottanta in Italia si è assistito a un proliferare di testi scritti da ex militanti della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta: autobiografie nelle quali soprattutto coloro che avevano militato in due gruppi armati, Brigate rosse e Prima linea, ripercorrono la propria parabola esistenziale e politica e tentano di risalire alle cause e alle motivazioni che li spinsero sulla strada della clandestinità e dell’uso della violenza politica.

Tale proliferazione ci autorizza a ritenere che queste narrazioni incontrino la curiosità dei lettori e suscitino una forma di interesse che, escludendo la tradizionale attrazione, talora al limite del voyeurismo, che una parte di pubblico può provare per ciò che scrive un personaggio «scomodo» e «dannato», le rende apprezzate da molti: il mercato editoriale non mente e se ancora oggi, a più di trent’anni dalle prime uscite di tali testi, molti sono stati ristampati e altri hanno visto la luce, ciò significa che l’attenzione dei lettori c’è. Bisogna aggiungere che l’uscita di autobiografie di ex brigatisti o ex esponenti di Prima linea o di altre organizzazioni armate degli anni Settanta solleva sempre parecchie polemiche e discussioni sulla plausibilità o meno di dare la parola a chi ha commesso omicidi o, comunque, ha svolto azioni in formazioni armate perseguite dalla legge. La questione è annosa e, di fatto, irrisolvibile e pure sterile: leggere è sempre un elemento di arricchimento culturale e approcciare testi che hanno a che fare con momenti cruciali della nostra storia recente consente di farsi un’idea della difficoltà di valutare la portata effettiva di un evento. Ciò implica, naturalmente, la disponibilità del lettore a entrare in contatto con la narrazione di una particolare tipologia di scrittore che ha deciso, sapendo bene di compiere un’azione densa di conseguenze pesanti, di esplicitare la propria esperienza al di fuori dell’universo di militanza e di successiva carcerazione, assumendosene tutte le responsabilità. A motivazioni di volontà di condivisione, come vedremo, se ne aggiungono molte altre, e non tutte sempre trasparenti, ma il punto focale è costituito dalla libertà di scelta dei lettori e, in questo caso, molti di essi hanno liberamente scelto di leggere le narrazioni autobiografiche degli ex militanti. Per condannarne gli autori? Per capirne le ragioni? Per demonizzarne e disprezzarne i contenuti? Per arricchire la lettura di memoriali dei parenti delle vittime con quella di chi stava dall’altra parte e avere, dunque, una panoramica più completa? Per sincero desiderio di capire la complessità del periodo storico di cui si tratta? Per moda? Poco importa: i lettori ci sono. E non sono pochi.

La prospettiva da cui cominciare ad analizzare le autobiografie passa ora dall’altra parte, da quella di chi decide, e quando, e perché, di scrivere di sé.

Per tutti l’esperienza della scrittura inizia dopo l’arresto, solitamente nel periodo della detenzione, quando la relegazione forzata costringe a un confronto con se stessi che riconosce nello strumento autobiografico un mezzo ideale per comunicare non solo eventi storici di portata notevole ma anche suggestioni, emozioni, percezioni soggettive che a quegli eventi si intrecciarono e che danno vita a un’interessante interazione tra pubblico e privato. Ancor prima di addentrarci nella specificità del genere autobiografico, e nel problema della sua attendibilità, storica e non solo, si può affermare che tali autobiografie rappresentano una significativa miscela di microstoria e macrostoria, un’alternanza di piani soggettivi e oggettivi, di elementi propriamente storici e di altri che appartengono sì alla storia, ma quella dei singoli, dei soggetti, di quelli che si possono definire gli «attori» delle vicende accadute. In sintesi, i fatti politici e sociali che interessarono l’Italia degli anni Settanta sono, in questa produzione, osservati, descritti e comunicati attraverso l’ottica individuale di chi a quei fatti partecipò attivamente e con un tasso elevatissimo di responsabilità personale: ciò da un lato costituisce uno stimolante terreno di informazioni, tanto per lo studioso quanto per un pubblico generico, dall’altro, inevitabilmente, rivela una produzione in cui la chiave di accesso agli eventi descritti è soggettiva.

Si tratta della «propria storia», quella ricostruita dalla persona, dal singolo ex militante, che è parte in causa e che ha tutto l’interesse a fornire un certo quadro degli eventi e, soprattutto, della propria partecipazione a essi.

Ciò non toglie la possibilità che le testimonianze e le autobiografie diventino esse stesse fonti e, di conseguenza, terreno di studio e oggetto della storia: la compresenza, in queste forme di comunicazione, di privato e pubblico, di personale e di collettivo, di una miscela, non esente da pericoli ma ricca di particolari interessanti, di tendenza all’auto-giustificazione e descrizione del contesto socio-politico in cui i militanti operarono, rende questo materiale un indubbio serbatoio di informazioni cui lo storico può e deve attingere.

Leggere, o ascoltare, un ex militante equivale a penetrare all’interno di meccanismi che non potrebbero altrimenti essere indagati né conosciuti.

La questione è complessa: chi è testimone e nel contempo attore di un fatto non adotta solo il punto di vista di chi si è trovato dentro un evento e ne ha sopportato le conseguenze, ma anche, e in questo caso soprattutto, di chi ha determinato l’evento dal suo interno e ha procurato effetti pesanti le cui ripercussioni hanno coinvolto e interessato altri individui. Tale peculiarità delle memorie cosiddette «armate» rende tutt’altro che semplice la loro analisi e pone in modo forte il problema della possibilità di prestare fede a quanto i testimoni affermano nei loro scritti.

Intanto è utile precisare che in questi testi non si trovano informazioni che possano rivelare dati essenziali per pervenire alla «verità» e che possano chiarire dinamiche di azioni armate o indicare precisamente persone coinvolte o altri elementi che non siano già in possesso dell’autorità giudiziaria. Avvicinarsi alla lettura delle autobiografie «armate» con l’intento di trovarvi notizie eclatanti, sia a livello personale che a livello di organizzazione armata di militanza, è infruttuoso e fuorviante: chi, avendo un passato da terrorista, scrive le proprie memorie, lo fa prima di tutto per se stesso, per ricostruire il percorso di un’esperienza personale, per ritrovare un’identità frammentata in conseguenza delle vicende vissute e dei traumi procurati e subìti; in secondo luogo, per ridefinire la propria individualità senza poter prescindere dal gruppo di appartenenza, nel quale le scelte personali si sono intersecate a quelle dei compagni e i comportamenti assunti sono stati solo in parte il frutto di scelte autonome e si configurano come il risultato di una strategia pensata e messa in atto dal gruppo; infine, scrive per spiegare a se stesso, e ai lettori, le ragioni di una vita trascorsa per la maggior parte in regime di clandestinità, in condizioni di illegalità, perseguendo presunti ideali di sovvertimento e ristrutturazione dalle fondamenta della società capitalistica. Il punto di vista da cui parte l’autore è il proprio, quello di un ex membro del gruppo che, a posteriori, ripercorre le tappe di una vita e di un’esperienza politica. Esempio illuminante sono proprio le parole di Barbara Balzerani all’inizio della sua prima autobiografia:

Questa non è la storia delle Brigate rosse. Non potrei essere io a farla. È solo una parte di quanto ho vissuto e di come. È il risultato dei miei interrogativi più urgenti. È la richiesta di aiuto per provare a scioglierli. È la speranza che si possa infine farla quella storia, fuori dalle contingenze dell’amministrazione del presente².

Appare chiaro il punto di vista della ex militante: quanto lei scrive non può essere considerato come la storia delle Br, ma come una parte di quanto e di come vissuto da uno dei suoi esponenti, come l’esito di quelle che sono le domande più pressanti che lei rivolge a se stessa in prima analisi, ma anche ai lettori, visto che Balzerani considera questo scritto, come esplicitamente dichiarato, nei termini di una vera e propria richiesta di aiuto per tentare di rispondere a quelle domande e, infine, come la speranza che si possa concretamente ripercorrere la storia di quegli anni prescindendo dalle urgenze del presente.

Il rischio di mitizzare le esperienze vissute dagli ex militanti pone in particolare rilievo quelli che potremmo considerare come i due poli di una sorta di trama identitaria riconoscibile pressoché in tutti i racconti e le memorie.

La tendenza della memorialistica degli ex militanti è quella di collegare la scelta armata intrapresa a due eventi che l’avrebbero inevitabilmente determinata: il proseguimento della Resistenza «tradita» in una resistenza nei termini di lotta di classe e le conseguenze del Sessantotto nel panorama extraparlamentare di matrice operaista e terzomondista. Il ricorrere di questi due fatti in quasi tutte le memorie degli ex membri di gruppi armati costituisce una sorta di leit-motiv cui essi intendono far risalire le origini della pratica della violenza politica: come se non si potesse comprendere lo stato delle cose senza passare attraverso questi due snodi, la cui valenza, proprio perché ripetuta e rievocata in modo unanime e quasi solenne, diviene mitizzata, e in quanto tale non storicamente attendibile. In sintesi, una sorta di giustificazione che riconosce in quei fatti una naturale e inevitabile direzione verso l’uso della forza e delle armi.

La presenza costante dei due poli nelle memorie non potrebbe, a questo punto del ragionamento, essere indizio di un retroterra ideologico-valoriale che accomuna gli ex militanti e che diviene tratto peculiare di una sorta di «cultura della violenza politica»? Di più: il loro «patrimonio formativo», di cui il processo di mitizzazione è parte integrante e peculiare, non rappresenta forse la diretta conseguenza di una temperie socio-politica che pervadeva gli ambienti della sinistra extraparlamentare e ne caratterizzava il dibattito sulla necessità di arrivare all’utilizzo delle armi?

Per concludere: se di mitizzazione si tratta, essa non è nata dal nulla né dalle fantasie dei militanti né dalla loro volontà di cercare motivazioni convincenti o, al contrario, talmente tanto ripetute da risultare scontate. La prospettiva enfatizzata e circondata da un alone mitico sarebbe, dunque, da intendersi come l’attribuzione di una valenza particolare e cogente a una percezione, diffusa e dibattuta ampiamente all’epoca dei fatti analizzati, di cui si vuole rendere partecipi i lettori.

Lo spazio narrativo viene, dunque, concepito come alternativo a quello del tribunale, con una relazione autore-lettori simile a quella tra ex militante e giudici: il corpus delle memorie diviene un contesto nel quale i perpetrators, gli esecutori dell’atto criminoso, si rivolgono direttamente ai lettori, istituendo un ponte e un dialogo, finalizzati a creare un rapporto diretto il cui scopo è la ridefinizione di sé da parte di chi scrive e una comprensione meno scontata o semplicistica da parte di chi legge.

1.2. Le parole e i silenzi

La fonte orale è una fonte che si costruisce solo nel rapporto con chi interroga: non esiste la possibilità di fare un’intervista neutra ed è importante il come, il quando e il perché ci si rivolge a un testimone, ma soprattutto è importante quale testimone³.

Rosangela Pesenti

Quando si intervista qualcuno si apprezza in particolar modo la spontaneità del racconto, che non passa attraverso il filtro né dello scrittore né dell’editore: la «narrazione» fluisce secondo meccanismi della memoria accompagnati da silenzi, pause, riflessioni. A proposito dei silenzi, soprattutto quelli non momentanei ma epocali, se così si può dire, cioè relativi a interi periodi o a interi episodi, si deve precisare che essi interessano non solo gli anni Settanta e il fenomeno della lotta armata, ma anche altri fenomeni particolarmente complessi della storia italiana, come il fascismo e la Resistenza. Se un testimone tace su alcuni dati, lo fa o per oblio degli stessi, oppure per rimozione consapevole o inconsapevole. A proposito delle censure e dei silenzi relativamente all’esperienza quotidiana nell’epoca del fascismo, per esempio, nelle riflessioni a posteriori della gente comune, del popolo, o degli esponenti dell’esperienza resistenziale, uomini e donne, si tratterebbe di una sorta di enfatizzazione della scissione tra vita quotidiana e vita politica oppure di un bisogno di rimuovere o quantomeno attenuare episodi la cui portata emotiva è tale da non poter essere descritta senza una sofferenza interiore.

Se si applica la teoria delle censure e dei silenzi alle testimoni degli anni Settanta, si comprende subito bene la particolarità del rapporto pubblico/privato in tale ambito: esse hanno agito concretamente nella storia ma sono anche persone che hanno vissuto gli anni Settanta prima da osservatrici, poi da giovani politicamente impegnate, infine da militanti armate. Sono presenti allora momenti di pausa, a volte – più frequentemente – situazioni in cui la testimone cerca di orientare la discussione, e l’attenzione dell’intervistatore, su argomenti che, pur collegati a quelli su cui si è preferito tacere, possono indirizzare la riflessione e lo scambio di notizie verso altre strade, meno «pericolose» o meno «sofferte». Un esempio illuminante è quello relativo all’utilizzo delle armi e alle azioni che le hanno viste come protagoniste: nella maggioranza dei casi le ex militanti sono circonlocutorie, non affrontano di petto l’argomento o preferiscono descrivere il loro personale rapporto con le armi in fretta, con poche parole, omettendo tutto quanto, in termini concreti ed emotivi, possa rievocare un passato che probabilmente vorrebbe trovare piena e definitiva rimozione. Ci sono anche casi, tuttavia, come vedremo, in cui la testimone si sofferma con puntualità e precisione sul suo rapporto con le armi, come si vedrà nel caso della testimonianza di Susanna Ronconi.

Parlare di violenza è insomma sempre faticoso per chiunque, perché è un argomento che si tende a non esplicitare, per una forma di pudore, o per timore di rivivere situazioni laceranti, o per la convinzione che, non parlandone, possa acquisire minore efficacia rappresentativa e, quindi, minore consistenza effettiva. Se, poi, a parlare di violenza sono coloro che l’hanno perpetrata, è ancora più complicato esprimerla.

L’aspetto più stimolante delle interviste risiede nella possibilità che offrono di focalizzare l’attenzione sia sull’interazione tra intervistatore e testimone sia sul linguaggio che il testimone utilizza per descrivere il passato: questi due punti, e in particolare il secondo, hanno una fondamentale rilevanza per tentare una ricostruzione dei compiti e dei ruoli che le donne avevano nei due gruppi armati considerati, ma anche per analizzare e indagare le caratteristiche del lessico da loro usato a posteriori per rappresentare se stesse senza alcuna intermediazione e il contesto in cui esse operavano.

Non esistono, però, solo le interviste per venire a contatto diretto con le voci e i volti degli attori in gioco. Patrimonio interessante di dati è, in un ambito molto vicino a quello delle testimonianze raccolte e quelle, di solito scritte, conservate negli archivi, il filmato realizzato dalla regista Loredana Bianconi nel 1997, il cui titolo è Do you remember revolution. Si tratta di un film documentario in cui si susseguono, in modo costantemente alternato, i racconti autobiografici di quattro donne ex militanti delle Br e di Pl: Barbara Balzerani, Adriana Faranda, Nadia Mantovani e Susanna Ronconi. La regista, italiana ma residente da molti anni a Bruxelles, presenta, all’inizio del film, un testo scritto in cui spiega la ragione per cui ha voluto realizzare quel prodotto dopo molto tempo trascorso dagli anni Settanta.

Partecipavamo alla stessa ribellione. La promessa del comunismo era nell’aria e noi eravamo infuriati contro coloro che ce la negavano. Poi le nostre strade si sono divise. Ho mascherato questi anni dietro una sorta di stanchezza ma anche per ciò che voi ne avete fatto. Siete entrati in clandestinità e vi siete ritrovati in carcere: lasciando senza risposta tutte le mie domande sulle vostre scelte⁴.

Innanzitutto si evince la necessità di comprendere attraverso quale percorso si sia giunti da un periodo di ribellione e di antiautoritarismo, inaugurati dal Sessantotto, alla lotta armata, evitando sia di sottovalutare le relazioni tra il Sessantotto e la deriva violenta sia di sopravvalutarle. Inoltre – e questo è il dato più interessante – la regista intende porre il problema non solo all’attenzione dell’opinione pubblica e di quanti, all’epoca esponenti del movimento giovanile, non imbracciarono le armi, ma anche a quella di chi, in modo consapevole, pur avendo condiviso i valori e la lotta del Sessantotto, intraprese la strada della violenza politica.

Il titolo del film prende spunto da quello di un articolo comparso il 20 febbraio 1983 su «il manifesto»: una lettera scritta da undici detenuti del «Processo 7 aprile»⁵ nel carcere di Rebibbia, in cui essi proponevano una rilettura della lotta armata e un tentativo di comprensione di quell’epoca⁶. Vi è però una differenza, non trascurabile, tra il titolo dell’articolo e quello scelto da Loredana Bianconi: nel primo la domanda è posta in modo diretto, con un punto interrogativo (Do you remember revolution?), nel secondo colpisce l’assenza del punto di domanda (Do you remember revolution), tanto che si potrebbe pensare a un errore o a una dimenticanza. Non è così, naturalmente, e lo spiega in pochissime parole la stessa regista:

Ho tolto il punto interrogativo, volevo che risuonasse non come una domanda diretta a loro, alle donne che testimoniavano la propria esperienza, ma come domanda «esistenziale», posta in generale a tutti noi, a chiunque intenda chiedersi le ragioni di un’epoca; perciò privare del punto di domanda il titolo ha significato asserire un concetto per poterne indagare le pieghe più profonde e le motivazioni più urgenti⁷.

L’assenza della domanda diretta si configura, dunque, come una scelta voluta e ponderata da Bianconi, che in tal modo intende spostare su un livello di riflessione più generale la questione da affrontare.

Siamo nel 1997: potrebbe essere il momento giusto per tentare un ragionamento più articolato sulla presenza delle donne nella lotta armata e il film di Bianconi sembra rispondere bene a questo tentativo. Le quattro ex militanti, in un percorso a ritroso, ripercorrono le tappe più importanti, e difficili da descrivere, della strada che le condusse alla pratica della violenza politica. Il film ha inizio con la comparsa di alcuni brani dei telegiornali trasmessi all’epoca dei fatti accaduti relativi all’arresto e all’incarcerazione delle quattro donne e alla condanna che subirono, immagini accompagnate da didascalie che, in sovrimpressione nella parte inferiore dello schermo, forniscono alcune informazioni.

Adriana Faranda è entrata nell’organizzazione armata delle Brigate Rosse nel 1976. È stata un membro della Direzione Strategica e ha fondato la Colonna romana delle Brigate Rosse. È stata condannata all’ergastolo.

Nadia Mantovani è entrata nelle Brigate Rosse nel 1973. È stata nella Direzione Strategica. È stata condannata a 67 anni di carcere.

Susanna Ronconi è entrata nelle Brigate Rosse nel 1974. Ha lasciato l’organizzazione nel 1975 per fare il suo ingresso nel gruppo armato di Prima Linea. È stata condannata all’ergastolo.

Barbara Balzerani è entrata nelle Brigate Rosse nel 1975. È stata nella Direzione Strategica. È stata condannata all’ergastolo.

Sono informazioni che, nella loro oggettività e neutralità, si mescolano, sfumando il carattere algido che in un primo momento le connota, alle esperienze personali, di vita vissuta, delle quattro donne, così come vengono delineate nel prosieguo del filmato. La regista ha palesemente voluto percorrere una strada diversa rispetto a quella delle ricostruzioni processuali e delle condanne che ne seguirono, che non a caso vengono all’inizio indicate in modo didascalico.

In occasione di una presentazione del suo lavoro Bianconi ha espresso questa istanza in modo più esplicito.

All’inizio degli anni Settanta eravamo nella stessa rivolta e nella stessa speranza del comunismo. Di fronte alla repressione fecero la scelta estrema della lotta armata e sparirono prima nella clandestinità poi in carcere. Sul loro (dei terroristi) silenzio e sul nostro (eravamo stati sconfitti) si sono scritti la storia di questi anni e i relativi eventi tragici; con le omissioni, gli stereotipi, le rimozioni che comporta sempre la versione ufficiale. È contro questa versione che ho realizzato questo film. Bisognò aspettare 15-20 anni per porre a queste donne le domande che nessun giudice aveva fatto finora. Guardarono indietro alla loro causa comune e ognuna di loro ha avuto un modo diverso di ricordarsi e di vivere questo passato comune. Un discorso personale, lontano dal mito, dallo slogan e dall’apologia. Non ho voluto giudicare le loro azioni, né la loro vita, volevo semplicemente ascoltarle⁸.

Per realizzare il suo obiettivo Bianconi utilizza una serie di accorgimenti tecnici ben precisi: non si sente alcuna musica in sottofondo o per segnare uno stacco tra un racconto e l’altro; mancano domande direttamente rivolte alle testimoni – se ne presume il contenuto dalla successione delle testimonianze, che sono raggruppate per temi – e non vi è mobilità nelle riprese. I luoghi sono sempre gli stessi: la cucina per Balzerani, l’esterno di una casa per Mantovani, il salotto di casa per Faranda, un edificio con una finestra sul Po per Ronconi. La telecamera assume sempre un punto di vista che poi mantiene, senza movimenti né cambi di inquadrature, con il risultato di creare una fissità che sembra avere da un lato lo scopo di produrre un approccio oggettivo e non emotivamente coinvolto con le parole delle ex militanti e dall’altro una sorta di volontà di escludere e fermare il mondo circostante e concentrare tutta l’attenzione sulla persona, come a voler suggerire che tanto il mondo ha detto e scritto di loro e che ora è giunto il momento di sentire la loro voce diretta, senza alcun genere di mediazioni.

La regista è una donna e questo particolare non è di poco conto, anche perché si lega alla scelta di quattro donne come testimoni: una produzione totalmente «al femminile» che, senza scivolare in implicazioni rigidamente definibili «di genere», mette in evidenza sia la sensibilità, della regista e delle testimoni, verso tematiche in cui gli aspetti interiori ed emotivi spesso sono occultati o trascurati a favore di questioni più oggettivamente rilevanti, sia la creazione di un clima di affinità tra le quattro e Bianconi. Essere donna, in sintesi, sia per chi racconta sia per chi dirige, implicherebbe una capacità di cogliere con maggiore facilità gli aspetti personali ed emotivi sottesi alla scelta politica intrapresa e di saperli in un caso descrivere, nell’altro rappresentare attraverso un’efficace tecnica di ripresa e di montaggio.

Diversa, almeno in buona parte, la scelta registica presente in un secondo film documentario franco-tedesco, questa volta interamente «al maschile», diretto nel 2011 da Mosco Levi Boucault, intitolato Ils étaient les Brigades Rouges⁹.

Il filmato, inedito in Italia, è strutturato in due parti e presenta le testimonianze, anche qui alternate a seconda delle tematiche affrontate, di quattro ex militanti delle Br: Prospero Gallinari, Raffaele Fiore, Mario Moretti e Valerio Morucci. Non vi sono, come nel film di Bianconi, domande dirette, ma si desume di volta in volta l’argomento, peraltro chiarito dai passaggi delle notizie dei telegiornali del tempo, dal raggruppamento per temi delle questioni affrontate dagli ex esponenti delle Br. Esso ha inizio con l’annuncio, nell’edizione speciale del telegiornale del 16 marzo 1978, del rapimento di Aldo Moro. Tale evento segna il succedersi delle testimonianze. Entrambi i film, quello di Bianconi e quello di Levi Boucault, ma anche altri contributi¹⁰, presentano aspetti sui quali vale la pena soffermarsi. Un confronto anche solo degli ambienti in cui tali interviste sono avvenute può indicare molto a proposito dei soggetti e degli obiettivi che si propongono i due documentari: la varietà dei luoghi e del ricorrere di interno/esterno nel film di Boucault è la spia di un intento del regista di trasmettere la sensazione del movimento, della continua alternanza delle prospettive da cui osservare il fenomeno della lotta armata. La fissità delle riprese di Bianconi è invece spia, come già rilevato in precedenza, di una volontà di concentrarsi sulle protagoniste e di attendere da loro risposte chiare.

Le condizioni ambientali da ricercare e proporre, o da accettare, per un confronto con ex esponenti della lotta armata, ben visibili nei documentari citati, sono le medesime che ho cercato di creare nel corso delle mie interviste: ho lasciato che le donne contattate scegliessero il posto più comodo e rassicurante per le loro dichiarazioni. Quando sono stata io a scegliere, ho optato sempre per un interno tranquillo o per un esterno a loro familiare; quando sono state loro a scegliere, hanno individuato un luogo all’aperto tranquillo – un parco o un giardino oppure un bar – o mi hanno invitata nel loro appartamento. La prima volta che ho incontrato Barbara Balzerani, a Roma, ricordo che lei ha voluto fare una passeggiata nel quartiere Ostiense di Roma, nei pressi della Piramide di Caio Cestio, e, dopo un primo momento di comprensibile formalità tra due sostanziali estranee, lei all’improvviso, senza chiedere nulla, mi ha preso sottobraccio e, continuando a chiacchierare, non si è più staccata, se non per riprendere la metropolitana alla stessa fermata dalla quale era uscita qualche ora prima. Nadia Mantovani, a Bologna, mi ha invitata subito a casa sua e si è comportata con me con una immediata naturalezza. La seconda volta in cui sono stata sua ospite, mi ha fatto trovare una doppia sorpresa: la presenza della regista Loredana Bianconi, che era in Italia per un breve soggiorno, e un piatto di ravioli con la zucca, che io le avevo detto di amare molto, fatti da lei. Susanna Ronconi mi ha chiesto di andare nella sua casa di Torino: sedute nel suo salotto, abbiamo chiacchierato per un pomeriggio intero sorseggiando caffè e gustando biscotti. Cecilia Massara, nella sua casa di Roma, mi ha presentato il marito e i figli, raccontandomi di come il primo dei suoi ragazzi, nato e cresciuto in carcere, portasse su di sé le tracce di quell’infanzia così strana e cupa e di come fosse diverso dall’altro, il più piccolo, che non fece quell’esperienza. La testimone anonima che ho intervistato in Piemonte mi ha accolto nella sua casa, mi ha mostrato le fotografie dei suoi figli e dei suoi nipoti e mi ha reso partecipe delle difficoltà che aveva incontrato nel ricostruire la sua relazione con i figli che, ancora piccoli, lei lasciò ai suoi genitori per intraprendere la lotta armata. Credo che chi intervista persone che hanno alle spalle un’esperienza di violenza e di carcere abbia una sorta di privilegio. Non stupisca l’uso di questa parola, perché nell’accezione etimologica originaria essa, prima ancora di voler indicare una particolare prerogativa a pochi consentita, attiene all’esperienza di un singolo individuo o di una singola comunità: privus, aggettivo latino che significa singolo, particolare, e lex, legge, disposizione che ha a che fare con una persona o un ristretto gruppo di persone. Per me parlare di privilegio significa unire i due significati, non solo quello di vivere un’esperienza umana e storica di notevole portata ma anche di avere la possibilità di andare oltre a ciò che si vede da fuori, oltre alla realtà immediatamente percepibile con i sensi, e di entrare in contatto diretto non più solo con una ex brigatista o una ex di Pl, ma con una donna che, nel suo essere un individuo, unico e diverso da qualunque altro, merita riguardo, a prescindere dal suo vissuto e dalle sue innegabili responsabilità.

In tutti i casi la relazione tra chi chiede una testimonianza e chi testimonia è importante ai fini degli esiti da raggiungere, sia che a porre domande sia uno studioso di storia sia che si tratti di un regista che intende realizzare un prodotto filmico. Chi racconta sa, inoltre, che ciò che asserisce non resterà tra lui/lei e l’intervistatore, ma sarà diffuso e divulgato: questo costituisce per molti ex militanti il vero nodo da affrontare e sciogliere.

L’oralità è connessa in modo inscindibile con una caratteristica che è sua propria e che emerge con particolare forza nel contatto tra chi pone le domande e chi risponde: la spontaneità del testimone. A tale proposito, nei racconti delle quattro donne del film di Bianconi, così come in quelli dei quattro militanti del film di Levi Boucault, essa è stata filtrata attraverso le fasi di montaggio e di assemblaggio del filmato, e nelle produzioni autobiografiche scritte passa attraverso il vaglio dell’autore prima e dell’editore poi, mentre le voci che arrivano in modo diretto e, appunto, spontaneo sono quelle più importanti, più rilevanti e significative proprio per il canale di comunicazione immediato tra chi le pronuncia e chi le ascolta.

L’universo umano che si ha modo di conoscere ed esplorare attraverso le interviste non rappresenta, se inteso in tal senso, un limite delle fonti orali, quanto piuttosto una risorsa, sempre che, come richiesto per tutte le altre tipologie di fonti, lo studioso presti accortezza e attenzione all’interpretazione delle testimonianze e alla rielaborazione dei risultati conseguiti. Un atto di per sé anch’esso affidato al singolo e, pertanto, in quanto tale, arbitrario, ma necessario per la ricostruzione di un evento e per la riflessione sulle premesse e le conseguenze inerenti l’evento stesso.

1.3. Il racconto delle militanti

Lo storico è spesso nel metodo più simile all’autore di autobiografie di quanto non venga di solito riconosciuto.

Il secondo, dopotutto, è uno storico che affronta come argomento la sua stessa vita.

Kenneth D. Barkin¹¹

Raccontarsi implica sempre una chiave di lettura del tutto soggettiva.

Mi capita tra le mani una vecchia foto e, di colpo, ritrovo la bambina che sono stata. L’espressione è immusonita, lo sguardo sfugge l’obiettivo, non sembra contenta di essere immortalata. Chissà? Forse nella sua testa echeggia ancora l’antico timore del furto dell’anima legato a quello della propria immagine. Sogni premonitori di quante altre volte avrebbe, anni dopo, patito per la sua faccia stampata sulle pagine di giornalacci da quattro soldi: «eccola, l’assassina dagli occhi di ghiaccio», top della serietà professionale di spacciatori di prototipi di mostri senz’anima¹².

In poche righe Barbara Balzerani traccia di sé un profilo che parte dalla sua infanzia e arriva all’epoca della lotta armata, in una continuità tra un passato remoto e un passato più recente, in cui sembra che l’autrice condensi e sintetizzi in un’organica disposizione presunti segnali avvertiti da bambina e sensazioni sperimentate da adulta. Si tratta evidentemente della ricostruzione a posteriori di un’immagine di sé che cerca, nel contatto con il passato, una ragione per spiegare il decorso successivo della sua esistenza: un semplice viso imbronciato di bambina di fronte alla macchina fotografica diviene l’indizio di quella che, molti anni più tardi, sarebbe stata la sua immagine descritta nella stampa italiana, quasi una forma di premonizione del rapporto tra quella bambina e il mezzo fotografico, divenuto poi lo strumento attraverso cui lei è, molti anni dopo, descritta come un mostro, un’assassina senza scrupoli, una persona senz’anima. Il «furto dell’anima» è il medesimo in entrambi i casi, perché la vera natura di se stessa non emerge e ciò che appare è il frutto di un rimaneggiamento dall’esterno di dati che solo lei può veramente conoscere.

Il ritratto di Balzerani bambina continua:

No, quella bambina non poteva neanche lontanamente immaginare cosa sarebbe stata la sua vita. Provo ad andare a ricercarla e interrogare il senso come di tragedia incombente su quella figuretta che la faceva un groviglio di insicurezze e determinazione a battersi per il poco veramente suo.

Le avevano insegnato non tanto la ricerca dell’amore altrui, quanto, nell’accettazione delle regole imposte, dell’altrui rispetto. E, nella vaghezza con cui cercava di fare suo tale codice di comportamento, si nutriva della consapevolezza che nulla sarebbe stato facile, che la vita sarebbe stata dura [...], che sempre e comunque le sarebbe stato presentato il conto.

Su quel viso infantile c’era la morte di ogni innocenza.

Su quel corpicino come racchiuso a difesa, il peso di responsabilità troppo gravose e, quasi tutte, oscure e misteriose. Paura e un vago senso di colpa, inculcati a sostegno del monito materno ad indicare l’unica via di scampo: «Stai al posto tuo. Non dare motivo a nessuno di doverti guardare una seconda volta». E a parti completamente invertite, non si può certo dire che non le sia stato prezioso, soprattutto negli anni della lunga clandestinità. A volte la vita sembra percorrere lunghissimi giri per poi tornare al punto di partenza. E, se niente accade solo perché lo si vuole, proprio niente succede per caso¹³.

Prosegue, nella narrazione dell’autrice, la ricerca di segnali utili per comprendere lo svolgersi successivo degli eventi. Le è stato insegnato non tanto a cercare l’«amore» delle altre persone, quanto il «rispetto». Gli altri possono rispettarti solo se tu obbedisci alle norme stabilite. L’inconsistenza, agli occhi di quella bambina, del concetto imparato la conduce a percepire la durezza della vita, che nella ridefinizione di sé operata a posteriori le si svela anzitempo, nel tempo dell’infanzia, quando l’attenzione spontanea e acritica verso il mondo esterno rende più vulnerabili e più predisposti ad assorbire tutto ciò che giunge da fuori.

Importante è il filo che l’autrice riconosce nell’esortazione della madre a non farsi notare, a non creare le condizioni perché lei, bambina, venga osservata una seconda volta, e la capacità di vivere senza un’identità precisa, senza legami né vincoli, attraversando l’esistenza rendendosi invisibile, tipica della condizione della clandestinità: anche in questo caso viene suggerita da Balzerani una sorta di fatalistica predeterminazione, anticipata da un precetto appreso nell’infanzia e messo in atto poi consapevolmente nell’età dell’impegno politico. L’esito del processo descrittivo è quello di arrivare a creare una continuità, quindi una conferma di identità, tra la bambina Balzerani e la brigatista Balzerani, per contrastare la sensazione, che corrisponde a un dato di fatto soggettivamente avvertito, e oggettivamente presente, nell’esperienza della donna, della frantumazione della persona, ben espressa dalle parole con cui l’autrice esordisce nella nota alla nuova edizione.

Queste pagine sono il racconto dell’inizio di un viaggio di ritorno tra le schegge di uno specchio andato in pezzi, riflessi di una vita frantumata. La fotografia di uno stato di solitudine per la scomparsa di un mondo di relazioni. Lo smarrimento per la perdita di orientamento in un territorio diventato estraneo. Una dichiarazione di amore testardo a difesa di una memoria partigiana. Il tentativo di riconnettere una storia collettiva attraverso le diverse stagioni di un’esistenza. Un giro di catena liberata dalla forza scardinante di domande pesanti come magli¹⁴.

L’antico «groviglio di insicurezze e determinazione», volutamente ravvisato e riconosciuto da Balzerani nella bambina che è stata un tempo, trova in queste parole, scritte quindici anni dopo nella nuova edizione del testo autobiografico, una conferma della sua personalità fragile ma, al contempo, animata da una forza di volontà e da una caparbietà che la donna riconosce come tratti propri del suo modo di essere e di disporsi verso l’esterno.

Il medesimo tentativo di autorappresentarsi, questa volta non come se il destino fatalmente avesse condotto alla scelta armata – come sembra di ravvisare nella ricostruzione identitaria di Balzerani –, ma come se già all’epoca della scelta di essere membro del gruppo si mostrassero i germi di una non piena convinzione nell’intraprendere quella strada, è presente nelle parole di Anna Laura Braghetti:

Roma cominciava a essere grande, contava allora due milioni di abitanti. Avevo e ho di questa città, che amo moltissimo, un’immagine quasi letteraria. Sistema di rovine che ha saputo e sa costruire sulle rovine precedenti, luogo della storia, prodotto di guerre, di intrighi, ammantato da una solenne immutabilità, simbolo per eccellenza dell’eternità. Sono una romana, avrei dovuto saperlo, averlo scritto nel codice genetico che qui non si possono fare le rivoluzioni, nessuno ne ha mai fatte. E infatti mi fermavo, alla sera, davanti ai palazzi, osservavo le finestre illuminate e mi interrogavo: «Ma questa gente vuole il comunismo, un cambiamento così grande, così brusco? O sono io che lo voglio tanto, per me?». Immaginavo un domani nel quale ogni torto sarebbe stato riparato, ogni disuguaglianza colmata, ogni ingiustizia raddrizzata, mi rispondevo che questo giustificava i mezzi che avremmo usato¹⁵.

L’autrice descrive i momenti immediatamente precedenti il sequestro di Aldo Moro, quando è appena entrata nelle Br. Con uno stile e un tono differenti da quelli di Balzerani, Braghetti punta tuttavia a un tentativo di connettere, in qualche modo, il passato al presente, e lo fa mettendo in relazione quei dubbi, quelle incertezze di allora con l’inevitabile riconoscimento della sconfitta sua e di quanti hanno abbracciato la causa della rivoluzione. Come se la riabilitazione della donna agli occhi della società, mai richiesta o esplicitata in modo diretto, debba per forza passare attraverso il recupero di una parte di sé poco propensa a gettarsi nell’esperienza rivoluzionaria.

L’espressione «qui non si possono fare le rivoluzioni», posta dopo una descrizione romantico-letteraria di Roma, informa il lettore che la consapevolezza, pur vaga e non così netta da indurla ad altre scelte, c’era nella donna prima del salto nelle Br, c’era anche per appartenenza a quel luogo, a Roma, una città simbolo di una condizione di eternità che cozza contro la volontà eversiva dei brigatisti.

L’autorappresentazione di un ex militante, se valutata incrociando i dati con le descrizioni di altri compagni, può aiutare a ricostruire dall’interno meccanismi ideologici, relazioni interpersonali tra i membri del gruppo e ruoli e compiti svolti da ciascun componente: un dato, quest’ultimo, che risulta assai importante rispetto alla presenza femminile, sulla quale si conoscono dati generici e solo vagamente presuntivi di quelli che operativamente erano i contributi delle donne alle varie fasi delle azioni. In secondo luogo, l’impossibilità da parte degli ex militanti di conservare imparzialità consente di venire a contatto diretto con un dato che rappresenta la principale peculiarità del fenomeno armato degli anni Settanta: la complessità. A partire dal background socio-culturale, per continuare con questioni relative alle modalità con cui si è entrati nel gruppo e alla permanenza in esso (o in due gruppi, come è accaduto a Susanna Ronconi), per giungere alle fasi che hanno condotto all’uscita e al bilancio a posteriori dell’esperienza vissuta, appare chiaro che non si può tracciare un profilo-tipo del brigatista o del militante armato. Ogni persona, uomo o donna, ha alle spalle una storia diversa, una formazione propria, un percorso personale che, al momento dell’ingresso nell’organizzazione e della scelta armata, fa confluire questo bagaglio individuale nella comunità. Ciò comporta una variegata panoramica di dati esperienziali del singolo che si integrano e si relazionano alle norme che il gruppo si impone e alle comuni indicazioni, in termini non solo operativi ma anche comportamentali, che ogni militante deve fare proprie.

La lettura delle autobiografie «armate» rivela la coesistenza, nel gruppo, di persone che hanno provenienze differenti e diversi retroterra socio-culturali, unite dall’obiettivo comune e condiviso: l’abbattimento dello Stato. Anche la militanza non appare la stessa, o perlomeno affrontata con le stesse specificità: Balzerani non è Braghetti, ed entrambe non sono Ronconi e nessuna delle tre è uguale ad altre. La diversità emerge proprio nei loro racconti, nelle loro testimonianze, e riguarda sia la storia personale precedente l’ingresso nel gruppo armato sia la stagione della militanza.

Se l’autorappresentazione di Balzerani focalizza l’attenzione sulla sua infanzia in un luogo periferico (Colleferro) e in un contesto non benestante, quella di Braghetti delinea subito una condizione economico-sociale migliore e un periodo infantile segnato non dalle difficoltà economiche ma dal lutto per la perdita della madre, vittima di un incidente stradale quando lei aveva sei anni.

Un pomeriggio di fine gennaio del ’59 andiamo tutti alla fermata dell’autobus ad aspettare papà. Mamma deve sbrigarsi perché ha un appuntamento con il dentista e così per far prima ci affida a papà, appena sceso dal «93», e si affretta per attraversare la strada. Il traffico è rumoroso, e in quel tratto alla periferia sud di Roma scorre veloce. Solo io mi accorgo che mamma è caduta, stupita lo dico a papà. Lui corre, e solo dalla sua espressione capisco che è successo qualcosa di grave. Non riesco a ricordare la macchina che ha urtato mia madre, ma il suo corpo piegato sull’asfalto in una posizione molto diversa da quella del sonno l’ho sempre davanti agli occhi, anche se non ne parlo mai. È un’immagine mia e condividerla con altri non ne attenuerebbe la traumaticità. Appartiene a me, attorno a quella macchia sull’asfalto ci sono cresciuta tenendomi tutto dentro¹⁶.

Il tono della descrizione è molto diverso da quello di Balzerani: il resoconto dell’evento è quasi telegrafico, con frasi brevi e parole semplici, che rievocano un passato di affetto tra i componenti della famiglia. La parte finale, con l’immagine del corpo della madre sull’asfalto e l’associazione tra il sonno e la morte, conclude il racconto ponendo in evidenza l’aspetto profondamente traumatico dell’episodio, che lascia tracce indelebili nella bambina e che non potrà mai essere rimosso. Un evento descritto in modo oggettivo ma una conclusione che mette in primo piano la soggettività di Braghetti e la sofferenza subìta. Tutte queste espressioni sono un invito, non è dato capire se consapevole o inconsapevole, rivolto al lettore, a considerare che lei, un tempo, è stata la bambina che ha visto la madre morire e che, in età adulta, ne ha conservato un ricordo lacerante. Il periodare dell’autrice, nella sua pacatezza e nella sua sostanziale semplicità, pare voler suggerire implicitamente una conformità della sua esperienza a quella di molti altri bambini, che hanno perso i genitori da piccoli, e che perciò non costituisce, di per sé, un evento tale da contraddistinguere la sua personale esperienza e da divenire un precedente psico-traumatico cui collegare la scelta successiva dell’esperienza armata. L’episodio diviene, nel racconto di Braghetti, il segno di un trauma subìto ma anche, come racconta subito dopo, l’elemento di ulteriore unione della famiglia.

La tragedia che si abbatte sulla famiglia è totale, c’è chi consiglia papà di metterci in collegio perché un uomo da solo non può riuscire a crescere due bambini così piccoli, ma lui non vuole sentire ragioni e l’unica cosa che accetta è di farsi aiutare dai fratelli, dai cugini, dai fratelli di mia madre. [...] Per me l’unico vero riferimento è mio padre, che inizia presto a trattarmi da piccola adulta [...]. Tra noi c’è una complicità che cresce con gli anni, ci scambiamo piccoli segreti. Giorgio è un affabulatore nato ed ora fa del suo meglio per fare contemporaneamente da mamma e da papà. Spesso e volentieri si ritrova la sera a raccontare fiabe e storielle a noi bambini che non riusciamo a prendere sonno. Mai una volta s’è dimenticato il bacio della buonanotte¹⁷.

Si legge tra le righe una volontà di delineare un contesto familiare che, pur colpito da un lutto grave, trova in se stesso unità e forza: nessuna privazione, non solo materiale ma soprattutto affettiva, per i due bambini rimasti senza madre, al contrario è presente un padre che svolge entrambi i ruoli genitoriali con attenzione. Non si evince nessun elemento che possa ricondurre a un’infanzia difficile e complicata: nessun alibi per Braghetti, o meglio per chi ricerca nel passato i segni di un percorso esistenziale contaminato all’origine o condizioni di disagio vissute nell’infanzia e nell’adolescenza che possano contribuire a fornire un profilo tipico del militante.

Ancora diversa è l’autorappresentazione di Susanna Ronconi nella famiglia d’origine, così come appare nella testimonianza rilasciata a Novelli e Tranfaglia. Intanto la nascita in un ambiente borghese che si dibatte nelle consuete difficoltà di far quadrare il bilancio, ma senza particolari problemi economici:

Nei miei ricordi gli anni della prima infanzia sono felici, appena segnati dagli sforzi di mio padre per conquistare un posto migliore nella vita per sé e per noi (cosa che gli riuscirà quando io avrò 10-12 anni) e di mia madre per far quadrare il cerchio del bilancio familiare che negli anni Cinquanta è difficile per noi come per molte altre famiglie. Non respiro atmosfere segnate da ideologie né da confessioni religiose né da militanze di alcun genere; solo lo sforzo di vivere meglio, di uscire con un respiro profondo dalla guerra, di costruire un futuro per i figli, per me, mio fratello, la mia sorella più piccola. Unica religione, la famiglia, la sua unità, il suo benessere¹⁸.

Dalle parole di Ronconi emerge una situazione di serenità piena, di armonia tra i componenti del nucleo familiare e di assenza di indottrinamenti o pressioni di tipo sia religioso sia politico o ideologico. Nell’adolescenza, poi, si verifica l’inevitabile frattura con il contesto genitoriale determinata dalla conflittualità generazionale, che vede Ronconi passare da una ammirazione per la figura paterna a un interesse più vivo verso la madre. Queste le parole con cui la donna rievoca quel momento:

Primo passaggio e rottura al tempo stesso e inizio della consapevolezza di me, il momento in cui, passando dall’infanzia all’adolescenza, i miei riferimenti si spostano dalla figura del padre, amatissimo e ammiratissimo nel suo carattere forte, nel suo coraggio in guerra (era ufficiale di marina), nella certezza del suo giudizio e nell’autorevolezza del suo ruolo, a quella della madre, fino ad allora affettuosamente amata ma non «ammirata». Ho un ricordo vivo di questa scoperta: l’identificazione con un ruolo femminile che non era piattamente quello di «madre»; la scoperta che anche ciò che non è autorità e «forza» ha valore. Col senno di poi si può dire: la sensazione sconvolgente di schierarsi col più debole, col perdente (riferito alle dinamiche familiari), col misconosciuto, e sentirsi forte di questa scelta¹⁹.

A dispetto dell’attenzione con cui Ronconi precisa il contesto di riferimento su cui esercita la propria riflessione a ritroso, quello familiare, si evince che in tale autorappresentazione di sé adolescente lei tenta, anche in questo caso quanto consapevolmente non è dato saperlo, di fornire un’immagine di giovane donna che decide di parteggiare per la madre, il lato debole della famiglia, e sente che tale decisione la fa sentire «forte», le trasmette una «sensazione sconvolgente».

Pochi esempi, che mostrano forti differenze tra le donne nella loro rilettura del passato. Ciò che accomuna queste testimonianze è però la volontà di scrivere o raccontare di sé, la disponibilità a ripercorrere una vita e anche, almeno a giudicare dagli esempi riportati, una miscela di bisogno, da parte delle militanti, di apparire «normali» e di necessità di mettere in luce i valori forti recepiti e fatti propri nelle famiglie d’origine. In tal senso la parzialità dei resoconti è fonte di un interesse che spazia dall’ambito socio-psicologico a quello propriamente storico.

Nel capitolo di Compagna luna intitolato Colpo di Stato Barbara Balzerani tenta un’operazione ardita e complessa: autorappresentare se stessa, e i compagni che erano con lei, nel momento in cui, in Italia, si respirava l’aria di un golpe. Nessuna cronologia precisa appare nel racconto, come se il timore di una presa del potere si percepisse e fosse generalizzato, al di là del singolo episodio narrato in queste pagine, e incombesse, minaccioso e latente, sulle sorti del Paese. In questo capitolo del libro il doppio stile utilizzato dall’autrice, caratteristica peculiare e originale della sua prima autobiografia, appare in modo più frequente che in altri. Balzerani scrive in carattere normale quando parla di sé in terza persona e in corsivo quando lo fa in prima persona. I due punti di vista, esterno e interno, ineriscono sempre a lei stessa, ma rispondono a due necessità differenti e facilmente intuibili: da un lato la donna ha bisogno di scrivere di sé in modo diretto e personale e di porre l’«io» al centro della sua riflessione; dall’altro avverte la necessità di guardarsi anche dall’esterno, da una prospettiva che si sforza di riprodurre quella di chi osserva e di chi giudica senza coinvolgimenti emotivi. L’operazione è, di fatto, impossibile, perché chi racconta e descrive è sempre la stessa persona, con un livello di partecipazione sentimentale che è destinato a emergere a dispetto della volontà dell’autrice. Tuttavia, è proprio questa modalità di scrittura che, data per scontata la mancanza di oggettività, presenta motivi di interesse. Nello sforzo compiuto di autorappresentarsi da due punti di vista opposti, infatti, Balzerani è a tratti capace di vedersi da una doppia prospettiva che, se risulta straniante per lei, è per chi legge foriera di interessanti informazioni.

A lei era toccato il presidio della Rai.

Stavolta l’allarme sembrava cosa seria: Stanotte tutti quelli dei partiti di sinistra dormono fuori casa...

Colpo di Stato.

No, loro non si sarebbero fatti prendere e avrebbero organizzato la resistenza armata. Per prima cosa bisognava verificare quanto c’era di vero. E questo era ancora facile. Avrebbero dovuto vedere i carri armati arrivare nei pressi dei Palazzi del potere. Bastava essere lì e controllare se succedeva.

Ci ritroviamo domattina e... occhi aperti.

Primi anni Settanta e per la sua generazione questo non era un film. A pensarci adesso non è facile ricordare dove trovassero tanta incosciente fermezza nel giocarsi la vita. Non erano che gruppetti di giovani compagni, insofferenti dei tentennamenti di una sinistra extraparlamentare messa alle corde, con nient’altro che la determinazione a cercare nuove strade per continuare quella rivoluzione che aveva consumato in fretta l’innocenza dei primi entusiasmi di fronte al volto livido di un potere assassino e stragista e di una sinistra istituzionale che perfezionava la sua paranoide sindrome rinunciataria da accerchiamento.

Quello che è stupefacente oggi è che allora poteva sembrare normale che tutto questo accadesse, tanto che a raccontarlo adesso si rischia il fantastico, come le guerre invisibili del colonnello Buendìa. Eppure succedeva.

Com’è che invece si parla di un paese in crescita, pacifico e operoso, per niente attraversato da tensioni straordinarie, se non fosse stato per chi, nell’ombra, tramava, spalleggiato oggettivamente da un movimento estremista e suicida?

Com’è che non si dice che le bombe e la violenza della reazione padronale e della politica ridotta a strumento di potere, impedivano di credere all’efficacia, all’affidabilità e persino all’innocenza delle logore mediazioni dei partiti?

Com’è che non si chiama alla sua responsabilità chi concepiva quel conflitto sociale inconciliabile con i tatticismi e le alleanze di vertice? E a quella di chi ha sparato il primo colpo, ipotecando gli anni a venire?²⁰

Non sfugge nella lettura del passo l’insistenza su un linguaggio forte, che non rinuncia a un lessico che unisce in sé ciò che resta di un terreno ideologico denso e corposo e il mantenimento di un punto d’osservazione che tenta di riproporre la temperie politica di allora. Le tre domande pressanti, attraverso l’anafora del «com’è» che segna il ritmo incalzante delle richieste, mostrano, con un tono tra tragico e amaramente ironico, quanto venisse occultato dalla politica «ufficiale», interessata, secondo Balzerani, a fornire dell’Italia un quadro positivo e a proseguire sulla linea di «tatticismi»e «alleanze di vertice». Anche in questo caso il lessico è volutamente forte, orientato all’uso di certe espressioni, come «reazione padronale», che istituiscono un contatto diretto tra il linguaggio della politica e il linguaggio delle fabbriche: non vi è distanza, sembra affermare la donna, tra i meccanismi che nelle fabbriche sanciscono il dominio dei più forti e quelli che, in politica, definiscono la gerarchia dei poteri a scapito degli altri, di coloro che non possono più «credere all’efficacia, all’affidabilità e persino all’innocenza delle logore mediazioni dei partiti». In queste parole si legge un’evidente sfiducia nei confronti dei tentativi di mediazione condotti dai partiti negli anni del «compromesso storico», una sfiducia che fece ritenere, a quanti presero la strada delle armi, che non vi fosse più spazio per il confronto e il dialogo e neppure per i compromessi, che avrebbero inevitabilmente portato a un consolidamento di una «politica ridotta a strumento di potere».

Si parla di «responsabilità» in questo passo: quella di chi, nelle parole di Balzerani, oltre a ritenere non conciliabile il conflitto sociale con quella politica dei partiti, «ha sparato il primo colpo», condizionando il futuro del Paese, anzi, «ipotecando gli anni a venire», vale a dire assicurandosi e garantendosi il domani. Pesanti asserzioni che denunciano un comportamento politico disonesto, addirittura criminale, anche nella ricostruzione che, molto a posteriori, la donna fornisce di quel periodo.

Si veda ora il mutamento repentino di stile nell’adozione del punto di vista soggettivo, nella parte successiva al brano proposto e scritta in carattere corsivo.

La notte è passata e il temibile non è avvenuto. Un senso di sollievo ma anche di disagio che mi fa sentire come fuori quadro. Il pericolo scampato e la nostra azione da commando mi pesano addosso in tutta la loro sproporzione, adesso che velocemente cambia la scena davanti al solito cappuccino e cornetto, come ogni mattina. Adesso che so che stasera saremo ancora lì, in piazza, a tirare tardi.

E ogni dubbio di sconsideratezza diventa incontenibile quando, tornando nella casa convenuta, mi imbatto nella moglie di uno del nostro gruppo di aspiranti cospiratori. Lei, molto meno eroicamente, sta tornando dal suo turno di lavoro di notte. Bisogna spiegare a quella donna il senso dell’improvvisato bivacco in cui abbiamo trasformato la sua casa. Ci provo: «Sai, notizie gravissime... dobbiamo organizzarci... resistere...». Lei mi guarda stravolta dalla stanchezza e molto poco partecipe di quello che deve giudicare una specie di gioco per mentecatti sfaccendati e con un «Sì, sì, certo...» mi chiude in faccia con risolutezza la porta della sua camera da letto facendomi riapparire davanti agli occhi quella temutissima espressione, tra l’irritato e il compassionevole, che metteva su mia madre quando mi invitava a smettere di sognare, che in casa c’era tanto da fare²¹.

Il tono è pacato, ha perduto la carica di forza e di aggressività lessicale del passo precedente, le parole sono intrise di una tristezza e di una malinconia che lasciano emergere spiragli di scoperta di una realtà che non era quella che i militanti speravano di riscontrare a fronte delle loro battaglie. «Sollievo» e «disagio» sono le sensazioni che Balzerani avverte all’indomani del giorno in cui si era temuto un golpe: ciò che colpisce, però, non è il sollievo per lo scampato pericolo, di per sé reazione umana del tutto comprensibile, bensì il disagio per la consapevolezza della sproporzione tra il pericolo ipoteticamente corso e l’azione messa in campo dai militanti. La riflessione su tale sproporzione prosegue e diviene sempre più e sempre meglio definita nelle parole seguenti, sia quando la donna ripensa a freddo, mentre fa colazione come una persona qualunque, con cappuccino e cornetto, a quanto non accaduto, sia, soprattutto, al momento dell’incontro con la moglie di uno dei suoi compagni, nella casa «convenuta», una delle numerose che vennero messe a disposizione da militanti o fiancheggiatori o semplici simpatizzanti dell’estremismo rivoluzionario. Questo incontro è brevissimo, limitato a poche parole scambiate con la donna, che rappresenta esattamente quel popolo che la rivoluzione avrebbe voluto tutelare e per i cui diritti i militanti si sarebbero battuti con le armi: probabilmente un’operaia, che torna dal turno di notte, stanca e solo preoccupata di andarsene a dormire. Il confronto tra la rivoluzionaria e l’esponente del popolo è l’esempio drammatico della distanza tra le due parti. Balzerani la sente questa distanza, la ricorda ancora dopo molti anni. Ciò che conta è il riconoscimento di quella distanza: se essa venisse percepita all’epoca o no, se essa viene percepita ora perché è trascorso del tempo e la rielaborazione del passato ha condotto a questo esito, per lo storico è essenziale sapere che la distanza c’era e che, ignorata o sottovalutata, non ha impedito al partito armato di proseguire sulla strada della sovversione.

Nel passo successivo, scritto ancora in carattere normale, Balzerani spiega quali furono le incertezze di allora, le eventuali alternative e quali gli interrogativi più urgenti e, infine, quale fu l’evento che portò alla definitiva decisione di imbracciare le armi: il massacro nello stadio di Santiago del Cile del 1973 e la presa di potere da parte di Augusto Pinochet. Un evento che venne da più parti della sinistra estrema e rivoluzionaria interpretato come un pericoloso precedente potenzialmente esportabile in Italia. Una giustificazione? Un modo per agevolare la comprensione dell’inizio del conflitto armato a chi non può spiegarsi le motivazioni di scelte così radicali e violente? Una precisa volontà di autorappresentare se stessa e di rappresentare i suoi compagni come inevitabilmente portati dagli eventi a percorrere la strada delle armi?

Attraverso le voci delle protagoniste tentiamo di rispondere a questi e ad altri interrogativi.

2.
L’inizio dell’esperienza di lotta

La storia ci insegna che ogni classe oppressa perviene alla vera liberazione dai suoi padroni mediante i propri sforzi. È necessario che le donne apprendano questa lezione e si rendano conto che la loro libertà si estenderà quanto la loro capacità di conseguirla.

Emma Goldman²²

2.1. La presenza delle donne nella lotta armata

Quante erano le donne che entrarono nella lotta armata negli anni Settanta? Quando si pensa agli anni Settanta del Novecento in Italia e al cosiddetto fenomeno del «terrorismo rosso» – termine utilizzato in contrapposizione al «terrorismo nero» di matrice neofascista²³ – si ha sovente l’impressione di trovarsi di fronte a un evento di portata minima in termini di adesione alla lotta da parte di militanti nella sinistra extraparlamentare. Una portata minima che, tuttavia, ebbe di fatto risonanza altissima nell’equilibrio politico del Paese. Il paradosso che sta alla base di tale convinzione consiste proprio in questi termini: da un lato pochi esponenti della lotta armata, molti gruppi, piccoli e grandi, che divennero un luogo di aggregazione e d’azione di questi militanti; dall’altro, un decennio abbondante di rapimenti, rapine, omicidi, azioni di sabotaggio, che destabilizzarono la vita politica italiana, misero sotto assedio intere città, richiesero uno spiegamento di forze dell’ordine senza precedenti nella storia del nostro Paese per un periodo che in Europa fu, negli anni Settanta e Ottanta, il più duraturo e il più intenso, se si esclude il conflitto nord-irlandese (protrattosi dagli anni Sessanta agli anni Novanta).

A tutt’oggi non esiste una catalogazione precisa e completa del numero di militanti in gruppi armati nel quindicennio in esame. Esistono tuttavia gli atti dei processi, i registri degli indagati e degli inquisiti, i numeri dei condannati. Proprio sul numero degli inquisiti si basa la ricerca effettuata dalla cooperativa editoriale che Renato Curcio, ex militante delle Brigate rosse, fondò dopo la conclusione del periodo trascorso in carcere. Partiamo da questi dati, desunti dal testo La mappa perduta²⁴, per definire i termini numerici della questione.

L’indagine degli autori è partita dagli atti processuali: il numero delle persone imputate di partecipazione a «banda armata», di «associazione sovversiva» o di «insurrezione» si configura come un interessante indicatore numerico in termini di quantità, estensione territoriale e intensità, degli attriti socio-politici degli anni compresi tra il 1969, anno della strage di piazza Fontana a Milano, e il 1989²⁵, simbolicamente scelto, secondo quanto affermato nel testo, sia per il venir meno, a livello mondiale, del contesto politico in cui si erano sviluppati i principali conflitti del dopoguerra, sia per la necessità di individuare un termine ultimo.

Per quanto attiene alla presenza di uomini e donne nei maggiori gruppi armati degli anni Settanta/Ottanta, i dati pubblicati nel volume sono riportati nella tabella che segue.

Gruppo armato	Uomini	Donne	Totale
Gap – Gruppi armati partigiani	58 (89,2%)	7 (10,8%)	65
Gruppo XXII Ottobre	22 (84,6%)	4 (15,4%)	26
Brigate rosse	683 (75%)	228 (25%)	911
Nuclei armati proletari	51 (78,5%)	14 (21,5%)	65
Unità comuniste combattenti	72 (70,6%)	30 (29,4%)	102
Prima linea	722 (78,2%)	201 (21,8%)	923
Brigate comuniste	71 (83,5%)	14 (16,5%)	85
Azione rivoluzionaria	61 (69%)	27 (31%)	88
Formazioni comuniste combattenti	87 (72%)	34 (28%)	121

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Daniela Bini

Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.

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Colpirne uno

16 marzo 1978

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